Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

28. In capo all'universo - Pt. 2

In capo all'universo
Pt. 2




N.B musicale: è necessario ascoltare Nella Fantasia (versione con testo italiano di Gabriel's Oboe) non appena lo leggerete nel testo. Buona lettura e... ci vediamo giù! 🖤








«Depilati là sotto. Non si sa mai.»

Fannie assestò un coppino a Warren senza battere ciglio, concentrata com'era a leggere una rivista che aveva depositato sulla coscia. Poi, tranquillamente, si inumidì il medio e sfogliò pagina, borbottando: «Mi chiedo, perché condividiamo il DNA?»

«Ma che vuoi, è lei che ha chiesto un consiglio.»

«Al vestito, al vestito. Cristo.»

Il mio cellulare, poggiato strategicamente su un portagioie di velluto, stava pian piano scivolando; con un sospiro, mi avvicinai per aggiustarlo di nuovo a una posizione eretta, come avevo fatto nell'ultima mezz'ora di videochiamata coi gemelli.

Una volta fuori dalla residenza degli Holmberg, non avevo neanche riflettuto sulle mie azioni; l'istinto, e una strana felicità, avevano schiacciato la ragione e, mentre giravo le chiavi nel quadro della mia macchina, mi avevano portata a chiamare all'istante Warren. L'unico del gruppo a cui potevo affidarmi per ragioni... logistiche, più che altro. Era il suo giorno libero, ed era il solo a non avere impegni.

Il mio armadio era a digiuno dei termini eleganza e audacia sin da quando avevo deciso di farne a meno su consiglio di Olivia. Eppure, in un angolo remoto dell'inconscio viveva nell'ombra una piccola e testarda Ophelia che avrebbe voluto riottenere il privilegio di tornare a indossarli nel mondo reale, e non più nella fantasia. Così, avevo chiesto a Warren di accompagnarmi in qualche buona boutique, a patto che non facesse domande. Non avevo avuto il tempo per inventarmi una giustificazione sensata.

Nonostante fosse rimasto seduto su una poltroncina a vedermi fare avanti e indietro dai camerini con un auricolare piantato all'orecchio, avevo notato quanto avesse faticato a trattenere dei sorrisi divertiti che mi lasciavano ben immaginare i suoi pensieri.

L'avevo ignorato.

Passando velocemente da una gruccia all'altra, l'adrenalina che era esplosa e che non mi aveva permesso di riflettere si era sgonfiata, finché non ne era rimasto l'involucro che la conteneva. Un involucro deforme, vuoto, tipo un palloncino usato.

Era inutile costringermi a far chiudere gli occhi a questa mia paura insensata, a provare a essere come una volta, a indossare quello che volevo e come volevo; la consapevolezza che sarebbe stato Desmond a guardarmi bastava a frenare qualsiasi sicurezza.

Abito lungo o corto, nero o d'avorio, merlettato o lanoso.

Non importava quanto poco appariscente fossi, non importava quanta pelle riuscissi a occultare per non destare attenzioni; ai suoi occhi, due baratri in cui precipitava anche il minimo e superfluo dettaglio, ci sarebbe sempre stata una parte di me allo scoperto, e già temevo che avesse capito fin troppo, che il mio cuore non fosse stato abbastanza silenzioso nei suoi confronti.

A un certo punto, con in mano una gonna attaccata al suo appendino, mi ero trascinata accanto alla poltrona di Warren, sprofondandoci. Lui aveva premuto sull'auricolare per spegnerlo. Vedendomi così, a fissare la gonna sull'orlo di una crisi di pianto, aveva allungato il braccio mingherlino per attirarmi al suo petto.

«Qual è il problema, piccolo usignolo?»

«Se mi chiami così scoppio a piangere per davvero.»

Avevo provato a ridere, nonostante il groppo, lui mi aveva imitato, strofinandomi il braccio.

«La gonna non sembra male.»

«Non è questo.» Avevo sfregato i pollici sul tessuto di pelle. «È che non so più come sentirmi a mio agio con qualcosa di bello. E poi mi sta stretto, ed è troppo corta, e... Dio, ogni volta che mi guardo, lo specchio sembra voglia ricordarmi che è sbagliato, che là fuori ci saranno centinaia di occhi a fissarmi.»

«Certo, come non biasimarli, sarai una gran gnocca.» Mi scappò una debole e amara risata, ma lui no, lui cercò di guardarmi; l'apprensione gli arcuò le sopracciglia chiare all'insù. «Ophelia, davvero, perché ti fai questi problemi? Io ricordo, che ne so, le nostre feste di compleanno, il party post maturità che avevamo organizzato apposta per te, le uscite ai pub, Capodanno, Halloween... Insomma, te ne sbattevi, non ricordo un solo momento in cui avevi delle paranoie su ciò che dovevi indossare. Anzi, qualsiasi cosa tu ti mettessi, stavi sempre una meraviglia.»

Non ricordarmelo, Warren, non ricordarmi quanto erano belli quei tempi, dove se mi si bucavano i collant in pubblico ci avrei riso sopra, mentre ora ne farei una tragedia e non uscirei letteralmente più per un mese. Come spiegartelo senza piangere, che sono a tanto così dal farlo? Come spiegartelo senza far sembrare mia sorella cattiva? Come spiegarti che ha ragione?

Poi aveva schioccato le dita, interrompendo l'ennesima giustificazione in arrivo. «Uh, senti, forse so dove potresti trovare quello che cerchi. È un negozio lungo la Germantown, c'ero andato con mia sorella sabato scorso... Voleva qualcosa di "dignitosamente arrapante" per un tizio che voleva solo provocare – sì, è un demonio – però avevano roba molto più soft e carina, su di te starebbe da Dio.»

Non ci avrei scommesso un centesimo.

Eppure, aveva avuto ragione.

E ora, davanti allo specchio di camera mia, non facevo che girarmi e rigirarmi come un filo che viene riavvolto nel suo gomitolo.

Fannie, intanto, sfogliò pagina. Lei, che era tornata dalla tavola calda solo un'ora prima, si era infilata nella videochiamata mentre rimuoveva le lenti a contatto e si struccava le palpebre con un panno in microfibra. La nostra chiacchierata stava durando quanto la sua routine di skin care. Adesso la sua faccia era ricoperta da una maschera di crema verde.

«Potrei scrivergli, dirgli che non sto bene, che...»

Fannie chiuse la rivista, inclinandosi verso l'obbiettivo del telefono. Si tirò ben indietro la fascia per capelli.

«Ophelia, ascolta zia Fannie: basta pensare.»

«Mi sento molto ridicola.»

«Mia sorella è ridicola, che pare una caricatura di Fiona.» Warren si versò un bicchiere di birra ridacchiando come un demente, e aggiunse: «Di giorno in un modo, di notte in un altro».

Il coppino per nulla gentile di Fannie gli fece dirottare il getto della birra, che andò a bagnare il tavolino di vetro. Lei scosse la testa. «Non spreco neanche fiato con te. Una pelle come questa vuole solo cure e trattamenti continui. E tu te la sogni, caro mio.»

Non aveva tutti i torti; da quando al liceo aveva iniziato a dimezzare le merendine e a raddoppiare gli allenamenti in palestra, si era messa in testa che per piacersi fino in fondo volesse lavorare anche sul suo aspetto esteriore. Tutt'ora conservava una forma fisica sì snella ma anche dolcemente morbida, specie agli avambracci e alle cosce. E sebbene non fosse mai riuscita a diventare un giunco come alle medie aveva invece sperato, amava il risultato che era riuscita a mantenere negli anni.

Godeva di un bel viso, dopotutto, e per questo continuava a ricorrere ai trattamenti estetici più sofisticati; spesso faceva ricorso a quelli che adottavano modelle di una certa fama.

Suo fratello era dell'avviso che esagerasse. Lei lo trovava divertente, invece, appagante.

«Uno: appena ti levi quella crema di dosso, pulisci il tavolo.» Warren si stravaccò sul divano, sorseggiando dal bicchiere. «Secondo: ho come l'impressione che la serata alternativa al nightclub ti abbia ben reso più acida del solito. Azzardo, eh.»

Fannie si limitò ad arcuare il sopracciglio. Bastò quello per spostare in un angolo le mie ansie.

«In effetti non mi avete raccontato più niente della serata. E sul gruppo non ho nemmeno visto un video... Ero curiosa, dai!»

«Certo che non li hai visti, gliel'ho impedito io di mandarli. E poi non meriteresti di sapere a cosa è andato incontro il mio destino a causa tua, ma tanto vale...» sospirò Fannie, la maschera verde, che intanto si era disseccata, si increspò in tante lievi onde per una smorfia che lasciava trapelare una scocciatura evidente. «In breve: visto che mi avete venduta alla "sedia scottante", il tipo per cui ho dovuto sopportare una lap dance oscena era di una megalomania mostruosa, di una strafottenza irritante, di una...»

