3. A mosaico
3. A mosaico
Willow Grove Avenue.
Casa dolce casa.
L'orario nel quadro della mia piccola, ammaccata bimba a quattro ruote mi stava suggerendo di scendere. Da quando ero arrivata a destinazione, mi ero incantata a osservare gli gnomi da giardino, che nella loro immobile solitudine attendevano di essere ricollocati in posizione verticale, e il celeste delle sculture dei due mini pavoni, appostati sui gradini che conducevano sotto alla tettoia del portico, come antiche guardie reali. Eppure, sembrava che una forza invisibile mi avesse annodato i muscoli delle gambe.
Picchiettavo i pollici sul rivestimento del volante. Battevo il piede sul pedale del freno. Inspiravo dalle narici, finché non frizzavano.
«Ok, basta.»
Posi fine all'attesa, slacciando la cintura.
«Basta, basta, basta.»
Me lo ripetei in un mormorio anche quando sbattei la portiera e mi saettò davanti un ragazzino in skateboard. I basta, basta borbottati tra i denti mi accompagnarono sino alla porta numero ventisette, scavata in quella che si presentava come un'ampia e aggraziata facciata rustica. Tra schiere di mattoni e tegole che spuntavano sopra le grondaie, non si capiva dove iniziasse il tetto o finisse la parete; rispettavano la stessa tonalità sbiadita di colore e tocco vissuto, quasi qualcuno avesse utilizzato la gomma di un piccolo gigante per rendere il rosso acceso di una tonalità che saltasse meno all'occhio.
Volevo credere che quella casa, in fondo, mi rappresentasse.
Mentre il mazzo di chiavi tintinnava sulla serratura, l'udito accolse un suono diverso dai muratori che si apprestavano a ristrutturare un edificio in fondo alla via e dagli scampanellii di una fila di biciclette che passò alle mie spalle. In trance, fissai gli intarsi di legno che scorrevano sulla porta. Capii che si trattava della delicatezza che sguazzava nelle parole dell'Ave Maria di Schubert.
Ma non era la voce di Cordelia.
Le palpebre si abbassarono, dentro di me mi feci coraggio, e avanzai nell'ingresso ora saturo di preghiere, che fluttuavano nell'atmosfera tersa come angeli creati nel cristallo. Motivo per cui cercai di non fare rumore, per paura di rompere qualcosa di tanto fragile. Era insolito che un allievo di mia madre possedesse delle doti canore di un calibro simile. Usignoli rari, li soprannominava.
Chiamava così pure me.
I miei movimenti rallentarono per seguire la cadenza del brano, facendo attenzione a dove mettevo i piedi. Le labbra, attirate dall'incantesimo, mimavano il testo, e la borsa trovò posto su un cassettone, tra due grandi cornici. L'una inquadrava i miei genitori adottivi il giorno del loro matrimonio, sotto le fronde di un salice. L'altra ritraeva soltanto me e Olivia unite in un tenero abbraccio.
Di cinque anni più piccola, calavo la parte dello scricciolo. In realtà, il mio mondo si riduceva un po' tutto a uno scricciolo quando mi trovavo vicina a lei. L'altezza, la sicurezza, l'intraprendenza, persino addentare un farcito Philly Cheesesteak si prostrava dinanzi alla sua personalità brillante, facendolo sembrare un gesto elegante.
Ero convinta che Olivia non conoscesse difetti, o forse erano proprio i difetti a stare alla larga da lei. Per questo, avevo sempre provato una profonda stima per i suoi modi di fare, la naturalezza con cui intraprendeva una discussione accesa senza mai scomporre l'aura solenne, la dolcezza nel farti notare gli errori o dei difetti che avrebbero potuto arrecare fastidio a chi ti circondava. Sapeva lanciarti un'ancora quando stavi affogando nella disperazione, ma anche farti riflettere. Rispecchiava un po' la guida per chi, come me, si era sentita un'estranea entrata a far parte di un nuovo nido. Senza mappe, né fogli illustrativi su come protendere i primi passi.
