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32. Pianeta orfano

Pianeta orfano


















«Buon Dio, questi posti sono rimasti uguali a cinquant'anni fa, e uguali rimarranno tra cinquant'anni. Immagino che per i morti lo scorrere del tempo sia un concetto pleonastico...»

Judy, a braccetto e riparata dal mio ombrello, sospirò; da quando avevamo varcato il cancello del cimitero del Santo Sepolcro non aveva più placato la sua parlantina. Ma l'avevo lasciata fare; immaginavo che fosse un espediente per riempire il silenzio assoggettante che si calava tra le lapidi. L'assenza di rumore, in effetti, era uno spettro che metteva più paura del paragone stesso.

«L'ultima volta che ci ho messo piede è stato per il mio papà. Buon'anima... Il cancro non gli ha mai permesso di arrivare ai settanta. Ma si sa, le malattie non guardano in faccia a nessuno.»

«Mi dispiace, Judy» le riferii sinceramente dispiaciuta, lo sguardo sulla compatta distesa di pietrisco, scurita dalla pioggia.

Judy alzò il viso, mi guardò per un secondo. Poi assottigliò le labbra, già affusolate di per sé. «E a me dispiace vederti così triste, ragazza mia. Triste e distante. Cos'è accaduto?»

Preda della malinconia più profonda, spostai l'attenzione sul prato che abbracciava il percorso da ambo i lati, e che per la pioggia pareva ricoperto da un lucido rivestimento di pellicola. Oltre alle lapidi dalla punta concava, ne svettava qualcuna dalla prominente croce di pietra.

Poco più in là, la statua di un angelo a mani giunte.

Accade che anziché impormi, scappo. Accade che mia sorella mi ha riempita di bugie per anni, accade che ha fatto cose terribili, eppure continuo a nascondermi da lei, come se la colpevole fossi io, e continuo a mentirle, ad avere paura della sua presenza, che mi faccia qualcosa di male. E, ancora, accade che non ho il coraggio di parlarne, di dire basta.

Ho paura di essere libera.

«Riflettevo.» Rallentai il passo e scavalcai una buca, così anche lei, saldando ancor di più la presa attorno al mio braccio. «C'è questa situazione scomoda che sto vivendo a causa di mia sorella, ma mi manca il coraggio di allontanarmi, di compiere una scelta così... estrema.»

«Estrema e difficile.»

«Forse più difficile che estrema.»

«È complicato allontanarsi, specie se quella persona ha significato qualcosa di importante.» Un tuono brontolò lontano. «Finisci per essergli riconoscente a vita, e quando un bel giorno decide di farti del male, dimentichi cosa voglia dire farsi rispettare. Dimentichi che quella persona non è intoccabile, ma soprattutto dimentichi che è umana, e come tale può anche essere cattiva.»

«Ti riferisci a tuo marito?»

Ci pensò e poi annuì, tra le grinze che solcavano il suo volto affiorò una tristezza che correva a pari passo della mia. «Sto scappando anch'io. È da più di vent'anni che scappo, Ophelia, che migro da un quartiere all'altro di Filadelfia, che faccio la fame, che frequento rifugi e mense per i poveri. E sai quando capisci di aver toccato il fondo? Quando questa vita la preferisci a quella di prima: quella dove avevi un letto, un mutuo da pagare, le chiacchiere coi vicini.»

Quotidianità, vivere senza aver paura della tua famiglia.

Manca tutto quanto anche a me, Judy.

«Però» disse, il che mi portò a guardarla. «Voglio mettere un freno a questa fuga. È durata anche abbastanza, non credi pure tu?»

«Cosa intendi?»

Mi obbligò a fermarmi, attorno a noi continuava a scendere una pioggia pigra, il panorama circondato da un velo nebbioso. Judy fissò una donna con a braccetto la madre ingobbita; si soffermarono davanti a una lapide, anche loro in compagnia di un ombrello e dei fiori che avrebbero sostituito quelli già presenti. Potevano essere la perfetta proiezione di noi due.

«Intendo dire che trovare questo rifugio è stato un miracolo, sia per me che per la tua amica Rica. Ne esistono pochi a fornire un servizio così attento, ma soprattutto con un'assistenza ben mirata. Una volta non era così. Si contavano sul palmo di una mano.» Si schiarì la gola, e i capelli che le arrivavano al mento, sottili e brizzolati, vennero scombinati dal vento. «Voglio ricominciare, Ophelia. Quella era casa mia, avevo il diritto di rimanerci, di lottare per i miei diritti, di sporgere denuncia... Ma quando hai paura, la tua unica priorità è la sopravvivenza.» Riprendemmo a camminare, mentre le sue parole trovavano un incastro inaspettato con ciò che stavo vivendo. «Ho partecipato a una seduta psicologica. Terapia di gruppo, molto carino. Ho ascoltato le storie di altre donne che hanno subìto violenza domestica dai loro mariti, che son scappate come me, e ho raccontato la mia. Sai che quel rifugio fornisce assistenza legale?»