«Proprio il mio tipo» s'intromise Warren, fissando per aria.

«E poi mentre si strusciava e continuava a sorridere come un deficiente, ogni tanto mi sussurrava cose all'orecchio che manco ho capito. Si è pure permesso di prendermi in braccio, come hanno fatto anche a un'altra tizia... Ma almeno lei era contenta. Io non mi sono mai sentita così in imbarazzo.» Sbadigliò, il tono tranquillo a dispetto delle dichiarazioni. «Ah, Gwenda e Warren – per la cronaca: vi odio – se ne stavano ai loro posti a filmarmi... Avrei tanto voluto alzarvi il medio, se non fosse stato per quel cretino che mi aveva costretta ad accarezzargli gli addominali.»

Warren scoppiò a ridere. «Sii obiettiva: era tanta roba.»

«Come no.»

«Ti ha pure dato il suo numero.»

«Che appena uscita da lì ho immediatamente gettato nel primo cestino.» Decisamente poco professionale, Ian, ma si apprezza il coraggio. Notando che mi ero messa a ridere, Fannie tornò a squadrarmi. «Piuttosto, dove ti porterà?»

Ci impiegai un po' per capire che parlasse di Desmond. Per un attimo mi ero dimenticata che tra mezz'ora sarei dovuta uscire.

«In realtà non me l'ha voluto dire... Mi ha solo detto che avremmo fatto due passi sulla St. Broad, a Center City. Ah, e mi dovrei far trovare davanti alla procura distrettuale.» Mi grattai la tempia. «Voi avete idea di cosa ci sia sulla strada principale?»

Warren aggrottò la fronte. «Vediamo... non conosco bene la zona, però lì fa da angolo un ottimo ristorante latinoamericano.»

«Ce n'è anche un altro vegano» aggiunse Fannie.

«Poi lo studio legale dove lavora nostro zio.»

«Un mucchio di hotel di lusso.»

«Ah sì! E mi pare ci sia l'Insomnia Cookies che resta aperta fino all'una di notte. Se vi capita di andarci, prendetevi il brownie con una pallina di gelato sopra. Ci ho lasciato il cuore, là dentro.»

Fannie si versò della birra. «Non credo che quel tipo, galante com'è, la porti a mangiarsi un gelato. Non hanno cinque anni.»

«Sarà un'opinione impopolare, ma per me sarebbe l'ottimo primo appuntamento» dichiarò, riappropriandosi della bottiglia. «Escludendo i ristoranti, se non dovete chiedere ordini restrittivi e non dovete prenotare una camera d'hotel per una botta e via...»

«Warren.» Avevo le mani sudate. «Non è un appuntamento.»

«Beh» s'intromise Fannie, la faccia verde increspata da un'espressione agnostica. «Un incontro alle ventitré, da soli, in cui è richiesto un abbigliamento elegante, non la definirei proprio un'uscita tra amici. E non tornare sulla questione del "è più grande di me". Non ha cinquant'anni, e tu non sei una bambina, non esiste una legge morale che gli vieta di provare qualcosa.»

Warren e Fannie fecero tintinnare i bicchieri.

Ecco, mi sta tornando il mal di pancia.

«L'ipotesi mi sembra assurda.»

«Perché?»

«Non so se hai notato con chi stava...»

«Eh, la sorella scopa-in-culo di Gwenda. Quindi?»

Divertente, anche Ian l'aveva definita allo stesso modo.

«Quindi non so dove ha intenzione di portarmi, ma non sarà un appuntamento. E poi ai suoi occhi sono solo una ragazzina...»

«Ophelia, senti.» Posò il bicchiere sul tavolino di vetro, il suo viso in primo piano coprì Warren rimasto sullo sfondo. Sorrise. «Ho anch'io un tipo ideale, tutti hanno dei tipi ideali, ma chi lo sa, magari un giorno perderò la testa per qualcuno che non rientrava nei miei canoni. Tu avevi immaginato, prima di oggi, che ti potesse piacere un uomo molto più grande di te?» Negai col capo. «Non vedo come non possa valere anche per lui. Il suo tipo evidentemente è una come Latisha, ma non è detto che tu non possa piacergli allo stesso modo. O anzi, magari è il contrario: magari sei proprio tu il suo tipo, e Latisha era solo l'eccezione.»

Apprezzavo quel suo rincuorarmi; tra i due gemelli, Fannie era sempre stata la mente; prendeva un problema, lo smontava, lo analizzava, ne valutava i pro e i contro, e solo allora arrivava alle sue conclusioni. Conclusioni razionali, sensate. Un'abilità che il mio lato sensibile, davanti al panico, riusciva a permettersi di rado.

Bussarono alla porta. «Ophelia, posso entrare?»

Era la mamma.

«Solo un attimo!» Mi sbrigai a salutare i gemelli. «Vado.»

«Mi raccomando: tranquilla, che sei un amore» disse Fannie, e io sorrisi. Si aggiunse Warren con: «Scrivici appena torni a casa».

«Va bene. Grazie, ragazzi.» Stavo per chiudere, quando mi ricordai di una cosa. «Ah, vi posso chiedere un favore?»

Annuirono.

«Potreste non dire nulla dell'uscita a Gwenda? E a Jay.» Mi grattai il polso, cinto da alcuni bracciali tintinnanti. «Mi farebbe strano se lei sapesse che sto uscendo con l'ex di sua sorella... e Jay, beh, non diteglielo e basta. Penso che non gli stia simpatico.»

«Ma non mi dire» espressero in coro.

«Cos'era quel tono?»

«Niente.»

Terminarono la videochiamata.

Mi lasciarono alquanto perplessa.

Stabilii di non farmi domande e, mentre cercavo di lisciarmi l'abito allo specchio, diedi il consenso a mamma per entrare. Non mi girai nemmeno a guardarla, troppo impegnata a snidare qualsiasi cosa avesse potuto fungere da esca per gli occhi.

Mi dissi che dovevo piantarla, perché più mi guardavo, più mi sembrava che nulla andasse bene e che tutto urlasse "sono qui, guardatemi, giudicatemi, esprimete il vostro disappunto, ditelo chiaramente che non sono altro che una mappa di dubbi, che tanto ovunque osserviate troverete solo X, gli sbagli, paure per tesori".

Con quel chiodo fisso, continuai a fissarmi le maniche merlettate fino ai polsi, arzigogoli che parevano eleganti capillari, poi slittai sui capelli raccolti che permettevano libera uscita a un paio di ciuffi mossi, infine sull'abito che, dritto e semplice, scorreva alle caviglie. Rosso. Quel rosso vivo ne carezzava il tessuto, un contrasto perentorio sulla pelle lattea.

Il vestito poteva considerarsi il regalo che a lungo avevo smesso di concedermi, un desiderio che la paura aveva sempre represso. E il mio corpo arrossiva indossandolo, mi ringraziava con un'accesa vampata di colore che si aggrappava dappertutto.

Forse avrei dovuto nascondermi meglio, con un colore spento.

Però voglio anche che mi guardi, Desmond, con occhi diversi.

«Ophelia, tesoro...» Senza voltarmi, potevo percepire lo stesso il sorriso di mamma stampato nel mormorio di quelle due parole; si fermò dietro di me, le mani che adagiò sulle spalle esili, la sua guancia contro la mia tempia. «Non ti vedevo con un vestito addosso da così tanto tempo, che... Wow, sei così meravigliosa.»

I suoi occhi, due impressionanti tormaline, si bagnarono di malinconia. Non ci volle molto per capire il motivo.

Le mancavo, come mancavo a papà.

Anch'io, mamma, sono stanca di evitarvi.

Quindi, inspirai il suo profumo. Sapeva di bagnoschiuma al miele, di biancheria pulita, di crema per il viso. Sapeva di mamma. E mi mancava abbracciarla, lasciarmi cullare dalla sua essenza senza che venissi frenata dalla voce roca di mia sorella.

Per una volta, decisi che non me lo meritavo.

Per una volta, decisi di voler vicina lei, e non quelle voci.

«Dici?» Posai la mia mano sulla sua, più secca e calda, rimasta sulla mia spalla; gliela accarezzai, arricciando di volta in volta le dita. «Non è... troppo?»

«No. Ogni tanto fa bene sfoggiarsi un po', soprattutto alla tua età. Anche se...» Mostrò uno sguardo divertito. «Mi chiedo proprio chi avrà l'onore di vederti così bella.»

Colta l'antifona, fu inevitabile ammutolirmi.

Non sapevo cosa fosse meglio raccontarle.

L'ennesima bugia o una mezza verità?

