33. Paradosso della marionetta - Pt. 1
Paradosso della marionetta
Pt. 1
Avrei preferito non rimettere mai più piede al Down Nightclub. I ricordi dell'estate precedente, dove l'afa fasciava come maglioni troppo pesanti e le parole di Olivia erano canini nella carne, mi rincorrevano spesso, corridori a cui piaceva ripetere le stesse gare.
Ma dopo essermi lasciata sfuggire con i miei amici ciò che era successo a Rica solo la settimana prima, mi avevano praticamente obbligata a prendermi una sera dedicata a me stessa. Volevano che mi distraessi, che mi meritavo un attimo di serenità. Non avevano conosciuto quella donna, se non attraverso dei racconti occasionali, ma conoscevano il mio modo di rapportarmi con quel mondo.
Soprattutto se c'entrava un bambino.
Un bambino orfano, adesso.
I miei genitori mi avevano abbracciata forte, si erano persino offerti di accompagnarmi al funerale organizzato dal rifugio. Non me l'ero sentita, assistere alla sepoltura delle sue ceneri avrebbe solo provocato l'ennesima stretta al cuore e avrebbe generato ricordi dolorosi legati alla mia mamma biologica. Avevo comunque apprezzato quel loro modo di starmi vicina, nonostante volessero esserlo ancora di più. Ad ogni modo, sarei andata a trovare Rica in un secondo momento, da sola, umore permettendo.
Due pensieri, invece, furono in grado di consolarmi: il disegno che avevo fatto incorniciare e appendere in camera mia, e che sarebbe stata presente una foto, ad abbellire la lapide, che il personale era riuscito a adescare dalla carta d'identità della donna.
Perlomeno non sarà ridotta solo a un triste pezzo di pietra.
Perlomeno il suo volto non si limiterà a una data di decesso.
«Bevi.»
Accasciata su uno dei tavoli del locale, con il braccio sotto al mento e l'altro piegato sulla superficie di marmo fredda, fissai lo shottino trasparente che Gwenda, seduta di fronte, fece strisciare nella mia direzione. Dal cipiglio capii che non ammetteva repliche.
Finsi di non aver sentito e, piuttosto, mossi gli occhi: studiai quei fastidiosi led viola e verdi che incorniciavano gli angoli delle pareti, il bancone illuminato del barista, la ressa che si dimenava tra i tavoli lasciandosi trascinare dal ritmo cantilenante e rimbombante di Mi Gente. Stavolta, l'oscurità caratteristica del nightclub ebbe un effetto diverso su di me: che la gente mi notasse o meno con la gonna di pelle che indossavo all'insaputa di Olivia e le gambe protette da un paio di collant neri, non avrebbe scatenato alcun terrore. Mi avrebbero aiutata a concentrarmi su di loro, e non su quello che la mia testa si perdeva a pensare già da una settimana.
Lo sguardo scivolò sul bicchierino di vetro: spicchio verde di limone aggrappato al bordo e, all'interno, del liquido lattiginoso che sfiorava la superficie, la stessa tonalità di un antibiotico che da bambini si è costretti a inghiottire. Solo per quello, storsi il naso.
«Bevi, ti ho detto.» Con l'indice smaltato di rosso, Gwenda mi avvicinò lo shot finché non mi toccò il naso. Per colpa dei led, il suo viso era diventato un covo di lividi violacei. «È il Kamikaze. Vodka, succo di limone e liquore all'arancia. Ti piacerà, ed è il meno carico. Ma a te darà la botta che ti serve. Felice, si spera.»
Grattai pigramente il vetro, poi la scorza di limone. «Mah.»
«Non pensarci più... Guarda, prendi esempio da quei due.»
Con la testa, diede un cenno secco alla sua destra; Fannie e Warren, le mani dietro la schiena, si erano chinati elegantemente sul tavolo adiacente al nostro per afferrare con la bocca il bicchierino, di una forma più allungata. Al loro fianco, due ragazzi più grandi che li avevano abbordati stavano seguendo l'esempio.
Si risollevarono insieme, la testa all'indietro, il pomo d'Adamo che saliva e scendeva. I bicchieri restarono incastrati tra le labbra fino a che non ingoiarono il contenuto, rispettivamente della brodaglia marrone e un ciuffo di panna montata. Dopodiché, rimosso il bicchiere dalla bocca, si lasciarono andare a delle risate da perfetti dementi; Fannie batté le mani sul tavolo a sottolineare l'entusiasmo, che avrebbe fatto un altro giro molto volentieri, Warren strizzò gli occhi dallo schifo mentre uno dei due tipi, dalla pelle scura, gli diede delle pacche di incoraggiamento sulla spalla.
«Ci ho ripensato: non prendere esempio da quei due esibizionisti del cazzo.» Gwenda tirò dalla cannuccia un sorso dal suo tè freddo, che era più ghiaccio che tè; il gruppo aveva lanciato una moneta per stabilire a chi sarebbe toccato fare il tassista. Quel destino infausto era toccato a lei. «Se si azzardano a vomitare sui tappetini nuovi, quei bicchieri glieli faccio ingoiare per intero. Giuro.»
Nonostante l'umore non fosse dei più gioiosi, riuscì a strapparmi una risata. Quel carattere spigoloso non si sarebbe mai smussato, e a me andava bene così, o non sarebbe stata Gwenda.
Inaspettatamente, i suoi commenti furono l'incoraggiamento di cui avevo bisogno per buttare giù lo shottino che aveva provveduto a ordinarmi e che, nonostante le mie proteste, avrebbe pure pagato.
La gola venne subito investita da un'ondata di bruciore per il sapore fruttato e stucchevole del liquore, un brivido di nausea arrivò a pizzicarmi le guance. Tossii, strizzando forte le palpebre.
«Non avevi mica detto che era il meno carico?»
«Sono andata per esclusione.»
«Hai scelto a caso.»
«Esatto.»
Risi di nuovo. «Apprezzo lo sforzo.»
«Senti.» Si avvicinò, incurvandosi più che poté, in modo da non dover urlare, vista la musica alta; da tono incerto, mi costrinse a lasciar perdere il secondo shottino. «Vorrei approfittare dell'assenza momentanea del nostro amico ecuadoregno per...»
Arretrai. «Gwenda, non ne voglio più parlare.»
«Io sì, e non te lo sto chiedendo.» Diede una sbirciata dietro di sé; tra le ombre in movimento e i flash dei fotografi che avrebbero pubblicato quei pezzi di serata su Facebook, c'era Alejandro: si era allontanato per salutare un amico, ma in realtà sospettavo fosse stato un pretesto per prendere le distanze. Ero certa si sentisse a disagio, specie se adesso anche il resto del gruppo era venuto a conoscenza di ciò che era accaduto il giorno della rivelazione. «Non giustifico ciò che ha detto a tua sorella. L'avrei preso a schiaffi. No, scusa, le aveva già prese quando era venuto da me con la coda tra le gambe, tutto triste e spaventato e blaterando cose che nemmeno mi sforzo di ricordare. Ti sto parlando di due anni fa.»
Venni attraversata da un lampo di stupore.
«Due anni?» Interdetta, guardai attentamente il liquido del secondo shottino, battendo le palpebre. «Aspetta... tu lo sapevi?»
«Avrei preferito di no.»
«E non me l'hai mai detto?»
«Mi aveva praticamente pregato in ginocchio di non riferirtelo. Conta che avevo già il telefono in mano. Che razza di idiota.» Con la cannuccia, tentò di schiacciare i cubetti del suo drink, la bevanda inizialmente di un arancione vivace era diventata quasi trasparente; immaginai che rivangare quel ricordo non fosse il massimo della felicità. «Credo avesse capito tardi di averla fatta grossa, da lì il bisogno di confidarsi. Immagino si fosse rivolto a me perché i Cox avrebbero fatto la spia. Quando mai sanno farsi i cazzi loro.» Alzò lo sguardo. «E poi, lo sai, era perso di te. L'avevi capito, vero?»
Lisciai il bicchierino. «Sospettato, ma non ne ero sicura.»
«Bene, ora immagina che quella brutta stronza va a casa sua in uno stato pietoso e con le sue patetiche lacrime da coccodrillo a fargli tutta quella pantomima su come ti stessi approfittando di lui.»
Mi rifiutai di guardarla, di affrontare lei e quel discorso.
«A ruoli inversi, avresti dato retta a tua sorella? Sincera.»
La stessa domanda che Alejandro mi aveva rivolto in lacrime. Avrei voluto rispondere di no, ma non mi sarei mai presa sul serio.