«Ma è fantastico» espressi con un velo di stupore. «E hai deciso di...?»

«Sì.» Rise sommessamente, a bocca chiusa. «Non ho idea di come funzionino queste cose, non ho nemmeno idea se sarà fattibile. Ma hanno parlato di avvocati pro bono, di come potrebbero mettermi in contatto con uno di questi studi legali, di come potrebbero aiutarmi a presentare i documenti in tribunale... Insomma, una piccola speranza pare che esista.»

«Che bello.» Sorrisi. «Ti auguro davvero di riprenderti la tua libertà.»

«E io lo auguro a te, come lo vorrebbe anche tua madre.»

Mi fermò proprio quando giungemmo alla sua lapide.

Sola, anonima; senza foto, i crisantemi un mazzo avvizzito chino in se stesso.

«Grazie, a proposito, per avermi portata da lei» disse Judy, mentre mi inginocchiavo a sostituire i crisantemi con un mazzo di ciclamini. «Era da una vita che volevo vedere dove avessero seppellito le sue ceneri. Qui non è male, almeno sta all'aria aperta.»

«Vero.» Infilai i crisantemi in una busta di plastica che sfilai dalla borsa, mentre Judy reggeva l'ombrello. «Per fortuna che il personale del rifugio non ha fatto molte storie e mi ha concesso di portarti via per un po'. Dimenticavo quanto fossero restii a farlo.»

«Questo dimostra quanto sono prudenti. Ma poi sei una faccia abituale là dentro, e non proprio una sconosciuta.» Si accostò accanto a me, allungando un po' di più l'ombrello sopra la mia testa, così che evitassi di bagnarmi. «Anche Rica sarebbe venuta, giusto per cambiare aria. Fino all'altro ieri se ne lamentava. Ma nelle sue condizioni hanno preferito lasciarla dentro. Giusto.»

«Senza contare che stamattina le era salita un po' di febbre, di nuovo... Me l'ha riferito la ragazza che le ha fatto fare tutti gli esami prenatale.» Con un guanto infilato alla mano, spolverai la base della lapide da tracce scivolose di fanghiglia. «Quanto manca, a proposito?»

«Tre settimane, più o meno.»

Terminato di pulire, stetti china sui talloni a fissare la data di decesso. «Questa polmonite non ci voleva proprio, non con un bambino in grembo... e gliel'hanno diagnosticata solo da quando è lì. Si porta dietro questa tosse dall'estate scorsa, credo, magari anche di più.» Un lieve sospiro, in cui trattenni ogni mio timore. «Spero solo che la cura antibiotica faccia subito effetto.»

Sentii una rassicurante stretta alla spalla.

Voltandomi, Judy mi rivolse un sorriso dolce, che sapeva di "Tranquilla, è in buone mani".

Quando tornai in piedi, la vidi tastarsi la tasca del giubbotto.

«Sai» disse, stringendo gli occhi in un'espressione concentrata, la mano che si muoveva nella tasca. «Ho una sorpresa per te, così ti faccio sorridere un po'. O almeno, è quello che io spero.»

Tirò fuori un foglietto ingiallito, ripiegato su se stesso.

Si era ridotto a un quadrato minuscolo.

Sollevai le sopracciglia. «Cos'è?»

«Qualcosa che mi ero scordata di darti per il tuo compleanno. L'avevo ritrovato in fondo al mio zaino, non credevo nemmeno che esistesse ancora, in verità.» Me lo tese, con un sorriso. «Spero ti piaccia. E se ti dicessi da quanti anni conservo questo pezzo di carta, beh, ti metteresti a ridere.»

Sempre più confusa, accettai il regalo.

La pioggia, intanto, aveva intrapreso una piega più fiacca. Qualcuno, alle nostre spalle, ci oltrepassò e produsse rumorosi scalpicci sul pietrisco umido.

Posai la busta di plastica a terra e, afferrata da una strana trepidazione, cominciai a schiudere quel foglietto, come un tulipano farebbe durante la primavera. Non appena mi interfacciai con un disegno a matita, mi concessi un attimo per elaborarlo nella sua interezza.

Judy mi affiancò. «Indovina, coraggio.»

Strinsi le labbra, poi mi uscì un sorriso involontario, incredulo, e poi uno spasmo di risata.

Mi coprii la bocca. «Non è vero...»

«E invece sì, quella è la tua mamma.»

