30. Brancolare nella nebbia
Brancolare nella nebbia
P.S musicale: è necessaria l'ascolto di Lean On Me nell'ultima parte, quando viene citata (la versione di Glee, però). Vi auguro una buona lettura e... ci vediamo giù! 🕊️
«Dici sul serio?»
«Oh sì. Leonard ne è sicurissimo.» Desmond, al telefono, emise una risata che immaginai a bocca chiusa. Ogni tanto la sua voce veniva disturbata dal caos che inquinava le vie di quel freddo e ordinario sabato sera. Dedussi che anche lui fosse uscito. «Me l'ha detto Gregg: gli ha chiesto se può imparare a cantare.»
Per colpa della raffica di vento che mi investì, dovetti nascondere il sorriso entusiasta tra le pieghe della sciarpa. «Non sai quanto sono felice... Può pure essere l'occasione giusta per informarvi sulla cantoterapia. Per Leonard sarebbe l'ideale.»
«Stiamo valutando. Dobbiamo sentire il logopedista, ma immagino ne sarà favorevole.» Diede un secco colpo di tosse, il che mi provocò un gran sospiro interiore. Quando te la farai una visita? «Potresti coprirlo tu il ruolo dell'insegnante, che ne dici?»
Quella proposta mi lasciò interdetta.
«Mi piacerebbe, Des, ma io ho studiato da autodidatta grazie a mia madre; non sono in possesso di lauree, né ho le competenze adatte... Si meriterebbe un insegnante più preparato di me» spiegai, scansando masse di gente incappottate che si muovevano controcorrente e oltrepassando le più lente, le vetrine che proiettavano sull'asfalto pozzanghere di luci soffuse. «Fidati, è meglio il conservatorio. Per lui sarebbe perfetto anche per incontrare altri bambini: ha bisogno di socializzare.»
«Detesto quando hai ragione.» Lo accompagnò con un verso risentito. «Fatto sta che saresti una figura adatta. Più che adatta.»
«Sbaglio, o stai facendo favoritismi?»
«Può essere.»
«È grave. Non va contro il tuo codice morale?»
«Ultimamente troppe cose vanno contro il mio codice morale, ma sto cercando di farci l'abitudine» ammise con un tono ilare e al contempo sommesso, quasi stesse parlando più con se stesso che con me. «Sai che accade dal momento in cui rifiuti l'offerta?»
«Che...» Un lato della sciarpa si districò dal nodo e cadde a penzoloni lungo i bottoni del giubbotto come la lingua di un animale affamato; lo lanciai dietro la spalla con un gesto brusco, senza fermarmi. «Beh, che Leonard troverà un'insegnante vera?»
«Che ti vedremo molto meno in questa casa.»
Rallentai il passo, il sorriso mi si congelò, divenne una smorfia che, vista da uno spettatore, ne dimostrava la triste realizzazione.
Mi fermai all'angolo della Germantown, davanti a un centro estetico che esibiva manifesti di unghie ben limate e a pochi passi dalle vetrate per metà oscurate del Taste a Wish, la tavola calda dove lavoravano i gemelli. Era rimasta accesa solo qualche timida lampada, segno che avevano chiuso.
Lanciai un'occhiata afflitta al sacchetto di carta che stringevo tra le dita guantate. «È vero.»
Il silenzio fece da scomodo intermediario.
«E se va in porto la questione delle ore di Gregg è possibile che annulleremo il contratto. Se avrà l'opportunità di lavorare anche da remoto, sarai libera.» Si schiarì la voce. «Mi sa che i bambini saranno piuttosto... tristi quando lo sapranno.»
Loro.
E tu?
«Mi rendo conto che si sono affezionati.»
«Già» mormorò. «Più di quanto potessero immaginare.»
Fissai gli stivali graffiati lungo la bordatura di gomma, quasi qualcuno avesse disegnato col gesso i baffi di un gatto. Per un po' giocai con il senso di quelle parole; mi domandai se non parlasse più di Cindy e Leonard, se aggrapparsi a loro fosse una scusa, un'allegoria sulla vera natura di ciò che voleva dire. Mi piaceva pensare che la tristezza dei bambini combaciasse pure con la sua.
«Ti volevo chiedere...» Mi morsi il labbro. «Sei impegnato?»
«Sì e no.» Ovunque fosse, regnava un'altalena di brusii. «Fino a poco fa ero in giro con Ian. Non chiedere, mi ha obbligato a prendere una boccata d'aria. Forse ora riesco a tornare a casa.»
«Ah ok, bene.» Feci un passo indietro, uno avanti, le fessure di un tombino, simili a bocche, che mi avrebbero volentieri urlato di decidermi se avessero avuto la capacità di parlare. «In realtà il motivo per cui ti ho chiamato era per darti una cosa. Ci possiamo incontrare?» Mi inumidii le labbra, e aggiunsi a raffica: «Però capisco che è tardi e vorresti andare a dormire. Se vuoi possiamo pure fare un altro giorno, non imp-»
«Ci sto» mi frenò. «Ti avviso, però: mi auguro che tu...»
«Giuro di no!» mi affrettai, ridendo. «Nessun regalo.»
«Così mi piaci.»
«Ma anche se fosse?»
«Non lo avrei accettato.»
«Fatico a crederci, sei troppo buono.»
«Non mi sfidare, ragazzina. Guarda che so essere cattivo.»
Se fosse stato intenzionale inserire una nota più grave e rauca nella cadenza di quel "cattivo", non riuscii a capirlo. Una cosa, però, fu più che certa: su di me suscitò una piacevole pelle d'oca.
La vampata di calore al collo la ritenni una benedizione con quei gradi sotto allo zero. Nascosi il nervosismo schiarendomi la gola. «Comunque mi trovi al Taste a Wish, i miei amici mi volevano lì. Se riesci, vieni. O ti raggiungo io. Come vuoi.»
«Per me è uguale, ma sappi che sto andando a fare benzina a East Falls. Se non mi vedi tra un dieci minuti chiamami, ok?»
«Ok.» Prima di chiudere aggiunsi: «Ehi».
«Sì?»
«Buon compleanno.»
Passò qualche istante prima che lo sentissi ridere, la risata attutita dagli aggiornamenti sul traffico di quella che immaginai fosse una stazione radio. «Accetto gli auguri solo perché sei tu.»
A chiamata conclusa fissai in trance la lavagnetta piazzata fuori dalle porte che mostrava ai passanti le novità del giorno e le offerte speciali. Per un po' stetti così: col cellulare in mano e un sorriso sicuramente idiota. C'era un'insolita felicità a scaldarmi la pelle; quell'inatteso rilascio di endorfine rimpiazzò il giubbotto.
Tornai coi piedi per terra non appena alzai lo sguardo; al di là delle vetrate, tra i tavoli tirati a lucido e una schiera di sgabelli sistemata con le gambe all'aria sul bancone, scorsi le figure di Gwenda e Alejandro. Vicini ma distanti; lei a braccia incrociate e un duro cipiglio, lui che tentava un approccio, scoraggiato, la grande mano anellata aggrappata al gomito smilzo della ragazza. Non si allontanò, ma ridusse le palpebre a due lame, lo guardò con un certo scrupolo. Non capii se per l'irritazione o per un inutile tentativo di provare a capirlo.
Ad un certo punto Gwenda scosse la testa, mosse le labbra.
Alejandro chiuse gli occhi, parecchio scosso, e le parlò sopra.
Stabilii che non potevo starmene fuori per sempre come il cartonato di un personaggio dei fumetti, quindi entrai il più silenziosa possibile, l'entrata che i gemelli dovevano aver lasciato sbloccata apposta per me. Dalla porta che conduceva nelle cucine la luce era accesa, due ombre facevano avanti e indietro a una velocità incredibile. Arrivavano rumori di ante che si chiudevano senza delicatezza, piatti che sbattevano, insulti creativi, risate.
Strinsi la borsa di carta tra le dita, mi avvicinai a orecchie tese. Sebbene Gwenda e Alejandro risultassero meno distanti, non riuscii comunque ad afferrare nemmeno uno sprazzo della conversazione, se non una sequenza di sussurri, tipico dialogo che si sentirebbe dalle foglie smosse dal venticello autunnale.
Poi, accadde: Gwenda spostò l'attenzione dal volto di Alejandro a un punto dietro le sue spalle larghe. Appena si rese conto della mia presenza ammorbidì quell'accozzaglia di spigoli espressivi, ombre che le conferivano un'aura più ostile del dovuto, dopodiché diede uno schiaffo al braccio di lui. L'altro si girò subito. La sua faccia rivelò un connubio di sorpresa e paura.