«Per questo ti dico: non lo giustifico, ma non lo condanno neanche. È responsabile delle sue parole, ok, ma non di ciò che ha sentito dalla bocca di una persona che nemmeno conosce, che nessuno conosce, manco tu. Un'azione comporta una reazione, in fondo, e la sua è stata forte e poco pensata.» Si schiarì la gola, l'espressione sconsolata. «Forte, perché l'affetto che provava nei tuoi confronti era forte allo stesso modo. Temo sia tutto direttamente proporzionale al legame che si ha con un individuo. È capitato anche a me con mia sorella, e non ne vado affatto fiera.»
Quel "manco tu" fece male. Molto male.
E aveva ragione.
Avrei voluto risponderle che dopo settimane dalla confessione non ero particolarmente arrabbiata. A dir la verità, anche quella sera alla tavola calda non avevo provato alcunché. Per Alejandro, almeno. Ma se avessi pensato a Olivia, sarei stata travolta dal disgusto, dal desiderio di prendere un piatto e farlo volare a terra, avrei avuto voglia di mettermi a urlare fino a raschiarmi la gola, di spintonare Jay per sfogarci un dolore che tutt'ora non realizzavo.
Non aveva un nome, ma era capace di farmi mancare l'aria, di prendermi a pugni lo stomaco, di svuotarmi, rendermi un fantoccio. Un sentimento più pesante della delusione, e meno spietato dell'ira.
«Sta a te scegliere se perdonarlo o meno. Ma se dovessi darti la mia opinione, quella che non meriterebbe il perdono è solo tua sorella.» Continuava a girare la cannuccia tra i cubetti, il tono tornato monocorde. «Considera che Jay non voleva venire stasera, ma appena gli ho spiegato il motivo per cui stavi così, lui ha...»
Sgranò gli occhi di colpo, le iridi brune divennero piccoli isolotti in mezzo alla sclera, e accadde nel giro di due secondi: afferrò il bicchiere, lo issò, e lo picchiò sul tavolo con una violenza inaudita.
«Chi è stato?» gridò, voltandosi. «Chi cazzo è stato?»
Chi sedeva ai tavoli vicini si girò, allarmati da tanta prepotenza, o da una pura e semplice curiosità. Altri fecero finta di nulla tornando a chiacchierare con la propria compagnia.
Aveva spaventato anche me.
«Gwenda, che dici? Chi è stato a fare cosa?»
Mi inclinai per afferrarle dolcemente il braccio, la sua mano che tutt'ora stringeva il bicchiere. Le nocche erano ancora bianche. Era come se si stesse preparando per scagliarlo in faccia a qualcuno.
Lei, che girava forsennatamente la testa a destra e a sinistra, dovette bloccarsi appena avvistò Alejandro lì vicino che bloccava dal retro del colletto un ragazzo. Si dimenava, cercava di liberarsi.
Alejandro lo spintonò malamente davanti a Gwenda.
Serissimo, gli intimò: «Chiedile scusa, cabrón».
Il tipo farfugliò qualcosa, ma poi si dileguò a passo svelto.
Alejandro si accostò a Gwenda, i gomiti sul tavolo, lei era tornata china sul suo drink, con l'intento di distruggere i cubetti di ghiaccio. Anche se dubitavo che una cannuccia ne fosse in grado, tantomeno le bestemmie che andava borbottando a ritmo costante.
«Comincio a rompermi di questo posto» sibilò.
«Se vuoi gli vado a spaccare la faccia.» Alejandro alzò il collo e si guardò intorno. «Talmente intelligente che manco è uscito.»
«Lascia stare. Se lo becco all'uscita, ci penso io.»
«Stai bene?»
«No.»
Non alzò più gli occhi dal suo tè. Alejandro si massaggiò il collo e si limitò a lanciarmi un'occhiata. Probabilmente comprese dalla mia espressione spaesata che non avevo capito cosa fosse successo.
Si limitò a scuotere la testa e basta.
«Dio, finitela di comunicare in alfabeto morse. Diglielo senza inutili cerimonie: mi ha palpato il culo.» Gwenda bloccò ogni mia risposta sul nascere con un sol sguardo. «No. Non dire niente.»
Mi ammutolii. Sapevo da dove nascesse quell'ordine.
La compassione altrui non era mai riuscita a sopportarla.
Alejandro, tuttavia, allungò il braccio e le accarezzò la nuca col pollice in una cauta dimostrazione d'affetto, mentre sosteneva il mento sull'altra mano, lo sguardo serio indirizzato altrove. Disinteressato, parve, come se non gliene importasse nulla, come se fino a qualche giorno prima non si scannassero. Ma fu Gwenda a sorprendermi: lo lasciò continuare, anche se restava così, a muso duro e accartocciando borbottii sulla lingua, anche se il braccio del vicino rischiava di essere staccato a morsi da un momento all'altro.
Poi, come se fosse stato frutto di mille confronti interiori, Alejandro decise di fronteggiarmi per la prima volta da quando avevamo varcato il nightclub. Mi guardò. Bene, stavolta. Negli occhi. Non potei che ricambiare quel "Non ce la faccio più, ho bisogno di parlarti, di capire se esisto ancora, se devo sparire per sempre, se devo andarmene da qui, se devo scusarmi di nuovo".
O almeno, questo era ciò che interpretavo in quegli occhi perennemente rabbuiati dalla vergogna, dall'ombra del dispiacere.
Risposi nell'unico modo che poteva capire.
Toccandomi la gola, insieme a un sorriso sottile.
All'inizio ne rimase un po' spiazzato, complice l'espressione accigliata. Tuttavia, quando ci raggiunsero al tavolo i gemelli Cox, si ammorbidì. Non diede accenno di un sorriso, né parlò. Ma vidi chiaramente le spalle abbassarsi, sciogliersi, la faccia distendersi.
«Guardate qua, stronzi! E sono due.»
Warren esibì un pezzo di carta con dei numeri di telefono.
«Ah, pure mia sorella ha ricevuto un- E che cazzo, Fannie.»
Lei aveva già sbriciolato il suo, con nonchalance, i pezzetti che atterravano sul pavimento. Li oltrepassò coi tacchi alti degli stivali e si diede una sistemata al caschetto coi palmi. «Oh, colpa mia.»
Lui si girò, e in un attimo tornò a rivolgersi a Fannie. «Furba proprio. Quello ti ha visto... Potevi aspettare dieci secondi. Dieci.»
«Non sono una persona particolarmente paziente.» Allungò il braccio per fregarsi il mio shottino, ma Gwenda gliela schiaffeggiò all'istante, senza però distogliere mai l'attenzione dal suo drink.
«Rimorchia qualcun altro per scroccare. Questo è di Ophelia.»
«Ho esaurito le energie per le risate da deficiente. Devo ricaricarmi.»
«Perfetto, allora ricaricati a tue spese. Stai diventando peggio di Braccino Corto.» Warren le alzò il medio. «Che tristezza mi fate.»
«Mh, che palle...» Fannie si lisciò un sopracciglio con la punta del polpastrello. Al di sotto spuntavano dei brillantini che seguivano l'andamento della palpebra. Tratteggiavano un arco di stelle. «Aggiornatemi, che non ragiono e comincio a sentire la botta di quei Blow Job: dobbiamo ancora rivolgere la parola a Jay, o...?»
Mi uscì un sospiro pesante, la guancia finì sul mio pugno.
Perché ne vogliono ancora parlare? Perché insistono?
Nonostante fosse chiaramente brillo, Warren ebbe lo stesso la lucidità necessaria per lanciare uno sguardo contrariato ad Alejandro. «Io mi chiedo: a che cazzo stavi pensando? Sul serio.»
L'altro non aveva ancora tolto la mano dalla nuca di Gwenda, nascosta dai suoi capelli bruni, corti fino alle spalle; era come se stesse tentando di acquietare un pericoloso animale randagio. «Ah sì, volevo proprio vedere te al posto mio, e in quella situazione.»
«Ma sei scemo? Non avrei mai dubitato di Ophelia.»
«Por Dios, nemmeno io» sbottò, senza risparmiarsi di dare una manata al tavolo, la vena al collo gonfia. Memories di David Guetta, a tutto volume, non permise di sentire l'impatto. «Perché avrei dovuto dubitare di sua sorella, scusa? Mettiti in quell'ottica.»
«Bah, ripeto, per me è impensabile che tu ci abbia creduto.»
«Impensabile. Non sei tu ad aver visto con che faccia si è presentata a casa mia, e come mi ha detto certe cose.» Alejandro parve soffocare un grugnito mentre la mano libera si era messa a strofinare qualcosa sul tavolo. Un espediente per cancellare i suoi sbagli, forse. Gwenda, intanto, si era decisa ad alzare la faccia dal bicchiere. «E poi non ho detto che non mi sento una merda, ok?»