Alla fine, per il bene di tutti, optai per la seconda. Così, trattenendo un sospiro, la presi i polsi e me la trascinai fino al letto. Ci sedemmo vicine, lei aggrottò la fronte.

«Senti, mamma... io ti devo confessare una cosa.»

D'improvviso, seria, mi prese la mano con estrema dolcezza, come quando da piccola mi accompagnava in camera mia e mi mostrava che sotto al letto non c'era alcun mostro. Nei suoi occhi, tuttavia, ci lessi qualcosa di più profondo, qualcosa che mi scosse a tal punto da farmi stare male, da risvegliare i sensi colpa.

Luccicavano di aspettative, sperava sicuramente che la "cosa" fosse inerente al mio allontanamento, sperava nelle spiegazioni.

«Però mi prometti che non ne farai parola con Olivia?»

La sua confusione fu ancor più densa.

«Perché? Cosa vuoi dire?»

«È... complicato da spiegare.»

Mi racchiuse il mento tra i suoi palmi, costringendomi a guardarla. «Ophelia, dimmi la verità: avete litigato? Io e papà ce lo chiediamo da mesi, lo vediamo come a stento vi parlate, e...»

«Mamma.» Fu più una supplica, la mia. «Prometto di parlarvene, ma adesso non è il momento adatto.» Non posso rivelarvi ciò che Olivia mi ha confidato, non ora che ho dei dubbi, che non sono neanche più sicura che sia la verità, la sua, che la versione di voi che mi ha continuato a raccontare è incompatibile con ciò che vedo ogni giorno. «Se vuoi farmi un regalo di compleanno anticipato, promettimi di non riferire a mia sorella ciò che sto per dirti. Per favore, per me è importante.»

Mi guardò, ma non riuscì a capire, a leggermi.

Con profondo rammarico, lo disse: «Va bene».

«Sto rivedendo i miei vecchi amici.»

Probabilmente si aspettava qualcosa di catastrofico, viste le premesse, ma se Olivia l'avesse saputo, ero certa che la catastrofe l'avrebbe scatenata lei. E non mi andava. Mamma, invece, allargò le palpebre di un genuino stupore. «Oh» disse solo. «Davvero?»

«Già, stiamo provando a riallacciare i rapporti.»

«Che bello, son contenta.» Volle aggiungere altro, ma si frenò; lieve, emerse un sorriso fiero. «Come mai? Com'è successo?»

«Un... suggerimento esterno, diciamo, una spinta.»

«Quindi esci con loro, stasera?»

Sì... «Esatto. Staremo in giro.»

Mi diede un bacio sulla fronte; in quel contatto fu come se ci avesse incanalato altro, lo interpretai come un "noi ti aspettiamo, che lo sappiamo che ci nascondi altro, noi vediamo".

«Allora divertiti.»

Annuii, in colpa; dopodiché mi alzai.

«Posso dirlo almeno a papà? Lui ne sarà orgoglioso.»

Mi abbottonai il cappotto in fretta, meditando sull'eventualità, non senza assumere una smorfia di dispiacere. «Però vorrei...»

«Non glielo dirà nessuno a tua sorella.» Sorrise. «Hai la mia parola.»







L'organizzazione aveva subìto un cambiamento dell'ultimo secondo: Desmond mi aveva contattata appena prima che varcassi la soglia di casa suggerendomi di parcheggiare da lui, cosicché saremmo andati con la sua auto. Un modo per agevolarmi la questione "parcheggio", aveva spiegato, e anche perché sapeva fosse una zona di Filadelfia in cui a malapena riuscivo a orientarmi.

L'impulso di rifiutare era stato forte.

Non avrei avuto a mia disposizione quella mezz'ora di preparazione psicologica che, invece, mi avrebbe garantito il viaggio. Non ero pronta. Però, fiondandomi un'ultima volta davanti allo specchio, mi ero convinta che non avevo di che preoccuparmi: il giubbotto che valicava le ginocchia, la sciarpa che girava tre volte su se stessa, i guanti, i collant scuri. Usciva allo scoperto solo un sottile e ondulante stralcio dell'abito sanguigno.

Ero nascosta, un bozzolo poco prima di schiudersi.

La parte più difficile dell'uscita era stata proprio incontrarlo, ripensandoci; quando avevo spento i fari davanti casa sua, mi aspettava all'interno del suo veicolo. Salutarlo e chiacchierarci con la solita naturalezza, consapevole delle parole che mi aveva rivolto quel pomeriggio, non era stato granché facile.

Probabile che l'avesse pure notato.

Mentre si immetteva sulla Vine Street usufruendo di un sottopassaggio stradale, il riflesso sbiadito del mio finestrino mi aveva restituito l'immagine rilassata di Desmond con una mano in cima al volante, il pollice che picchiettava su di esso, e l'altra impegnata a scrollare una sigaretta fuori dal finestrino abbassato.

In più, avevo notato bene quando, impercettibile, facendola passare per una casualità, si volava appena; occhi su di me, sul mio viso, sulla sciarpa, le gambe, i guanti prede dei miei pizzicotti nervosi.

Difficile capire se mi fosse piaciuto.

L'agitazione non me l'aveva permesso.

«Quindi mi confermi che non sei mai stata qui.»

«Ti preoccuperebbe molto se la risposta fosse "sì"?»

«Beh, certo. C'è il rischio che tu possa indovinare dove ti sto portando.» Camminando vicini, nascose il mezzo sorriso sotto le spesse pieghe della sua sciarpa scura, intonata col lungo cappotto di lana, gli occhi ridenti tramutati in due sottili parabole. «Ma anche se fosse, sono sicuro che avresti subito scartato l'ipotesi.»

«Perché?»

«Per una questione di tempistiche.»

Strinsi le labbra, rendendolo un bocciolo. Poi emisi un sospiro che, in quella freddissima notte di dicembre, una di quelle pallide, che presagiva l'arrivo di una nevicata, mutò in una bolla di condensa. «Muoio di curiosità. Posso provare a indovinare?»

«No.»

«Per favore...»

«Se poi indovini devo mentire.»

«E con questo?»

«Lo capiresti se dicessi una stronzata.»

«Mi sopravvaluti. Non sono così attenta.»

«Sì, questo lo dici tu.» Neanche tempo di dirlo, che piazzò la mano sulla mia spalla con una leggerezza mostruosa, attirandomi al suo fianco e concedere a una bicicletta di non investirmi. «Ok, piccola correzione: facciamo che pure per te ci sono le eccezioni.»

Ci volle qualche secondo prima che staccasse la mano.

A differenza dell'altra, non la ripose più in tasca; la lasciò a penzoloni tra di noi. Un guanto nero gliela proteggeva, le dita lunghe che si sgranchivano in un fiacco aprirsi e chiudersi.

Quasi desiderassero qualcosa da stringere.

Scacciai il pensiero intrusivo di infilarci la mia mano e, piuttosto, la usai per sistemare la borsa che stava scivolando giù.

«Comunque.» Mi schiarii la gola, oscillando lo sguardo su qualsiasi cosa che non fosse la folla rumorosa che vagabondava sull'immensa St. Broad. Risate a fior di labbra, sacchetti da cui uscivano esplosioni di nastri e fiocchi, palloncini a elio che sfuggivano dalle mani dei bambini. Troppo. Le stringhe di luci sulle vetrine e le luminarie che penzolavano sopra le carreggiate tra un edificio e l'altro furono un buon diversivo. «Conosco poco di Center City, a parte l'accademia dove da bambina avevo assistito allo spettacolo annuale dello Schiaccianoci, oppure il Macy's, che vabbè, lo conoscerebbe pure un provinciale, penso.»

«Già, ci sono anni di storia in quel grande magazzino.»

«Hai mai sentito suonare l'organo Wanamaker?»

«Una volta. Ma se devo essere onesto, preferisco le luminarie che allestiscono ogni anno. Vale la pena visitarlo solo per questo» disse, dopodiché si girò lanciandomi un'occhiata vagamente divertita. «Fine? Non sei riuscita a visitare nient'altro? Peccato.»

«Effettivamente, ora che ci penso sì.» Una rigida folata mi obbligò a stringermi nelle spalle e ad accucciare la bocca nella sciarpa; con un sorriso nostalgico fissai chi reggeva delle bevande in tazze firmate Starbucks e quei bambini che, mano nella mano dei loro genitori, divoravano frittelle e stecche di mele caramellate. «Ero piccola, spiccicavo giusto qualche parola coi miei e, in più, mi ero avvicinata da poco al mondo del canto. Mamma, una sera, mi aveva portata in uno di quei teatri del Kimmel Cultural Campus. Io e lei. È stato il primo spettacolo dal vivo a cui ho mai assistito.»

«Kimmel... Kimmel... Uno spettacolo?»