Sventolai la mano, anche se incerta. «Ciao, ragazzi.»
«Ehi.» Gwenda mi sorrise per un nanosecondo, poi lanciò uno sguardo colmo di avvertimenti ad Alejandro, sibilando con un tono che ne rese chiare le parole: «E vedi di tirare fuori le palle».
Fece per superarlo.
«Gwe'.» La fermò, la mano sul braccio. Per un attimo guardò prima me, ma poi tornò su di lei, sussurrando: «Non ce la faccio».
«Sì, invece.» Gli afferrò il polso e glielo allontanò; ci pensò su, ma infine glielo strinse con un che di affettuoso. «Tranquillo.»
Si congedò e, arrotolandosi la sciarpa attorno al collo, passò davanti alla porta delle cucine. Bussò allo stipite. «Fuori, forza.»
Fannie si affacciò, la fronte spaziosa increspata da un possibile moto di scocciatura. «Innanzitutto "Fuori, forza" lo dici a tua sorella. Qui non abbiamo finito. La paglia dovrà aspettare.»
Gwenda tirò fuori dalla tasca del parka un pacchetto di sigarette, che sventolò pigramente. «Warren, se esci te lo regalo.»
Neanche il tempo di pronunciarlo che era sbucato come un gufo dal tronco, sottraendole il pacchetto. «Ma quanto ti amo?»
Fannie indirizzò uno sguardo annoiato a Gwenda, lei scrollò le spalle e assunse un'espressione compassionevole. «Come i cani.»
L'altra sospirò, afferrando il cappotto dall'appendino.
«Cinque minuti, Warren, cinque. O ti prendi il fottuto tram.»
Suo fratello era già uscito, la sigaretta in bocca. Fannie, dietro di lui, lasciò la porta spalancata per Gwenda, intanto che recuperava la sigaretta elettronica. Ci lanciò un'occhiata che ne ricalcava la spossatezza, di chi ucciderebbe per andarsene a letto.
«Voi due?»
«Loro due hanno un colloquio.» Gwenda la spintonò dalla schiena. «E visto che hanno cinque minuti si devono muovere.»
Fannie provò a chiederle spiegazioni, ma l'altra glielo impedì continuando a spingerla. Perciò, nonostante la confusione più profonda, feci in tempo a urlarle dietro: «Posso approfittarne per prendere qualcosa dal bancone dei dolci? Se non è un problema».
Spuntò nuovamente la faccia di Fannie. Nel frattempo si era tirata su il cappuccio. «L'importante è che lasci i soldi davanti alla cassa e che mi scrivi sul bloc notes cosa prendi. Ah, e se sbricioli a terra scopa e paletta sono di là, nel ripostiglio.»
Con quel secco ultimatum, chiuse la porta.
Mi sbrigai ad aggirare il bancone e a munirmi delle pinze apposite. Dopo una rapida ricerca in quel vasto assortimento di paste, optai per un cupcake al cocco, uno al cioccolato e vaniglia, e uno alla zucca. Mi sarei dovuta informare sui suoi gusti, ma pazienza. Mentre li prelevavo sperando di non sporcare a terra e li infilavo in una busta, osservai Alejandro appoggiato a un tavolo.
Fissava il pavimento, le mani che frugavano nelle tasche.
Era nervoso.
Senza distogliere l'attenzione dal nulla, disse: «Vedo che sei allegra».
«Ma no. O almeno.» Infilai la busta nel sacchetto, poi estrassi due banconote dal portafoglio. «I dolci mi rendono allegra, ecco.»
«I dolci.»
«I dolci, sì.»
«I dolci o il signor Holmberg?»
Mi cascò un nichelino a terra e roteò su se stesso, Alejandro rise.
«Ti confermo i dolci.» Recuperai la moneta e riportai rapidamente su un bloc notes giallo gli acquisti. «Finiscila, eh.»
«I regalini sono per lui?»
Posai la penna e lo raggiunsi, fermandomi tra le sue gambe divaricate. Incrociai le braccia. «Sei un po' troppo curioso, noto.»
«Non sono curioso. Sono geloso. A lui i cupcake e a me no.»
Ridacchiai, lui pure, ma non suonò del tutto disinvolto.
Lo guardai bene, stringendogli il braccio. «Che hai?»
«Niente. Sono geloso, te l'ho detto.»
«Dai, parla. Non sono scema.»
Tirò un sorriso di circostanza, si massaggiò la nuca. Intravidi l'orecchino a cerchietto che gli decorava il lobo. «Nulla, nena.»
Non era mai stato bravo a mentire. Ne ebbi la prova quando feci aderire il palmo al suo petto; il cuore batteva a una velocità pazzesca, quasi avesse rintanato a forza tutti i suoi tormenti lì dentro, uno spazio evidentemente troppo piccolo perché ci restassero. Alzai lo sguardo, di nuovo, lui che fissava la mia spalla e non me. «Questo non è nulla. Cosa ti preoccupa?»
Dalla rassegnazione che segnò il suo volto, forse capì che continuare a fingere non sarebbe servito a niente. Per cui, esitante, mi afferrò il polso. Non strinse, né lo abbassò.
Preferì fissarlo intensamente, invece, perso.
«Non dovevi tornare, Ophelia» mormorò. «Non dovevi.»
«Che vuoi dire?» Corrugai la fronte. «Non sei felice?»
«Sì. No.» Strizzò gli occhi. «Certo che lo sono.»
«Ti riferisci a quando sono sparita? A quando io...»
«No. No. Ophelia, tu non hai... Cazzo.» Si allontanò con evidente sgarbo e intrecciò le dita dietro la testa, gli anelli occultati dai quei capelli che non pettinava mai, mentre camminava alla rinfusa, senza un reale motivo. Chiuse gli occhi, invece, si rifugiò in una gabbia di borbottii incomprensibili, dei respiri profondi uscirono dalle narici, e poi aggiunse misurato: «Tu non c'entri niente. Tu non hai fatto proprio niente... Io sì».
«Tu?»
Posai il sacchetto a terra, mi avvicinai.
Ma nulla, mi evitò e tornò ad appoggiarsi al tavolo.
«Jay, calmati, mi stai preoccupando.»
Solo dopo qualche secondo trovò il coraggio di aprire gli occhi, appesantiti da una piega sofferente.
Li trovai più arrossati.
«Ehi...»
Batté fiaccamente la mano sulla porzione di tavolo libero. Lo assecondai, anche se allarmata, e mi ci accomodai vicino.
Trasse un sospiro, e cominciò a girarsi l'anello attorno al pollice.
«Ricordi la seconda audizione alla Juilliard?»
«Hai detto che non l'avevi passata.»
«Ti ho detto una cazzata.» Non alzò lo sguardo dalle sue mani, lunghe e dinoccolate. Da pianista, avrebbe potuto ipotizzare uno sconosciuto; dita che non tormentavano tasti ma un anello, e lo giravano, quasi desiderasse svitare il bullone delle sue sofferenze, quello che gli avrebbe finalmente permesso di smontare le difficoltà della sua vita. «Io... non mi sono mai presentato, Ophelia.»
«Che cosa?»
«Mi sono bruciato l'ultima possibilità che avevo.»
«Ma perché l'hai fatto?» Sconcertata, quasi fosse successo a me. «Era il tuo sogno, Jay, avevi studiato tanto, e i sacrifici, e le...»
«L'ho fatto volutamente.»
Mutò il tono in uno inclemente.
Lento, riprese a guardarmi. Aveva gli occhi lucidi.
«Non meritavo di entrarci.» Un filo di voce, che ne lasciava presagire un crollo imminente. «Non dopo quello che ti ho fatto.»
Fissai quegli occhi azzurri coperti da una patina lucida, specchio di colpe, di lacrime pronte a evadere. E lì vi cercai un incastro, il tassello mancante, uno che desse finalmente un senso a quelle premesse tutt'altro che piacevoli. Un presentimento sgradevole, invece, si fece largo tra le ipotesi più folli, ma era talmente fuori da ogni logica che lo scacciai subito.
Tuttavia, se Alejandro era arrivato a un simile livello di disperazione doveva trattarsi di qualcosa di grave. Però, la bocca non collaborò, le domande intrappolate in gola. Avevo paura. Avevano paura. Temevo le parole che avrei sentito, temevo di ascoltarlo. Quando era sempre stato il mio passatempo preferito.