«Eh, ci mancherebbe.»
Jay scattò su di lui, ma Gwenda lo trattenne dal gomito.
Fannie sospirò e mise una mano davanti al petto di suo fratello, sbarrandogli ogni folle iniziativa. «Warren, placati, il punto è un altro: lo stava manipolando. Ci potevi cascare anche tu. Chiunque, temo.» Si rivolse a lui, riducendo le labbra a una smorfia di compassione. «Anche se avrebbe dovuto scattare un campanello d'allarme dal momento che aveva l'intento di portarti a letto... Ragiona: se stava così male, e il suo proposito era di venire da te solo per confessarti quanto "cattiva" fosse Ophelia, perché abbassarsi a tanto?» Gli assestò un debole pugno sul braccio. «Qui però sei stato un po' tonto, eh.»
«L'ho respinta» si difese Alejandro, con profonda stizza.
«Ah beh, applausi allora, ci mancava solo che ti scopavi quella psicopatica. Lì sì che ti avrei conciato male» si introdusse Gwenda.
«Ragazzi, piantatela.»
Dovetti urlare per sovrastare la musica.
La loro attenzione fu subito su di me.
«Sono stanca, ok? Non sono venuta qui per sentirvi litigare. Jay ha sbagliato, va bene, lo sa, l'ha capito e se n'è pentito. Basta. Una parte di me resta ferita, ma l'altra può perdonarglielo: ascoltare quelle parole da un membro importante della famiglia non è la stessa cosa di quando te le senti dire da un perfetto sconosciuto.» Fissai lo shottino. «E poi quei commenti non li ha pubblicati lui.»
«Perché l'ha fatto?» domandò Warren. «Avevate litigato, o...?»
«Mai avuta una discussione, mai una litigata, niente.» Stabilii di ingurgitare pure il secondo shottino. Riflettendoci, non era poi così male; ad avere un sapore più amaro del liquore era quella chiacchierata che avrei preferito non iniziare, il nome di mia sorella che veniva sguinzagliato da una risposta all'altra, e poi l'idea di vederla, il solo pensiero di averla vicina. «Vi confesso di essere un po' preoccupata. Non riesco a trovare un nesso... Non capisco.»
«Una persona sana di mente non lo farebbe» disse Fannie.
«Una persona narcisista, per molto meno.» Gwenda si inclinò. «Ascolta a me, Ophelia: o è davvero malata, o prova un'invidia a dir poco immorale, al punto da sbattersene del vostro rapporto di sorellanza. Non vedi come ha sabotato i tuoi progetti? Ti rendi conto che cosa ti ha portata a fare quell'incidente di percorso?»
L'amaro tornò su, insieme a un blocco d'angoscia.
Ma non diedi la colpa allo shottino.
Mi limitai ad annuire.
«Che altro ha combinato in questi anni?» Gwenda posò la mano sopra la mia. «Che cosa non ci hai ancora raccontato, Ophelia?»
Li osservai. Soffermandomi su Alejandro, però, il mio cuore saltò un battito; più di tutti, reprimeva un'attesa dolorosa, visibile anche a un cieco, faceva male solo a guardarlo. Dava l'impressione che avesse voluto essere lui a pormi quella domanda cruciale.
Alla fine umettai le labbra, mormorando: «Tante cose».
In teoria, avremmo dovuto quantomeno divertirci, direttiva principale che, alla luce degli ultimi eventi, il gruppo mi aveva costretta a seguire per distrarmi. In pratica, il termine "divertimento" aveva subìto uno stravolgimento di significato, imboccandone uno più deprimente: ero finita con il raccontare gli ultimi anni trascorsi con Olivia in un rapido time-lapse di ricordi.
A ogni cruda rievocazione su mia sorella, morivo dalla voglia di chiedere a Gwenda di ordinarmi un terzo e un quarto shottino. Ma a giudicare dallo sguardo impietrito, ero convinta che non ne sarebbe stata in grado. Non che quello degli altri fosse differente.
Reggere l'umiliazione fu una delle cose più complicate, specie perché parlarne a cuore aperto implicò lasciare che la realtà mi franasse addosso, mi schiacciasse. Lì, mi resi conto di avere un senso della prospettiva guasto, e capire di aver sempre guardato da un'angolatura sbagliata fu ancor più orribile; com'era possibile che non avessi mai notato il modo in cui le scelte di Olivia fossero diventate le mie? Com'era possibile che non avessi mai realizzato come il mio volere si fosse inavvertitamente legato alle sue parole?
Ma soprattutto, come potevo pretendere di allontanarmi facendola sembrare la cosa più facile del mondo? C'erano nodi ovunque, nodi ben stretti. Fili che non partivano dai miei arti, ma dal mio cuore, condizionato dalle sue raccomandazioni, dai consigli per non dare nell'occhio, dalle preoccupazioni che mi avevano avvolto per anni, da ciò che dichiarava come verità universale. E quei nodi non si scioglievano, inutile provarci. Aveva svolto un lavoro diligente. Era il lavoro di chi temeva il fallimento. Ed io ne avevo decretato il successo: fidandomi di lei, avevo permesso a Olivia di guidarmi nel corso delle mie scelte a occhi chiusi, certa non mi avesse mai fatto percorrere una via pericolosa.
Marionetta cieca. Marionetta difettosa.
Marionetta incosciente. Marionetta stupida.
«Ora capisco perché mi avevi affidato l'abito rosso.»
Quel mormorio stentato provenne da Fannie. L'eccitazione che le avevano concesso i cocktail si era eclissata. Aveva abbandonato l'intento di ordinarsi dell'altro da bere; in quel momento, a sguardo chino, si fissava le unghie lunghe, laccate da una patina argentata.
«Immagino che mi darai pure quella gonna.»
Me la indicò con un cenno del mento.
«Se non è un problema, Fannie.»
«Stai scherzando? Certo che non lo è.»
Warren mi circondò le spalle e mi ingabbiò al suo petto. Con la mano libera si strofinò gli angoli della bocca, un espediente a cui solitamente si appoggiava per prendere tempo. «Non credevamo che la situazione fosse questa. Dio mio... che persona di merda.»
Non avevo alcuna intenzione di rispondere, per timore uscissero delle giustificazioni a favore di Olivia. Non me lo sarei perdonata.
«I tuoi?» masticò Jay con una certa difficoltà. «Dimmi che...»
«No. Sto cercando il momento adatto, e senza delle prove...»
«Prove» mi bloccò, il tono cosparso dall'amarezza. «Tu sei già una prova più che sufficiente, nena. Cordelia e Allan sono intelligenti abbastanza da non mettere in discussione ciò che...»
«E se non fosse così?» Lo interruppi a mia volta. «E se, a modo loro, si rifiutassero di credermi? Jay, non lo puoi prevedere, non ho idea di come possano reagire davanti a un'accusa così pesante.»
«Gwe', falla ragionare.» Le diede una gomitata.
Ma lei, concentrata sulla cannuccia, aveva ripreso a tormentare il ghiaccio che giaceva sul fondo del bicchiere. Constatando che non aveva mostrato alcuna reazione, gliene diede un'altra più forte.
«Che c'è? Se la soluzione preferisce pescarla così, non sono nessuno per impedirglielo. È grande abbastanza da essere padrona delle sue scelte, penso» scandì pacata, e in un secondo, mi ritrovai i suoi occhi puntati addosso. Gelidi, ricoperti di un'ostilità spaventosa. Mi si accapponò la pelle. Impossibile capire se la colpa fu delle ombre viola che le galleggiavano in volto e contribuivano a deformarle l'espressione, o se fosse semplicemente la sua natura. «Ma lei deve sperare, Ophelia, pregare di non trovarmi tra i piedi.»
«Gwenda...»
Mi zittì, alzando il palmo. «Posso sopportare molte cose, ma non qualcuno che tocca la mia famiglia, o che alza le mani alla propria.» Si raddrizzò. «Te lo dico senza mezzi termini: me ne sbatto che è tua sorella, perciò se vedo in giro quella puttana, io la rovino.»
Si dileguò a passo da corridore, diretta ai servizi sanitari.
«La vedo molto male» commentò Warren.
«Già, e se dalla bocca di Gwenda scappa la parola "puttana" è gravissimo» osservò Fannie, alludendo alla filosofia femminista dell'amica. Fissò il punto in cui era sparita. «Vado da lei, giusto per assicurarmi che non abbia ammazzato nessuno strada facendo.»