«Non esattamente» obiettai. «Ho assistito a un concerto per orchestra. Della nostra, per intenderci: la Philadelphia Orchestra.»

«Dev'essere stato molto bello.»

«Eccezionale, Desmond.»

«Come mai ti ha portata proprio lì? Mi sarei aspettato un concerto canoro, qualcosa che desse più importanza alla voce.»

«Perché prima di parlare bisogna conoscere, e ancor prima di conoscere, mamma mi ha insegnato ad ascoltare, in questo caso ad ascoltare gli strumenti, coloro che ci permettono quella spinta.»

Ricordavo che a un certo punto dello spettacolo, nel buio che inabissava il teatro, mia madre si era chinata fino a sfiorarmi la tempia, suggerendomi di chiudere gli occhi e di provare a immaginare quello che la musica cercava di comunicarmi. "Gli strumenti ci danno la spinta per lanciarci, ma poi sta alla nostra voce spiccare il volo, stabilire un equilibrio con ciò che dicono loro e ciò che vogliamo dire noi. Collaborazione, Ophelia."

«Quale?»

Distratta dai ricordi, lo guardai. «Cosa?»

«Quale brano stavi ricordando di quella sera?»

«L'intermezzo di Cavalleria Rusticana, non so se hai presente.»

Sorrise, facendomi intendere che sì: lo conosceva. «Era pure nei titoli di testa di Toro Scatenato. Un capolavoro nel capolavoro.»

«Già...» mormorai, rendendomi conto di come ben poco stessi badando agli occhi di chi mi circondava, se non ai suoi. «Quella sera avevano decantato un sacco di brani celebri: In The Hall of the Mountain King, Clair the Lune, Voci di Primavera, la Marcia di Radetzky. C'erano Brahms, e Shubert, e Debussy, e Chopin e... Mascagni. Un compositore italiano che, nel suo piccolo, ha letteralmente spiccato il volo: è partito da un'esibizione in un semplice teatro di Roma, acclamato persino dalla regina Margherita in persona, e da lì, Dio, la sua "voce" si è elevata talmente in alto da guadagnarsi la sua prima a Berlino, e poi a Philly, Chicago, New York. Nel suo stesso continente e oltre.» Le guance facevano male per quanto sorridessi al pensiero che un individuo, uno, potesse raggiungere simili quote da solo. Mi chiedo cosa si provi ad arrivare in cima con le proprie ali e, una volta lì, assistere al proprio spettacolo. «Potrei fare altri esempi di noti compositori, più noti di lui, ma era stato solo quel brano a essermi arrivato.»

Dall'alto, la sua attenzione scivolò su di me.

Vi lessi tristezza, profonda ammirazione.

«Ti vedi quando ne parli, Ophelia?»

L'intensità del suo sguardo non mi permise di distogliere il mio.

«Purtroppo sì» confermai con una punta di rammarico, avvicinandomi a lui senza un reale motivo; arrivai a sfiorargli le dita, ma Desmond non si allontanò. «E quando lo faccio, non mi piace quello che vedo.»

«Cosa vedi?»

«Tutte le mie rinunce: la Juilliard, il canto, e...» Deglutii, realizzando che pronunciare quelle due parole mi serrava la gola. «Anche me stessa.»

Si fermò, ed io, non capendo, lo imitai, i flussi di gente che ci sorpassavano come un fiume che si dirama in due, evitando noi, piccole e salde rocce che ne ostruiscono il passaggio. Diede diversi colpi di tosse secca che soffocò nella sciarpa, e poi mi guardò serio.

«Puoi riprenderti tutto quanto, ragazzina.»

Incrociai le braccia, se l'avessi fatto per racchiudere il freddo che soffiava fuori o per quello che avevo dentro per colpa di quel discorso, non riuscii a capirlo. «Desmond... non è così semplice.»

«Non è semplice perché è così, o perché preferisci sia così?»

Quella severa stoccata mi provocò un'immediata vampata di calore alle gote; mi costrinse ad abbassare lo sguardo sulla sua mano in tasca, ora in movimento. Mi aveva appena posto una domanda a cui non avevo ancora trovato risposta. Vorrei farlo, Desmond, nemmeno immagini quanto lo vorrei. Ma al contempo c'è una questa grande mano invisibile che mi tira dal colletto e non mi permette quel passo, quella spinta. E nemmeno mi oppongo più di tanto, non mi ribello, sono patetica, non mi batto per la mia voce perché ho paura di riprovarci, e se ci devo riprovare vuol dire che dovrò correre lo stesso, terrificante rischio di due anni fa.

Ci vollero tre secondi di realizzazione perché capissi che aveva appena posato il dorso dell'indice e del medio sotto il mento, uniti. Lento, slittò giù, oltre la copertura della mia sciarpa, inconsapevole di aver seminato un sentiero di brividi lì, sulle braccia, nel cuore.

Lo guardai in faccia proprio quando soffermò il contatto sulla valle della gola, le palpebre calate a metà. «Beh, a qualsiasi cosa tu stia pensando, io continuerò a credere che questa...» Anziché picchiettarci come faceva papà, ci sfregò un paio di volte, donando al gesto qualcosa di più... intimo. «Si meriterebbe un piedistallo.»

Un angolo della sua bocca si sollevò, ed io ebbi voglia di piangere; credeva in me più di quanto avrei dovuto fare io.

Non ero sicura di meritarmi un simile trattamento.

Voltai il capo, osservando le lucine intermittenti che incorniciavano le porte a vetro dell'Accademia di Musica. Sperai non cogliesse la vergogna per cui avrei tanto voluto nascondermi.

«Perché ci siamo fermati?»

«Perché...» Desmond congedò quel contatto per guardarsi intorno. «In teoria siamo arrivati, ma in pratica no.»

Osservai le bandiere che ondeggiavano sopra l'edificio. «Andiamo a vedere lo spettacolo dello Schiaccianoci? Però a quest'ora staranno già terminando il secondo atto, mi sa.»

«Mi spiace, niente Schiaccianoci. Capirai il posto appena ci saremo dentro... e no, non è l'accademia» rise, per poi piazzarsi dietro di me, le mani che adagiò sulle mie spalle, i pollici che, blandi, accarezzavano il punto dove sporgeva l'osso. «Ho una piccola richiesta, però: affinché tu non lo capisca devi chiudere gli occhi.»

Sollevai il mento per guardarlo, lo chignon trasandato che sfregò contro la sua sciarpa. Lui, dall'alto, mi guardò a sua volta. «Ti fidi abbastanza da lasciarti guidare da me?»

Mi fiderei di te anche a occhi chiusi, Desmond.

Scacciai le incertezze, e sorrisi. «Sì.»







Mi sarei potuta infilare la benda che conservavo in borsa per non permettere alla curiosità di avere la meglio. Poiché sì, stavo cedendo. Tuttavia, cercai di resistere e seguire l'ordine senza barare. Anche se averlo dietro di me, attaccato a me, intento a guidarmi, con le spalle contratte dalla sua presa ferrea e la sua essenza che si infiltrava nelle narici come un ospite tanto atteso, mi assicurava una soglia dell'attenzione vergognosamente bassa.

Per qualcosa come dieci minuti avevamo continuato a camminare sulla St. Broad, dato che avevamo proseguito sempre dritti senza mai svoltare e imboccare vie secondarie. Il chiacchiericcio della gente era andato a dissiparsi man mano, e lui, per ammazzare l'attesa snervante, mi aveva riempita di domande.

«Confessa.»

«Cosa?»

«Ciò che stai architettando alle mie spalle.»

«Parli del complotto con Leonard?»

«Sì.»

«Non te lo dico.»

«Nemmeno quello che gli ha detto lo sbruffone?»

«Alejandro.»

«È uguale.»

«Non ti dico neanche questo.»

«E dai, ma perché no?» si lamentò, la voce cantilenante, tipo i bambini quando pestano i piedi a terra per non aver ricevuto il giocattolo desiderato. «Giuro che me ne sto muto, fingerò di non sapere nulla. Sono un attore mancato, lo sai?»

Scoppiai a ridere.

A occhi chiusi, l'equilibrio era stato compromesso. Parlare, ridere e camminare si stavano dimostrando azioni inaspettatamente complesse, dove l'una non sosteneva l'altra; più di una volta avevo rischiato di scivolare sui tacchi. Sebbene non trovassi difficoltà a starci sopra, fu come se li stessi calzando per la primissima volta.

«Ti posso solo dire che è una cosa meravigliosa.»

«Un po' più specifica? Un indizio me lo merito, sono lo zio.»

«Va bene, è una cosa meravigliosa e... inaspettata.»

«Uhm» mugugnò. «Gregg lo scoprirà o solo io?»