Il sorriso, se possibile, si allargò ancor di più, nonostante il palmo che lo copriva e le lacrime che salivano: il disegno ritraeva Judy e mia madre sedute l'una accanto all'altra, per terra, sopra a una coperta spiegazzata. Labbra incurvate all'insù, fissavano davanti a sé, quasi si trovassero al cospetto dell'obiettivo di una vera macchina fotografica. Lì vicino, degli oggetti che sfumavano con eleganza: due lattine in cui immaginai racimolassero il denaro, una bottiglia di birra, lo zaino da trekking di Judy da cui pendeva un portachiavi a forma di delfino, i cartoni impilati a lato di mia madre. Negli spazi vuoti, le impronte grigie di chi aveva realizzato il disegno, tracce di polpastrelli che donavano credibilità a quel reperto, segno che era qualcosa di reale.

«All'epoca, ti parlo degli anni Novanta, mi ero aggregata a un gruppo di senzatetto in prossimità di quel vecchissimo ospedale psichiatrico che hanno demolito solo qualche anno fa, il Philadelphia State Hospital, a Byberry. Era gente problematica, qualcuno non stava tanto bene di testa, ad altri mancava persino un arto, ma alla fine era innocua. La tua mamma si era unita a noi da poco. Sicuramente un posto più sicuro di Kensington.»

Cercai di memorizzare ogni minimo dettaglio di quel ritratto approssimativo su mia madre; il caschetto spettinato che le sfiorava le spalle, la riga al centro, la fronte scoperta, gli occhi ridenti, incurvati a due sottilissime dune, il neo sopra al labbro, un piumino di almeno due taglie più grande, il cappuccio giù. Una ragazzina, nemmeno maggiorenne. E mi portava già in grembo.

«L'ha disegnato un giovane. Poco loquace, tossicodipendente, probabilmente si era preso una cotta per lei, ma aveva questo talento incredibile. Povero ragazzo... Talmente disperato di trovare un posto caldo da aver aggredito un uomo per strada. Persino una cella diventa allettante quando ti ritrovi a dormire in mezzo alla neve. Quell'anno era scattato il codice blu.»

La voce di Judy era ridotta a un ronzio. Non la sentivo. Perciò annuii appena, talmente concentrata su quel sorriso timido, le dita ossute, le braccia che avvolgevano le gambe piegate, il volto spaventosamente spigoloso, che immaginavo fosse più "pieno", un tempo.

«Questa è...» Ma non riuscii a terminare la frase, l'emozione me lo impedì; abbassai il foglio e avvolsi un braccio attorno al collo di Judy, stringendola forte a me, lei che rideva piano. «Questa è la cosa più vicina a un'immagine su mia madre che abbia mai visto.»

«Lo so.» Mi accarezzò dolcemente la schiena. «Posso solo immaginare che tipo di sconforto provavi nel non sapere neanche che viso avesse... Ma poi ho trovato questo e ti ho pensata.»

«Grazie.» La abbracciai a occhi chiusi, sussurrando: «Grazie».

Cominciammo a incamminarci verso l'uscita mentre ero ancora intenta ad asciugarmi le guance provate, e a braccetto di un pensiero che sapeva di speranza: la mia mamma biologica aveva un volto, ora, dei lineamenti veri, seppur non proprio precisi, in alcuni punti spiegazzati, o rovinati da tracce d'acqua essiccate, ma contribuiva a darle un'identità meno sbiadita, identità che troppo a lungo era rimasta incompleta nella mia mente, orfana dell'immaginazione.

Quel disegno si era rivelata la sua nuova genitrice.

E io l'avrei adottata nel cuore, senza mai più lasciarla.













Quando tornammo al rifugio, aveva smesso di piovere. Lanciando un'occhiata all'orario del quadro, fui sollevata nell'aver rispettato le tempistiche che mi avevano raccomandato.

"Massimo un'ora", le parole della segretaria appena mi aveva porto il foglio delle presenze. Anche se mi conosceva bene da sapere che non fossi una persona poco raccomandabile.

Oltre il parabrezza, tuttavia, ancor prima di spegnere il motore, avvistai un insolito fermento all'interno dell'edificio; aguzzando la vista, oltre la porta a vetri riconobbi i membri del personale davanti al banco della segreteria. Uno di loro aveva il telefono all'orecchio.

Aiutai Judy a scendere. «Secondo te che succede?»

«Bah, il solito: problemi organizzativi, problemi di comprensione generale, la macchinetta del caffè che non funziona, qualche volontario incompetente... Forse hanno terminato i posti letto per i nuovi arrivati, cosa che nell'effettivo vera, visto che di recente li ho sentiti lamentarsene.»

Varcate le porte, il brusio si trasformò in un vero e proprio turbinio di voci e squilli del telefono in cui mi trovai risucchiata all'istante. Una giovane ragazza del personale dall'espressione non proprio tranquilla e un piercing alla narice schiacciava il naso alla vetrata della segreteria, suggerendomi che stesse aspettando una risposta. Un po' come tutti gli altri, del resto.