«Qualche giorno prima del nostro spettacolo di beneficienza era venuta a trovarmi tua sorella.» Sperai di aver capito male, il cuore che interpretò quel nome come la genitrice di un terribile presagio. Per questo, cominciò a battere forte. Troppo forte. Olivia? «Era... Si era presentata alla porta del mio appartamento piangendo. Non l'ho mai vista così, Ophelia, ti giuro mi ero spaventato da morire. Credevo ti fosse successo qualcosa, non lo so.» Il tono subì un tremolio, si mangiò le vocali, poi si concesse una pausa, io che gli fissavo quell'anello senza lasciar trapelare la benché minima emozione, neanche quando la vista cominciò ad appannarsi, conscia di aver appena ottenuto un tassello che speravo non dover mai utilizzare. «L'ho fatta entrare e poi ha...»
Non sentire.
Qualunque cosa, ma non sentire.
«Mi ha detto delle cose. Cose su di te.»
Non sentire, che se lo fai crolla tutto.
«Su di me.» Scesero due lacrime, così, in anticipo, senza nemmeno sapere, come se sapessero già tutto. «E cos'ha detto?»
Scesero anche a lui, la tempia rossa, una vena in rilievo.
«Jay.»
Si voltò mentre cercava di eliminarle.
«Jay, che cosa ti ha detto?»
«Mi ha parlato di come fosse arrivata al limite, che non ce la faceva più, che passava ogni giorno a piangere a causa tua, che ti vuole un mondo di bene eppure tu la tratti male. Parlava di come riversassi sempre le tue frustrazioni su di lei, che manipoli per un tuo tornaconto, che manipoli i tuoi amici... Manipoli noi. Me.»
Assunsi una smorfia di meraviglia, in contrasto con il viso accartocciato, le lacrime un patetico decoro. «E tu?» Mi uscì con un tono nasale ma inaspettatamente freddo. «Le hai creduto?»
«Ero confuso. Cazzo, io ti conosco, tu non sei così. Ma lei... Dovevi vederla, stava così male e io...» Col pollice e l'indice si massaggiò le palpebre. «Che motivo aveva di venire da me, in lacrime, a sparare delle cazzate su di te? Es tu hermana, la tua famiglia, siete sempre state così unite... Perché avrebbe dovuto?»
Quanto sei stupida, Ophelia, come puoi non aver mai pensato a una simile eventualità? È la normalità, pensaci, capita a tutti che la propria sorella vada in giro a diffondere infamie sul tuo conto. Affondai i denti sulle labbra fino ad avvertirne il sangue, le lacrime fino al mento, l'immagine di Olivia da bambina a braccia spalancate per accogliermi che si dissolveva. Mia sorella, poi, quella che mi faceva sempre infilare nel suo letto per proteggermi dai mostri, quella che mi stringeva a sé quando il pianto soffocava le parole, e queste non uscivano, e mi sentivo troppo indietro, troppo difettosa per affrontare il mondo.
Trattenni un singhiozzo, il cuore piccolo piccolo.
Eri la mia radice, Liv, la mia radice...
«Le hai creduto» ripetei, più convinta. «Vero?»
Si morse furiosamente la guancia, scosse la testa.
«Parlami.» Alzai la voce, nonostante i singhiozzi, fu un grido frammentato, non lo controllai. In realtà non controllavo più niente: né la voce, né i tremolii, né la mia vita. «Le hai creduto?»
«Mi ha detto che mi consideri un fallito» mormorò.
Trattenni il fiato, i pugni che stringevano, mi feci male.
«Era ferita da quelli che pensavi su di lei, su di me, che non sarei mai andato da nessuna parte con il mio "problema", che se fossi stato ammesso sarebbe stato per pietà, che la mia voce non era nulla di che. Ma eri... troppo gentile per confessarmelo.»
Alzò gli occhi su di me, a fatica, una luce tagliente glieli adombrò; mi fece capire quanto gli costasse dirmelo, quanto fosse ancora ferito.
Mi salì una nausea micidiale, volevo vomitare.
Mi coprii gli occhi - "Perché ti voglio bene, sorellina".
Mi voleva bene? Quello era sinonimo di "voler bene"?
«E...» Un altro stupido singhiozzo. «E poi?»
Non voleva proseguire, i pugni chiusi.
«Stavo male... Volevo solo mandarla via. Ma poi, prima di andarsene, mi ha chiesto se c'era qualcosa che avrebbe potuto farti stare come mi stavo sentendo io, o come si sentiva lei, che te lo saresti meritato.»
Aggiunse altri dettagli che ritenni abbastanza superflui, come il fatto che Alejandro avesse respinto i sussurri all'orecchio, i vani tentativi di abbracciarlo, confortarlo, sfiorarlo qua e là, ma l'attenzione era vincolata lì, sull'ultima parte della rivelazione.
Non volevo più ascoltare.
«Sei stato tu?» sussurrai spaventata, senza voce, senza parole, senza niente, ignorando le lacrime che avevano ripreso a scendere. «I commenti sono... opera tua?»
«No» scattò. «Io le ho solo detto che...»
«Che cosa?»
«Che se...» Anche lui si coprì - i palmi sulle palpebre e le dita che si allungavano sulla fronte. Ne uscì una voce rotta e attutita quando disse: «Che forse avresti capito cosa stessi provando se qualcuno avesse parlato male della tua vera madre.» Scoppiò a piangere. «Non avevo idea che avrebbe fatto qualcosa di simile... Ero convinto mi avesse fatto quella domanda perché era ferita, no lo sé. E quando erano spuntati i commenti, mi sono sentito così in colpa che volevo solo sparire... come se ce li avessi messi io.»
Olivia.
«L'ho cercata, ho provato a costruirci un confronto, le ho fatto presente che non ero un'idiota e che... avrebbe fatto meglio a cancellare ciò che aveva fatto» sputò a raffica, con il panico a cingergli le parole, mentre il mio cuore si incrinava sempre di più. «Aveva registrato la nostra conversazione, mi aveva intimato a starmene zitto, che avrebbe potuto far cascare la colpa su di me avendo quelle "prove".» Mia sorella. «A quel punto a chi avresti creduto? Sii sincera: a me, o a... tua sorella?»
Spinta da un miracolo, ritrovai un briciolo di energia per saltare giù dal tavolo, afferrare il sacchetto e correre.
«Aspetta.» Mi rincorse, a passo spedito. «Ophelia, aspetta!»
Si aggrappò alla mia spalla, costringendomi a voltarmi.
Assente, mi concentrai sul suo petto.
«Nena...»
Mi costrinsi a svuotare la mente, a pensare in maniera lucida sebbene ci fosse un casino, al momento, fondamenta crollate, convinzioni in polvere. Ci provai, nonostante le guance segnate e le ciglia bagnate, nonostante il cuore che piangeva in silenzio. È colpa di Olivia, non sua. Olivia, non Jay. Perché non riesco ad accettarlo? Probabilmente avrebbe fatto meno male se un colpo tanto basso me l'avesse inferto Alejandro. Meglio un amico, che la radice su cui si era basata gran parte della mia vita.
«Ti prego, nena» mormorò ancora. «Io ho provato a...»
«Jay.» Mi tremò il labbro. «Fammi tornare a casa.»
Riluttante, attese qualche secondo prima di rispettare quel desiderio.
Se fossi rimasta ancora a fissarlo in quello stato, sarei crollata un'altra volta. Per il bene di entrambi, gli voltai le spalle e uscii da lì.
Preferii correre per raggiungere la mia macchina, sebbene i miei amici, rimasti fuori a fumare, avessero provato a trattenermi.
Non volevo la compagnia di nessuno.
Volevo soltanto starmene sola.
Volevo solo tornare a casa.
Premetti il campanello.
Prima che mi rimettessi alla guida, avevo fissato il segnale lampeggiante della cintura di sicurezza per un tempo indefinito. Tic, tac, i secondi che passavano. Tic, tac, l'incredulità iniziale sostituita da un dolore lancinante al petto che mi aveva reso impossibile persino l'atto di respirare. Tic, tac, l'idealizzazione su mia sorella che si spezzava, cintura di sicurezza ormai slacciata.
Senza protezioni, la verità era uno schianto in faccia.