«Lo scoprirete tutti, se Leonard se la sentirà. Dipende da lui.» E dentro di me, incrociai le dita. «Scusa se cambio discorso... ma a proposito di Gregg, l'ho visto di rado. Come sta?»

«Non ha più avuto ricadute come questa estate... Ma ha terribilmente bisogno di mettere in pausa il lavoro, respirare un po' e stare coi suoi figli. È dal divorzio che va avanti così, ma prima almeno poteva contare su sua moglie. Contare, vabbè...» Forse non se ne rese conto, ma dal nervosismo aveva accentuato la stretta alle mie spalle. «Non vorrei parlare troppo presto, ma forse, forse, ha trovato delle spalle competenti che potrebbero alleggerirlo.»

Sussultai. «Potrebbe riuscire a stare più tempo a casa?»

«Non lo so, ma non penso sia un processo così semplice, considerato che alcuni interventi gli tolgono via anche nove ore» sospirò. «Però si sta informando, sta cercando di fare il possibile... Magari potrebbe affidarsi a qualcuno che lo copra in una determinata fascia oraria, magari potrebbe usufruire delle ferie che ha maturato in questi anni, potrebbe richiedere una riduzione di ore, ma lo trovo difficile. Temo che la burocrazia che c'è dietro sia parecchio complessa a riguardo. C'è da vedere.»

Strinse nuovamente le mie spalle, stavolta per fermarmi.

Una ventata d'aria gelida mi ghiacciò la punta del naso. Sempre a occhi chiusi, girai la testa qua e là alla ricerca di un indizio, ma alle narici arrivò solo un connubio di castagne arrostite, churros e l'olezzo pungente di sigaretta di chi stava fumando nelle vicinanze. Nulla che avrebbe potuto farmi pensare a un posto in particolare.

«Ora tappati le orecchie.»

«Cosa? Perché?»

«Devo fare una telefonata che non puoi sentire.»

Avrei voluto controbattere, ma mi sarei guadagnata l'ennesima non-risposta. Perciò eseguii con una curiosità sempre crescente a divorarmi lo stomaco. Ci impiegò un minuto a finire, per poi riprendere l'incarico da scorta pedante.

Mi affidai agli odori, ai rumori, alla minima sensazione. Mi parve di rivivere il gioco che usava mio padre per stimolarmi il linguaggio da bambina, quando mi bendava e mi passava un grande sacco di juta. "Che cosa c'è in quel sacchetto?". E stavolta non erano le mani studiare, a decifrare l'arcano, ma l'udito, l'olfatto.

In fin dei conti, vedevano anche loro.

Feci attenzione al lieve cigolio di una porta che Desmond tenne aperta, a un leggerissimo confabulare tra lui e un altro uomo, a dei passi che si allontanavano, alla scarsa luminosità che intuii anche attraverso le palpebre calate e che mi fece pensare a un posto sul punto di chiusura. La botta di caldo che mi investì mi provocò un capogiro inaspettato.

Mi meravigliai del pavimento soffice sotto le suole, ma soprattutto degli odori: respirai i residui di chi c'era stato, e poi l'essenza di legno, polvere. C'era arte, là dentro. C'era storia, "vissuto". Totale assenza di rumore. Il cuore palpitò più veloce, i sensi cercarono e si confusero e si agitarono, come se quel posto, qualsiasi esso fosse, avesse inghiottito una miriade di avvenimenti importanti e ne avesse risputato i ricordi sotto forma di spettri.

Spettri che erano odori. Odori che parevano persone, tanto erano palpabili, fisici. Ero circondata da una folla di sensazioni che, me ne rendevo conto a ogni passo, avevo già provato. Dove?

Quando la tentazione di aprire gli occhi divenne insostenibile, Desmond poté dirlo, dietro di me. Le sue mani mi abbandonarono.

«Fallo.»

E lo feci.

Abituarmi di nuovo alla vista richiese tempo, ma appena misi a fuoco quell'immensa sala tondeggiante che procedeva in discesa, faticai a comprendere quale emozione avessi dovuto interpellare.

Alzai il capo, girai su me stessa, le labbra schiuse, le dita che affondavano tra le pieghe della sciarpa ormai sfatta; mi resi conto che c'era solo qualche luce accesa, lampadari in vetro che ricordavano la vaga forma di una margherita ma che al contempo erano pupille che puntavano giù, su di noi. Svolazzi ricurvi color crema si snodavano sul soffitto rosa antico, come decorazioni elaborate di una torta. Pezzi di intonaco avevano ceduto in più punti, scavando rughe che manifestavano la crudeltà del tempo.

Mi salì il fortissimo desiderio di scappare via.

Ma anche quello di correre fin laggiù, sul palco.

«Desmond, ma... non...» Non capisco.

«Intanto che cerchi le parole, andiamo avanti.»

Il silenzio ci restituì le parole attraverso gli echi.

Perlomeno capii perché prima avevo avvertito un dolce senso di familiarità trapassarmi i ricordi. Gli odori erano gli stessi del teatro che avevo visitato da bambina, con mamma, ma anche degli altri che avevo visitato da spettatrice nel corso della mia adolescenza.

L'essenza di un teatro era universale.

Scendendo il percorso in moquette tra le schiere di poltrone rinchiuse a guscio, mi liberai della sciarpa.

«Ti prego, spiegami.»

«Così, mi andava.»

«Sii serio... e poi come possiamo starci a quest'ora?»

«Infatti non possiamo, abbiamo appena commesso una grave violazione di proprietà culturale.» Appena gli rifilai un'occhiata sconcertata, si mise a ridere. «No, scherzo. Il custode è stato un paziente di Gregg per un aneurisma, mi pare, e gli doveva un favore. Ma visto che Gregg è mio fratello, è come se il favore lo dovesse a me, e quindi eccoci qua.» Ammiccò, ed io scossi la testa. «Ci sono solo lui e un altro tipo che stanno girando per i corridoi, credo, stanno facendo chiusura. Ma comunque non entreranno qui finché non ce ne saremo andati... Chiaramente mi ha dato un limite di tempo molto esiguo, anche perché rischia di finire nei casini.»

Ero sempre più confusa, e meravigliata, e spaventata.

«E te lo ha lasciato fare così, senza obiettare?»

«Gli ho dato delle spiegazioni più che ragionevoli.»

«Quali?»

«Fai troppe domande, ragazzina.»

«Ok, ma almeno spiegami il perché. Perché proprio qui

Ci fermammo alle prime file, a pochi passi dal palco e dalle seggiole disposte a semicerchio, l'area dell'orchestra; Desmond appoggiò il bacino a un bracciolo e osservò il podio, serio. «Volevo fare un esperimento. Stavolta mi permetto di rubarti la battuta.»

Mi morsi la guancia e mi girai a fissare il palco, rapita.

La voce, nel panico, uscì flebile: «Cosa vuoi che faccia?»

«Sali lassù.» Posò le mani sulle spalle. «E non nasconderti.»

Ingoiai un bozzolo d'ansia, riaffiorò l'incubo di questa estate.

«Una prova» aggiunse piano. «Non ti guarderà nessun altro.»

Voltai la testa di lato, notando le sue dita così vicine al collo. Sospirai silenziosamente e, collocando la sciarpa su una delle tante poltrone di velluto grigio, abbassai la zip del piumino. Una tacita conferma alla proposta, che accolse aiutandomi a levarmelo, facendolo poi scivolare lento sulla schiena, le braccia.

Glielo lasciai fare.

Per una volta decisi di non arrossire; accettai che guardasse a cuor leggero, ben consapevole che l'abito, sebbene coprisse la facciata del mio corpo, lasciava allo scoperto un cerchio di carne proprio dietro la schiena, dove i miei occhi non avevano controllo.

Dove i suoi, però, l'avevano, colmavano il mio punto cieco.

Assaporando ogni secondo dello sfioramento, per un attimo Desmond si era interrotto, lasciando il cappotto sfilato a metà percorso. Il suo respiro, che arrivava regolare, si era bloccato.

Si sbrigò a togliermelo, io ad allontanarmi.

Strinsi il manico della borsa fino a sbiancare le nocche e salii i gradini, una lingua che mi allettava a finire in pasto alle fauci del palcoscenico. In cima, i polpacci subirono un tremolio non appena mi resi conto di trovarmi troppo in alto per i miei gusti.

Sfiorai con le unghie le onde del sipario, di una sfumatura carne, i tacchi calpestarono pelucchi biancastri, tracce di polvere, nastro adesivo disposto a X strappato in malo modo. Cosa ci faccio qui?

«Teatro Miller. Si chiama così.»

Mi girai in direzione delle poltrone.

Desmond mi ricordò che non ero sola.

«In effetti l'ho già sentito.»