Judy, nel frattempo, mi salutò con una carezza al braccio e si allontanò. Io decisi di avvicinarmi al banco tappezzato da dépliant colorati e foglietti informativi circa orari e politiche da rispettare. Cercai di capirci qualcosa, ma vista la calca non potei fare tanto.

Picchiettai un dito sulla spalla della tipa col piercing.

Si girò bruscamente. «Sì? Veloce.»

«Scusami, ma è... successo qualcosa?»

«Aspetta.» La tipa alternò occhiate leste da me alla donna, che con una mano stringeva la cornetta all'orecchio e l'altra la alzava a mo' di esortazione a calmarsi. Tornò su di me, apprensiva. «Poco fa una delle donne a cui facevo fare un po' di meditazione preparto è entrata in travaglio e ha perso i sensi. Abbiamo chiamato l'ambulanza, e adesso stiamo cercando di metterci in contatto con l'ospedale per sapere delle notizie e capire come muoverci...»

Persi un battito nel sentire "donna" e "travaglio".

Rica non era l'unica donna incinta, là dentro, però...

«La... la donna in questione si chiama Rica?»

Improvvisamente, l'agitazione mi impedì di respirare.

«Non ricordo. Però aveva la carnagione mulatta, i capelli ricci, e...»

«L'ospedale.» Cominciai a indietreggiare prontamente verso l'uscita. «Quale ospedale? Dove l'hanno portata? Ci vado subito.»

Appena pronunciò "Hospital of the University of Pennsylvania" neanche mi premurai di ringraziarla per l'informazione; mi fiondai alle porte e, facendomi largo tra i passanti, corsi alla macchina.













L'assenza di traffico mi aveva permesso di raggiungere l'ospedale in meno di quindici minuti. L'Hospital of the University of Pennsylvania, madre delle altre sei sedi ubicate nella zona universitaria, si presentava come un massiccio fabbricato di cemento scolorito e code di finestre, simili a larghe arcate dentali.

Non l'aver messo in conto il parcheggio sotterraneo affollato e l'ascensore fuori servizio mi aveva fatto perdere ulteriore tempo. Una brusca manata al volante era stata necessaria.

All'accettazione, per il fiato corto e i muscoli delle gambe in procinto di cedere, avevo dovuto prendermi qualche secondo prima di formulare un discorso decente e in lingua corretta; durante la spiegazione, la signora aveva annuito diverse volte, alzato la cornetta del telefono, recuperato un modulo, scritto qualcosa in matita su un post-it giallo, e poi mi aveva chiesto i documenti identificativi, giusto per assicurarsi avessi più di sedici anni per girare nel reparto di ginecologia senza accompagnamento.

Non avevo avuto le energie per prendermela.

Appena mi era stato comunicato il piano della sala d'attesa, ero corsa a imboccare le scale a due a due. A destinazione, a parte un uomo stravaccato sulle panche di metallo, una coppia anziana che stava uscendo, e un triste distributore di zuccheri all'angolo, non esisteva altro a donare colore a quell'ambiente così scialbo e asettico. Il nervosismo, simile a un brulicare di termiti sotto la pelle, mi aveva obbligata a marciare avanti e indietro per i corridoi.

Non avevo ancora smesso.

Appena mi sedevo l'impazienza diceva no, e di conseguenza tornavo ad alzarmi, a torcermi le mani mentre vagavo come un'anima in pena, a curiosare le targhette sulle porte, a cercare di indovinare dove fosse Rica. L'olezzo del disinfettante mi disturbava, ma di più la visione di quelle che immaginai fossero delle ostetriche, donne in camice blu, guanti e cuffie chirurgiche.

Entravano e uscivano, silenziose come spie e a una velocità ammirevole. Era una tortura interiore assistere a una simile solerzia senza che nessuna di loro passasse dalla sala d'attesa, così che potessi cogliere l'occasione al volo per chiedere aggiornamenti su Rica. Ma quando sparivano dietro le porte, la quiete, compromessa da brusii lontani e l'incedere sbrigativo di alcune barelle, tornava a regnare come una presenza che non prometteva nulla di buono.

Tirai fuori il telefono.

Una parte di me si rifiutava di importunarlo.

Non voglio farlo, però ho bisogno di sentirlo.

Premetti lo schermo all'orecchio, mentre puntellavo i gomiti sulle ginocchia e mi maledicevo. Strinsi la radice del naso con l'altra mano, il piede che picchiettava un ritmo incalzante e veloce.

Sospirai, appena giunse un mormorio allegro: «Ehi».

«Ehi, ciao.» Stetti china, le palpebre calate. «Che fai?»

«Di sicuro non lavorare. Con serietà, almeno.» Simulò una risata fiacca. «Stavo cercando una scusa per fare una pausa da questa "cosa" che sto graficando. L'autore vuole lame, fiamme e un font terribile, ma pazienza. Finché mi pagano posso anche sopportare la visione di un drago con un gonnellino di tulle.»