Sotto la sua ala avevo saputo riconoscere casa.
Lo sguardo si soffermò sulla cascata di boccoli corvini che le incorniciava un viso ovale, poi sugli occhi dal taglio a mandorla, di un verde che sembrava volesse risucchiarti nelle profondità arcane di una selva. E quando arrivava il momento in cui dovevi guardarla e risponderle, le certezze cessavano di esistere, iniziavano a disperdersi, si confondevano. Ti perdevi, nella selva. Perché là dentro esisteva la soggezione, una regina che non contemplava le attese. Riflettere equivaleva ad attendere, dopotutto.
Le attese non piacciono a nessuno.
Forse fu quel sentimento pregno di dolore che, nonostante la porta chiusa del salone, riusciva a intrufolarsi nei corridoi... ma improvvisamente avvertii un brivido di sconforto spegnere la felicità che mi scaturiva quell'abbraccio; la sua mano sulla spalla, e io, con due treccioline, che le arrivavo alle costole. Le circondavo stretta la vita, lei teneva al sicuro la mia sotto l'ala da sorella maggiore.
Lo faceva... tuttora.
Sollevai lo sguardo sullo specchio rettangolare. Rifletteva una carnagione pallida, un'espressione moscia e degli occhi che... Ah, gli occhi. Due pezzi anatomici apparentemente inoffensivi che non riuscivo a guardare negli sconosciuti, a momenti nemmeno in me.
A braccia conserte, mi avvicinai al vetro.
Era una coincidenza strana ma divertente che, sebbene non fossimo sorelle di sangue, io e Olivia condividessimo il medesimo colore. Stesso verde, sfumature parallele. Se nei suoi occhi erano racchiuse foreste per temerari, nei miei erano racchiuse sentieri più luminosi, di quadrifogli che ormai ritenevo appassiti, senza fortuna.
Guardavo la foto, guardavo lo specchio.
Cresciuta.
Guardavo il sorriso sdentato, guardavo le mie labbra tese.
Spenta.
Guardavo la me bambina che strizzava gli occhi dalla contentezza, poi guardavo me, rendendomi conto che l'ultima volta che avevo provato una contentezza del genere era stato anni prima, ogni volta che le corde vocali costruivano una nota pronta a spiccare il volo.
Diversa.
Ero un insieme di pezzi incollati, dove non tutti combaciavano, né apprezzavano il ruolo del sostituto che ricoprivano. Felicità fasulla che sostituiva felicità genuina, quella catturata nella fotografia. Ed ero proprio questo: un mosaico malamente riassemblato che voleva rimanere in piedi, per paura di crollare e non riuscire più a riunirsi.
L'Ave Maria si concluse.
Al di là della porta uscirono ovattate quelle che avevano l'aria di essere un complimento e una critica costruttiva per quanto riguardava l'estensione. Lo scatto della maniglia mi fece sobbalzare. Da dov'ero vidi sostare sulla soglia una ragazza dalla carnagione abbronzata.
«... anche, sì, ma vedo dei salti da gigante» esclamò entusiasta Cordelia, mentre stringeva i soldi che le aveva teso l'alunna. «Non ti manca tanto per eguagliare la versione originale. Devi solo essere...»
«... meno aggressiva a finire ogni santa strofa, lo so, lo so. Glielo giuro: mi eserciterò finché non imparerò a essere paziente.»
«È lo spirito giusto. Mi raccomando allora.»
Si strinsero la mano, Cordelia l'accompagnò all'uscita, sfilandomi di fronte. Osservando la ragazza, che mi rivolse un sorriso in segno di saluto, mi chiesi come una voce tanto grande potesse essere contenuta in un corpo tanto minuto. Doveva essere più piccola di me.
La porta si chiuse.
«Sentito che meraviglia?»
«Uguale all'originale.»
«Quasi uguale, ci sono ancora alcuni nei da sistemare, ma se continua così quella ragazza ne farà di strada nel mondo della lirica» disse, inserendo le mandate alla porta. «Ha deciso di tentare la Juilliard, sai? Tra tutte le arie italiane ha scelto questa, per l'iscrizione. Un po' scontata come scelta, probabilmente non sarà la prima, però se se la gioca bene potrebbe stupire la commissione.»
La Juilliard School. New York. Il Paese delle Meraviglie di ogni drammaturgo, ballerino, cantante o musicista. Chi decideva di mettersi in gioco con una prestigiosa scuola artistica come quella, lo faceva per affinare le proprie abilità a un livello che andava oltre l'ordinario. Durante il corso di studi c'era un'alta probabilità di fare delle collaborazioni con artisti di fama nazionale, essere notati da esperti del settore, di convertire una passione in una vera carriera.
Cordelia me ne aveva parlato quando avevo solo otto anni.
Per tempo, grazie alla sua figura da professionista, avevo rincorso un sogno che nelle spalle di una bambina pesava, ma era un peso che ero disposta a reggere, poiché non conoscevo altro che riuscisse a darmi una gratificazione simile. Fino a quel momento esisteva solo un mondo di pentagrammi da seguire e intonazioni da equilibrare.
Ma poi...
«Ophelia.»
Mi riscossi. «Mh?»
Accorciò le distanze e, col dorso della mano, mi diede una carezza sulla guancia. «Che succede? Credevo che non tornassi prima delle...» Alzò lo sguardo sull'orologio alla parete. «È presto, no?»
«Ah sì, sono successe un po' di cose.» Mi grattai il gomito. «Da oggi sono a casa. Fine della mia brillante carriera da banconista.»
Arcuò le sopracciglia, sorpresa. «Ma come? E il contratto?»
Le raccontai tutto sul divano, mantenendo gli occhi su di lei e un tono di voce stabile che ne ingoiava i tremolii. Sperai non percepisse la paura che quel cambio di carte in tavola avesse innescato.
«Povera anima» commentò amareggiata. «Immagino i casini.»
«Già, ma non è un problema. Sto riflettendo su cosa fare, su...»
Sorrise, prendendomi la mano tra le sue. Capii che era molto probabile stesse per anticipare il discorso. «Non ti piace proprio startene ferma, eh? Non che me ne lamenti, anzi, mi sento tanto fortunata ad avere una figlia così volenterosa a darsi da fare. Però...» Strinse gli occhi in un'espressione che oscillava dalla dolcezza di un cerbiatto alla tristezza di un cane rimproverato. «Non lo so, magari è solo un'impressione mia, ma a volte sembra che ti stia forzando a stare fuori casa il più tempo possibile. Appena finisci un lavoro ti vedo andare subito nel panico, come se non te lo potessi permettere.»
Avvertii tante frecce conficcarsi nella carne. L'aveva notato.
Ritrassi la presa, incastrando le mani tra le cosce. «No, è... solo un'impressione, non preoccuparti.» Esibii un sorriso incoraggiante. Non capii se era più rivolto a lei, o a me. «Mi piace fare, tutto qua.»
Inclinò un po' la testa, gli occhi che vagavano qui e là, alla ricerca della menzogna nascosta. «Va bene, se le cose stanno così vedrò di fidarmi.» Valeva a dire: "Non ti credo neanche un po', però se a te sta bene, vedrò di sforzarmi a non sottoporti a un interrogatorio". Quindi, per timore che il discorso continuasse, mi alzai in silenzio, ma mi trattenne gentilmente dal polso. «Aspetta, dove vai, piccolo fantasmino. Non ho finito.»
«Dimmi.»
Appoggiò il gomito sulla spalliera del divano, la guancia rimase sul pugno. Fu molto paziente quando dichiarò: «Puzzi di sporcizia».
Non era un rimprovero, quanto più una constatazione. Sapeva delle mie visite a Judy. Lo sapeva anche Allan. Non ci avevo mai visto nulla di male a nasconderglielo, specie perché fare la sua conoscenza aveva significato aggiungere un tassello al mio mosaico.
Mi grattai nervosamente la nuca, strizzando le palpebre, come a voler espellere quella piccola colpa. «Beh, può darsi che per pura, purissima casualità, mi sia incappata nella vecchia, così...»
«Purissima casualità?»
«Ho avanzato del cibo.»
Arcuò le sopracciglia e basta.
«Sì, ancora» risposi in automatico, come se mi avesse posto la domanda. Poi misi all'istante le mani avanti. «Cioè, no! Non proprio ancora. È stato più un caso, un'accidentalità. Hai presente, no? Le cose che capitano a... caso. È successo solo oggi, giuro.»
«Ophelia.»
«Non capitava da mesi!»
«Ophelia.»
«Ok, sono colpevole, scusa.»
Le uscì una risata cristallina, che la portò ad arruffarmi i capelli già spettinati di loro. «Non ti sto sgridando. Hai fatto bene a offrirle qualcosa che invece sarebbe andato buttato via.» Poi liberò un sospiro da cui emerse la stessa tristezza che avevo provato ascoltando l'Ave Maria di Schubert. «Il punto è che mi preoccupo, ci preoccupiamo, per te. Negli ultimi tempi abbiamo notato che ti si stringe troppo spesso lo stomaco e... Allan ed io ci siamo chiesti se ti sia capitato qualcosa, o se è tutto legato a, beh, quel giorno. O se è colpa nostra e abbiamo fatto qualcosa che ti ha turbata, o...»
La bloccai subito. «Assolutamente no. Voi non centrate nulla. Non pensatelo mai.» Stavolta fui io ad afferrarle le mani, sperando di confortarla, di indurla a non scavare nelle profondità delle mie motivazioni. Non dovevano preoccuparsi, pensare che fossi un peso. Lo sono già, in fondo, non occorre che lo diventi ancora di più, non dopo tutto quello che avete fatto per me. «Non mi è successo niente, a volte capitano questi momenti strani, ma sto bene, sul serio.»
Fu ancora meno convinta di prima.
«Sicura?»
«Sì.»
«Mi prometti che se hai qualcosa, qualsiasi cosa, ce ne parlerai?»
«Promesso.»
Mi scrutò per due secondi, poi mi diede un bacio sulla tempia. «Allora se hai pietà per queste povere narici, fatti una doccia, dai.»
Le concessi una risata. Ero già aggrappata al corrimano delle scale, quando un pensiero emerse. Dovetti voltarmi. «Ah, mamma.»
«Sì, tesoro?»
«Olivia?»
Prese un cuscino, lo compresse ai lati e, prima di riporlo al suo posto, lo lisciò. «Sostituzione urgente, ha detto. Le hanno chiesto di posare per un set fotografico, ma probabilmente non tarderà.»
Diedi la priorità al portatile.
Gambe incrociate sui cuscinetti della panca che sottostava alla finestra e la mente focalizzata su un unico punto: il prossimo impiego. Passarono i minuti, si disperdevano nell'aria i numerosi ticchettii dei tasti e le celeri pressioni inferte sul riquadro touchpad.
Scorsi e scorsi, cliccai su un annuncio, verso di frustrazione.
Avanti così, senza uno straccio di novità.
Il dito iniziò a farmi male, così collegai il mouse.
Slittavano siti sempre diversi, le iridi schizzavano su e giù, l'indice si tramutò in una reiterazione di flessioni sulla rotellina di scorrimento, a una velocità che nemmeno controllai. Più l'orologio del desktop avanzava, più diventava sempre più lampante che nell'ultimo periodo si era alzato il numero di operai richiesti per una funzione a cui ero inadatta, tra i quali macchinista o saldatore.
Tuttavia, ne scovai anche di fattibili.
Mi mangiucchiai una pellicina, intanto che leggevo: «Ricerchiamo una risorsa da inserire nel nostro ufficio commerciale...».
Ok.
«Mansioni richieste: inserimento ordini, bla bla bla, assistenza clienti, bla bla bla, amministrazione, bla bla bla...»
Sì.
«È necessario avere dimestichezza con Excel.»
Ci siamo.
«Competenze richieste: precisione e rapidità.»
È mio.
«Necessari almeno due anni di esperienza pregressa.»
Fantastico!
«No, momento.» Assottigliai gli occhi, tornai indietro con la rotellina. Rilessi il passaggio e realizzai, chiudendo gli occhi, il significato delle parole esperienza e due anni. Dovevo aspettarmelo.
Lanciai un'imprecazione, ma inviai il curriculum lo stesso.
Il ciclo ricominciò: scorrere la rotellina, aprire le pagine, chiudere i siti, tornare indietro, copiare e incollare link sul motore di ricerca. E il problema rimase invariato, sembrava che il mondo si stesse facendo beffe di me adesso che avevo bisogno di lui. Aiuto cuoco, pasticcere, tassista, tecnico meccanico, montatore di mobili, programmatore, geometra. Click, click, click. C'era un universo, su internet, un universo di lavori che attendeva di essere preso in considerazione. Eppure, o erano impieghi che non potevo permettermi, o non possedevo il titolo di studio adatto, o non avevo abbastanza esperienza. Dio, ero anche indipendente, automunita, sapevo parlare tre lingue e non abitavo in una terra sperduta. Filadelfia, Pennsylvania, America. Una patria così grande che pareva non volermi fornire qualcosa di piccolo. Avrei accettato di tutto, persino un periodo a tempo determinato a fare volantinaggio per i centri commerciali.
Anche se voleva dire fronteggiare gli occhi della gente.
Di tutto. Avrei fatto di tutto.
La stanza si riempì di versi sconfortanti. Afferrai un cuscino lilla da dietro la schiena e lo strinsi al petto, appoggiandoci il mento e sospirando: «Va bene, tentiamo l'ultima carta della giornata».
Allungai la mano e digitai pigramente Sittercity. L'ultima spiaggia. Il sito per eccellenza per chi cercava una babysitter.
Tra le esperienze maturate, quello era il mio porto sicuro: era assodato che nel raggio di qualche isolato esisteva una famiglia che necessitava di una figura che badasse ai loro bambini. Già a undici anni avevo seguito un corso di baby-sitting diretto dalla Croce Rossa Americana, e a tredici, per esperimento, l'avevo messo in pratica con il figlio dei vicini. Per gli impegni scolastici lavoravo nei weekend, ma i genitori ne erano rimasti ugualmente stupefatti, e soddisfatti.
Così piccola e minuta, dicevano, ma sembra un gigante.
Era un complimento che mi faceva sempre arrossire.
Anno dopo anno, avevo sfruttato i vuoti ricavati dai mesi estivi con delle attività di baby-sitting, caratterizzati da contratti in regola. Delle volte credevo di somigliare più a un buffo animatore da spiaggia; infatti era più frequente che, anziché limitarmi a controllare, mi mettessi a creare giochi e illusioni, chiedendo di vedere sotto altre prospettive, di convertire un cubo dell'ABC in un piccolo tesoro da trovare per casa. Un'altra persona. Ero tanto, mi sentivo più grande, più bella, in mezzo al calore di quei sorrisi che regalavo e ricevevo. Allan diceva che ero portata, Cordelia era orgogliosa di me e basta, a me appagava solo fare e creare.
Non era una soddisfazione equiparabile al canto, ma in cuor mio sentivo che ci viaggiava parallelamente, un treno a vapore che percorreva gli stessi binari di quella passione, senza mai confondersi.
Per cui, il mio profilo su Sittercity riscuoteva un discreto successo. Scorsi la mia pagina: foto da sostituire, certificati di cui ero in possesso, le attività che ero disposta a fare, la paga richiesta, gli archi della giornata in cui davo la mia disponibilità, i feedback positivi.
Era tutto in ordine.
Feci un respiro profondo e controllai i messaggi accumulati nell'area della posta. «Ti prego...» Le mie preghiere sussurrate si intersecarono a dei genitori che chiedevano per il mese di gennaio, metà febbraio. «Ti prego, ti prego...» Aprile, maggio, ancora maggio. «Ti prego, ti prego, ti prego...» Inizio giugno, tredici giugno, ma entrambi avevano ritirato la richiesta. «Ti...»
Mi misi composta, mollando il cuscino.
La data risaliva a una settimana prima.
“Buonasera, spero sia ancora disponibile per l'incarico.
Di recente ho notato il suo profilo, e vista l'esperienza e le recensioni positive ho pensato potrebbe essere la persona giusta per badare ai miei figli. Chiedo urgentemente conferma per la disponibilità. Per eventuali delucidazioni le lascio qui di seguito il mio indirizzo email: le chiedo inoltre di contattarmi riportando il suo recapito, così da poterci risentire telefonicamente.
Cordiali saluti,
Gregg Holmberg”
Mano ferma sul mouse, bocca schiusa, mi sbrigai: incollai l'indirizzo che mi aveva fornito tal Holmberg sulla mia posta elettronica e gli risposi. In contemporanea, sentii il rombo di un motore arrestarsi sotto casa. Guardai fuori dalla finestra.
Aveva parcheggiato una BMW Serie 3.
Olivia era tornata.
ANGOLO AUTRICE
Perdonate la lentezza, ma here I am, nightingales! 🕊
Ricordate: dietro le righe di questi capitoli introduttivi ci sono tanti minuscoli indizi. C'è un mosaico da ricomporre, proprio come suggerisce il titolo: la vita di Ophelia.
Cosa c'era prima? Perché nel presente è così? Perchè era diversa? Cosa è cambiato? Perché?
Tante domande che, molto pazientemente, troveranno le loro risposte. 🌚
Andiamo a rincontrare la madre, che avevamo lasciato in uno sprazzo di flashback nel primo capitolo. Anche lei, a quanto pare, nota questa urgenza da parte della loro figlia adottiva di cercare un nuovo lavoro. Non si dà un attimo di respiro. Ma lei preferisce non farla preoccupare, così nasconde ogni suo timore con una pacca sulla spalla.
Mmh...
Perlomeno, qualcosa trova. Che dite, sarà la volta buona? 😂
MAH.
Questions:
▪ Buttatele qui, le vostre prime impressioni, i vostri primi pensieri su quanto avete visto, per il momento, di Ophelia.
▪ Cordelia farà bene a preoccuparsi per lei? O esagera?
▪ Ophelia nasconde qualcosa di grosso? Perchè non racconta tutto alla madre?
Bene, io direi di vedere adesso come si svilupperanno gli eventi. Specie dopo l'offerta di fare la babysitter da questo tal Gregg Holmberg. Non vedo l'ora di arrivarci. E voi? 😏
Curiosità:
▪️Ah! Questa m'ero scordata di scrivervela nel capitolo precedente: la questione del "vietato da dare da mangiare ai senzatetto". A quanto pare è una notizia risalente al 2012, ed è così: la città di Filadelfia ha vietato la distribuzione del cibo ai senzatetto, proprio per dare più spazio ai rifugi appositi, per indurli a raggiungerli.
▪️Sittercity esiste davvero, vi basti fare una rapida ricerca! E' il sito per eccellenza per chi cerca una babysitter, ed è come ve l'ho descritta nella narrazione: si ha un profilo personale con tutte le esperienze & Co. Facile, veloce, pratico. Eh?
▪️Philly Cheesesteak; panino famoso in città, e vi incollo una curiosità interessante by Wikipedia: “In Italia il paese più conosciuto per questo prodotto gastronomico è Monte di Procida comune della città metropolitana di Napoli, proprio per l'affluenza dei suoi cittadini in terra statunitense e che l'hanno importato in Italia, rielaborato e denominato cistecca montese.”
Playlist:
Ave Maria — Schubert version (prima parte)
Sit Down Beside Me — Patrick Watson (seconda parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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