«Fa parte del complesso di edifici del Kimmel Cultural Campus, l'avevi nominato anche tu prima.» Si infilò in seconda fila e si inclinò fino ad appoggiare i gomiti sulla fila di poltrone dinanzi. «È stato messo in piedi nel 1918, e in questo momento stai calpestando lo stesso identico palco calpestato dalle tournée degli spettacoli di Broadway più famosi. Sì, non sarà quello della Juilliard, non sarà il New Amsterdam, o il Majestic, o il Metropolitan Opera House... Ma è pur sempre un palco.»

Un palco.

E ora era il mio, solo mio.

Mi pizzicai il braccio, lo sguardo slittò sui piani superiori, sulle poltrone disposte a ventaglio, oltre il parapetto di legno. Gli affreschi al soffitto ritraenti delle creature celesti mi suggerirono che sì: quello era decisamente il passo più alto a cui la carriera di un cantante potesse mai arrivare: un palco, il suo paradiso, il punto che gli consentiva di guardare giù, sul panorama che si era costruito.

Mi inumidii le labbra. «Qual è l'esperimento?»

«Ti sei chiesta perché ti volevo elegante?»

Negai con la testa.

Da quella distanza, mi parve stesse mostrando il solito, scaltro, mezzo sorriso. «Perché quella di stasera è la tua prima» disse. «Per un'occasione così importante era necessario.»

«La mia prima?» Mi venne da ridere. «Cioè, io dovrei...»

«... cantare, esatto. Però ti avverto che il custode è stato chiaro: ci ha dato massimo venti minuti, e noi ne abbiamo persi cinque.»

L'ilarità svanì, lo stomaco si ribaltò.

Volli rispondere, ma la lingua si impastò con il palato. Ora, tutto quello che riuscii a vedere erano le uscite di emergenza in verde, sopra le porte.

«Ti spaventa l'idea, vero?»

Deglutii, mi guardai i piedi che spuntavano dalla gonna. «Mi stai chiedendo qualcosa di impossibile. Non canto più da anni.»

«L'hai già fatto in presenza dei miei nipoti.»

«Sono dei bambini!»

«Anch'io lo sono.»

Contro il mio volere, risi. «Desmond, non...»

«Provaci.» Una dolce, lenta supplica. «Provaci, realizza le possibilità che hai perso, o che magari rischi di perdere. Secondo me quella porta non si è ancora chiusa.» Si puntellò la gola con due dita, e il mio cuore rispose con una capriola. «Bussaci, e senti qual è la risposta. Se non ne sarai convinta, tutto questo sarà solo un esperimento fallito e noi non riparleremo mai più. Parola mia.»

Cantare.

Cantare su un palco.

Cantare su un palco di fronte a lui.

Dio, se sono combattuta.

Esisteva una piccolissima parte di me che non desiderava altro. L'Ophelia di qualche anno prima l'avrebbe fatto senza interpellare la ragione. Il problema era quella di adesso, quella che aveva stampato nei ricordi le voci della derisione, i volti dello sdegno durante lo spettacolo di beneficienza. I commenti su mia madre.

Feci due passi avanti, uno indietro.

Le mani sudate si stringevano a pugno, i minuti che passavano. Olivia mi aveva sentita cantare davanti allo specchio, e secondo lei non ero all'altezza di un simile dono, che stonavo. Mi accarezzai la gola, terrorizzata, insicura. E poi l'incubo più che significativo, le ombre prive di fisionomia, ghigni per occhi, in attesa della mia caduta.

Strizzai le palpebre, il cuore che palpitava alle orecchie.

Poi, però, lì riaprii. E... accadde.

Accadde che guardai Desmond.

Il panico scivolò via, gradualmente: non c'era motivo di agitarsi, non con lui. Come avrebbe potuto deridermi se mi aveva portata fin qui, dopo l'orario di chiusura, corrompendo persino un custode? Perché avrebbe dovuto bramare una mia caduta se non faceva che riacciuffarmi e aiutarmi a rialzarmi, a riprendere quota.

Olivia si sbagliava: lui non mi stava manipolando.

Ero io a manipolare me stessa, a convincermi che la paura fosse il mio salvavita. Ma quanto può esserlo continua a dimostrarsi limitante per la mia voce? Smettere di volare e schiantarsi è davvero migliore di librarsi in volo ed evitare lo schianto?

Aprii la borsa e sfilai la benda.

Scusa, Olivia, per oggi scelgo di volare.

La sventolai. «Intralcerebbe il tuo esperimento?»

«No.» E mi parve che persino la voce sorridesse. «Il palco è tuo. Tuo il microfono, tue il verdetto. Io ho il compito di adattarmi.»

Posai la borsa al limitare del palco e ci sistemai accanto i tacchi. Restai a piedi nudi, avvolti dal collant scuro. Quasi strisciando raggiunsi il punto centrale, segnato da alcune fini strisce di scotch.

Ferma, ispirai profondamente dalle narici.

Senza smettere di fissare quel pubblico di poltrone, mi legai la fascia attorno agli occhi, calma, annodando il fiocco alla nuca.

«Posso... cantare quello che voglio?» esitai, al buio.

L'eco ne ricalcò il tremito, l'emozione.

«Quello che vuoi.»

«Ok.» Mi schiarii la gola. «Visto che siamo in contesti di musica internazionale e dallo stampo italiano, proverò questa: Nella Fantasia.» Nella mia intima oscurità, non potei mai sapere che espressione avesse Desmond. «Era... Devi sapere che era uno dei brani che avevo inserito nella scaletta da esibire alla giuria della Juilliard. Sai, per una futura audizione» borbottai. «Non mi ero ancora iscritta ai tempi, però avevo già le idee chiare sui brani.»

«Sai che non l'ho mai sentita?»

«Allora recupera il film, Mission, è bellissimo. La colonna sonora nasce da lì.» Sorrisi. «Ennio Morricone aveva composto la base, Chiara Ferraù ci aveva adattato il testo. E quando mamma mi faceva studiare le traduzioni, la storia dietro, avevo capito che il cuore del brano mi... rappresentava.»

Ora più che mai.

Ci impiegò un po' per chiedere: «Di cosa parla?»

«Di libertà.»

Detto questo, indietreggiai fino a sfiorare il sipario.

Due respiri silenziosi, e nel buio di quella momentanea cecità prese forma il mio teatro, uniformato al testo; prati sterminati al posto delle seggiole, una notte plumbea il soffitto impolverato, le stelle tra una nuvola e l'altra quei pochi lampadari accesi, l'orchestra i fiori dopo un lungo periodo di siccità. Tutto si svegliava con gli strimpelli della chitarra e la profondità dell'oboe.

Immaginai di trovarmi fra loro, lo stelo più alto. Il microfono.

«Nella fantasia io vedo un mondo giusto
Lì tutti vivono in pace e onestà
Io sogno d'anime che sono sempre libere
Come le nuvole che volano
Pien d'umanità in fondo all'anima»

Nessuna paura, nessuna ruggine a frenare gli ingranaggi tra le parole, nessuna incertezza a grattare in gola. Solo un incredibile senso di vertigine. Una vertigine bella, di fiati sospesi e lacrime al limitare degli occhi. Eppure sorrisi, sorrisi cantando, anche nelle estensioni complesse. Ed erano quelli i momenti che preferivo: allungare una melodia, perché farlo era un po' come se riuscissi ad allungare la mia vita: ne dilatava gli istanti di vertigine e, al contrario, rallentava quelli che mi separavano dal traguardo.

Mamma, quando mi aveva portata a teatro, voleva che imparassi ad ascoltare il cuore strumentale delle opere. Per capirla, per imparare ad apprezzarla anche nei pezzi che non riuscivo ad amare.

"Un brano è una persona: anche le parti che riteniamo meno belle compongono ciò che è. Eppure, guarda fin dove è arrivato."

Ora comprendevo le sue parole.

Mamma, stasera mi sto ascoltando, ed è bellissimo.

E lo capii mentre allungavo un braccio al cielo, a dita tese: avevo bisogno di vivere altri momenti di estensione. Volevo estendermi io stessa, smaterializzarmi ed espandermi, diventare brezza, insinuarmi in spazi ardui, inaccessibili. Volevo viaggiare, arrivare dove un corpo non avrebbe mai potuto: nei cuori di altre persone.

Laddove la meta era talmente alta da spaventarmi.

Talmente in alto, che riusciva a sfiorare l'universo.

«Nella fantasia io vedo un mondo chiaro
Lì anche la notte meno oscura
Io sogno d'anime che sono sempre libere
Come le nuvole che volano
Pien d'umanità»

Intanto che le mani sfioravano l'aria come fossi un'arpista, qualcosa evase; dalle inferriate delle corde vocali, l'estensione in miniatura di me stessa usò la chiave e spiccò il suo primo volo.