Sorrisi.

«Bello.» Voltai la testa, ma nessuna infermiera venne qui. «Forse mi aiuterebbe vedere un drago con un gonnellino di tulle.»

«Non tentarmi, ragazzina, che ho già perso abbastanza tempo.» Rise, ma non ricevendo una risposta, aggiunse morbido: «E come mai ti piacerebbe vedere qualcosa di così stupido e insensato?»

Scrollai le spalle, convinta mi potesse vedere.

«Niente, così.» Fissai il pavimento lucido. «Per ridere.»

«Che succede?»

Ogni traccia di sarcasmo sparì.

«No, nulla.» Mi massaggiai la fronte, sospirando. Da quando ero arrivata non facevo che sospirare. «Scusa, non volevo disturbarti. Sono io che non ho nulla da fare e che sto-»

«Ophelia, dimmi» mi interruppe. «Sono serio.»

Tornai a rilassarmi contro lo schienale freddo, le gambe distese. Anche se "rilassare", forse, era il termine sbagliato. «Sono in ospedale.»

«Ma che stai dicendo?» si allarmò. «Che ti sei-»

«Non per me. Io sto bene.» Mi grattai il ginocchio; lo feci fin troppe volte. «Rica, la donna di cui ti avevo parlato. È stata portata via dall'ambulanza. È in travaglio... e ora sono qui, ad aspettare.»

Calò il silenzio.

L'uomo di fronte, intanto, si era alzato per prendere qualcosa al distributore. Per ammazzare il tempo, supposi. Forse l'attesa stava uccidendo anche lui. A orecchio teso, colsi le strilla di un neonato.

«Sono preoccupata per quel bambino» confessai. «Tanto, Des.»

«In quale ospedale ti trovi?»

«Lo stesso dove lavora tuo fratello.»

«Il padiglione principale? 3400 di Spruce Street?»

«L'altro, quello vicino, sulla Civic Center Boulevard.» Mi schiarii la gola. «No, però non venire qui, per favore. Non voglio.»

«Ok, va bene.»

Nella sua lingua, tradotto: "Credici".

Infatti, più tardi, mentre riprendevo in mano il disegno di Judy con l'intento di coglierci particolari sempre nuovi, spuntò la sagoma di Desmond imboccare il corridoio. Spuntò all'improvviso, come un miracolo. Spaesato, lo sguardo che mi cercava e rimbalzava qua e là al pari di una pallina del flipper. Fra lunga giacca nera e pantaloni scuri era il ritratto di un'ombra.

Appena mi vide mostrò un lieve sorriso.

Mi trovai costretta a ricambiare.

«C'è dell'ironia in tutto ciò.» Col fiatone, prese posto accanto a me, il braccio che andò a circondarmi le spalle; mi stampò un bacio alla tempia. «Speravo di correre qui in altre circostanze.»

Mi abbandonai alla sua spalla, piegando il disegno in due.

«Ti avevo detto che...» Ci ripensai. «Perché?»

«Mi son preso la libertà di fare una pausa da quel coso che dovrebbe spacciarsi per "copertina di un high fantasy". Ancora un altro po' e avrei usato la finestra per azioni moralmente sbagliate.» Le sue labbra compirono una strana e lentissima danza sulla mia tempia e le sue dita si infilarono tra le mie, che ancora reggevano disegno; ero così assuefatta da quelle carezze che mi accorsi di averglielo ceduto con qualche istante di ritardo. «E poi ricordo che era una questione che ti stava particolarmente a cuore. Non ti avrei lasciata comunque da sola.»

Non mi restò che chiudere gli occhi e assaporare l'effetto di quella piccola dichiarazione. Avevo perso il conto di quante volte lo avessi ringraziato. Ero convinta che non fosse mai abbastanza.

«Cos'è?» chiese, spalancando il foglio.

«Me l'ha regalato Judy.»

Appiattì la carta dai bordi, stirandone le numerose pieghe.

«Potrei dire che sei tu, ma non hai i capelli corti.»

Sorrisi. «Beh, mi rallegra sapere di somigliarle.»

Si concesse qualche secondo per riflettere sulle mie parole, il pollice che strofinava pigramente sul bordo, per poi pronunciare a voce bassa: «Immagino che questo sia un ritratto di tua madre».

«Quando me l'ha fatto vedere mi son messa a piangere come una bambina. Non sarà un disegno preciso, magari non rispetterà al cento per cento i suoi tratti, però ora che ho questa idea di lei-»

Una porta sbatté.

Un'ostetrica si stava versando del disinfettante tra i palmi. Se li strofinò velocemente mentre avanzava verso di noi. A quel punto, le ginocchia si ridussero a due sacchi di gelatina. Conservai il disegno in borsa e drizzai la schiena. Desmond mi imitò, togliendo il braccio dalle mie spalle.

Tuttavia, la delusione fu indescrivibile non appena si fermò a pochi passi da quell'uomo, che nel frattempo era tornato a sedersi.

Mi rassegnai ad appoggiarmi nuovamente alla spalla di Desmond, mentre osservavo i due parlarsi sommessamente; dalla breve chiacchierata saltò fuori che era il fratello di chiunque fosse andato a trovare, e che il marito di sua sorella era imbottigliato nel traffico.

Prima che venisse accompagnato dalla donna , la stessa si rivolse a noi.

Da vicino, constatai avesse dei palesi lineamenti orientali.

«Voi siete qui per...?»

Le riportai dettagliatamente una descrizione di Rica, da quale rifugio arrivasse, quanto tempo prima era stata portata via dall'ambulanza. L'ostetrica meditò per un lasso di tempo indefinito, annuì con poca convinzione, gli occhi a mandorla che si assottigliavano a ogni parola.

Si assentò, poi, promettendo di riferire tutto alla responsabile.

Passò un'ora prima che potessi distinguere la suddetta; dai capelli sistemati in un caschetto biondo cenere e un camice bianco che compiva svolazzi a ogni passo spedito, tanto da farlo sembrare l'ala di una farfalla, la signora camminava reggendo un dossier, gli occhiali che le scivolavano sul naso. Le conferivano un'aura severamente professionale.

Io e Desmond ci alzammo in sincronia.

Davanti a noi, abbozzò un sorriso e si schiarì la gola. Dal tesserino identificativo, agganciato appena sopra il taschino del camice, all'altezza del seno, spuntava "Dr.ssa Jane Miller".

«Siete parenti?»

«Amici» ci uscì in coro, ma poi presi parola io. «Rica non aveva nessun altro su cui fare affidamento... Da quel poco che so, il motivo per cui è finita in strada è stato il compagno.»

«Sì, abbiamo contattato il rifugio per avere un quadro più completo circa la storia clinica e familiare. Lei disoccupata, lui operaio, gravidanza non programmata, rinuncia all'aborto, il compagno che se ne va, infine lo sfratto. Equazione frequente, per quanto triste.»

Annuii lentamente, il labbro preda dei miei tormenti.

Feci un passo, fremendo, sperando. «E il... bambino?»

Non aveva ancora alzato il viso corrucciato dal dossier sanitario, il cipiglio che mi suggeriva stesse analizzando con la massima cura qualsiasi cosa ci fosse riportato. «Bambina. È una lei.»

Internamente, repressi un sussulto di meraviglia.

Con stupore, guardai Desmond e di nuovo la dottoressa.

Lei, tuttavia, non tradiva alcun sorriso, nonostante dal tono trasparisse un sottilissimo sollievo. «Sarò franca: ha rischiato molto, considerando che la madre non godeva di ottima salute... Polmonite, corretto?» Annuii. «Uno dei motivi per cui quella donna ha partorito con tre settimane di anticipo, o giù di lì. Un parto prematuro è già di per sé estremamente delicato, senza contare che durante il travaglio abbiamo riscontrato due problemi: la bambina in posizione podalica, ossia quando la testa si trova in alto, anziché in fondo all'utero, e un anomalo distacco della placenta.» Assottigliò le labbra, il dossier che teneva con entrambe le mani stette giù, sulle cosce. «Il che ha provocato un sanguinamento interno all'utero. Siamo stati costretti a passare a un cesareo d'urgenza, o la bambina non sarebbe nemmeno qui.»

Inavvertitamente, la mano di Desmond si posò sulla schiena. Forse si era sentito in dovere di placare il martellare del mio cuore.

È stata davvero miracolata.

«Sta bene?»

Fu il massimo che riuscii a formulare.

«Per il momento sì. Attualmente è in terapia intensiva neonatale: il mio team sta monitorando la respirazione, la frequenza cardiaca, a breve procederemo con l'ecocardiografia» spiegò con grande pazienza, dietro alla quale, però, constatai anche dell'umana apprensione. «Test più specifici, quali screening alla retina, all'udito, e di altro tipo, li faremo fra qualche settimana.»

«Va bene.» Ingoiai un bolo d'ansia mentre elaboravo quella serie di informazioni; tuttavia, fu un peso che vidi elevarsi e dissolversi, anche se... Alzai lo sguardo. «Posso vedere Rica?»

Le rughe che le increspavano gli occhi azzurri si distesero con uno schiocco di dita. Assenza di espressione, un ripristino improvviso. Il distacco che aveva mantenuto fino ad allora, tipico di chi, in un mestiere simile, ha imparato a non prendersi carico del dolore altrui, venne sostituita da una dolcezza dal sapore amaro.