Avevo riflettuto sull'eventualità di essere la protagonista di un incubo. Incapace di trovare una spiegazione razionale che stesse in piedi, mi ero lasciata sopraffare dall'ennesimo pianto; la fronte sul volante, le dita strette attorno a esso fino a sbiancare le nocche. Avvenne senza pormi limiti; fu liberatorio, distruttivo, e agli ultimi frammenti di cuore non era restato che crollare ancora.
Una parte del mio inconscio si rifiutava di credere a quella terribile versione; Olivia era cambiata, me n'ero resa conto, ma ero anche arrivata a ipotizzare si trattasse di un... periodo. Che poi sarebbe tornata come prima.
Ma appena avevo riflettuto seriamente su quel pensiero di natura idiota, mi ero data della stupida: anche nelle metafore più semplicistiche si parlava di vasi che, una volta in frantumi, non tornavano più allo stato originale.
Figurarsi un essere umano.
Perché lei doveva essere diversa?
Ma soprattutto: in quale attimo della sua vita si era rotta?
Quando l'umore mi aveva permesso di guidare, avevo cominciato a viaggiare senza una meta, profugo di una terra di menzogne, alla ricerca di una deriva, una speranza. I pensieri avevano seguito lo stesso andazzo caotico: da "Olivia, perché?", non senza farmi salire il groppo in gola, ad altri come "Dove vado?", "Non voglio tornare a casa", "Non ho una casa", "Cosa dirò ai miei?", "Torno indietro", "Vado avanti", "Mi fermo da qualche parte, dormo in macchina".
Aveva pure iniziato a piovigginare. Tempismo perfetto.
Ferma a un semaforo rosso, avevo telefonato a Desmond.
Non si era più fatto sentire, nemmeno un messaggio. Probabilmente era rincasato e si era dimenticato di avvisare. Asciugandomi le palpebre, avevo scoccato un'occhiata infelice al sacchetto di carta sul sedile del passeggero, protetto dalla cintura.
Scattato il verde, avevo già scelto la destinazione.
E ora me ne stavo davanti alla sua porta, in compagnia di tremori che non mi permettevano di respirare. Mi sventolai aria al viso, pregando che bastasse per cancellare il crollo precedente. Dare delle spiegazioni avrebbe significato un'altra crisi. In sua presenza non era necessario.
"Aveva registrato la nostra conversazione".
Suonai ancora - non pensarci più.
"Mi ha intimato a starmene zitto".
Osservai la tettoia della veranda, le grondaie lacrimavano gocce d'acqua. Non riesco a non pensarci, non ce la faccio. E più mi mantenevo occupata contando, o chiedendomi dove fosse Desmond, più mi allettava depositare il sacchetto sullo zerbino e andarmene.
Tuttavia, la porta si spalancò.
Desmond, circondato dalla luce ambrata dell'ingresso, si presentò alla soglia con una maglia antracite a maniche lunghe e dei pantaloni che davano l'idea di essere comodi. Era la prima volta che lo vedevo con un abbigliamento tanto informale.
Conclusi che stava bene con qualsiasi cosa. Oppure era lui a rendere qualsiasi cosa bella. Perché questo era: una bella persona.
Dovetti compiere uno sforzo disumano per sorridere.
«Ciao.»
«Ehi, ciao.» Si schiarì la voce e incrociò le braccia; percepivo una strana ritrosia, non da lui. «Scusa se non ti ho più avvisata, ma...» Si massaggiò la clavicola. «Ho avuto un capogiro, dato che ero in zona sono tornato a casa. Ti avrei scritto, poi.»
Non ero sicura di credergli.
«Certo, hai fatto bene.» Saldai la presa attorno ai lacci del sacchetto, mi concentrai sui nostri piedi. «Adesso come ti senti?»
Non mi mandare via.
«Molto meglio.»
«Sei solo?»
Fammi stare qui.
«A quanto pare.»
«Io ero nei paraggi.»
Per favore, Desmond, per favore.
«Volevo prendere una boccata d'aria. Ero qui, e così...» Lo realizzai solo quando aprii gli occhi: per gran parte del tempo li avevo tenuti chiusi, e ora lui, con la mano sulla mia guancia, mi costringeva ad alzare il viso. «Ero qui, e così...» ripetei in un mormorio, le parole che viaggiavano per conto loro.
«Ophelia.» Notai le sue gote un filo colorite, le palpebre appesantite da quella che sembrava fiacchezza, ma non per questo si risparmiò uno sguardo meno duro. «Chi ti ha fatta piangere?»
Non farmi rispondere, Des, ti prego, che se lo dico ad alta voce mi costringi a dare un nome a questa sofferenza che mi sta pugnalando dall'interno. E non voglio. Non ora, non davanti a te.
Appena avvertii un pizzicore familiare agli occhi, mi feci scudo con il suo petto, tuffandomici per un mero nascondiglio; il tessuto della sua maglia assorbì i respiri irregolari, e mi concessi di inalare il suo profumo, le ciglia che tornavano nuovamente umide. Sono così stanca, stanca... Ignorando quanto insensato fosse, lo abbracciai forte, i singhiozzi attutiti, però, parlarono al posto mio.
In un primo momento i suoi muscoli si erano irrigiditi, e non ero sicura fosse dovuto alla raffica di vento gelido che soffiava su Filadelfia.
Dopo un po' ricambiò; un braccio attorno al collo, una mano tra i capelli. Di tanto in tanto, il pollice manifestava carezze sulla nuca.
«Puoi restare.»
«Da... Davvero?»
«Solo se rispondi a una cosa» disse. «Cosa mi hai portato?»
«Cupcake.» Tra i singhiozzi, uscì una risata. «E una... tortina.»
«Una tortina.» L'imitazione gli uscì volutamente acuta, rise.
«È piccola... Sono un disastro in cucina. È il meglio che sono riuscita a combinare.»
«Allora se l'hai fatta tu aggiungo una seconda condizione, se vuoi rimanere.» Mi allontanò dal suo petto e, mentre cercavo di asciugarmi frettolosamente gli angoli degli occhi con le maniche, mi sollevò il mento. «Dovrai mangiarla insieme a me.»
«No, l'ho preparata solo per te.»
«Appunto, quindi decido io cosa farmene, e tu hai l'obbligo morale di non obiettare.» Stavo per ribattere, ma poi premette la mano sul cuore. «Non vorrai ferire un povero trentaseienne come me, vero? La vecchiaia mi rende sensibile.»
«Ma tu non eri quello cattivo?»
«Nell'eventualità che non accetti.» Mi sottrasse il sacchetto di mano. «E poi stasera non ho mangiato praticamente nulla, per cui arrivi pure al momento giusto. Ero indeciso se affidarmi al frigo.»
Rientrò e spalancò la porta per me col piede scalzo. Con un movimento del capo, mi fece cenno di entrare.
«Sei sicuro?»
«Sì.» Si inumidì le labbra e il suo viso si irrigidì, donandogli una piega più severa. «Non immagini neanche quanto mi faccia male vederti in condizioni simili, Ophelia. Lo trovo sempre così sbagliato che tu, proprio tu, ti debba ridurre in questo stato» mormorò. «Qualsiasi cosa sia successa, vorrei che almeno qui, da me, non ci pensassi.» Poi affiorò un sorriso. «Di là ho anche delle fragole che ti aspettano.»
Nella mia personale concezione di casa, ciò che disse aveva l'analoga consistenza delle radici, laddove si basava la sua essenza, una promessa dove quel cumulo di parole rappresentava un abbraccio caldo.
Mossi un passo sulla soglia, con un sorriso riconoscente.
Grazie.
Varcata la cucina, dove ci accolsero plichi sparsi sul tavolo - e che Desmond si premurò di impilare in un angolo del divanetto -, mi imposi di resettare l'ultima ora; finsi di non aver mai ascoltato Alejandro, finsi di non aver mai avuto una sorella. Obbligai la ragione a immaginarmi in una realtà in cui ero sola, figlia unica.
Senza radici, senza identità. Mai adottata.
Era il suo compleanno, in fin dei conti, e per quanto a lui non entusiasmasse l'idea di celebrare gli anni che avanzavano, non trovavo corretto rovinarglielo con delle vibrazioni tanto negative.
Desmond collocò i tre cupcake accanto a un rotolo di Scottex e infilò nel frigorifero il portadolci di plastica, al suo interno una torta non più grande di due palmi accostati. Dopodiché, mi obbligò a svolgere delle attività che richiedevano collaborazione e chiacchiere. Probabilmente, con qualcun altro e dopo un simile scombussolamento di serata, non sarei mai riuscita a intrattenerle.
Ma qualcun altro non era Desmond.