Mi toccai la gola e indirizzai la mano lassù.

A dargli una spinta, quella di cui parlava mamma.

E si librò tra le note acute, concedendosi di lasciarsi alle spalle la sua gabbia: la vecchia esperienza sul palco, le derisioni sulle bocche di chi aveva assistito, il terrore per i commenti su YouTube, l'allontanamento dai suoi amici, le giornate passate nel suo letto.

Olivia, e la serata al nightclub.

Olivia, e lo schiaffo inaspettato.

Si lasciò tutto alle spalle; sfidò la gravità e sfiorò la libertà, nuvole che proiettavano i momenti che erano riusciti a farlo finalmente respirare: i passi avanti di Cindy e Leonard, la riappacificazione con gli altri membri del gruppo. I racconti sulla mia vera madre, Rica che mi faceva sentire la vita in grembo. La mia nuova famiglia.

Desmond.

«Nella fantasia esiste un vento caldo»

Quel sentore di casa che si portava dietro.

«Che soffia sulle città, come amico»

Tutte le lacrime amare che aveva raccolto.

«Io sogno d'anime che sono sempre libere»

E quel desiderio che coltivavo da giorni.

«Come le nuvole che volano»

Arrivargli al cuore.

«Pien d'umanità in fondo all'anima»

Tirai il fiocco con un unico, lesto gesto.

La benda cedette, insieme all'ultima estensione.

Ritrovarmi gli occhi a nudo, sprovvisti di una copertura che era l'equivalente di un'amica devota, si rivelò una delle sensazioni più intense e liberatorie che avessi mai sentito.

La bocca stette aperta, le ultime note del brano a sgattaiolare via, ma dall'emozione uscirono sussurri stentati, rotti dall'emozione.

Dunque è questo che vuol dire infrangere le leggi della fisica? È questo che si prova a raggiungere il proprio, intimo universo?

Non mi salì nemmeno il desiderio di raccogliere la fascia, l'attenzione stava là: tra quei delicati affreschi, tra le nuvole che sostenevano creature senza un abito a coprirle, senza alcun velo. Nude pure loro, come potevo sentirmi io in quel momento.

«Mi auguro che quelle siano lacrime di gioia.»

Desmond, incurvato sulle poltrone davanti, stava dando dei lenti applausi; non me n'ero accorta, tanto i rumori si erano rifugiati nell'ovatta.

Stordita, mi tastai la guancia. La scoprii umida. Le lacrime proseguirono la loro calda discesa.

«Io...»

Il mormorio si nascose dietro a un singhiozzo, eppure sorrisi, risi, ma continuai inspiegabilmente a piangere; mi venne istintivo chinarmi sui talloni, i gomiti sulle ginocchia. Premetti le mani sulla fronte, a proteggermi, quasi a pentirmi di essermi fatta vedere.

Aspettai un po' e sollevai il viso, gli occhi su di lui.

Per colpa della distanza, e della vista annebbiata dalle lacrime, mi fu impossibile capire come fosse in volto, se gli avessi suscitato un'emozione, anche minima. Lui, però, mi pose la domanda.

«Sei ancora convinta di rinunciare?»

Incapace di parlare, impiegai alcuni secondi a negare.

Non posso. Dio, io non posso farlo... Come faccio a rinunciare al mio universo, alla mia vertigine, al volo più alto che potrebbe compiere la mia vita?

«Come ti sei sentita?»

Con il pollice e l'indice, mi asciugai le palpebre.

Tirai su col naso.

«È...» mormorai, la voce impastata dovuta al pianto. Scossi la testa, mi uscì un sorriso triste, di chi ha realizzato cosa si è perso per tutto questo tempo. «Io mi sono sentita.» Guardai in alto, incredula delle mie parole, che mai avrei pronunciato fino a qualche mese prima: «E non mi sono mai sentita più bella di così».

Non mi sarei potuta spiegare in quello stato, ma il bello era l'aver ascoltato meglio le parti di me che avevo cominciato a odiare e a celare, e tuttavia mi ero goduta ogni centimetro che mi separava dalla terraferma all'universo. Non c'era stata paura. Per la prima volta, non avevo avuto paura di sfidare i limiti.

«Perché lo sei, Ophelia.»

Le sue parole mi obbligarono a guardarlo, sorpresa.

«Quando lo fai, quando ci credi... lo sei

Quell'inaspettata e diretta dichiarazione, fece barcollare ogni cosa, ogni stabilità. Ignorando le gote imporporate, accennai un sorriso, a cui Desmond rispose allo stesso modo. Dei sorrisi che nascondevano i denti, nascondevano molto altro, il cuore che applaudiva in petto.

Travolta dall'euforia mi sedetti, con le gambe di lato. Battei il palmo sul pavimento di legno, accanto a me.

«Quanto tempo ci resta?»

Sfilò il telefono, la schermata gli illuminò il volto. «Cinque minuti.»

«Ti andrebbe di raggiungermi, per cinque minuti?»

Si sollevò, le mani in tasca. «Mi concedi questo onore?»

«Beh, per te sempre. È il minimo.» Sistemai un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. «E poi stare quassù per così tanto tempo, da soli, non è così bello.»

Desmond uscì rapidamente dalla fila e con due agili saltelli salì i tre gradini. Si guardò intorno pure lui, spaesato, come avevo fatto io, dopodiché mi si sedette accanto. Un ginocchio piegato, l'altro disteso, le mani a terra. Una di esse sfiorò la mia. Non mi scostai.

«Posso farti una domanda?»

Me lo chiese fissando il soffitto.

«Certo.»

«Che cos'hai visto?» Forse percependo il mio smarrimento, accennò un leggerissimo sorriso; gli si formarono delle grinze all'estremità dell'occhio. «Quando ti sei tolta la benda, c'è stato un momento in cui hai guardato insistentemente lassù. Come mai?»

«Vedi...» Mi schiarii la voce. «Quando canto da bendata tendo a immaginarmi delle cose che mi aiutano a capire meglio il brano.»

«E cosa hai visto, stavolta?»

«Prati incontaminati, la notte, le nuvole, i fiori... C'era profumo di libertà.» Le sue dita, piantate sul pavimento polveroso del palco, arrivarono a toccare le mie; non capii se fossi stata io ad avvicinarmi, o se fosse stato lui. Scelsi di non volerlo sapere. «Poi... qualcosa ha spiccato il volo: aveva le ali, una creatura minuscola, eppure è arrivata dove molti altri non ci sono riusciti.»

La sua guancia si posò sul mio capo, avvertii la barba pungere, io trovai posto sulla sua spalla, entrambi a fissare lassù, immersi in un teatro che racchiudeva lo stesso silenzio dello spazio. Fu così naturale, che mi spaventò domandarmi se sarebbe risultato altrettanto naturale separarsi.

«Ha fatto tutto da sola, quindi.»

«No.» Chiusi gli occhi. «Là in alto c'era qualcuno pronto ad aiutarlo, qualcuno che era abituato a simili altezze...»

«Tipo un'aquila?»

Venni scossa da una risata, lui con me.

«Tipo un'aquila, sì.»

Le sue dita, ormai, erano sopra le mie.

«E poi?»

«E poi hanno volato insieme.»

«E sono tornati giù?»

«No, Desmond.» Sorrisi. «Loro hanno raggiunto le stelle.»











Desmond spense il quadro della macchina. Di fronte, c'era la mia che attendeva che mi ci ricongiungessi.

Non ebbi fretta; con le mani intrecciate in grembo, sopra la borsa, osservai la lampadina al di sopra del portone di casa sua che gettava una luce spettrale sullo zerbino. Un paio di lampioncini fissati al terreno, nascosti da siepi tonde e a cui mancava una bella spuntata, proiettavano coni luminosi alle estremità della stradina che conduceva all'ingresso.

Lacrime candide si andavano a depositare sul parabrezza.

Da poco, la notte aveva stabilito di liberare la prima neve.

I tergicristalli scorrevano a una velocità moderata, estinguendo le tracce di quel candore con dei leggeri e costanti stridii. Desmond si rilassò sul sedile, il suo braccio accomodato dietro il mio poggiatesta. Con l'altra si mordicchiò una pellicina del pollice.

Dal nulla, nemmeno a comandarlo, a rompere la quiete sgorgò una risata dalle labbra; dapprima lieve, timida, trattenuta a stento dai denti, ma poi coprendomi il viso esplose e non ci fu più nulla per frenarla. Mi avrebbe potuta prendere per pazza, se non fosse che si unì anche lui, creando così una follia condivisa, di non detti a renderlo ancor più folle, condita dalla sua risata, tanto profonda da farmi credere che ci fossero solchi nascosti proprio lì dentro, in gola.

Posai la testa sul sedile. «Ritorniamoci, ti prego.»