Una volta risucchiata dalla folla, infilai le dita tra i capelli, in un gesto che sottintendeva tutta la stanchezza che avevo accumulato negli ultimi giorni; nonostante gli shottini di prima mi avessero alleggerito la testa, quel racconto fu in grado di sovraccaricarmela. Ero sicura che di lì a breve mi sarebbe salita una bella emicrania.
«Potremmo archiviare definitivamente questa cosa?» chiesi.
«Difficile dopo aver sganciato una bomba simile» disse Warren mentre fissava la folla. «E dire che siamo stati parecchie volte a casa tua. Cioè, anche se tua sorella era perlopiù assente, per quel poco che avevo visto mi sembrava una tipa a posto, persino dolce.»
"Idealizziamo troppo".
Le parole di Desmond.
Sempre al momento giusto.
«Già» borbottai. «Però, ti prego, stasera divertiamoci e basta... Era questo il vostro obiettivo, giusto? Per cui, non pensiamoci più.»
Dal modo in cui mi guardò, però, con quel misto di tristezza e compassione, supposi che non volesse lasciar perdere quell'argomento. Alla fine si rassegnò a mostrare il solito sorriso.
Batté le mani. «Allora farò meglio a recuperare del nuovo carburante.» Passò accanto ad Alejandro, rimasto in silenzio per tutto il tempo, e gli diede una stretta all'avambraccio. Ero convinta non avesse prestato attenzione allo scambio. «Tu hai preferenze? Già che ci sono vado a prendere della roba pure per le altre.»
Annuì senza convinzione. Poi, comprendendo la natura di quella domanda, scosse la testa. «No, sto a posto, grazie. Sono in moto.»
«Come vuoi.» Si grattò la nuca. «Senti, per prima...»
«Ero nervoso e ho reagito male. Tranquillo.»
«Sicuro?»
«Sì.»
Warren assottiglio lo sguardo, non ci credeva, poi scrollò le spalle con noncuranza. «Vabbè, come ti pare. Allora vado di là.»
«E mi devi ancora cinque dollari.»
Warren, impassibile, gli diede le spalle alzando la mano a mo' di saluto, e gli urlò: «Te lo dico nella tua lingua: chupame la pija».
Trattenermi servì a poco: scoppiai a ridere, e pure Alejandro.
Inarcò un sopracciglio, la risata a tirargli le labbra.
«Da quand'è che sa un minimo di spagnolo?»
«Non lo sa, infatti. Ma mi aveva confessato di aver segretamente studiato degli insulti da poterti lanciare durante gli anni in cui formavano il gruppo. Sai, nei casi di pura necessità. Tipo questo.»
«Beh, dieci e lode per la pronuncia.»
Mi uscì un altro attacco di risa, meno uniforme della precedente, che a tratti arrestavo col dorso del pugno e a tratti lasciavo andare. Un'incertezza che mi perseguitava, causata dal silenzio in cui ci eravamo rinchiusi per settimane. E non capivo quale atteggiamento adottare, non capivo se fosse il caso di ridere davanti a lui, se avessi dovuto mostrare una facciata più dura, meno accondiscendente.
All'improvviso, non me ne importava più nulla.
Per qualche secondo, per colpa di un commento idiota, un caldo alone di serenità ci aveva abbracciati come un padre amorevole. E mi era mancata, quella complicità tutta nostra. Mi mancava quel dolce "nena" masticato sul palato, mi mancava quel bianco sorriso che era una spaccatura d'entusiasmo nell'incarnato abbronzato.
Dalla sera alla tavola calda dei Cox, aveva smesso di farlo.
«Jay.»
Non rispose, le labbra ridotte di nuovo a una grinza tesa.
Battei il palmo sullo sgabello accanto al mio. «Vieni qui.»
Si avvicinò, incerto, ma non eseguì. Sebbene fossero degli sgabelli mediamente alti, anche da seduta gli raggiungevo le spalle.
«Puoi starmi vicino. Puoi parlarmi. Lo sai, vero?»
«Sì, è che...» Incurvato sul tavolo come un poeta afflitto, si girò con un'indolenza dolorosa l'anello che gli ghermiva il pollice. Dopodiché sospirò. «Ophelia, mi sento un grandissimo co-co...»
Irrigidì la mascella come non gli avevo mai visto fare.
Comparve un sorriso triste. Parve sull'orlo del pianto. «Quello.»
«Jay... voglio essere onesta: io non riesco a odiarti.»
Gli andai a stringere delicatamente il braccio.
«Dovresti.» Continuava a fissarsi l'anello.
«Ma non è stata colpa tua. Non proprio. Olivia ti ha...»
«Le ho detto delle cose orribili. Cazzo, non ti faccio schifo?»
«Eri arrabbiato.» Inumidii le labbra. «Non potevi controllarlo.»
Si stropicciò la faccia. «Dio, ci penso ogni giorno, e mi dico, mi convinco anzi, che a ruoli invertiti a te non sarebbe mai uscita una cattiveria simile. Neanche obbligandoti. Sì, certo, arrabbiata quanto vuoi, ma tu, Ophelia, non saresti mai scesa a tanto. Fidati.»
«No, non dirlo: nemmeno io mi conosco fino in fondo... Guardami.» Girò il capo. «Avevo degli obiettivi che fino a qualche anno fa ritenevo i capi saldi della mia vita. Poteva accadermi di tutto, tutto, ma niente mi avrebbe fatto rinunciare a qualcosa di così importante, e tu lo sai bene che il canto è l'aria che respiro. Ne ero convinta, perché mi conoscevo. E guarda com'è andata a finire.»
Gli si calò addosso un sottile velo di compatimento.
«Puoi ancora rimediare ai tuoi errori, nena, io no.»
«Sì, invece.» Incurvai le labbra. «A patto che mi abbracci.»
Ci impiegò qualche secondo per assimilare la condizione.
«No. Mi stai giustificando.»
«Non ti sto condannando. È diverso.» Contemplai il punto dove la folla, accalcata, non faceva che ballare, marionette manovrate da un burattinaio alticcio. «Penso che alla fine Gwenda ha ragione.»
«Gwenda?»
Mi scappò un sorriso. «Prima che arrivassi aveva preso le tue parti. Non platealmente, ok, ma a modo suo... Gwenda è Gwenda.»
Non si mosse, concentrato com'era sulla gente che danzava. Era probabile che quella confessione l'avesse turbato. O spiazzato. Non ne ero sicura. La sua espressione manifestava di tutto fuorché sconcerto, gli angoli del viso tramutati in un covo di ombre; nascondevano ogni cosa, lo rendevano indecifrabile, una fortezza di pensieri impenetrabile. Forse preferiva reprimere ciò che provava, anche se qualcosa riuscì comunque a sgattaiolare via; i muscoli della schiena, dalla maglia, risultarono meno in tensione, e il suo viso si presentò meno accartocciato nelle sue afflizioni.
Ebbi il coraggio di aggrapparmi a una piega della maglia.
E lo avvicinai così, a mo' di tenero sprono, una supplica dietro a ogni tirata, fratello minore che chiede attenzioni al maggiore. Alejandro, scuro in volto, si lasciò abbracciare, anche se in modo goffo e non proprio comodo, dove io restavo seduta sullo sgabello e lui, a braccia tese lungo i fianchi, mi consentiva di avvolgerlo, mi consentiva di perdonarlo. Anche se andava contro la sua volontà.
Affondai la faccia sul suo petto, e schiacciai, schiacciai, affinché si decidesse a ricambiare l'abbraccio. Ci volle una considerevole dose di tempo prima che le sue braccia mi circondassero il collo.
E mentre la musica cambiava e un adattamento remixato di Stolen Dance dominava i movimenti dei corpi in pista, Alejandro si apprestò a chinarsi, fino a che il suo mento non si appoggiò sul capo. Sentii un tiepido soffio. Immaginai avesse sospirato ancora.
«Non me lo merito il tuo perdono.»
Nel dirlo, il suo mento sfregò tra i capelli. Con dolcezza, a voler esprimere quanto me ne fosse grato e straziato al contempo.
Quindi, mi staccai per prendergli il viso tra le mani.
«Sai che ti dico?» Coi pollici, gli eliminai due lacrime, sebbene l'espressione non tradisse emozioni. «Decido io chi perdonare.»
«Io non ci riesco... non riesco a perdonarmi.»
«Vorrà dire che proverò a farlo al posto tuo.» Gli spinsi gli angoli della bocca all'insù, facendo pressione grazie agli indici, come facevo innumerevoli volte a Desmond quando mostrava il broncio. «Però mi prometti che per stasera non ne parleremo più?»
