31. Pianeta natale
Pianeta natale
Quella notte decisi di offrire a me stessa una boccata d'aria, riducendo il mondo esterno a un pianeta lontano, estraneo, inutile appendice di quello in cui avevo deciso di rinchiudermi a chiave.
Tra le braccia di Desmond esisteva un astro a parte, visitato di frequente e mai con attenzione. L'occasione di averlo accanto mi diede la possibilità di esplorarlo da cosmonauta che a lungo aveva cercato la via di casa; realizzai che quel posto era quanto di più vicino a una terra natale ci potesse essere.
Scoprii che i suoi respiri non seguivano mai dei ritmi regolari; alcuni erano profondi, altri spezzati, eppure sempre silenziosi, quasi cercasse di non rappresentare un disturbo, l'ennesimo rumore nella mia testa. Il palpitare del suo cuore contro la fronte aveva un che di confortante; era un giocoso bussare, chiedeva il permesso di infilarsi pure laddove il mio, di cuore, aveva esaurito lo spazio. Con le sue dita sulla curva del bacino diventavo battigia; tra uno sfioramento e l'altro i polpastrelli si infilavano in quella striscia di carne lasciata esposta dal maglione, e quasi capivo come si sentisse la sabbia a venir toccata dalle onde durante la calma piatta del mattino, con quell'indolente e provocatorio avanti e indietro.
Tuttavia, prima che riuscissimo a fare le persone serie e a separare le nostre labbra, la lancetta delle ore si era concessa un ulteriore giro extra; difficile impedirgli di baciarmi ogni volta che mi ritraevo, difficile smettere di assecondarlo, di ricambiare con uno stupido sorriso.
Non una parola, tra di noi, solo qualche rauca risata trattenuta in gola e le molle del letto che gemevano a ogni buffo e inefficace tentativo di allontanamento.
Poi, accadeva che Desmond interrompeva i giochi e tornava composto sulla sua metà di cuscino, con un braccio piegato sotto alla testa e l'altro comodamente adagiato sulla mia vita. Serio, si concedeva qualche secondo per guardarmi; pace, adorazione e qualcosa di molto simile alla malinconia attraversavano il suo sguardo come luci di una galleria in corsa. Dopodiché posava la mano sulla mia guancia, il pollice che accarezzava, le altre dita che premevano sulla nuca.
Complice la pesante botta di sonno in arrivo, ricordavo solo di aver chiuso e aperto gli occhi a una distanza sempre più ravvicinata, i tratti di Desmond sempre meno chiari, le sue labbra che sfumavano, diventando un tutt'uno con la sua carnagione.
«Cosa guardi?» avevo sussurrato in quell'ultimo frangente di lucidità, le palpebre abbassate, ormai sconfitte.
Lui aveva proseguito con quelle carezze per un altro po'.
Solo quando smise, aveva mormorato: «Qualcosa di bello».
Mi ero addormentata sorridendo. E intanto che il sonno mi trascinava nella sua bolla, Desmond mi tirò delicatamente al petto. Mi ci accovacciai contro, i pensieri che si aggrappavano al desiderio di passare la notte così: protetta dal suo profumo, senza rimugini opprimenti.
Attorno alle quattro del mattino avevo capito che non si sarebbe esaudito; il corpo di Desmond aveva iniziato a venir percosso dai tremori. Tremori forti, evidenti a tal punto da svegliarmi. Appena l'intontimento per il sonno era svanito, ero riuscita a mettere a fuoco il suo profilo.
Non ero più contro il suo petto, bensì la schiena.
«Desmond.»
Allungai la mano e gli strinsi il braccio.
Non ricevetti alcuna risposta. Lo fecero i versi che emetteva, però, suggerendomi che stava cercando di reprimere il freddo, nonostante si fosse trascinato la trapunta in fronte.
Mi sistemai a sedere.
«Ehi.» Allarmata, gli scrollai il braccio. «Desmond, mi senti?»
«Mh» borbottò roco, e si rinchiuse maggiormente tra le coperte.
Perciò, a piedi nudi, piombai giù e aggirai il letto, per poi inginocchiarmi davanti a lui.
Accesi l'abat-jour, la luce ambrata illuminò metà stanza e parte dei capelli.
Cauta, gli abbassai la coperta fino al collo.
«Che hai? Non ti senti bene?»
«Non ti preoccupare.»
Tastandogli la fronte e poi la tempia, sospirai. «Des... tu scotti.»
Sebbene fosse attraversato da ondate di brividi, riuscì comunque a non risparmiarsi un'espressione beffarda, a occhi chiusi. «Vedi che effetto mi fai?»
Scossi la testa. «A giudicare dalla risposta, dev'essere alta.»
«Tranquilla, ora passa.» La sua mano sbucò dalle coperte e afferrò la mia; la baciò un paio di volte, debolmente, finché non la fece sfregare sulle sue labbra. «Torna a dormire.»
«Dove le tieni le coperte?»
«Non serve.» Una nuova ondata di freddo lo costrinse a sibilare e ad abbandonarmi la mano. Si abbracciò, strofinandosi furiosamente le braccia, la fronte tutta sudata. «Cazzo, che freddo.»
«Me lo dici? O devo controllare le ante da sola?»
Schiacciò un'espressione sofferente sulla federa.
«Armadio, in basso. C'è un contenitore di plastica.»
Mi fiondai all'armadio davanti al letto; aperte le ante, tra i maglioni e i jeans ripiegati individuai il recipiente. Tirai fuori due coperte pesanti, che gli stesi sopra.
Tornai in ginocchio.
«I farmaci dove li hai? Hai qualcosa per la febbre?»
«Credo...» Batté i denti. «Credo di avere ancora del Tylenol, o dell'ibuprofene, non so... Qualcosa c'è. Guarda nello stanzino.»
Tornai con una compressa e un bicchiere d'acqua, che Desmond si sbrigò a buttare giù. Inevitabilmente, mi ricordò la sera in cui si era presentato a casa di Gregg insieme a Ian, diversi mesi prima. Mi chiedevo se la febbre gli salisse spesso, se fosse normale. Ma poi ripensavo a quando mi raccontava di avere un sistema immunitario debole per predisposizione genetica, e il fatto di avere questo gran cattivo vizio di fumare non era di sicuro un attenuante.
Eppure, vederlo fragile, un bambino imbottigliato nel corpo di un uomo, era una visione che mi suscitava una strana e angosciante sensazione; dimenticavo che fosse un essere umano, tuttavia una parte di me non riusciva ad accettare che un tipo come lui, costantemente in un gradino superiore, potesse ammalarsi, retrocedere.
Spenta la luce, mi infilai nuovamente sotto le coperte. Strisciai finché non aderii alla sua schiena e gli avvolsi il braccio attorno alla vita; lo tenni stretto a me, mi presi carico dei suoi tremori, il naso contro la spina dorsale.
Forse era il sonno che mi impediva di riflettere, o più plausibile era la mia indole romantica, ma sperai che il mio calore lo aiutasse a scaldarsi.
«Desmond.»
«Ehi.»
Respirava piano, affaticato.
«Se sapevi di stare male, perché non mi hai mandata via?»
Mi afferrò la mano che avevo posato sulla sua pancia, ci intrecciò le dita e se la trascinò al petto. Sentii un dolce palpitare.
«L'intenzione era quella. Ma poi ti ho vista ridotta così.» Malgrado i tremori gli impedissero di scandire bene le lettere, rendendogliele impastate, in quella confessione a bassa voce colsi comunque una punta amara. «Una febbre del cazzo si sopporta. Vederti piangere no.»
Sorrisi, seppur fosse un sorriso triste, di scuse.
Lo ringraziai con un bacio tra le scapole.
Il silenzio che ne seguì non ci separò. Ci unì ancor di più, mi aiutò a familiarizzare coi suoi respiri, il suo calore. La tiepida luce di un lampione, filtrata dalle tende, non fu abbastanza intensa da rendere nitide le forme di quella stanza così spigolosa e caotica. Lo rendevano il ritrovamento di un reperto storico, dove set di matite a grafite e supporti per tablet sulla scrivania erano ossa da spolverare e i volumi che sbucavano dagli scaffali pile di macerie.
Ci addormentammo senza proferire parola, la mia mano rimase avvinghiata alla sua in un tacito accordo; in qualche modo mi tranquillizzò quel suo volermi accanto a sé. Mi fece rendere conto che cercarsi, aver bisogno dell'altro era un desiderio non solo personale, ma reciproco.
Anche da malato riuscì a farmi sentire accolta.
Il giorno seguente arrivò troppo in fretta.
Me ne accorsi nel momento in cui il materasso si sbilanciò e cigolò con disturbante lentezza. Anche attraverso le palpebre calate, compresi di essere circondata dai colori radiosi del mattino.
Corrugai le sopracciglia in un altalenante stato di dormiveglia, dove metà cervello sognava ali spiegate e l'altra cercava di capire a cosa fosse dovuto quell'improvviso vuoto, e perché la mano di Desmond fosse sparita. Poco dopo, l'orecchio intercettò il rumore gorgogliante della moka.