«Devo proprio?»
«Se vuoi restare, sì.»
«Non sei corretto così...» Di fronte al piano cottura, fissai la confezione ancora sigillata di pancetta che mi stava porgendo. «Quando si tratta di friggere qualcosa vado nel panico, ti avviso.»
«Ma va. Non serve neanche l'olio.»
«Sì, ok, ma sta di fatto che sono lenta.»
«Tranquilla che non cambio idea: tu lo fai.»
«Morirai di fame.»
«Moriremo. Plurale. Mangi con me. O almeno.» Lanciò un'occhiata divertita alla mia faccia contrariata. «Dipende da te.»
Depositò la confezione sul piano da lavoro e, recuperate due uova, si posizionò davanti a una padella che aveva lasciato a riscaldare sulla fiamma, accanto alla mia. Con due secchi e studiati tocchi lungo il bordo, cascò il contenuto a occhio di bue.
Un sibilo riscosse l'aria.
«Ti informo che non ho molta fame.»
«Peccato, si vede che mi farai compagnia.»
Mi arresi, e accesi il bruciatore. «Come fai a cenare ora?»
«Considera che nello stomaco ho solo due birre e delle arachidi. Pessime, tra l'altro.» Mosse qua e là le uova dal tuorlo, quasi stesse stuzzicando la coda mozzata di una lucertola con un bastone. «Perciò sì, sto letteralmente morendo di fame. Sì, me ne sbatto dell'orario. Sì, non mi dispiace cenare come se fosse colazione. Sì di nuovo, c'è un'alta probabilità che il motivo per cui Ian mi ha trascinato fuori, con la scusa del mio compleanno, fosse per abbordare una tipa che - spoiler - l'ha pure fatto andare in bianco.» Scosse la testa. «Ma quanto può essere coglione.»
Risi, mentre cautamente lasciavo scivolare due strisce di pancetta nella padella, l'una di fianco all'altra. «Spezzo una lancia a suo favore: gente come lui ha la mia più profonda ammirazione. Ian non si lascia frenare dalle incertezze: si butta e basta. E se va male, pazienza, ci guadagna solo un due di picche.»
«E una lunga, lunghissima consulenza dal sottoscritto.»
«Vero, dimentico che poi ti tocca fare lo psicologo.»
Esibì un sorriso tiepido e ribaltò le uova con la spatola.
Non riuscivo a capire se fosse un'impressione influenzata dal malessere che continuava a banchettarmi tra le membra, ma da quando aveva aperto la porta lo tradivano modi di fare che stonavano con la persona che avevo conosciuto; c'era un'insolita chiusura nella sua presenza, nei gesti, non tanto in ciò che diceva.
Misurato, frenato.
Fino a qualche settimana prima non si faceva problemi a manifestare affetto, a sfiorarmi. I ricordi delle nostre mani che si giocavano a rincorrersi parevano l'effetto di un'allucinazione, ricordi di un'altra Ophelia. Farlo, ora, che fosse per passarmi un utensile o per ricambiare un abbraccio, equivaleva a una... sfida.
Perché?
«No, ferma. Ti faccio vedere.»
Notando la mia evidente difficoltà a girare la pancetta, intervenne, non senza una nota divertita nel tono; all'inizio si presentò titubante appena dovette decidere se afferrarmi la mano o meno, quella impegnata con l'utensile. Alla fine lo fece; dita attorno alle mie, come se si fossero infilate in una rassicurante presina, l'altra mano aggrappata al piano, accanto al mio fianco.
Così, conscia di trovarmi senza una via di fuga - condizione che, tuttavia, non mi disturbava - e di avvertire il suo respiro all'orecchio, mi mostrò come compiere dei movimenti più attenti.
«Per quanto mi riguarda, li mangerei anche bruciati.» La sua mano guidava e io mi lasciavo trasportare, lui la corrente e io la vela che aveva un disperato bisogno di una direzione. «Ma magari evitiamo... E secondo me sono pronti, meglio spegnere.»
L'incantesimo si spezzò.
Non sapevo se fosse stato frutto della mia immaginazione, ma l'attimo prima che lasciasse la mia mano avevo percepito il suo pollice trattenersi per un'ultima, fugace e lenta carezza sul dorso.
Un'inspiegabile tensione, tra le righe di quegli sfioramenti.
Ma per i quali mi costrinsi a sorvolare a tavola; quasi avessimo pigiato su un interruttore, le nostre chiacchiere si accesero come lampadine scariche da tempo, a cui mancava illuminare stanze e persone, e gareggiarono per intraprendere una piega più vivace.
Nonostante il grosso elefante che bussava alle porte della mia coscienza, stanza che si era ridotta a una pericolosa cristalleria.
Ignorare divenne una necessità: nascosi quella tristezza opprimente con morsi alla pancetta e aneddoti a bocca piena. Lui, probabilmente scosso da un turbamento analogo, si impegnò a mascherarlo con una mano sulla guancia e l'altra che agitava la forchetta laddove viaggiavano i discorsi, dimostrando quanto gli piacesse, quanto fosse preso da quell'accanimento di parole che scavalcavano i tormenti interiori. Parole che erano dei salvavita.
E come le nostre parole che trovarono una loro comfort zone, così i nostri corpi: un boccone tira l'altro, che le uova grigliate vennero sostituite da una fetta di torta, con le nostre posture che si adeguarono alla leggerezza che scandiva l'intimità di quel momento: stravaccandosi, completamente a loro agio, privati di una formalità che non ci era mai appartenuta, non quando stavamo insieme; io seduta sul tavolo, le gambe ciondolanti, lui i piedi incrociati su di esso mentre recuperava le briciole dal piatto.
«Mi chiedo.» Ingoiai un boccone di pan di Spagna al cacao, la crema al mascarpone e fragole in grado di addolcire ogni genere di pensiero. «Sembrerà una domanda di cattivo gusto, ok, ma...»
Diffidente, fermò il cucchiaino e sollevò lo sguardo. «Non ho intenzione di tingermi quei capelli grigi che mi sono spuntati.»
«No, aspetta, non intendevo dire che-»
«Si chiama canizie precoce.»
«Desmond...»
Ammiccò, e rise mentre masticava.
Risi a mia volta, scuotendo la testa. «La mia era una domanda seria, anche se scomoda. Perciò sei pure libero di ignorarmi.» Spostai i resti del pan di Spagna col cucchiaino, producendo dei delicati tintinnii. «Perché tutto questo accanimento sull'età?»
«Di' la verità: non vedevi l'ora di chiedermelo.»
«Ammetto di sì.» Abbassai il piatto sulle cosce. «Perché?»
Si allungò per posare il suo sul tavolo e, tornando a rilassarsi sulla sedia, si portò il dorso del pollice in bocca, lavando via la crema che ci si era appiccicata. Fissandoselo, poi, borbottò: «Ora ti faccio una confessione: il tempo passa troppo veloce, e mi mette parecchio a disagio. Fino a ieri sudavo per la tesi, prendevo per la prima volta in braccio Cindy in fasce, non mi preoccupavo di darmi delle tempistiche per i miei progetti, mentre ora...» Si bloccò, esibendo un sorriso amaro. «Sono a pochi passi dai quaranta, ma mi sembra di non aver ancora combinato un bel niente, Ophelia. Di là, in sala, ci sono delle bozze che probabilmente rimarranno tali per chissà ancora quanto tempo. E ho queste idee in testa, fin troppe idee, ma finisco sempre con l'esserne insoddisfatto, e quindi cambio, cambio, cambio, e il tempo scorre, scorre, scorre» cantilenò roco, stanco. «Sarò cinico, ma come quel progetto inutile, così sarà la mia vita: una bozza.»
Concluse con un tono inaspettatamente spassionato.
«Non è vero.»
«Ah no?»
«Un sacco di gente trova una sua realizzazione tardi. Ad esempio, alcune amiche di mamma stanno ancora trovando un impiego, chi per un motivo e chi per un altro. Una per la ditta per cui lavorava che purtroppo ha fallito, l'altra appena è entrata in maternità.» Posai il mio piatto sopra il tuo, e lo guardai negli occhi. «Hai tutto il tempo del mondo per finire i tuoi progetti.»
«Bah, non lo so.» Posò le mani in grembo; non potei fare a meno di notare il rossore che persisteva a velargli le gote. «Mi metto sempre nell'ottica drammatica del "E se non ce l'avessi tutto quel tempo?". Boh, la graphic novel che avevo in mente, dei figli... Sono cose che non si realizzano così istantaneamente.»
«Questa visione così tragica non è da te.»
«Quando non lavoro, mi capita di pensare. Passatempo abbastanza tossico, me ne rendo conto.» Voltò la testa e fissò l'attenzione altrove, mormorando: «Chissà, ragazzina, magari muoio prima di concludere anche uno solo di questi progetti».
«Ok, mi pare che il discorso sta prendendo una piega un po' deprimente.» Saltai giù e mi sedetti sul suo ginocchio senza cerimonie; Desmond non si oppose, né mosse un muscolo, tanto era preso a fissare quel punto lontano. Gliele afferrai, inducendolo a guardarmi. «Andiamo, io credo nei tuoi progetti.»
«Brava, fallo anche per me.»
Spinsi gli indici agli angoli della sua bocca.
«Me lo fai un sorriso?»
Mi scrutò e, nonostante il sorriso artefatto, non brillava alcuna emozione in quegli occhi. «Solo se mi dici cosa ti è successo.»
«No.» Nervosa, sfilai il telefono e lo appoggiai davanti un bicchiere, in posizione orizzontale. «E ora ci facciamo una foto.»
«Ophelia...»
«Ti ho detto di no.» Azionai la fotocamera e inserii l'opzione che avrebbe garantito degli scatti automatici a distanza di qualche secondo. «Non mi va di parlarne, ti prego. È il tuo compleanno.»
«Lo era fino a una mezzoretta fa.»
«Pazienza, fa' un bel sorriso.»
«Lo sto già facendo.»
«Non è vero. Sforzati.»
«No, mamma, non mi va.»
Appena emise quel lamento infantile, non ci pensai nemmeno; lesta, allungai un dito sulla torta rimasta a metà, prelevai una spessa patina di crema e gliela cosparsi sul naso e sulla mascella.
«Toh!» Una risata ribollì in gola. «Cercasi clown!»
Desmond non batté ciglio, apparentemente indifferente.
Si morse la guancia, poi, forse per reprimere un sorriso.
«L'hai fatto davvero?»
«Perdo la pazienza anch'io.»
«Capisco. Aspetta che te la ritrovo.»
Mentre mi costringeva a stare ferma sul suo ginocchio, si inclinò pure lui in direzione della torta, la presa alla coscia salda. Un secondo, e il suo pollice cosparso di crema si fiondò a strofinarsi sulla mandibola, avanti e indietro, tipo i tergicristalli.
Scoppiai a ridere, strizzando gli occhi, le mani che invano cercavano di allontanargli il braccio. E in quell'iniziativa che aveva tanto di folle e decisamente poco di maturo, Desmond sorrise a denti scoperti, ridendo a sua volta, con le rughe ai lati degli occhi ben visibili, anche quando gli imploravo di smetterla.
Dopo qualche istante passato ad agitarmi su di lui e a lanciare urla idiote, percepii come quegli sfregamenti, inizialmente rudi, partiti col puro e semplice scopo di assecondare la scia gioconda di quello scherzo, si fossero ammorbiditi, ridotti a delle carezze. A forza di ridere non mi ero nemmeno resa conto di aver posato la fronte sulla sua tempia, lui voltato, il naso che toccava il mio.
Appena realizzai la situazione, mi allontanai quel poco che mi permise di guardarlo. Desmond non staccò né gli occhi da me, né la mano dalla gota. Solo appena si concentrò sulla mia guancia si obbligò a sciogliere la presa. Parve costargli una gran fatica farlo.
«Ascolta.»
Uscì dalla bocca di entrambi.
Lui, con un cenno del capo, mi invitò a proseguire.
«Volevo farti vedere una cosa.» Mi sistemai una ciocca dietro l'orecchio e ne approfittai per rimuovere la crema dal mento con un tovagliolo. «Non è un regalo. Però... ci tenevo a mostrartela.»
Mi fissò con una vaga luce di sospetto.
«Di cosa si tratta?»
«Se mi passi il portatile, ti faccio vedere.»
«Non aspettarti cose wow.»
«A dire il vero, non ho idea di che cosa tu voglia mostrarmi.»
Seduta a gambe incrociate sul suo letto, la luce ambrata dell'abatjour proiettava stampe luminose per metà stanza, suscitando un elegante chiaro-scuro che avevo ammirato solo nei suoi disegni a matita.
Desmond si sfregò il mento, l'espressione un allinearsi di ombre che marcavano la sua ormai evidente perplessità. Eppure stette muto, osservandomi infilare la chiavetta al portatile e smanettare col mouse che aveva collegato.
Si avvicinò, la mano sprofondò sul materasso, dietro di me.
«Per un attimo ho pensato che volessi rendere questa serata memorabile con uno dei miei film preferiti, ma temo che spararsi due lunghe ore di Interstellar all'una di notte non alletti nessuno.»
Risi. «Niente Interstellar. Ma se ti interessa, qui dentro ho tutti gli episodi di Georgie, Mila e Shiro, Pollon, Lady Oscar, Ransie la strega... Ah beh, al limite ho qualche filmato della cresima.»
«UFO Robot?»
«Assente.»
«Ora sono deluso.»
«Purtroppo non impazzivo per i cartoni con i robot.» Cliccai sulla cartella "Personale". «L'unico film che c'è è La La Land.»
«Ma è una persecuzione...»
«Avversione per i musical?»
«Al contrario. I Miserabili e Mamma Mia! sono stati belli da vedere. Ma quello l'ho odiato. All'epoca Latisha mi aveva costretto a vederlo al cinema, con lei...» Sebbene stesse parlando dell'ex fidanzata, non c'era amarezza. Anzi, rispetto a qualche mese prima, parve tranquillo. «Sì, è bel film, ma lì ho capito di non provare tutta questa simpatia per i finali aperti. Nonostante avesse senso, eh.»
«Secondo me hanno il loro fascino.»
«Non per chi ha bisogno di concretezze, nella sua vita» controbatté, stiracchiandosi. «Immagina centoquindici minuti in cui ti illudono un determinato finale, e poi - puf - negli ultimi dieci c'è solo la nebbia, le premesse iniziali andate a farsi fottere. Non ti verrebbe voglia di rintracciare il regista e querelarlo?»
Smisi di smanettare sulla tastiera per guardarlo.
«Stai ripensando al discorso sulla "bozza"?»
«Anche.»
«Sai qual è il tuo problema, Desmond? Che cambi prospettiva quando fa comodo a te. Non anche in quegli aspetti della tua vita che sono altrettanto importanti e, perché no, persino scomodi» dissi morbida. «Se in questo momento vedi il futuro come una bozza o, restando in ambito "film", con un finale indefinito, non prenderla per forza come un "Vuol dire che non concluderò neanche un progetto", piuttosto come un "Avendo carta bianca ho la possibilità di tracciarmi un altro tipo di finale, forse pure migliore".» Tornai alla tastiera, consapevole di aver catturato la sua attenzione. «Non svalutare la nebbia, Des, penso che a volte servi anche quella.»
Dopo un po', esitò: «E che utilità avrebbe, secondo te?»
«Immagino per ricominciare da zero.»
Cominciavo a credere che la nebbia che aveva iniziato ad aleggiare attorno alla mia vita fosse stata necessaria. Un male a fin di bene. Dopo la rivelazione di quella sera, capivo il senso di smarrimento che era molto probabile stesse provando Desmond.
Lui metteva in discussione l'avvenire. Io il mio passato, ciò che avevo sempre creduto fosse stato costruito su basi compatte.
Olivia... Olivia.
Pensare il suo nome bastò per torcermi lo stomaco.
«Aspetta, quello mi interessa.» Desmond mi riscosse; mi sottrasse il mouse e il cursore viaggiò sulla cartella "Juilliard". Appena scoprì il contenuto, la delusione fu lampante. «Vuota?»
«Avevo cestinato tutto.»
«Che cosa c'era?»
Ripresi possesso del mouse, piuttosto brusca, uscendo da lì. «Documenti da allegare alla candidatura. Curriculum scolastico, un saggio sulle motivazioni che ti spingono a rivolgerti all'accademia, una trascrizione ufficiale del liceo, e...» Al ricordo di una me in camera da sola, fatta eccezione di portatile e webcam, sorse un sorriso nostalgico. «Un video di un minuto in cui mi presentavo, oltre a quello in cui cantavo tre brani. Dio, sembra passata un'eternità.»
Spalla contro spalla, con la coda dell'occhio lo vidi girarsi.
«Stai valutando di riprovarci?»
«Sì.» L'emozione che mi scaldò le guance. «Non so quando, non so se nell'effettivo lo farò, però l'idea c'è.»
Anche senza vederlo, ero certa che avesse sorriso.
«Ok, ci sono.» Cliccai nella cartella "Out Loud", al suo interno apparvero una ventina di video. «Una volta mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto conoscere più di questa Ophelia, quella che non aveva paura di buttarsi, di mostrarsi per ciò che era... Quella spavalda, insomma.» Gli indicai lo schermo con un certo impaccio. «Ecco, qui ne è pieno. Non apro queste cartelle da tanti anni, ormai. Mi fa troppo male rivedermi in quel modo... Però con te volevo fare un'eccezione.»
Un luccichio di curiosità balenò nelle sue iridi.
«E come mai proprio con me?»
«Perché mi hai già vista su un palco» ammisi. «Quindi nulla, non mi dispiacerebbe se vedessi pure i miei "dietro le quinte".»
C'era un ulteriore motivo che mi aveva spinta a farlo: da poco, mi era nato questo piccolo desiderio di rivedermi in quei frammenti datati, e dal contenuto prevalentemente stupido. Avevo bisogno di verificare coi miei occhi quanto fossi cambiata, quante occasioni avessi sprecato, che cosa avevo perso, se i sorrisi del presente fossero davvero diventati una subdola imitazione rispetto a quelli di una volta. Quanti danni una radice marcia, guasta, avesse provocato alla mia esistenza, alla mia voce.
Però, era necessaria la compagnia di Desmond.
Da sola, ero sicura di non reggere.
Soffocò un colpo di tosse e si alzò un po' le maniche, svelando un orologio al polso. Girò il monitor nella sua direzione e, mentre mi avvicinavo a lui, iniziò a far gironzolare il cursore tra i filmati a una rapidità che mi suggerì nuovamente quanto ci fosse abituato nel suo mestiere. Di sottecchi, osservai la sua espressione: da una parte manifestava un lieve stupore, complice l'interessamento a sollevargli le palpebre, dall'altra era evidente quanto fosse confuso.
Partì da uno che avevo denominato "Harlem Shake".
«Oddio.»
«Sì.»
«Cioè...»
«Sì.»
«Indossavi...»
«Il costume di un T-Rex, sì.»
Il tormentone che era diventato popolare in quegli anni, prevedeva di riprendersi in due clip: la prima in cui vigeva un clima tranquillo, gente indaffarata nelle loro attività, e la seconda in cui la normalità veniva spazzata da un'esplosione di costumi stravaganti e balli scoordinati.
E noi avevamo cavalcato l'onda. Warren si presentava praticamente nudo, fatta eccezione per un paio di boxer zebrati, dei calzini a pois, e la maschera di un clone trooper di Star Wars. Fannie, accanto a suo fratello, si dilettava nell'hula-hoop con addosso il costume intero di un elefante. Gwenda, in groppa ad Alejandro a torso nudo, il quale si era rassegnato alla maschera di un cavallo, indossava degli occhiali da sole e una parrucca fucsia, la stessa di Natalie Portman nel film Closer, e faceva avanzare il suo nobile "destriero" a suon di pacche sul didietro.
Nel mezzo io, con quell'ingombrante costume arancione.
A simulare un twerk... mediocre.
Se all'inizio Desmond si era trattenuto con dei morsi sulle labbra, appena mi vide twerkare mentre rischiavo di inciampare una volta sì e l'altra pure, non riuscì più a trattenersi.
«Va bene, me ne sono pentita.»
Feci per appropriarmi del portatile, ma...
«No, no.» Senza smettere di guardare, premette il palmo sulla mia faccia. «Io voglio vedere tutto.»
Toccò a "The Lazy Song".
«Questo è...»
«Ancora più imbarazzante dell'Harlem Shake?»
«Un capolavoro incompreso.» Continuò a sbellicarsi, a sorprendersi, a manifestare un'interesse a dir poco scrupoloso. «Ero convinto che nei panni di Bruno Mars ci metteste quel tipo là...»
«Alejandro.»
«Seh.»
«E invece c'ero io.»
C'era da riconoscere che la coreografia ci era uscita sorprendentemente bene. Era identica all'originale: le maschere da scimmia che indossavano gli altri, gli occhiali da sole, le camicie a quadri, i boxer che, per tener fede al ballo, noi ragazze ci eravamo fatte prestare dai ragazzi. Non ci tradiva niente, neanche un errore, neanche quando dovevamo calarci i pantaloni.
Nel nostro canale, era il video che aveva raggiunto più visualizzazioni.
Pian piano la vergogna venne rimpiazzata dalle mie, di risate, e a una voglia crescente di godermi il contenuto dei filmati, al punto da rubare io il mouse a Desmond e decidere il prossimo.
Si passò a "Happy", dove le note di Pharrell Williams furono il sottofondo per una gara di ballo imbecille fra me e Warren, che consisteva nel replicare le mosse presenti nel videogioco Fortnite. Fu il turno di "Hey Ya!" e del limbo che avevamo deciso di compiere nelle spiagge di Cape May. In "Smooth Criminal" emulavamo tutti quanti dei ridicoli Michael Jackson - non ci eravamo mai inclinati di quarantacinque gradi come l'artista, ma per quel poco che ero riuscita a fare, ero comunque caduta. La nuance latinoamericana di "Maria Maria" raffigurò me e Alejandro alle prese con uno dei balli della sua terra madre - pessima ballerina, e infatti gli calpestavo i piedi ogni volta che mi prendeva per la vita. Warren, con Gwenda, ci lanciavano dei fischi.
«Ma no, perché hai chiuso?»
Desmond scrollò spalle.
«Volevo prendere per il culo te, mica lui.»
Stavo per protestare quando aprì un video intitolato "Gospel - Esperimento".
Ma non era in un'altra cartella?
«Non è Gwenda, quella?»
Desmond la puntò.
«Sì.» Ero ancora confusa. «Sì, è lei.»
«Siete in una chiesa, giusto?»
«Già» mugugnai. «Dammi, cambiamo video.»
«Lascia, sono curioso. Ci sei pure tu.» Come me, stava cercando di capire. «Non mi hai mai detto che cantavi gospel.»
«No, infatti, solo che...» Osservai le tuniche blu, le stesse che indossavano i componenti del coro; nell'insieme, gli uni vicini agli altri, ricreavamo la superficie del mare. «Quando avevo sentito cantare Gwenda la prima volta, mi era venuta voglia di sperimentare il genere. Mi aveva rapita. Così mi aveva proposto di provare insieme al gruppo per una delle funzioni domenicali.»
Lean On Me esordì dalle gole del coro.
Papà, che mi riprendeva dalle panchine, fece zoom sulla mia figura minuta e felice, la più giovane se messa a confronto con il gruppo; ci stavamo muovendo in sincronia in lenti ondeggiamenti del bacino, ora battendo le mani a tempo, ora sventolandole per aria.
In un frame, in cui era chiaro che fossi riuscita ad avvistare i miei genitori, gli avevo lanciato un occhiolino mentre cantavo, l'entusiasmo che mi faceva sorridere con tutta la faccia.
Ad un certo punto, la solista piazzata davanti al coro, una donna nera con qualche chilo di troppo e un paio di occhiali da vista, si era girata e mi aveva teso la mano. Avevo fissato Gwenda, completamente spaesata. Lei, ondeggiando, mi incoraggiò a seguire l'invito con una spintarella.
Una volta raggiunta, la donna mi circondò le spalle con il suo braccio robusto e mi passò il microfono per continuare il ritornello.
«Oh, è diventata una fragolina.»
La voce di mamma, attutita dai cori. Le scappava da ridere.
Ed era così: la carnagione pallida aveva assunto una notevole sfumatura rossastra, ma nonostante la vergogna iniziale, avevo continuato a cantare con grande entusiasmo, consapevole che un'esperienza simile non mi sarebbe più ricapitata.
«Guardala, Cordelia, guarda come si diverte.»
Papà aveva inserito un primo piano sulla mia faccia.
«Già, quanto è bella la nostra Ophelia...» Posai la testa sulla spalla di Desmond, rapita dal filmato, dalle parole dei miei, da un'Ophelia così lontana anni luce da quella attuale... ma che in qualche modo desiderava riottenere il privilegio di sentirsi come in quella vecchia inquadratura: spensierata, rossa dall'emozione, felice. «Non c'è niente da fare: è fatta per stare su un palco.»
«Ti invidio, Ophelia.»
Capii soltanto in un secondo momento che quel mormorio dal retrogusto amaro proveniva dalla voce di Desmond e non dal pc. Sollevai lo sguardo sul suo viso, lui restò concentrato sul filmino.
«Perché dovresti?»
«Perché a te non fa paura la nebbia.» Fece un mezzo sorriso, che interpretai come un "mi sento un perdente solo ad ammetterlo". «Hai interrotto il canto, ti sei allontanata dai tuoi amici, hai abbandonato te stessa... Immagino che non ti aspettavi nemmeno di arrivare dove sei ora: a ricominciare.» Fissò con un che di severo le nostre mani sovrapposte. «Ti puoi permettere qualsiasi strada, qualsiasi, Ophelia, e avresti la capacità di ravvivarla, di renderla... bella.»
«Non è come dici tu» borbottai. «Anch'io ho paura. Ne ho tanta.»
Mi guardò a lungo, mormorando: «Allora insegnami ad avere paura a modo tuo».
La verità era che preferivo brancolare tra le incertezze, non dare nulla per assodato. Se sapessi già il finale delle mie scelte, avrei paura di arrivarci senza rispettare le mie aspettative. Avrei paura sin dal principio, avrei paura di non reggere la delusione.
Rischiare era la strada migliore. Rischiare, mi aveva permesso di incontrare i miei amici che, altrimenti, non avrei più rivisto.
E anche lì, in una stanza sommersa dalla penombra, la nebbia si intrufolò con la stessa accortezza di un ladro: il video continuò, e continuò, rumore marginale, ronzio ovattato. E continuò ancora, pure quando nessuno di noi guardò più nulla.
Fu lo schermo, a farlo. In silenzio, assistette alla ragione dileguarsi.
Corto circuito, interruttore spento, le nostre labbra a brancolare nel buio, a cercarsi per la prima volta, quasi avessero paura di perdersi in quel labirinto di domande irrisolte, di "se" e di "ma", dove il futuro era imperfetto e il presente un continuo abbozzare.
Fu impossibile stabilire chi, se a baciarlo fossi stata io, o se fosse stato lui a baciare me. L'unica certezza che contribuì a sciogliere ogni rigidità rimasta, fu il come: con una lentezza sofferta, dietro alla quale si nascondeva - e si percepiva - una gran frenesia. Frenesia che risultò difficile da tenere a bada, dove le mie dita arpionavano la sua maglietta, e le sue si arrampicavano delicatamente dalle spalle al mento.
Una brevissima pausa, il tempo di allontanarsi, di guardarci negli occhi, di guardarci le labbra, che gli afferrai nuovamente il viso tra le mani, avvicinandomi di nuovo. Un tocco, una pausa. Un altro tocco, un'altra pausa. Quelle pause costanti che sottolineavano impaccio, paura, desiderio, ma paradossalmente anche un'incontenibile voglia di continuare e mai più smettere.
E non smettemmo.
Ogni gesto, ogni scambio umido fu una scala, il crescendo del soprano: io che mi sollevavo lentamente senza lasciargli andare la maglietta, con quella stupida paura onnipresente che mi sussurrava di star sbagliando, lui che non mi lasciava il volto, io che mi sistemavo sulle ginocchia tremanti, le sue dita tra i miei capelli, dietro la mia nuca, io che prendevo posto sulle sue gambe.
«Aspetta» ansimò a fatica, premendo la fronte sulla mia; continuava a tenere gli occhi chiusi, quelle mani che mi racchiudevano il mento, e che non mi avrebbero più mollata. «Questa... potrebbe rivelarsi una delle più grandi cazzate che abbia mai fatto in trentasei anni.» Tra una parola e l'altra, il fiatone mi impedì di comprendere se il suo tono fosse serio o smorzato da un'ilarità fasulla. «Fai ancora in tempo a prendere le tue cose e a tornartene a casa. La porta è lì.»
«Desmond.» Gli accarezzai le guance, la barba mi punse la pelle. «Io sono a casa.»
Aprì gli occhi, dietro ai quali ci lessi una dolce tristezza. «Questa casa non ti porterà più lontana di dove sei ora, Ophelia.»
«Invece mi ha portato più lontana di quanto si aspettasse.» Gli toccai la punta del naso con la mia, che lui ricambiò strofinandola a sua volta, quella bocca che faceva avanti e indietro. «Tu sei sicuro di voler abbozzare pure questa scelta?»
Prima di baciarmi di nuovo, mormorò: «Anche a occhi chiusi».
Quell'uscita ci costò un sorriso.
Era come se ci fossimo infilati reciprocamente una benda, in un certo senso.
Tuttavia, smettere di guardare al futuro servì. Servì in quel momento, almeno. Servì quando Desmond mi fece sdraiare sul materasso, quando stette sopra di me, la sua gamba tra le mie, quando a quel bacio si mischiarono impazienza e versi rauchi, con le mie mani che non sapevano più dove aggrapparsi, se al suo collo, le spalle, sul petto ansante.
Ignorai la vocina interiore, quella che mi ricordava che, prima o poi, avremmo dovuto aprire gli occhi.
Ma per ora ci bastò rimandare e lasciare che la nebbia offuscasse le nostre menti ancora un altro po'.
Per pensare, c'era ancora tempo.
ANGOLO AUTRICE
Ho delle occhiaie PROFONDE.
Una stanchezza ABISSALE.
Due maroni COSÌ.
Ma almeno ho finito.
Passando a cose più rilevanti:
È successo.
E voi: "Oh, finalmente, mo avverranno solo cose belle."
E io:
"Sì..."
Questions:
▪️Jay: facciamo un salto indietro; la mazzata per Ophelia e la verità su sua sorella. Diciamo che la chiave di volta per farle aprire gli occhi ce l'aveva proprio Alejandro. Come avrete capito anche voi, il responsabile non è lui, ma purtroppo Olivia. La ragazza, giocando d'astuzia, ha fatto sì che lo manipolasse per benino, consapevole della sua immagine, che essendo la sorella non avrebbe mai potuto mentirgli su una cosa simile. Quindi, è riuscita nell'intento: ossia che il ragazzo stesse zitto per tutto questo tempo. Jay è sempre un pezzo di pane, chiariamoci, ma è umano anche lui, e quando aveva sentito tutto ciò da Olivia e gli aveva fatto quella domanda, spinto dalla rabbia, dalla delusione più profonda, non ha potuto non risponderle in quel modo.
Ditemi, vi aspettavate un gioco tanto malato, da parte della sorella? Molti di voi, com'era ovvio, avevano indovinato già da tempo che dietro ai commenti i c'era Olivia. Ma questo aspetto verrà approfondito meglio appena le due sorelle si confronteranno.
Ah, ora vi è chiaro perché c'era questa guerriglia fra lui e Gwenda. Anticipazione: solo lei ne era al corrente. Il perché e spiegazioni varie arriveranno nei prossimi capitoli. 😎
Intanto, parliamone pure qui. 👀
▪️Desmond: amore per il compleanno o meno, l'ha festeggiato nel migliore dei modi, eh. 😂 Argomento che mi sta a cuore e per cui, negli ultimi tempi, è responsabile di alcuni vuoti incolmabili è proprio quello del futuro. Più scrivo di lui, più mi ritrovo a scoprirci tante cose in comune... Gli voglio bene anche per questo. Vi aspettavate questa svolta proprio qui? Cosa avete pensato dei loro discorsi? Soprattutto: cosa avete pensato del bacio? 🖤
▪️Scena preferita?
Vi confesso che ancora non ho capito se mi piaccia oppure no. Ma forse forse qualcosa mi piaciucchia. Btw, spero come sempre che a voi sia piaciuto un minimo.
Fatemi sapere! 🖤
Mo, ho bisogno di riposo.
Tanto riposo.
A presto!
Playlist:
Soul Meets Body — Death Cab for Cutie (prima parte; fino a quando Ophelia non entra alla tavola calda)
Stones — Barbarossa (prima parte; da quando Alejandro inizia a raccontare, fino alla fine)
I Wanna Love — Scout Niblett (seconda parte)
Girl From The North Country — Johnny Cash (terza parte; fino a quando mangiano la torta)
Waiting for an Invitation — Benji Hughes (terza parte; da lì fino alla fine)
Lean On Me — Glee Club (quarta parte; quando lo leggerete)
Instagram: The_blackcatshadow
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