Le pieghe ai lati di quegli occhi limpidi si accentuarono, lo sguardo si distese, si riempì di triste affetto. Annuì di nuovo, mentre mi afferrava una mano e gli scoccava un rapido bacio sulle nocche, per poi trattenere il palmo sulla guancia, un impulso naturale che nasceva tutte le volte desiderava conservare un dono.
In questo caso, il perdono.
«Va bene.»
«E per cambiare discorso...» Sorse un sorriso più elettrizzato del necessario, il che gettò Alejandro in confusione. «Pensavo a una cosa, prima. Giusto per dare una piccola svolta a una serata che rischia di diventare deprimente. Vieni, che te lo dico all'orecchio.»
Dopo che ebbe ascoltato, mi guardò abbastanza interdetto.
Gli sfuggì una risata, esclamando un «Qué?» incredulo.
Giunsi le mani. «Dai. Facciamolo. Per favore.»
«Però questo significa essere diabolici.»
Non era stata necessaria l'approvazione di Warren.
Prima che potesse permettersi di esprimere un minimo di esaltazione per i miei piani, si era dato il tempo di liberarsi dalla mole di bevande che aveva provveduto a ordinare, onde evitare danni: una lattina di birra incastrata sotto l'ascella per Alejandro, che accettò nonostante il rifiuto iniziale, e due bicchieri di Jack & Cola colmi fino all'orlo per me e Fannie. Infine, mi aveva abbracciata come si abbraccerebbe un peluche, la guancia sulla mia testa e le dita che mi pettinavano i capelli. «Sono così fiero di te. La mia cattiva influenza ti sta convertendo in una brutta persona.»
«Ora non esageriamo. È solo un test.»
«Ma come ti è venuto in mente?»
«Per compensare alla mia mancanza dell'altra sera, perciò...»
«Onesto. Assistere a Fannie che si incazza è sempre divertente.»
«Tìo, frena l'entusiasmo, aspetta che lo sappia tua sorella» si aggiunse Alejandro. «Se scopre che eri d'accordo, ti sfratta subito.»
Scrollò le spalle. «In alternativa mi ospiterai tu.»
«Sicuro. Leggi qui.» Si puntò la bocca. «Col cazzo.»
«Tranquillo che mi va bene ovunque, anche lì.» Ammiccò.
Ignorai le loro provocazioni e scorsi il dito sulla rubrica del telefono. Non mi restò che attendere, con lo schermo all'orecchio.
«Ophelia?»
«Ehi!» Inutile controllarlo: la voce calda di Desmond ebbe su di me un effetto immediato: spalancarmi le labbra in un sorriso che, sul momento, reputai un po' troppo entusiasta. Ciò non passò inosservato agli occhi di Alejandro e Warren; dovetti ridurlo e schiarirmi la gola. «Cioè, ehi, ciao. Scusa l'orario. Ti disturbo?»
Dall'altro capo, Desmond rise. «Scommetto che sei in giro.»
«Sì, esatto.» Lanciai uno sguardo furtivo a quegli impiccioni; entrambi col mento sulle dita intrecciate e ad annuire con teatrale convinzione, al pari di due insopportabili fratellini. «Sì... ehm.»
«Chiedigli dell'amico, l'amico» suggerì Warren.
«L'amico» ripetei come una cretina, il che portò entrambi a soffocare degli sghignazzi. Anche senza l'uso di uno specchietto ero sicura che le guance fossero diventate dello stesso colore della ciliegia che sguazzava nel Tequila Sunrise del tavolo accanto. «Sbaglio, o oggi, da Gregg, ti eri lasciato sfuggire che vedevi Ian?»
«Sì.» Dal tono trapelava evidente perplessità. «E...?»
«Se può raggiungerci» proseguì Alejandro.
«Se ci raggiunge.» Alejandro si scansò appena capì che avevo l'intenzione di mollargli uno schiaffo sul braccio. «Riformulo: non è che vi andrebbe di passare al Down? Se siete in zona, chiaro.»
«Hai bevuto?»
«No.» L'orecchio di Warren si attaccò letteralmente al telefono nel vano tentativo di ascoltare l'interlocutore, così Alejandro; mi obbligarono a sospirare. «Ho... degli amici un po' stupidi, stasera.»
«Signor Holmberg, io la amo, lo sa?» urlò Alejandro.
«Il suo amico è libero? Perché io lo sono!» continuò Warren.
Mio Dio.
Gli assestai una gomitata per farli spostare e protessi il cellulare con l'altro palmo, in modo che non ci fosse pericolo che ascoltassero. A scanso di equivoci. Anche se, in teoria, la musica del locale, di nuovo alta, avrebbe dovuto barricare qualsiasi suono.
Per sicurezza, gli diedi le spalle e chinai il capo.
«Scusali.»
«Ma sono al corrente che...?»
«No. Sono solo scemi per natura.»
Dall'altra parte della linea riuscii a intercettare del chiasso che correva a pari passo con quello che governava il pub. Se non di più.
«Fammi capire... Alle undici di un sabato sera mi arriva questa splendida chiamata in cui si dichiara che vorresti il mio amico?»
«E dai, è un esperimento sociale. Assecondami.»
Gli sfuggì una risata. «Spiegati. E già che ci sei, spiegami anche perché quel ragazzino impertinente me lo trovo sempre tra i piedi.»
Mi voltai per un secondo; Alejandro e Warren avevano smesso di origliare. Adesso si studiavano i telefoni a vicenda, porgendoli prima all'uno e poi all'altro. Dai commenti supposi riguardassero dei meme. «Riunione di "famiglia". Ho parlato con i miei amici.»
«Cosa dicono?»
«Un po' le stesse cose che hai detto tu.»
«Mi sarei stupito del contrario» disse. «E Ian cosa c'entra?»
«Avevo questa folle idea di fargli incontrare un ragazza.»
Silenzio.
«No...»
«Lo so.»
«Non farmi questo.»
«Non andrà male, credimi!»
«Tu non lo sai cosa potrei sopportare io.» Ridusse il tono a un piagnucolio farsesco. «Ha l'innamoramento facile. Ha carenze di affetto. Se gli arriva un'altra bastonata, gliele dovrò colmare io.»
«Ti giuro che conoscere questa ragazza gli farà bene. Secondo me andrebbero un sacco d'accordo anche solo come amici.» Il sorriso si intenerì, si fece meno largo, e, colta da una spinta di coraggio, mi uscì a voce più bassa: «E poi... mi andava di vederti».
I secondi a seguire vennero divorati dalla musica, da quel persistente vociare. Tempo in cui, strofinandomi la fronte, mi pentii di quello slancio di avventatezza. Stavo per rimangiarmi tutto.
Ma Desmond non me lo permise.
«Andava anche a me.»
Da come lo disse, lo immaginai sorridere.
Avevo spiegato a Desmond la nostra posizione tramite un messaggio: ossia, un punto schiacciato da una schiera di tavolini neri, alti abbastanza da obbligarti a prendere una sedia altrettanto alta, addossato alla parete di mattoni, al di là del bancone quadrangolare del barista, e sotto a una cornice che custodiva la maglietta numero 20 di Schmidt, noto giocatore dei Detroit Lions.
Era una fortuna che gli spot distribuiti negli angoli strategici del locale garantissero una visione decente dei prodotti che vi erano affissati. Anche se non si poteva dire la stessa cosa per il pavimento. In quel costante alternarsi di luci fluo e lampi di buio totale, pareva di vagare sul separé che isolava i sogni dagli incubi.
Avevo informato Warren e Alejandro: Desmond e Ian stavano uscendo dal Fergie's, un pub irlandese situato a qualche isolato dal Down Nightclub e che si affacciava sulla trafficata Broad Street.
Solo allora, Gwenda e Fannie erano spuntate dalla calca.
Mi ero rivolta subito a Warren e ad Alejandro. «Mi raccomando, ragazzi: massima naturalezza. Deve sembrare una coincidenza.»
«Fannie se ne accorgerà, mica è scema, tra l'altro sa che nel gruppo sei l'unica a conoscerlo, anche grazie a quel simpaticone del tuo datore di lavoro» commentò Alejandro. «Che poi... non avevate raccontato che aveva buttato il numero di quel tipo?»
«Come tutti i numeri di telefono della sua vita. Consideriamoci fortunati se ha ancora i nostri salvati in rubrica» disse Warren mentre si dava una stirata alle pieghe della camicia azzurra e si sbottonava il secondo bottone; sollevando lo sguardo, incrociò quello della sorella, che nel frattempo, insieme a Gwenda, ci aveva raggiunti. «Ma di preciso, dov'era il bagno? Nel New Jersey?»
«C'era la fila. Ah, una è scivolata sui tacchi e si è storta la caviglia. Abbiamo chiamato l'addetto alla sicurezza per farla aiutare. Povera, era proprio sbronza.» Fannie tirò fuori dalla pochette nera uno specchietto e un rossetto, lasciando ad Alejandro l'incarico di reggerle il telefono con la torcia accesa, che l'assecondò sospirando. «Chi viene in pista? Voglio scatenarmi.»
Gwenda si accomodò su uno degli sgabelli. «Io ho deciso che non mi schioderò da qui finché non verrete a implorarmi di portarvi a casa. Perciò, passo. E il primo che mi costringe a ballare, muore.»
«Non avevo dubbi.» Fannie terminò di darsi una ripassata e incastrò un fazzoletto tra di esse per rimuovere eccessi di rossetto. Nel farlo, fissò me, poi suo fratello e infine Alejandro. «Cosa sono quelle facce strane?» bofonchiò, la carta che le ovattava le parole.
«Quali facce strane?»
Almeno Warren è più bravo di me a mentire.
«Avete un sorriso inquietante. E Ophelia non mi guarda.»
Appunto.
Non ricevendo riscontri, Fannie scosse la testa e appallottolò il fazzoletto, per poi ordinare i capelli dietro le orecchie, svelando dei sottili orecchini che consistevano in una lunga ed elegante fibra di strass argentati. Le scivolavano raffinatamente sopra le spalle nude.
Mi guardò, poi, gli occhi enormi che imploravano e la fronte spaziosa una distesa di sudore che brillava quanto quegli orecchini.
Non ebbi comunque modo di rispondere; appena l'attenzione si posò dietro la capigliatura a caschetto della mia amica, mi obbligai a nascondere il sorriso giungendo le mani. Warren e Alejandro, accortisi della presenza di quei due nuovi individui, risultarono più posati, mostrando solo una lievissima sorpresa. Gwenda era l'unica inconsapevole del gruppo, poiché seduta accanto a Fannie e concentrata a masticare la cannuccia rosa del nuovo bicchiere di tè.
Fannie mi prese le mani. «Fallo per zia Fannie: cinque minuti!»
«Perché invece non li concedi a me, quei cinque minuti?»
Ian si infilò tra di noi come l'ombra di un gatto e le si affiancò con una disinvoltura disarmante, il fianco contro il bordo del tavolo. Tra la barba curata, un mezzo sorriso incorniciava un'espressione scaltra, sicura. La faccia di chi non si fa sfuggire le opportunità, che la vita è troppo breve per non afferrarle al volo.
Si girò verso di me per un nanosecondo, tempo in cui mi strizzò l'occhio in segno di saluto. Ricambiai con un sorriso sincero, anche se, a dir la verità, era perlopiù indirizzato al suo accompagnatore.
Desmond superò Warren e Alejandro, passando dietro le loro schiene, e li salutò con un "Ciao, ragazzi" senza particolare enfasi.
Afferrò uno sgabello libero dallo schienale e lo avvicinò al mio. Ginocchio piegato, l'altro disteso, e il piede che, al contrario dei miei, toccava terra. Eleganza. Non potei fare a meno di ammirarla; ci cascavo sempre, come se fosse la prima volta; la indossava con una naturalezza straordinaria, era il suo tesserino identificativo, un lasciapassare che gli permetteva di varcare le porte di ogni circostanza. Lo rendeva persona versatile e presenza camaleontica.
Adattamento: quella era la sua eleganza.
E andava ben oltre a un vestito stirato.
La postura dritta ma disinvolta, la fermezza con cui si arrotolava le maniche, le dita che lentamente apriva e chiudeva per rilassarle, gli occhi vigili. Gli sguardi. Fu attento a lanciarmeli, come attenta fui io: si voltava appena, la faceva passare per un'azione spontanea, di quando ci si perde a studiare il posto, la gente, finché non se ne approfittava per fermarsi nella mia direzione e chinare l'attenzione.
Un attimo, e incurvava l'angolo delle labbra all'insù.
Ogni volta, lo stomaco rispondeva con una capriola.
Dovetti smettere di sorridere, specie perché Alejandro ci stava studiando: mentre rubava un sorso dalla lattina di birra, ci fissò oltre l'orlo di essa, mostrandosi profondamente interessato a noi.
Warren, invece, era profondamente interessato al corteggiatore di sua sorella, il quale aveva iniziato a intavolare dei convenevoli.
Più o meno.
Fannie inarcò un sopracciglio. «Scusa, ma chi sei?»
«Chiunque tu vuoi che io sia.»
«O.C. con me non attacca.»
«Quindi...» Ian si grattò il collo, ripristinando un atteggiamento normale; l'unica differenza con Desmond, notai, era che lui aveva sbottonato i primi bottoni della camicia, lasciando che uno stralcio di pelle chiara venisse esposta. «Non ti ricordi proprio chi sono.»
Fannie gli si avvicinò a due sputi dal naso e strinse le palpebre mentre gli esaminava il viso, le iridi chiare che balzavano da un angolo all'altro. Ian accolse quelle attenzioni con un sorriso furbo. «Ora che mi ci fai pensare hai una faccia che non mi è nuova.»
«La fama mi precede su Onlyfans. E nel mio lavoro.»
Celai una risata dietro al palmo, Warren fece quasi cascare il suo cellulare a terra per la rapidità con cui l'aveva recuperato. Non perse tempo a cercarlo. Alejandro, accanto a lui, se la rideva forte.
Gwenda, intanto, masticava la cannuccia, masticava del nervosismo più che palpabile. Fissava Desmond. Non era la prima volta che lo fissava così. Come se rappresentasse qualcosa di fuori luogo. O meglio, qualcosa che non si aspettava di rivedere presto.
Distolse lo sguardo.
Perché?
Fannie incrociò le braccia e, addossandosi anche lei al tavolino, imitò la postura provocante di Ian; lo squadrò dall'alto al basso. «Fingerò di non aver sentito nominare quel sito per nullafacenti.»
«In qualche modo bisogna pur arrotondare.»
«Certo.» Si morse la guancia, ma parve una scappatoia per non tradire dei sorrisi. «Ripetimi che lavoro fai. Quello vero, magari.»
«Come vuoi.» Le afferrò il polso e si trascinò la mano al petto; se la fece scorrere dai pettorali alla pancia. «Ti ricorda qualcosa?»
«No.» Fannie rise, ma parve voler morire. «Non è vero.»
Le lasciò andare il polso. «Chiamalo pure destino.»
«Io lo chiamo Ophelia.» Si girò verso di me. «Mi spieghi?»
«Ti voglio bene.»
«Tu mi vuoi male!»
«Volevo vedervi... interagire.»
«Esperimento» suggerì Desmond.
Gli assestai una gomitata.
«Non per essere indiscreto, ma cos'è che ti fa incazzare?» Ian inclinò il capo e assottigliò quegli occhi scuri, curiosità e determinazione si presero per mano smascherando un'espressione nuova, che faceva a botte con quella che solitamente mostrava. «Ti faccio paura? Sei ancora ferma all'idea preistorica che gli spogliarellisti sono dei pochi di buono? Che uscire con uno di loro rappresenti una vergogna? Mamma e papà non approverebbero?»
Per colpa del cambio di luce, Fannie assorbì un disturbante colorito rossiccio, che la fece sembrare ancora più infastidita. «Perché, mi vuoi far credere che ti si spezzerà il cuore se stasera andrai in bianco a causa mia? Oh, poverino, giusto: ora avrai un bel da fare a cercare un rimpiazzo fra i numeri di telefono in rubrica.»
Ian la guardò con attenzione, per qualche lungo secondo.
Poi, fece strisciare il suo telefono sul tavolo.
«Apri la rubrica.»
«Cosa?»
«Aprila» ripeté tranquillo. «E conta i numeri che potrebbero alludere a degli eventuali ripieghi. Ma ti avviso, le avventure le cancello il mattino dopo, come loro cancellano me, e in media ci saranno un centinaio di numeri, fra cui: parenti, parenti acquisiti, amici, migliori amici, soci di bevute, quelli della palestra, ex compagni di liceo, i miei capi, i miei colleghi, password che non ricorderò mai nella vita, il proprietario dell'appartamento a cui pago l'affitto, gli ex. Ah, e ovviamente i numeri di emergenza.»
Fannie stava scorrendo davvero la rubrica. «Gli ex?»
«Non serbo rancori. Ma se intendevi l'uso dell'articolo: no, non è un errore grammaticale, non mi privo di nulla.» Occhiolino. «Spero tu non abbia inclinazioni omofobe. Lì sì che sarei deluso.»
«Ho un fratello gemello gay, lì, alle tue spalle, che ti sta cercando su Onlyfans... e che amo come poche cose nella mia vita. Direi che non sono il tipo che apprezza le mentalità chiuse.»
Gli restituì il telefono.
«Bene, e visto che sono una persona onesta, voglio che sia chiara una cosa. Poi sarai libera di mandarmi al diavolo.» Ian le si avvicinò senza tracce di sarcasmo. «La libertà è un valore a cui tengo. Mi piace essere libero di sperimentare, di stare al centro dell'attenzione, mi piace esibire il mio corpo, mi piace divertirmi, mi piace scopare. Mi piace stare bene. E, di conseguenza, mi piace il mio lavoro, anche se ha determinato parecchie rotture nelle mie vecchie relazioni, monogame o poligame che siano, anche quando l'accusa era infondata. Desmond lo sa bene: nelle cose serie non mi sono mai azzardato a tradire neanche una di queste persone.»
Fannie fissò Desmond.
«Purtroppo per te dice la verità» confermò lui.
Fannie si strofinò le unghie. Sembrò in difficoltà, sebbene la facciata restasse sfrontata. «Fammi capire: questo monologo toccante in cui abbatti gli stereotipi del tuo impiego, ammesso che sia vero e il tuo amico non ti stia parando il culo, serve per ammorbidirmi e accettare le tue avances? Non ho il cuore tenero.»
«Lo vedo, lo vedo.» Ian rivelò un sorriso, dietro al quale ci lessi un'insolita dolcezza. «Beh, da un lato mi piacerebbe che accettassi le avances, o come le chiami tu, dall'altro, se sei stata attenta al mio discorso: non mi piace fare lo stronzo. Perciò, a seconda di come si sviluppa la serata, saprai le mie intenzioni più che oneste.»
Le porse il palmo, un invito a ballare. Lei la fissò.
«Non concluderai niente stasera, ti avverto.»
Alzò le spalle. «Quello che vorrei concludere, almeno stasera, è una conversazione pacifica con una stronzetta dalla lingua lunga.»
Fannie sospirò, guardò noi.
«Hai la mia benedizione, amico, solo per averle dato della stronzetta senza temere un pugno in un occhio» disse Warren. «Beh, in alternativa ci sono io. Tanto siamo gemelli, cambia poco.»
Ian rise. «Hai ragione. Ma la mia testa funziona come quella di un bambino: quando il gioco si fa duro...» Lasciò in sospeso la frase, visto che Fannie, sbuffando, gli aveva acchiappato la mano.
«Fra le magnifiche "qualità" del tuo curriculum, mi trovi affine solo con due di quelle.» Con la mano libera, afferrò il bicchiere che le aveva ordinato Warren e se lo scolò in tre vigorosi sorsi. Infine, lo sbatté sul tavolo. «Divertirmi, e stare al centro dell'attenzione.»
Si tirò dietro il ragazzo, veloce, senza più esitazioni.
Lui, seguendola a braccio teso, chiese: «Cioè?»
«Adesso te lo dimostro.»
Una volta che la folla li inghiottì, dovetti realizzare che, sebbene l'incontro non fosse iniziato nel migliore dei modi, si era sviluppato in un modo sorprendentemente... inaspettato. Appurato ciò, e trattenendo tra i denti un sorriso di trionfo, fissai Desmond.
Lui, che probabilmente intuì, mi fissò a sua volta.
Scosse la testa. «Certo che non ne sbagli una.»
«Warren.»
Non rispose.
«Warren.»
«Non ora, Gwe'.»
La ressa che dominava la pista si era improvvisamente moltiplicata da quando il deejay del nightclub, tra un tocco alla console e un altro al portatile, aveva cambiato musica con quella di Nelly Furtado. Promiscuous, di recente, era tornata molto in voga.
Ian e Fannie, in quel tripudio di corpi in movimento, erano due macchie d'acquerello in perenne metamorfosi, frutto della mente di un artista incontentabile. Ora rosso. Poi verde. Fucsia. Blu. Assorbivano le luci, assorbivano i colori. Calamite di sguardi, calamite fra di loro. Fannie, a occhi serrati e completamente inebriata dal brano, faceva aderire la schiena al petto di Ian, il capo reclinato sulla spalla dell'altro e la mano aggrappata alla sua nuca. Lui, invece, le sfiorava la spalla con le labbra. Dopodiché passava alla tempia. Le stringeva il fianco, il palmo aperto, concentrato a seguire quegli oscillamenti di bacino. Non se la lasciava scappare.
La bocca di entrambi, ogni tanto, si schiudeva.
Capii che era probabile che stessero... parlando.
Warren, tuttavia, parve non accettare quello spettacolo.
«Si stanno solo divertendo un po'» mi inserii. «Stai tranquillo.»
Lui terminò il suo drink, continuando a fissarli. «Ma che avete capito. È l'invidia: mia sorella riesce sempre a beccare i migliori.»
Certo.
Gwenda, annoiata, schiacciò la guancia sul suo pugno. «Ma sì, Warren, che poi, eventualmente, non sarà quel tipo a portarsi a letto Fannie. Ma Fannie che si porterà a letto quel tipo. Un classicone.»
«E allora siete duri di comprendonio, ho detto-»
«Sì, sì, l'invidia e cazzi vari e bla bla bla.»
«Vabbè, ho capito. Me ne vado.»
«A fare una scenata?»
«A provarci col barista.» Fece due passi, tornò indietro, e indicò Desmond con un che di intimidatorio. «Giusto per essere chiari, mi auguro che al tuo amico non salti in testa di raggirare mia sorella perché non mi faccio problemi a sporcare la mia fedina penale.»
«Ok, glielo riferirò.» Desmond sorrise. «Ma correggimi se sbaglio: non eri stato tu a dargli la tua benedizione fino a poco fa?»
«Sì, perché non penso e sono un coglione. E su Onlyfans fa pagare i video a cinquanta dollari. Quindi è un pezzo di merda.»
Sparì.
Poco dopo seguì l'esempio anche Alejandro, che nel frattempo era stato abbordato da una ragazza; la tale era scivolata vicino al nostro tavolo e lui l'aveva prontamente aiutata a rialzarsi. Dopo un paio di convenevoli, lei gli aveva proposto di bere qualcosa insieme e, anche se all'inizio Alejandro aveva esitato, si era deciso ad accettare l'invito. Quindi, si fecero largo alle spalle di Gwenda.
Lei, coi denti che rosicchiavano la cannuccia, li fissò.
Si stampò un sorriso compassionevole, un "buona fortuna, ne avrai bisogno" retorico. Immaginai indirizzato alla ragazza. Parve borbottare qualcosa. Poi, alzò lo sguardo e il suo sorriso si spense.
«Che c'è?»
Mi venne da ridere. «Niente, niente.»
Desmond tossì. Ancora una volta, Gwenda lo scrutò con un che di importunante. Ero pronta a chiederglielo, ma non me lo permise, poiché si rivolse a lui. «Non sono affari miei, e non sono un medico, ma non è la prima volta che ti sento tossire in questo modo.»
Desmond si schiarì la gola. «La vecchiaia.»
«Ma...» Le parole le si arrestarono sulle labbra; ero sicurissima che fremesse dalla voglia di dirgli qualcosa, come tutte le altre volte che le era capitato di incrociarlo. Guardò me, e poi lui, infine decise di scendere dallo sgabello. «No, nulla, vado al bagno. Di nuovo.»
«Un po' strana» commentò Desmond, mentre si allontanava. «O no?»
«Già, e non riesco a capirne il motivo.»
«Poco importa.» Mentre dava una lenta occhiata nei dintorni, la sua mano slittò sotto al tavolo e, furtivamente, andò a posarsi sopra alla mia, che avevo adagiato sulla coscia; la strinse, sciolse la morsa, e strinse ancora, un gioco che mi fece sorridere. «Ehi.»
Posai l'attenzione su di lui, su quel mezzo sorriso.
Non ci eravamo ancora salutati.
«Ehi.»
«Come ti senti oggi?»
Alzai le spalle. «Meglio. Ci voleva questa serata.»
«Ci voleva solo questa serata?»
Risi. «Giusto, ci volevi anche tu.»
«Soprattutto io.»
«Soprattutto tu.»
Ci eravamo avvicinati troppo; mi arrivò un piacevole sentore di dopobarba, e se avessi avuto il coraggio di sollevare il viso di qualche altro centimetro, sarei stata in grado di stampargli un bacio.
Probabilmente, anche lui venne attraversato dallo stesso pensiero: le sue iridi si erano abbassate sulle mie labbra, e la sua mandibola venne scossa da un guizzo. «Se si spegnessero le luci, Ophelia. Se si spegnessero le luci solo per un secondo. Uno solo.»
Mi inumidii le labbra. «Oppure potremmo andarcene.»
«Dove?»
«Dove vuoi tu.»
Sondò ogni angolo del mio viso, intraprese un'intima conversazione col mio naso, le guance, le labbra, ma non bastò, perché andò ancor più giù, finché non notò la gonna di pelle, le cosce fasciate dai collant. Si cucì addosso un sorriso sottilissimo.
«Quando ci siamo incontrati la prima volta, qui, non riuscivi nemmeno a guardarmi negli occhi, ti spaventava l'idea... E adesso non solo lo fai con me, ma con tutti.» La sua mano si sottrasse dalla mia e si intrufolò al di sotto del palmo, plasmandosi con la coscia. Inflisse una leggera ma sicura stretta, laddove la carne era più tenera; bastò perché quel punto ardesse e il cuore avviasse una corsa più animata. «L'ho notato da un po': stai iniziando a ignorare chi ti circonda, cammini a testa alta. Ti piaci.» Lo marcò con un'altra stretta. «Sei splendida, te ne rendi conto?»
Volli stuzzicarlo. «Dici così solo perché indosso una gonna?»
Capì sicuramente le mie intenzioni.
E quel sorriso si ridusse a una linea dura.
«No, perché sfoggiare questa gonna è la concreta dimostrazione di come tu possa prendere in mano la tua vita, che è solo tua, e solo tu ne stabilisci le regole. Questa gonna urla il tuo modo per dire "io mi appartengo ancora".» La sua mano strisciò un po' più su, fu un lento stampare quelle parole nella carne, tramite una bizzarra comunicazione tattile che non volli interrompere. «Ti confesso una cosa: quando spegni la mente per qualche secondo e hai questi bellissimi slanci di sicurezza, quando mi guardi così, quando tenti di provocarmi, come adesso, tu non immagini...»
La carezza sostò lì, appena sotto la bordatura della gonna.
«Immaginarmi cosa?»
Fu poco più di un sussurro.
Mi guardò negli occhi, si spostò prima sull'uno e poi sull'altro. Guardò la mano, che se ne stava ferma, in attesa di salire, o di scendere. Tuttavia, parve ripensarci, poiché si arrese ad abbozzare un sorriso. «Niente.» Provai una grande delusione non appena ritirò la mano e tornò composto. «Solo quanto potrei diventare creativo nel farti capire quanto sei splendida, Ophelia.»
Un sentimento nuovo, che andava al di là dell'affetto e dell'attrazione, prese il sopravvento, creò un guazzabuglio di emozioni nello stomaco, e in un altro punto neanche tanto lontano.
Mascherai tutto ciò scostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
La sua mano, chiusa a pugno, si era posata sul suo ginocchio.
«Mi chiedevo.» Desmond fissava laddove Ian e Fannie continuavano a ballare; avevano cambiato modalità, ora erano l'uno di fronte all'altra, con lei che gli cingeva il collo con un braccio e lui che affondava le dita sul bacino, vicinissimo al gluteo. «Perché ci tenevi tanto a farli incontrare?»
«In realtà... non lo so neanch'io» ammisi. «È che li trovavo compatibili, nonostante alcune discrepanze. E poi li ammiro molto.»
«Li ammiri?»
«Si piacciono, Desmond. Piacciono a se stessi. Amano essere amati, essere guardati.» Feci cenno nella loro direzione. «Hanno un modo di fare che, nel mio piccolo, vorrei possedere anch'io. Guardali.» E li guardò. «Senza pensieri, né inibizioni: non si fanno comandare da nessuno. Sono liberi. Non riesco a non adorarli.»
Marionette che avevano tagliato i propri fili.
Vorrei esserne capace anch'io.
«Te lo dico spesso: tu ti sottovaluti.» Stese il braccio sul tavolo, ma continuò a guardare i due, sempre più attaccati, petto contro petto. Sempre più spudorati. «Vedi quello che stanno facendo? Vedi l'approccio? Puoi farlo anche tu. Non hai proprio niente in meno di loro.»
Mi sorse un sorriso amaro. «Sentirmi bella è diverso dal sentirmi attraente.»
«È diverso, certo, ma non per questo impossibile da provare. Vedilo come un esperimento, uno dei tuoi, dove la cavia sei tu stessa. E poi, inutile che te lo dica, dipende tutto da questo.» Si puntellò l'indice sulla tempia un paio di volte; dopodiché mi guardò, e ammiccò. «E a proposito, sarò diretto: io sto aspettando il giorno in cui ti deciderai a fare un esperimento su di me.»
«Con o senza benda?» scherzai.
Ma lui mi prese sul serio.
«Preferisco senza.» Si avvicinò al mio orecchio, il suo mento ne sfiorò il lobo, e mormorò: «Qualsiasi cosa sia, non accetto muri: voglio che tu mi guardi in faccia quando lo farai».
ANGOLO AUTRICE
Buonasera, nightingales! 🕊️
Mentre da noi c'è il diluvio universale, ne approfitto per pubblicare la prima parte di questa folle serata; in teoria avrebbe dovuto esserci un'ultima importante scenetta per concludere questo capitolo, ma sarebbe andata avanti per le lunghe, perciò mi sa che mi inventerò qualcosa nel prossimo capitolo. 👀
Direi che sono nate diverse questioni e dinamiche interessanti. Alcune più secondarie di altre, certo, ma tra le righe - ricordatevelo sempre - c'è un cosa molto importante. Che verrà svelata nel giro di pochi capitoli. E io non ci voglio arrivare, a quel capitolo.
Questions:
▪️ Ophelia; finalmente ha modo di confessare ai suoi amici tutto ciò che riguarda sua sorella e il rapporto malato che si è creato. Un passo per volta, le confessioni arriveranno tutte. Anche ai genitori, che stanno in attesa da parecchio. Per chi mi segue su Instagram, avevo detto che questa confessione innescherà un effetto farfalla... particolare. Non ho ancora deciso se sarà di vostro apprezzamento o meno, ma di sicuro ci toglieremo un sassolino. Chissà a che cosa alludo.
▪️ Alejandro & Ophelia; dopo settimane di silenzio, hanno modo di confrontarsi. Per com'è il personaggio di Ophelia, non ce la vedevo a romperci i ponti, specie se la colpa (al cento per cento) non è di certo sua. Ha sbagliato, ma una seconda opportunità non gliela si nega. O almeno, io non sarei riuscita a negargliela. Voi come avreste reagito? Cosa pensate del loro confronto?
▪️ Questo non c'entra niente con le domande di rito, ma: io shippo Jay e Gwenda, non ci posso fare niente. Chissà se nascerà qualcosa di concreto fra di loro (non l'ho ancora stabilito). Voi ce li vedreste bene insieme? E a proposito di Gwenda, perché secondo voi continua a fissare Desmond? Ricordate che pure nel capitolo di Natale sembrava... strana in sua presenza?
▪️ Ian; ecco, questo era il "grande ritorno" di cui vi parlavo. Come personaggio di sfondo appare già poco (anche se compensa tutte le volte che Desmond lo nomina), perciò volevo rendergli un po' giustizia e farvelo conoscere meglio. A me, detto onestamente, continua a piacere un botto. E visto che sono un'amante dei "poli opposti", ho sempre visto interessante lui e Fannie vicini, non per forza sotto l'aspetto sentimentale, ma anche amicale. Cosa pensate di lui (e di loro)?
▪️ Desmond & Ophelia; e diamogli un pizzico di pepe ogni tanto. Ah, fidatevi delle mie parole: anche se qui appare poco, compenserà nel prossimo capitolo. Promesso. 🌚 Intanto: cosa pensate dei piccoli scambi che si sono dati?
Non è stato semplice scrivere l'andazzo di questo capitolo, per motivi che ancora non mi spiego, ma probabilmente per via della presenza di tanti personaggi e di tante interazioni diverse. Spero sia stato comunque di vostro apprezzamento. 🤍 Fatemi sapere, in caso!
Io vi suggerisco di prepararvi ai prossimi (il prossimo incluso), perché sarà una montagna russa di COSE. Belle e brutte. Una dopo l'altra. Ormai ci stiamo avvicinando al traguardo (dopo due lunghi anni), perciò è il momento che i nodi arrivino al pettine.
Pronti?
Io no.
A presto! 🤍
Playlist:
Mi Gente - J Balvin, Willy William (prima parte)
Memories - David Guetta, feat. Kid Cudi (seconda parte)
Stolen Dance remix - Gigi D'Agostino & Luca Noise (terza parte)
Bla Bla Bla - Gigi D'Agostino (quarta parte)
Promiscuous - Nelly Furtado (quinta parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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