Lanciò un rapido sguardo a Desmond, e poi a me. Infine, allungò una mano e mi strinse piano il braccio. Una stretta affettuosa, durò un secondo, bastò per esortarmi a seguirla.

«Vieni, cara. Andiamo a sederci nel mio ufficio.»

La mano di Desmond non mi abbandonò mai.





















Una parte di me l'aveva immaginato.

Per mesi, avevo cercato di respingere quel terribile presagio. D'altra parte, era sempre stata la logica a fare la voce grossa e a vincere quel dibattito mentale che, dall'estate precedente, mi aveva iniziato a tormentare, dove false speranze e speranze disperate, a volte anche ingenue, erano state le concorrenti a contendersi la causa: lo stato cagionevole di Rica.

La dottoressa Miller, alla scrivania, mi aveva stretto le mani come una nonna affettuosa. Le labbra secche, imporporate da un anonimo rossetto carne, si erano mosse con cautela, spiegandomi ogni dettaglio con un tatto incredibile. Ero convinta credesse che fossi rimasta in ascolto. In realtà, avevo afferrato solo una minima parte del suo discorso. L'essenziale. L'emorragia imprevista e il "Abbiamo fatto il possibile". Il resto, ossia gli spazi a puro scopo riempitivo e farciti da termini clinici di cui ignoravo l'esistenza, era stato ostacolato da un sottilissimo ma persistente ronzio, tipo i televisori dal segnale di trasmissione disturbato.

Se provenisse realmente fuori dalle mura dell'ufficio, o se fosse stata la necessità della mia immaginazione per impedirsi di ascoltare quelle argomentazioni spinose, non lo volli sapere.

Quando mi aveva lasciata andare, non senza un'ultima carezza materna, non avevo versato una lacrima. Peggio ancora fu realizzare che quel poco che ero avrei potuto espellere non sarebbe stato rivolto a Rica. C'era troppo per cui mettersi a piangere, ma era come se quell'insieme di cose fosse improvvisamente imploso, in silenzio, seguendo lo stesso meccanismo di una stella all'ultimo stadio di vita: al suo posto il vuoto, un buco nero che aveva risucchiato via tutto.

Mi ero sentita una brutta persona.

Tuttavia, non mi ero lasciata sfuggire l'occasione di vedere la bambina; l'ostetrica di prima, la ragazza dai tratti orientali, mi aveva accompagnata fornendomi di copri scarpe, camice ospedaliero e mascherina. Si era pure premurata che mi disinfettassi le mani.

Desmond aveva preferito non interferire e si era offerto di tenermi giubbotto e borsa, restando in corridoio; avendo avuto la febbre soltanto di recente non se l'era sentito di avvicinarsi a un bambino così fragile e non proprio sano, collegato alle apparecchiature di un'incubatrice.

Dentro la stanza, c'era la stessa quiete che immaginavo sempre ci potesse essere sulla luna. Se non fosse per i bip dei monitor. La neonata, protetta da quella piccola vasca trasparente munita di buchi, era l'essere più piccolo che avessi mai visto; occhietti chiusi, le pieghe delle palpebre gonfie, marcate. Le infondevano un'aggressività fuori luogo. Non era da biasimare: poche ore di vita, e già il mondo non si era fatto scrupoli a strapparle via una parte essenziale della sua vita, un'ala vitale, senza la quale difficilmente sarebbe sopravvissuta. Non senza sentirsi incompleta.

Incompleta, e difettosa.

Avevo guardato l'ostetrica. Ricevuto il consenso con un cenno del capo, avevo infilato gentilmente la mano in uno di quei buchi: l'indice sfiorò le punte delle sue dita, sottili e secche, pareva di toccare un rametto. A quel contatto, si mossero per un nanosecondo. Una reazione, un tremolio, un sussulto di vita. Diceva "ci sono". Bastò per avvertire le lacrime accumularsi in gola.

Arricciai l'indice, così da accarezzarle i polpastrelli, le unghie finissime, la carnagione leggermente mulatta, più chiara rispetto alla madre, ma compromessa da alcune aree dalla tonalità giallognola. Mi fece pensare a una fotografia datata, e per questo molto fragile.

Strinsi le labbra in una smorfia sofferente.

Non è giusto.

«Posso...» Mi schiarii la voce. «Posso prenderla in braccio?»

«Lo sconsigliamo, ma puoi continuare a toccarla» disse la ragazza, mentre passavo ad accarezzare lentamente la testa della bambina, in un punto sopra l'orecchio, dove una peluria scurissima fu in grado di farmi il solletico. «Direi che è una piccola guerriera.»

Annuii, con un sorriso triste.

«Ha un nome?»

Lei stette in silenzio per un po', quasi l'avessi messa in una posizione scomoda. «Non ha potuto farlo... Mi dispiace tanto.»

«Cosa le succederà?»

Mantenere un tono impassibile fu complicato.

Si avvicinò ai piedi dell'incubatrice, affiancandomi, e controllò sia il saturimetro al piede, sia la flebo che le avevano infilato alla mano, sotto le nocche, l'ago fissato da un cerotto trasparente. Poi fissò il monitor poco più a lato che segnalava le pulsazioni, la temperatura corporea. «Ci prendiamo cura di lei finché non avrà raggiunto un livello di salute rispettabile. Dopodiché se ne occuperà il Dipartimento dei Servizi Umani di Filadelfia... Prenderanno in carico la bambina e poi ci penseranno loro a cercargli una sistemazione adeguata.»

La mia stessa procedura, alla fine.

«Certo, capisco.»

Mi posò una mano sulla schiena. «Non ti preoccupare. Sarà comunque in un posto sicuro.»

Lo spero. Continuai ad accarezzarle la testolina in movimenti blandi, quasi sperassi che percepisse un'aura di conforto da parte mia, che non era sola, che sì, il calore di un'incubatrice non poteva sostituire quello di una madre, ma che se fosse stata fortunata quanto lo ero stata io, ne avrebbe trovata un'altra all'altezza, capace di colmarne il vuoto. Quando la bambina schiuse quelle labbra sottili, in una sorta di risposta, capii che sarei crollata se non me fossi andata.

Di corsa, restituii il camice e abbandonai la stanza.

Desmond non si era mosso da dove l'avevo lasciato; il mio giubbotto arrotolato tra le sue braccia, la schiena appoggiata svogliatamente alla parete immacolata. Puntava uno sguardo indecifrabile poco lontano, in direzione delle vetrate del reparto maternità, dove genitori e parenti andavano a osservare i bambini nelle culle.

Si accorse di me solo quando mi infilai tra le sue braccia, mormorando un "Ehi". Ci impiegò qualche istante prima di abbracciarmi. Ma non disse nulla; ci chiudemmo in un silenzio più asettico di quell'ambiente. Immaginavo avesse capito dalla mia necessità di nascondermi, come un passero tra le foglie, che la voglia di esprimere pensieri sull'accaduto fosse pari a zero.

«Torniamo a casa?» domandò non appena mi sentì tirare su col naso. Subito, percepii il suo pollice accarezzarmi dolcemente il mio fianco.

Voltai la testa, incapace di proferire parola, gli occhi che pizzicavano, e feci aderire la guancia al suo petto, un debole palpitare che ebbe lo stesso effetto delle pacche di conforto sulla spalla; quel mucchio di gente, adulta e anziana, che fremeva di vedere il proprio bambino, che se ne stava lì a puntare l'indice e a stamparsi sorrisi entusiasti e a lanciare ipotesi affrettate su chi assomigliasse di più, contribuì a farmi sprofondare ancor di più in una fossa di sconforto.

Ingoiai un sospiro tremante, e sussurrai: «Sì, ti prego».


















ANGOLO AUTRICE

Buonasera, nightingales! 🕊️

La primavera si fa sentire? L'allergia pure?
(Team inverno tutta la vita, mi dispiace)

Come avrete notato, questo capitolo riprende (più o meno) il titolo del precedente. Lo scorso era Pianeta Natale, e questo Pianeta Orfano. Due significati all'opposto, nel primo vige un'atmosfera dolce, di calma piatta. Nel secondo, invece, c'è un'atmosfera amara, a tratti sofferente.

Un po' si era capito che Rica non sarebbe sopravvissuta al parto; ma per fortuna, la bambina sì. Anche se "fortuna" è un parolone: crescere senza il suo genitore non sarà semplice. E per Ophelia, mettersi nei panni di un esserino così fragile, non ha richiesto neanche tanto sforzo.

Mi si spezza il cuore, lo ammetto.







Questions:

▪️ Mamma di Ophelia; ci tenevo tanto che Ophelia, prima o poi, sapesse com'era il vero volto della madre, visto che fino ad ora non era mai riuscita a trovare nemmeno una fotografia. Così me la sono giocata in questo modo: con un reperto vecchissimo, un disegno a matita di un senzatetto, ma che per la ragazza ha lo stesso valore dell'oro. Cosa avete pensato della scena?

▪️ Secondo voi la bambina, chiamiamola pure la sopravvissuta, ma senza cicatrici sulla fronte, ha/avrà un qualche tipo di incastro con le vicende? C'è un filo rosso, o no? 👀

Il prossimo capitolo sarà...
AHAHAHAHAHA
Ahahahah
Ah...

Never mind. Lo scoprirete.
Vi voglio bene. 🤍





Playlist:

Places We Won't Walk - Bruno Major (prima parte)

Son - Warpaint (seconda e metà terza parte; fino a quando lei non chiama Desmond)

We'll be fine - Luz (Quarta parte)

Instagram: The_blackcatshadow

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