Non volevo aprire gli occhi. Non voglio svegliarmi.
Così, mi girai di lato e nascosi un braccio sotto al cuscino.
Non ci volle molto prima che il vuoto creatosi dalla mancanza di Desmond venisse colmata. Dall'assenza di passi pesanti, dedussi che fosse scalzo. Udii lo schiocco di un cappuccio di penna, lo stropiccio della carta. Dopodiché tornò a letto, che si mosse a ogni studiato avvicinamento. Fingere di dormire divenne molto complesso, specie se adesso Desmond si divertiva a tracciarmi la pelle di baci: la spalla, l'incavo del collo, il lobo. Il tutto mentre si premurava di tenermi vicina, avvolgendomi la pancia, come avevo fatto con lui.
Mi sfuggì un sorriso malandrino, a occhi chiusi.
Lui posò le labbra sulla spalla. «Preparo un caffè anche a te?»
«Mh.» Mi girai a pancia in su, le sue dita che disegnavano sulla vita, sotto alla maglia, provocandomi il solletico. «Più tardi, magari. Non ho molta voglia di alzarmi.»
«Meglio, perché dubito che ti avrei lasciata andare.»
Ridacchiai, mentre gli avvolgevo le braccia attorno al collo e assaporavo un bacio che conservava un pungente aroma di caffè.
In un attimo di tregua, gli accarezzai le guance.
«Come ti senti?»
«Meglio, anche se mi sento ancora un po' sotto a un treno...» Ammiccò, io gli diedi un buffetto sulla spalla; avrebbe potuto sorvolarci quanto voleva, ma era innegabile la pessima cera che gli segnava il volto. Il suo indice scivolò sulla mia gota, la strofinò con fare indolente, e, insieme a uno sguardo severo, aggiunse con voce più roca: «Già, temo proprio di aver bisogno di una babysitter».
Mi fece arrossire.
«Non hai bisogno di me.»
«Vedi come ti sminuisci?» disse, il polpastrello che mi spinse rapidamente all'ingiù il labbro inferiore; emise uno schiocco buffo, di una bottiglia stappata. «Forse suonerà abbastanza stupido da dire, o magari è la febbre che sta salendo di nuovo, ma non ricevevo un calore come quello di stanotte da... tanto, Ophelia, tanto.» E lì, i suoi occhi scivolarono giù, si velarono di una tristezza sottile. «Anche quando stavo ancora con Latisha. Mi riferisco agli ultimi anni.»
A una vicinanza simile, i segni dell'acne ormai cicatrizzata da tempo risultavano più evidenti, la barba più appuntita. Gliela sfiorai coi pollici, lui mi guardò come se lo allettasse addormentarsi tra quelle carezze. «Non è un pensiero stupido. Io lo trovo molto bello.»
Si abbassò per darmi un bacio e, restando sufficientemente vicino da permettermi di toccargli le labbra, mormorò serio: «Ora me lo spieghi come farò a non fare questo ogni volta che dovrò darti il cambio a casa di Gregg? Se non ci fossero quei bambini...»
Risi. «Se ti consola, Cindy fa illusioni su di noi da mesi.»
«Anche con te?»
«Perché, pure con te?»
«Quella bambina sa essere insistente, tutta suo padre» sospirò. «Ma per il momento è meglio non darle conferme. È tremenda.»
«Già, sono d'accordo.»
Puntuale, mi pizzicò un pensiero che fino ad ora avevo accantonato in un angolo sicuro. Sapevo non avrebbe tardato a venire a galla. Solo a rifletterci mi obbligò a distogliere lo sguardo.
All'improvviso, ebbi voglia di nascondermi sotto le lenzuola.
«Che c'è?»
Desmond lasciò trasparire un tono ilare, pronto a ridere.
«Cosa?»
«Rubo le parole di tua madre: sei diventata una fragolina.»
Mi schiacciai i palmi sugli occhi. «Niente. Una cavolata.»
«Sparala lo stesso.»
«Rideresti, dai.»
«Nel caso, picchiami.»
In fin dei conti, non era un qualcosa di cui dovermi vergognare.
Ma la mente, cocciuta, viaggiava alla notte trascorsa, a come avessi smesso di pensare a ogni genere di paranoia, all'improvviso attacco di sicurezza che mai avrei creduto di possedere, a come non avessi riflettuto sul fatto che stessi dando il mio primo bacio a un uomo più grande. Non un uomo qualsiasi. Desmond era troppo, troppo di tutto. E non ero molto sicura di rievocare il momento da capo. Avrei di certo colto dei nei che avrei fatto fatica ad accettare.
«Diciamo che non sono così brava a baciare...»
Posò la tempia sul pugno, il gomito sulla federa.
«Ti sorprenderò: non ci ho fatto molto caso.»
«Sì, come no.»
«Sul serio» rise, e tirò ancora il labbro inferiore all'ingiù. «Non hai motivo di preoccuparti, ok?»
Mi morsi la guancia, spinta da un'amarezza che covavo nel cuore e che – me lo sentivo, lo sentivo bene – era pronta a rigettarsi sottoforma di lacrime. Girare la testa, scappare dal suo sguardo, e osservare l'azzurro del cielo che spiccava anche attraverso le tende non aiutò.
Olivia mi aveva fatto capire che ogni cosa costruissi finiva con il tramutarsi in un errore. Errore. L'emblema della mia vita, l'equivalente della punizione narrata nel romanzo di Nathaniel Hawthorne, il ricamo della A nel vestiario di donne accusate di adulterio, così che chiunque scorgesse la lettera sapesse di che peccato si fossero macchiate. Ci pensavo spesso, ed ero sempre più convinta che "errore" fosse ormai un'impronta. Invisibile agli altri, ma ben visibile a me stessa, la vergogna insieme alla quale sarei stata costretta a convivere forse per sempre.
E se fosse stato per causa mia se Olivia si è abbassata a compiere un atto tanto meschino? E se fosse stata la mia influenza ad averla cambiata, ad averla resa un errore a sua volta? Desmond sarebbe cambiato? Mi avrebbe fatto male?
«Tu però...» Ingoiai il groppo. «Non aspettarti niente da me.»
Un accavallarsi di cinguettii entusiasti colpì quel clima teso. Desmond afferrò il mento e lo tirò lentamente su, costringendomi a saldare l'attenzione su di lui. L'ilarità era scomparsa. «L'unica cosa che mi aspetto è che non ti faccia questi problemi. Non con me.» Si chinò, ridusse la voce a un tono inaspettatamente basso, austero. «Mi importa davvero poco del come, Ophelia, poco».
«Sicuro?»
«Sì.» Un bacio sotto al lobo. «A qualsiasi cosa tu stia pensando, cancellala.» E poi sulla gola, appena sopra al colletto del maglione. «E poi sono esigente: pretendo di riceverne altri.»
Mi fece sorridere.
Non che ci fosse bisogno di un dottorato di ricerca per riuscire a baciare decentemente un altro essere umano, ma realizzare di star condividendo un simile livello di intimità con lui, proprio lui, che per mesi mi aveva portata a ricamare desideri irrealizzabili nel gomitolo dei miei pensieri, non mi aiutò ad apparire meno rigida.
Provai a non pensarci.
Appena Desmond si spostò sopra di me, i gomiti che puntellò ai lati delle orecchie, gli abbracciai il collo, lo avvicinai ancor di più, le nostre teste un lento muoversi, spostarsi, incastrarsi. Una catartica danza rallentata, astronauta che camminava sulla luna. Non c'era fretta, non ci si spingeva oltre; la sequenza di quei baci mantenne un andamento tremendamente morbido, lentissimo, era un continuo assaporarsi per paura di tralasciare qualcosa per strada.
Poi, Desmond si dovette fermare, i nasi che si toccavano, e mi fissò le labbra. Per qualche secondo stette lì, perso tra i pensieri.
Finché non chiuse gli occhi, con stanca rassegnazione.
«Oddio, cosa?»
«Che? No. Tu non c'entri.» Tornò sul cuscino, sostenendosi grazie al gomito. Si stropicciò le palpebre, con un sorriso che parve nascondere qualcosa di simile al pentimento, o all'imbarazzo. «No, decisamente. Pensavo a un'altra cosa... e ora mi sento un'idiota.»
«Cioè?»
«Ok, confesso di non essere stato del tutto onesto con te, ieri sera.» Tamburellò le dita sul mio bacino, si concentrò a guardare quel punto. «C'è un altro motivo per cui non ti ho più scritto.»
«Oh no.»
Inarcò un sopracciglio. «Oh no?»
«Se è qualcosa che mi farà stare male tienitela per te.» Mi venne in mente Alejandro e il preambolo della sua confessione: era iniziato più o meno così, con una premessa che lasciava presagire a un discorso doloroso. «Te lo dico perché ieri ho già ricevuto la mia dose di onestà. Mi basterà per un bel po'.»
Forse avvertì il cambio di voce, perché mi carezzò la gota.
«No... Nulla di devastante. Ma fa ridere.» Si massaggiò la nuca. «Non ero più andato a fare benzina. Appena avevamo chiuso la chiamata, ho cambiato programma per venirti a trovare.»
Me ne sorpresi.
Lui assunse una smorfia storta, le labbra tirate. «Fino a quando avevo parcheggiato davanti alla tavola calda andava tutto bene, direi. Beh, poi ti ho vista là dentro col tuo carissimo amico e... Vabbè, mossa cretina: me ne sono tornato a casa. Il "capogiro" era una cazzata.»
Lo guardai abbastanza perplessa.
Ma anche segretamente... felice.
«A cos'hai pensato?»
«Ha importanza?»
«Certo che sì.»
Col dorso dell'indice sfiorai il suo pomo d'Adamo, su e giù, a mo' di monito a continuare; Desmond, invece, tornò ad abbozzare strani simbolismi su quello stralcio di pelle esposta. Spostò lo sguardo lì e represse tra i denti una specie di risata, ma assomigliò più a un sibilo. «Per un attimo, vicini com'eravate, ho temuto di assistere a... qualcos'altro. A qualcosa che non avrei quasi sicuramente apprezzato. O meglio: a qualcosa che mi avrebbe quasi sicuramente fatto impazzire. Perciò niente, morale: "lontano dagli occhi, lontano dal cuore" si vive meglio.»
«Non ci siamo baciati.»
Interruppe le carezze, mi guardò intensamente.
«Supponiamo che ci avesse provato, glielo avresti permesso?»
«No.» Gli afferrai la mano che se ne stava lì buona sulla vita e me la trascinai al cuore, in un punto al di sopra del seno. «Se ci avesse provato, gli avrei spiegato che questo appartiene a qualcun altro.»
Il suo sguardo mutò, divenne più attento, bevve quel contatto; manifestò una leggera pressione verso il basso, il suo calore superò il maglione, le sue dita si allargarono ancora di più, ragnatela che volle espandersi e impadronirsi di ciò che batteva al di sotto, che magari una prova fisica avrebbe dimostrato una verità più tangibile delle mie parole.
C'era altro ad annebbiargli sguardo, però, a renderglielo meno lucido, consapevole di star provando forse la stessa identica cosa che mi capitava di provare quando si trovava troppo vicino a me.
Poi, mormorò: «Ho sempre creduto che fra di voi...»
«È come un fratello, non c'è nient'altro.»
Liquidai la conversazione così; pensarlo non mi fece bene, non mi permise di mantenere una facciata tranquilla. Non ero mai stata silenziosa a nascondere le mie vere emozioni. Ma Desmond, da acuto osservatore, se ne accorse, poiché spostò la mano sulla guancia.
«Ed è stato lui a farti piangere?»
Ci fu un attimo di alienazione, dove studiai il soffitto, il lampadario. Poi mi imposi di scuotere la testa, le lacrime che non tardarono ad arrivare.
Gli raccontai ogni cosa, trattenendo il pianto, ma, paradossalmente, buttando fuori il resto: la confessione di Alejandro, le sue lacrime di pentimento, la pessima considerazione che mia sorella aveva di me, cosa avesse pianificato alle mie spalle, come avesse manipolato il mio migliore amico. Come, forse, stesse manipolando tutti: i nostri genitori, me, Jay. E le paranoie, e le ipotesi insensate, e i "Perché?", "Cos'ho sbagliato?", "Perché dovrebbe fare così?".
Durante lo sfogo, Desmond non cambiò espressione.
Anche se i guizzi alla mandibola furono più che significativi.
«Ophelia.» Fu talmente lento e calmo a pronunciare il mio nome che quasi ne ebbi paura. «Devi allontanarti da lei, da quella casa.»
«Lo so, so che dovrei, ma...»
«No, ragazzina, niente ma. È evidente che quella stronza di tua sorella, e dico stronza perché sono un gentiluomo, ha bisogno di te. E sai perché? Perché sa di non avere nessun altro che le garantisca un piedistallo su cui vivere, o comunque nessun altro da rovinare per sentirsi migliore, nessun altro a cui riversare le proprie frustrazioni.» Si grattò il capo come se volesse eliminare una colonia di pidocchi. «Ho già visto questo film. Detesto le repliche.»
«Nancy?»
«E magari salta fuori che sono pure imparentate.» Emise una risata in cui sottolineò una repulsione che non l'avrebbe mai abbandonato. Quando smise, tornò a guardarmi più serio che mai e, afferrandomi il mento, disse: «Appena ne avrai parlato coi tuoi, vieni a stare da me.»
«Cosa?»
«Vieni a stare da me. Non è un problema. Lo spazio c'è. Beh, non è vastissimo, ma c'è.» Quella gentilezza provocò inevitabili capriole al mio cuore; non me l'aspettavo una simile proposta. «E se non ti va di stare qui, chiedilo a... Non saprei, i tuoi amici vivono da soli, giusto? Chiedilo a loro. Però, ti prego, ti prego, qualunque cosa tu decida, promettimi che te ne andrai via da lì.»
«Desmond.» Mi inumidii le labbra, commossa – a volte credevo di aver conosciuto un ologramma, la proiezione della mia salvezza, che in lui non ci fosse nulla di vero, che fosse nato dalla mia mente per necessità, per sopravvivere. «Come fai a volermi tra i piedi...»
Curvò le labbra in maniera impercettibile.
«Perché averti tra i piedi è la cosa migliore che mi sia capitata.» Avrei voluto scoppiare a piangere, mi sentivo un completo disastro, eppure sorrisi lo stesso. «E anche per questo.» Seguì il confine delle labbra col polpastrello, parve un soffio. «Per vederti sorridere più spesso.»
Deglutii, schiacciata dai suoi riguardi. «Sei... reale?»
«All'anagrafe di questo pianeta dicono di sì. Su Marte chissà.»
Degli altri pianeti mi importava ben poco, al momento. Per ora, il più importante fu quello dove lui esisteva davvero, ed era qui, tutto convinto di proteggermi sotto la sua ala. Perciò, alleggerita dalle sue parole, lo avvicinai dalla maglietta mentre la mia risata moriva dentro la sua.
«Sono a casa.»
Mentre appendevo sciarpa e cappotto nell'appendino, dall'atrio non giunse nessun eco di risposta. Né da mamma, né da papà.
Strano. Era una domenica mattina; non lavoravano.
«Ehi?»
Mi sbarazzai delle scarpe aiutandomi coi piedi. Se non fosse per il rumore disturbante della lavatrice in azione, o per l'aria impregnata di impasto per biscotti, mi sarei sentita un po' a disagio per un'assenza così rimbombante. Insolita, in realtà. Ignorai la sensazione e, in cucina, mi diressi dai biscotti al burro d'arachidi che mamma aveva cucinato. L'interno del contenitore di vetro ne era pieno fino all'orlo. Ne rubai uno e, sgranocchiando, mi avviai per le scale.
Feci per aprire la porta di camera mia, ma...
«Ciao, sorellina.»
Se non fosse che avessi già terminato il biscotto, mi sarebbe quasi certamente andato di traverso nel vedere Olivia seduta a gambe incrociate sul letto, con un'atroce indifferenza in volto.
Una fascia canarino le tirava indietro i capelli, raccolti con un pinzone. Struccata e lucida di crema, rovistava nell'astuccio in cui conservavo quei prodotti di bellezza mai gettati via.
Un formicolio di paura e panico mi pizzicò i nervi, la mente che ancora vagava a Desmond e alle sue labbra che sapevano di caffè si risvegliò. Le dita delle mani vennero percosse da un fremito.
Cercai comunque di calarmi una maschera distesa.
Non sono pronta per affrontarla, non ora, non ancora.
Per tenermi occupata, e per evitare che cogliesse in faccia tracce di menzogne, aprii rapida il portatile sulla scrivania e lo accesi.
«Papà e mamma? Dove sono?»
«A fare un po' di spesa.»
«Capito.»
«Mamma mi ha detto che hai dormito fuori per il babysitting.»
Mentalmente, trassi un profondo sospiro di sollievo, il cuore poté concedersi un andamento più naturale. Avevo mandato un messaggio a mia madre la sera prima, specificando che dormivo dai gemelli. Grazie per avermi coperta, mamma. «Eh già. Il padre era reperibile, e così...»
«Immagino che lo zietto fosse già fin troppo occupato.»
Di sottecchi, la osservai; ispezionava i miei smalti uno ad uno, assottigliando gli occhi ogni volta: era talmente concentrata da farmi credere che stesse conversando con loro anziché con me. E quando parlava, un brivido freddo si arrampicava sulla spina dorsale, per poi scalare le gambe, le braccia. Era la sua voce. Neutra, rauca, talvolta fiacca, priva di empatia... costruita.
Non si capiva se quella conversazione fosse realmente intenzionata a portarla avanti, oppure la stesse mettendo su per puro default. Per quello, o per qualcos'altro a cui non volli pensare.
«Desmond non stava bene, è rimasto a casa sua.»
«Desmond?»
Lo smalto rosso, davanti al suo naso, aveva smesso di essere ispezionato. Senza nemmeno voltare il capo, gli occhi di Olivia puntarono me, e quasi mi parve di venir braccata da un cacciatore dopo un'esasperante e avida ricerca. Ero diventata l'oggetto da esaminare, ero l'animale centrato dal mirino, e l'inclinazione del suo sguardo non mi piacque per nulla, lo rendeva felino. A gettargli una luce più inquietante era quella calma. Così gelida, così atipica.
«Sì.» Ignorai le mani sudate. «Vuole che gli dia del tu.»
«Oh, ma che gentiluomo premuroso.»
«Già.» Inserii la password, le dita tremanti. «Cosa ti serve?»
«Niente, in realtà ho già trovato quello che cercavo.»
Tirò la zip dell'astuccio e lo mollò sul letto.
Digitai ricerche casuali su Google.
«Che smalto hai scelto?»
«Non parlo di smalti.» Ci fu una pausa che nella mia testa si dilatò per un tempo infinito, tempo che lei impiegò per alzarsi lentamente e stirarsi quei leggings neri così aderenti, su misura; quando mi voltai per intero, aveva di nuovo recuperato l'astuccio. «Ma delle tue cazzate.»
Un grumo di saliva si arrestò in gola.
«Cosa?»
Continuò a studiare l'astuccio rosa, avanti e dietro.
Eppure, era distante... tanto distante. «Dove sei stata?»
«Te l'ho detto, sono stata da...»
«Dove sei stata?»
La guardai, lei non guardava me.
«Dagli Holmberg.»
«Smettila» mormorò roca. «La tua macchina non era lì.»
Difficile razionalizzarlo subito: Olivia mi controllava.
Controlla dove vado, da chi vado... Da quanto tempo lo fa?
Avevo sempre sperato di sbagliarmi, che le mie fossero esagerazioni dettate dall'ansia, che lei non sarebbe in grado di pedinare, controllare. Non me. Era anche vero che credevo a un sacco di cose, fino a qualche mese prima. E ora, guardando mia sorella da un'angolazione diversa, coglievo quelle zone in ombra a cui non avevo mai dato la dovuta importanza. Zone che, a mente lucida, mi facevano paura, e che non ero così sicura di affrontare, attraversare.
«Non rispondi, Ophelia?»
Strinsi i pugni. «Non ti devo nessuna spiegazione.»
Emulò una finta risata nasale. «Trovo esilarante questa tua voglia improvvisa di fare la "grande", quando ti rende solo più piccola, e anche un po' ridicola» disse pacata, posando l'astuccio sul letto come se fosse una cartaccia da buttare. «Non so cosa mi ferisca di più, a dire il vero: che tu abbia mentito persino a nostra madre, o che nostra madre abbia mentito persino a me.» A braccia conserte, si grattò il gomito, lo sguardo volò sulle mensole della camera, la finestra; cominciò a camminare qua e là, senza trovare un preciso punto in cui stabilirsi. «Vi divertite?»
«Lascia fuori mamma da questa storia. Gliel'ho chiesto io.»
Schioccò le dita, ma la sua espressione non cambiò mai. «Plot twist. Ma se sei arrivata a nascondermi una cavolata simile, immagino che le motivazioni siano gravi. A meno che...»
Si fermò davanti a me; mi ricordò ancora una volta quanto squilibrato stesse diventando il nostro rapporto, dove l'equità fra sorelle si annullava e l'inadeguatezza mi spingeva giù, a una posizione inferiore. Come ora, mentre si avvicinava a me, quel tanto che il suo naso arrivò a sfiorare il lobo, i capelli.
«Questa, Ophelia...» Inspirò, lo fece una volta, ed io trattenni il respiro, i battiti che pulsavano fino in gola. «È puzza di uomo.»
«Non è così.»
«Chi è lui?»
«Olivia.»
«Con chi sei stata?»
Mi salirono le lacrime agli occhi. «Per favore, smettila.»
«Dai, sarà un segreto fra sorelle, non lo dirò a nessuno, nemmeno a... Oh. Oh.» Quella realizzazione improvvisa le sollevò le sopracciglia, il che la portò a indietreggiare col busto e a porre così una distanza di cui avevo profondamente bisogno; tuttavia, quel sorriso fin troppo largo, non suo, mi fece sentire un topolino nelle grinfie di una trappola. «Non mi dire...»
Le voltai spalle.
Ma lei, afferrandomi il braccio, mi impedì di andarmene. Assunse un'espressione che rasentava la compassione, di chi sta per esporre una ramanzina al proprio figlio, ed io mi sentii dolorosamente stupida. Avevo appena permesso ai miei sentimenti di svelarsi, parlare.
«Senti, Ophelia, sarò chiara: cosa speri di ottenere con un uomo di quasi quarant'anni? Non l'hai ancora capito che ti sta solo usando per aumentare il suo stupido ego? Oppure, chissà, forse ti vuole per sé per sentire meno l'età che avanza.» Sospirò, parve ammorbidirsi, ma le sue dita serrarono ancor più la presa attorno al braccio. «Mi fa pena: approfittarsi della tua ingenuità...»
Con uno strattone, mi allontanai da lei.
A passo svelto, uscii in corridoio. Non sentire.
«I nostri genitori non lo sanno, vero?»
Imboccai le scale, afferrai il corrimano. Non sentire.
«Sai cosa penseranno appena lo scopriranno?»
Un gradino dopo l'altro, veloce. Non sentire.
«Penseranno la stessa cosa che penso io.»
Mi morsi il labbro, forte, troppo forte. Non sentire.
«Che fai pietà, che cerchi attenzioni come un patetico cane.»
Lo stomaco si ribaltò, la bile che saliva in gola. Non sentire.
«Consiglio spassionato, da sorella: non venire a piangere da me quando si stuferà di te, Ophelia, perché accadrà, e poi non dirmi che non ti ho avvisata» gridò Olivia, dal piano di sopra; eppure non c'era risentimento, nel suo tono di voce, solo tanta fermezza, di chi sa di avere ragione. «E vedrai che appena gli aprirai le gambe, stai pur tranquilla che non si farà scrupoli a sparire.»
Non sentire.
Non sentire.
Non sentire.
Lei non è più casa tua, Ophelia.
Non si merita neanche di farsi sentire.
ANGOLO AUTRICE
Buonasera, nightingales!
Son riuscita a sbrigarmi "presto", per il semplice motivo che questo capitolo avrebbe dovuto essere molto più lungo, ma ho deciso di dividerlo a metà sapendo il contenuto del prossimo. Devo dire che non mi dispiace suddiviso così, ha il suo senso, e per un po' possiamo "respirare".
Per modo di dire.
Credevate che Olivia fosse sparita. Ha ha. Poveri ingenui.
Questions:
▪️ Desmond & Ophelia; non avete idea di quanto mi sia piaciuto scrivere la prima parte. Avevo proprio bisogno di staccare dai capitoli deprimenti (anche se pure questo ha i suoi spazietti tristi, ma sicuramente in una forma più sottile). Mi è venuto piuttosto naturale scrivere di loro, di questo continuo cercarsi, abbracciarsi, toccarsi: fateci caso, sono azioni che avvenivano ancor prima del loro primo bacio. Un po' come se, inconsapevolmente avessero iniziato a frequentarsi ancor prima di renderla una cosa reale. Ed è uno degli aspetti che più mi piace nel loro rapporto.
Perciò: cosa pensate di questo loro risveglio? Cosa pensate di loro? Scena preferita?🕊️
Ricordavate che Ophelia, la sera prima, l'aveva trovato non in grandissima forma? Ecco, durante la notte poi ha dovuto "soffrire". Secondo voi è stata una febbre innocua? Quella che era avvenuta pure quando era stato accompagnato da Ian, lo era? Sarà tutto a causa del suo sistema immunitario deboluccio?
▪️ Olivia; le note dolenti arrivano sempre. Non mi diverto nemmeno io a inserirle, ma in qualche modo la trama deve proseguire (ahinoi). Come avrete notato, rispetto alla prima parte della storia, Olivia pare essere diventata più diretta, meno cauta, a far presente determinate cose alla nostra Ophelia. Mossa furba? Mossa sciocca? Beh, avrà di sicuro i suoi risvolti, ma una cosa è sicura: comincia ad avere paura pure lei per questo allontanamento di Ophelia. Ophelia, che qui si vede bene quanto abbia paura di lei e cerchi di starle alla larga, crederà alle sue parole? Scappare, forse, è la soluzione più appetibile... ma per quanto ancora potrà farlo?
I risvolti inaspettati, e dolorosi, sono alle porte.
Avete ancora qualche capitolo di respiro, dopodiché... 🥲
Intanto, grazie come sempre per il vostro sostegno e non esitate a dirmi cosa ne pensate, mi fa solo un sacco piacere!
A presto! 🤍
Playlist:
Sunday Morning - The Velvet Underground (prima parte)
I Met Sarah in the Bathroom - Awfultune (seconda parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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