«Ora che è chiuso rischieremmo davvero una denuncia.»

«Corrompi di nuovo il tipo.»

«Ma sentitela...»

Risi, dandogli una giocosa spintarella alla spalla; mi strofinai le palpebre; poco importava se parte del trucco si fosse smontata. Solo per quella sera mi ero imposta che ogni piccolo, inutile pensiero rimanesse segregato in gabbia. Insieme al cumulo di cose che preferivo non intralciasse quell'insolito momento di felicità.

All'improvviso, mi sentii toccare la guancia.

La mano di Desmond, ferma lì, mi obbligò a smettere di ridere.

«Guardati, Ophelia... guarda come il canto ti cambia. E stavolta possiamo dire che il merito non è delle fragole.» Incurvò candidamente gli angoli della bocca all'insù; mi imposi di restare immobile, per paura che l'adrenalina in corpo potesse rovinare qualcosa, perciò continuai a guardarlo. Un lampo di curiosità gli assottigliò lo sguardo. «Perché te l'eri tolta?»

Intuii con qualche istante di ritardo che parlasse della benda.

Quindi umettai le labbra, colta da un impeto di incertezze. Tuttavia mi ripetei che no, non ero ancora tornata in gabbia, tantomeno volevo tornarci tanto alla svelta: la serata non era ancora terminata, e quella sera volevo che tutto di me, anche le parole, viaggiassero sulle ali della libertà.

In alto, sempre più in alto.

Senza limiti.

In capo all'universo.

«Volevo che mi vedessi» confessai con un mormorio, inclinando la guancia sul palmo della sua mano; quel contatto assunse una sfumatura diversa, e le dita si estesero un po' di più, a volermi raccogliere meglio. «Volevo guardarti, vedere come mi stessi guardando... Temo che una benda me l'avrebbe impedito.»

Forse rimase colpito dalla mia uscita, non fui in grado di capirlo. Però mi fu chiaro quel silenzio che si creò, uno differente, uno carico di aspettative, di una tensione che costringeva a inghiottire le parole. Poi, i suoi occhi scivolarono sul naso, e un po' più giù.

«Come speravi che ti guardassi?»

Accompagnata da un coraggio a cui avevo rinunciato da parecchio tempo, lentamente mi sporsi su di lui, attenta, esitante, con la stessa vertigine di quando avevo cantato sul palcoscenico.

Desmond non si allontanò, nemmeno quando posai le labbra sulla sua guancia. Un breve, lievissimo tocco, che sulla sua barba parve come se un petalo si posasse su una distesa di rovi.

Il mento sfiorò la sua sciarpa, il suo respiro si interruppe, quel senso di vertigine che tornava ed, egoista, toglieva il respiro a entrambi. Non mi scostai, neppure quando soffiai: «Come stai facendo adesso».

Ruotò il viso in direzione del mio, di poco, ma nel farlo si frenò, magari attraversato da un ripensamento. Eppure, la fronte restò premuta contro la mia tempia, e guardando giù, notai le sue labbra schiuse poco prima che mormorasse: «Non dovresti guardami in questo modo, Ophelia».

Ophelia, e non ragazzina.

Dentro di me, sorrisi.

«Sbaglio, o eri tu che mi dicevi di tenere sempre gli occhi alzati.»

«Sì.» E dal tono parve provare del rimorso. «L'avevo detto.»

Con una forza che mi fu impossibile da capire, mi costrinsi ad arretrare da lui; guardandolo, lo sorpresi con uno sguardo completamente perso, puntato a terra, sui tappetini. Ma non volli riflettere più di tanto sulla mia azione; impugnai la maniglia e spalancai la portiera.

Quando ormai ero fuori, a contatto con la neve che continuava a scendere, Desmond abbassò il finestrino.

«Ehi.»

Quello sguardo era già sparito, al suo posto uno più leggero, il solito, il suo. «Ormai è l'una, quindi direi che posso pure farti gli auguri.»

«Ma come...» Scossi la testa, stringendomi nel cappotto. Mi abbandonai a un'altra risata. «E questo come facevi a saperlo?»

Ammiccò. «Avevo ridato un'occhiata al tuo curriculum.»

Dalla sorpresa, non avevo saputo rispondere, se non con un sentito e sincero "grazie". Appena mi ero accomodata davanti al mio volante e lui aveva chiuso il portone alle sue spalle, non prima di avermi lanciato un cenno di saluto, avevo continuato a ripensarci.

Nessuna coincidenza.

Lui aveva programmato tutto.












Chiusa la porta di casa, mi addentrai come un ladro, più per paura di svegliare i miei genitori. Il bagaglio di emozioni che mi era atterrato addosso nel giro di un paio d'ore mi aveva costretta a fermarmi e a prendere un attimo di respiro.

Con un sorriso appagato, posai la testa alla porta.

Un calore persistente infiammava il collo, le guance, il cuore stesso. Quella vicinanza, essere stata a tanto così dallo sfiorare l'universo, e poi...

«Bentornata, sorellina.»

Sussultai dallo spavento.

Portandomi la mano al cuore, notai l'ombra di Olivia vicino alle scale che portavano al piano superiore, alle nostre camere; era avvolta da un pigiama lilla, i capelli legati ma senza un ciuffo fuori posto, struccata eppure con una pelle lucida, pulita.

Era tornata dall'uscita prima delle aspettative. Di solito faceva le tre.

Con le braccia conserte, però, restava ferma, di cera, addossata al muro.

A mettermi paura, non fu tanto la sua silenziosa apparizione, quanto più l'atteggiamento: con uno spazzolino in mano, rimase una statua, granito lo sguardo, l'espressione assente come in quei soggetti di pietra. Non si capiva se fosse arrabbiata, o semplicemente annoiata.

E fu più inspiegabile comprendere come mai non riuscissi a parlarle. Il battere del cuore divenne insostenibile, avevo il fiatone.

«Olivia, non...»

«Bel vestito.»

La sua attenzione scivolò sulla gonna che usciva dal cappotto. Per qualche lungo secondo, non fece altro che fissarlo.

Senza aggiungere altro, mi diede le spalle e salì al piano di sopra.





















ANGOLO AUTRICE

Con un po' di ritardo, eccomi qui. 🖤

Sono così stanca ed esaurita che non riesco nemmeno a scrivere l'angolo autrice. Non so neanche se mi sono sfuggite delle sviste.

Sappiate solo che questo capitolo, molto più di altri, mi sta troppo a cuore. Spero siate riuscito ad apprezzarlo anche solo un minimo. 💔

Questions:

▪️ Ophelia; questa è stata la sua prima, una parola che può assumere diversi significati. Ma nel contesto, si intende proprio una “prima volta”. Desmond pare averle fatto un regalo di compleanno più che... azzeccato. E azzardato, direi, dal momento che le ha lanciato una grandissima sfida: cantare sul palco, di fronte a lui. Inutile dirvi che quella scena è stata una delle prime che mi era venuta in mente ai tempi in cui avevo pensato a questa storia. Che cosa avete pensato? Pareri? Che cosa vi ha suscitato? Ma soprattutto: ve l'aspettavate?

▪️ Desmond & Ophelia: la scena in macchina, per quanto breve, sia risultata altrettanto intensa. Quell'avvicinamento di non detti e di sfioramenti, ha un significato più che palese. Che dite, secondo voi nella testa di Desmond che genere di pensieri ci sono?

▪️ Finale; sì, belle le gioie, ma vogliamo mettere Olivia che appare nei momenti meno indicati? Sono una gran masochista. Scusate. Vi voglio bene, ciao. Siete d'accordo anche voi che quelle due parole che le ha rivolto sono stata più significative di qualsiasi altra sfuriata?

▪️ Scena preferita? 🕊️

Detto ciò: ci sentiamo prossimamente, per il prossimo capitolo è altrettanto... 🫠

Piccolo avvertimento: non fateci l'abitudine. Per il vostro bene.

Intanto ne approfitto per augurarvi un buon anno a voi e alle vostre famiglie; AAV ha come tematica principale quella della famiglia, appunto, perciò uno dei miei consigli spassionati è proprio questo: siate vicini ai vostri cari, sempre. 🎆✨❤️🕊️

A presto!

Playlist:

I Always Knew — The Vaccines (prima parte)


Come Pick Me Up — Ryan Adam's (seconda parte, fino a quando Ophelia non parla del teatro)


Intermezzo Cavalleria Rusticana — Pietro Mascagni (seconda parte, da dove ne parla fino alla fine)

Nella Fantasia — Celtic Woman (terza parte, quando Ophy la canta; fun fact, me la immagino proprio con questa voce)

Car's Outside — James Arthur (quarta parte, in macchina)

Instagram: The_blackcatshadow

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro