26. Cuore di lana
Cuore di lana
P.S musicale: sarebbe meraviglioso seguiste la terza parte del capitolo con Lonely Star di Oh Wonder
«Ophelia, ti amo.»
«Quoto. Sei un genio.»
In un freddoloso giovedì sera avevo proposto al gruppo di uscire insieme. Se dovevamo ricominciare, da qualcosa dovevamo pur partire. Warren e Fannie, i più accondiscendenti alla questione "due anni di separazione", avevano accettato senza avanzare obiezioni. Gwenda aveva dovuto rifletterci, un po' perché detestava uscire quando le temperature si abbassavano drasticamente, un po' perché avrebbe faticato a tollerare la presenza di Alejandro. Alla fine, però, si era rassegnata ad accettare grazie ai punzecchiamenti dei gemelli.
Alejandro, d'altro canto, si era visto costretto a rifiutare, giustificandosi che avrebbe dovuto dare priorità allo studio, in preparazione a un colloquio importante. Non me l'ero sentita di esprimere la mia delusione, non avevo intenzione di aggiungere ulteriori malcontenti. Se fosse scoppiata una discussione per un nonnulla, proprio ora che ci eravamo ritrovati, avrebbe significato deteriorare le basi su cui stavo lavorando, e a favore della riunione.
L'unica entusiasta alla notizia era stata Gwenda.
"Un seccatore in meno, meglio così."
Anche se da una parte me l'ero aspettata, mi aveva spiazzata lo stesso; gli interrogativi su di loro, in quei giorni, si erano moltiplicati.
Mi ero obbligata a non indagare. Per quanto fossi curiosa, erano affari che non mi riguardavano, nonostante l'idea di prendere in disparte Gwenda e chiederle chiarimenti mi sfiorasse troppe volte.
Eravate così amici, prima... Osservai la ragazza intenta a perculare Fannie, insieme a Warren. Lo stimavi, addirittura ti lasciavi abbracciare da lui, lasciavi che oltrepassasse i tuoi preziosi spazi, cosa che non hai più permesso di fare a nessun ragazzo... Cos'è successo di così grave, Gwenda? Cos'è cambiato col tempo?
Mi costrinsi a ingoiare quelle domande e a concentrarmi su dove stavo mettendo i piedi; grazie ai lampioni e alle luci che arrivavano dalle vetrate dei negozi, alcune di esse decorate con degli addobbi natalizi prematuri, i marciapiedi della storica Germantown Avenue risultavano illuminati a giorno. Le nostre ombre si divertivano a calpestare quelle allungate dei parchimetri e alcune cartacce che svolazzavano appena uno spiffero di vento glielo permetteva.
Di comune accordo, con gli altri, avevamo deciso di fermarci al McDonald's per gustarci del sostanzioso cibo spazzatura, nonostante, per tutto il tempo, fossi stata pervasa da una punta di tristezza. Inutile negarlo: a completare il gruppo, oltre ad Alejandro, mancava una compagnia fondamentale: la nostra tipica spensieratezza. Solo quando ero giunta a metà cheeseburger gli aneddoti avevano iniziato a ingranare. Lì, i muscoli e i nervi si erano finalmente distesi.
Fra un boccone al panino e un sorso all'aranciata, avrei voluto chiedere di Alejandro, esprimere quanto mi dispiacesse la sua assenza. Come se mi avesse letta nel pensiero, ci aveva pensato subito Warren. Gwenda, in tutta risposta, aveva alzato le spalle, borbottato "cavoli suoi" e succhiato rumorosamente dalla cannuccia.
Ora, a stomaco pieno, ce la stavamo prendendo comoda; in linea di massima, essendo un giorno infrasettimanale, non c'era neanche tanta gente ad animare la via, se non qualche giovane volto in compagnia e dei senzatetto che iniziavano a sistemare cartoni e coperte per dormire.
In tutto ciò, Gwenda e Warren continuavano a concordare sul mio suggerimento per continuare la serata. Fannie, che camminava nel mezzo, fingeva che l'argomento non la sfiorasse.
«Ricordi, Ophelia, quando ti avevo detto "non te la voglio perdonare così facilmente"? Ecco, ora dovrai sudare il doppio.» Fannie si annodò la sciarpa che le cingeva il collo, borbottando: «Ma ti rendi conto della cazzata colossale devo fare pur di assecondarti?»
«Scusa.»
«Un nightclub.»
«Scusa.»
«Spogliarellisti.»
«Scusa.»
Warren, travolto dall'impeto della risata, si buttò a circondare le spalle di Gwenda. «Ma di che cazzo ti lamenti, sorella. L'avesse offerta a me questa opportunità. Però aspetta.» Si rivolse a Gwenda che, sotto il suo braccio mingherlino, rideva. Di pancia era raro che lo facesse. «Non ricordo... In quale contesto aveva perso Fannie?»
«Ah sì.» Gwenda si ricompose, grattandosi la narice col piercing. «Gara di bevute. Chi avrebbe vomitato per primo era obbligato a fare qualsiasi cosa avrebbero richiesto i sopravvissuti. Ed eravamo... sì, eravamo nel mio appartamento per Halloween, avevo approfittato dell'assenza della mia coinquilina per invitarvi. C'era pure Ophelia.» Mi lanciò un'occhiata vagamente divertita, che andò a smussarle i tratti austeri. «Per quanto morisse dalla voglia di partecipare, le avevo vietato di bere. Poi chi li avrebbe sentiti Allan e Cordelia...»
Sorrisi. «Però un paio di shots li avevo buttati giù.»
«Te li avevo passati io sottobanco, ringraziami» mi ricordò Fannie. «Pessima idea alternare Drunk Twister a Shot Roulette. È stato un vero miracolo non andare incontro a una lavanda gastrica.»
Warren, ridacchiando, creò nuvole di condensa e al contempo allungò il braccio pure sulle spalle della sorella. «Che spettacolo stare alla porta del bagno a guardare te e Gwenda vomitare a turno.»
«Io che tenevo i capelli a Fannie...» precisai.
«Jay che li teneva a Gwenda» continuò Fannie.
«E io che mandavo i vocali da ubriaco a nostra madre.»
Per un po' rievocammo la sera del nostro ultimo mirabolante Halloween passato insieme, dove gli unici che avevano appreso il significato della parola "responsabilità" eravamo stati io e Alejandro, che ci eravamo presi l'incarico di occuparci dei malesseri degli altri.
Warren raccontava quanto poco flessibile fosse sul twister, Fannie riesumava il numero di cadute, Gwenda sembrò meno partecipe. Il suo sorriso si plastificò subito dopo aver citato Alejandro; forse erano ipotesi frutto di una mente troppo sentimentale, ma a quei tempi mi era parso di intendere che la ragazza gli serbasse un affetto che andava ben oltre alla semplice stima, affetto che magari aveva sempre represso per la cicatrice da liceale che non aveva superato.
Non gliene avrei fatto una colpa: Alejandro era un bel ragazzo, dentro e fuori, rimanerne indifferenti era difficile. Persino Warren mi aveva confessato che ci avrebbe volentieri provato se solo l'altro non fosse etero. Persino io, un tempo, non capivo cosa provassi, se un legame fraterno o qualcosa di più profondo. Fannie, che navigava in direzioni opposte, era l'unica immune al suo fascino; l'aveva sempre visto come l'amico fin troppo adulato e che godeva prendere in giro per umanizzare la sua immagine.
Concordavo: per quanto gli piacesse mostrare quel lato di sé sfrontato, per quanto preferisse incapparsi in relazioni da "mordi e fuggi", sapeva essere un tipo sensibile, dolce.
«Ripetetemi dove dovrò riscuotere quest'obbligo del cazzo?»
Gwenda gettò un'occhiata al biglietto, lo stesso che mi aveva consegnato Ian, il migliore amico di Desmond, come esortazione a spargere la voce e a visitare il locale. «Il nightclub è a East Falls.»
«Ah, peccato non sia quello sulla Passyunk Avenue.» Warren sospirò, ma gli arrivò un coppino sonoro da parte della sorella.
«C'è uno strip club pure lì?» chiesi.
Warren mi affiancò, massaggiandosi la nuca. «Non proprio.»
«Pleasure Garden Club. Un posto dove, pagando un rene, viene offerta libertà ai clienti, sia coppie che single, per sperimentare» commentò Gwenda. «Effettivamente sarebbe stato divertente obbligare Fannie a guardare per qualche secondo. Tanto ammettono pure i voyeur.»
L'altra stirò un sorriso freddo. «Vedo che in merito sei un po' troppo informata. Ci sei stata di recente? O adesso ci lavori proprio?»
Se non l'avessi bloccata dal braccio, Gwenda gli avrebbe tirato un pugno in un occhio. Fannie, compreso che era meglio tacere sull'argomento, si allontanò da lei, pentita. «Va bene, ok, scusami, questa era pesante.»
Ritirò il pugno con estrema lentezza. «Appena potrò filmarti con uno spogliarellista accetterò le scuse.»
«Stronza.»
Una parte di me si sentiva in colpa per aver usufruito dell'invito di Ian come obbligo per Fannie. Senza contare che avevo svelato solo a Warren e a Gwenda di chi chiedere come partner ideale. Sperai ardentemente che alla fine della serata ci ridessero sopra.
Alla vista del Covenant House, però, mi dovetti fermare.
«Ragazzi, io sarei arrivata...»
Guardarono l'insegna blu del rifugio per senzatetto. Accanto al nome, il simbolo: una colomba che spiccava il volo da una mano. Gwenda, nonostante l'umore, parve dispiaciuta. «Non puoi saltare?»
Dal mio sorriso amareggiato capì fosse meglio non insistere.
Intanto, il cellulare nella tasca del giubbotto vibrò. Ancora. Un altro messaggio. Per quanto contradditorio, sperai che fosse mia sorella.
Nell'ultima mezz'ora, a intervalli prolungati, mi ricordava che avevo delle questioni in sospeso, e l'allegria che mi aveva pervasa sfumò. Per un attimo ero riuscita a ignorare quel senso di vuoto, la tristezza che lo colmava. Inutile scappare se prima o poi devo fermarmi e spiegare il motivo dietro a quelle fughe.
A chi era stato attento a coglierle, poi.
Quanto mi sento idiota.
«Non mi sembri convinta» constatò Fannie. «Hai una faccia...»
«No, no!» Scossi le mani. «Davvero, andate. Aspetto i vostri filmati, mi raccomando... Avete già creato un gruppo su Telegram?»
Warren alzò il pollice. «Appena fatto.»
«Che palle, pure il gruppo...» Gwenda sbuffò. «Perché? Sono così belli i messaggi privati, anziché cento messaggi inutili da recuperare.»
«Perché così è più divertente vedere te e Jay scannarvi per dei motivi ancora ignoti.» Lei gli mostrò il dito medio, lui le posò una mano sulla schiena, inducendola a camminare. Tra le lentiggini, mi lanciò uno sguardo d'intesa. «Ti tartasseremo.»
Fannie aspettò un po' prima di seguirli, perché mi puntò l'indice. «Lo sto facendo per te, per far funzionare questa riunione. Sappilo.»
Se ne andò, e dentro di me fiorì un sorriso.
Anche se durò poco.
Tirai fuori il cellulare e, come sospettavo, i messaggi non erano di mia sorella. Mi sentii orribile a ignorare quel vano tentativo di comunicazione. Il problema era che non avrei trovato giustificazioni, rischiando soltanto di peggiorare una figura già di per sé pessima.
Sfregai lo schermo, meditai, dopodiché aprii la porta del rifugio, consapevole che uno come Desmond non si meritava il silenzio.
Seduta su un divanetto posto affianco alla reception, principalmente due scrivanie abbracciate da un'unica vetrata, mi rassegnai a scandire i secondi sul pavimento opaco e a osservare torme di frettolosi individui entrare dalla porta a doppio battente, riversandosi nella hall come colonie di formiche che non vedevano l'ora di rincasare dal mondo esterno. A ogni secondo spuntavano volti nuovi, accesi da una gioia toccante, di chi sta per compiere un sacrificio a fin di bene, e che avrebbe sostenuto i giovani bisognosi.
Anche quest'anno le donazioni non sono state poche.
Una volta all'anno contribuivo anch'io a trascorrere una scomoda serata fuori, da quando ero venuta a conoscenza dell'iniziativa "Sleeping Out" grazie a una signora che serviva alla mensa del Faith Rescue Mission, dove facevo volontariato da liceale. Era un progetto esclusivo del Covenant House, mi era stato riferito, che veniva realizzato a novembre, nel mese di sensibilizzazione per i senzatetto.
Lo vedevo come un obbligo morale. Avevo bisogno di farlo, per principio. E i miei genitori, per quanto all'inizio fossero stati parecchio riluttanti ad assecondare la scelta del dormire in un parcheggio, al freddo e con un gruppo di volenterosi sconosciuti, avevano compreso la mia decisione, con la solita raccomandazione di chiamare se avessi avuto problemi. Mia madre, che non si fidava della compagnia, una notte di diversi anni prima – la mia prima notte – mi aveva accompagnata; il mattino seguente ci eravamo svegliate con un terribile mal di schiena. Mentre gli organizzatori ci consegnavano bicchierini di caffè, noi due avevamo riso per i dolori.
La felicità racchiusa in quel ricordo ebbe vita breve; seguendo la scia di persone stringersi la mano, chiedere chiarimenti alla reception, o scambiare quattro chiacchiere prima che scoccassero le ventidue, m'incupii leggendo i messaggi in anteprima di Desmond.
"Ehi."
"Ophelia."
Anche se non con lo stesso calore, ricambiai i saluti a dei volti che avevo già incontrato negli anni precedenti – una donna dalla costituzione robusta e la pelle scura, un coetaneo con un paio di dilatatori, un'anziana signora dal taglio maschile. Massaggiandomi la fronte mi arresi al mio castigo interiore: ripensare ai giorni che avevo trascorso dagli Holmberg, a come sia stata una missione impossibile guardare in faccia Desmond senza quel sorriso in più che ero abituata mostrargli o senza quella parola di troppo che ero abituata a rivolgergli. Piccole cose, banali forse, che però avevano contribuito a modellare il nostro rapporto. Un rapporto che ero felice di aver costruito, e dove felice ero io ogni volta che uscivo dalla loro porta.
Non ero stata in grado di nascondere la delusione.
L'ha notato, l'avrà sicuramente notato...
Affossata dai sensi di colpa, invece di continuare a mangiarmi le pellicine, lunedì avevo deciso di chiedere consiglio a Judy e a Rica.
Mi ero sentita sollevata nel rivederle a distanza di tempo; grazie alle cure del rifugio in cui le avevo accompagnate un mesetto prima, Rica mi era sembrata più in forma e portava avanti la gravidanza con molta più leggerezza, malgrado la tosse e la febbre altalenante. Judy, invece, insieme ad altri senzatetto, era seguita dai membri del personale per intraprendere un percorso mirato a trovare un impiego.
Mi ero seduta in mezzo a loro, su un divano.
«Ho fatto un casino...»
Gli avevo spiegato la situazione senza tralasciare alcun dettaglio, con le mani che si tormentavano in continuazione e i "ma perché, non se lo merita, non riesco a capire, non dovrei prendermela così" che avevano guarnito quel fulminante rigetto d'ansia; durante il racconto, entrambe si erano rivolte uno sguardo che non ero riuscita a decifrare fino in fondo, dopodiché si erano susseguiti dei minuscoli, compassionevoli sorrisi. Judy, poi, si era assentata. Rica si era sistemata meglio tra i cuscini e aveva posato la mano sulla sommità della pancia. Si era messa a ridere, lasciandomi perplessa.
«Ma no, tesoro, tranquilla.» Si era accarezzata il pancione che spiccava dal maglione cobalto. «È normale la tua reazione, sai?»
«No, Rica... mi sono comportata come una bambina.»
«Uhm.» Aveva trascinato la mia mano sopra la pancia, coprendola con la sua. «Hai detto che questa persona è importante, giusto?»
«In un certo senso.»
«Quanto importante?»
Lì per lì, le parole si erano estinte.
Un po'? Abbastanza? Molto? Non potevo quantificare l'affetto. E se avessi insistito a scavare tra i miei pensieri, avrei capito che quell'affetto rappresentava la superficie. Mi elettrizzava, mi spaventava. C'era troppo in una bottiglia troppo piccola, e quella bottiglia non faceva che sfuggirmi e ruzzolare e scuotersi, mescolando e dirottando convinzioni che erano il mio posto sicuro.
Convinzioni sbagliate, convinzioni traballanti.
Affetto che non era affetto. Delusione che non era solo delusione.
«Il tuo silenzio parla, Ophelia.» Rica mi aveva sorriso dolcemente, accarezzandomi la guancia col dorso della mano. «Sai, quando dalla bocca di chi amiamo esce qualcosa di non proprio carino, per noi equivale un po' a una coltellata. Penso che se un'opinione simile sulle adozioni le avesse espresse uno sconosciuto, non avresti mai reagito così e tu, adesso, non saresti nemmeno qui.»
Il guizzo che aveva subìto il cuore mi aveva fatto realizzare quanta verità ci fosse. Mai come in quel momento avevo desiderato che le mie emozioni fossero indipendenti alle parole; avrei preferito rispondessero solo a me, a ciò che pensavo io. Esisteva già Olivia a predominare su di esse. Mi bastava e non lo accettavo. Negli ultimi anni avevo capito che le sue parole e i miei sentimenti erano in qualche modo legati da un unico filo, intrecciati nello stesso DNA.
Indugiai sull'icona di Telegram.
Sono proprio una stupida.
Proprio quando mi ero decisa a placare i tentennamenti e a rispondergli, nella schermata spuntò l'avviso di una chiamata in arrivo. Senza suoneria, prese a vibrare. Alzai le sopracciglia, allibita.
Fra tutte le supposizioni possibili e immaginabili, non mi sarei mai aspettata che Desmond trovasse persino la voglia di chiamarmi.
E ora?
Dal panico lasciai che continuasse per un po', sperando mi arrivasse l'illuminazione su una spiegazione che si reggesse in piedi.
Se rispondo devo per forza parlare.
Alla fine, trassi un sospiro e portai il telefono all'orecchio. Sperai comunque di non sembrare distaccata. O almeno, non in imbarazzo.
«Pronto?»
Dall'altra parte sopraggiunse un tono che non aveva per niente l'aria di appartenere a un tipo che se la fosse presa. Desmond pareva il solito. Certo, non suonava risentito, ma neppure allegrissimo. «Qualcosa mi suggerisce che neanche tu impazzisci per i messaggi.»
«Ah... i messaggi.» I brusii dei presenti al Covenant nascosero la mia voce; per scacciare l'agitazione battei la mano sul ginocchio, poi la piazzai davanti agli occhi dalla vergogna. «Non sono ancora entrata su Telegram, a volte non mi arrivano le notifiche. Scusami.»
La confusione di fondo occupò il silenzio.
«Mh, mh» meditò roco, dopodiché alleggerì la voce, rendendola più ilare. «Tranquilla, e mi dispiace per l'ora balorda, ma ti volevo avvisare che domani hai la giornata libera. Ho scoperto qualche ora fa che ho la possibilità di lavorare da remoto. Per cui riposati pure.»
«Ah, va bene, grazie.» Fissai il pavimento. «Ok.»
«Ok.» Volevi dirmi solo questo? «Ti ho disturbata?»
«No, no... figurati. Sono fuori. Serata in compagnia.»
«Bello. Pure io.» Emise una risata leggera. «Amici?»
«Sì, amici.» Mi strinsi la radice del naso – sempre più ridicola. «Quelli di cui ti avevo parlato. Abbiamo... deciso di ricominciare.»
«Immagino. Però non ti sento felice, Ophelia.» La voce si fece seria, tratteggiata da una venatura amara. «Ultimamente non lo sei.»
Non era un'ipotesi, ma una dura affermazione.
Come quando ero con Rica, mi ritrovai a secco di parole. Peggio; la fermezza con cui si rivolse a me andò a creare un denso groviglio di rammarico dentro lo stomaco. Subito risalì, sottoforma di lacrime. Ma le trattenni lì; non volevo allarmare il personale che gironzolava.
«Perché...» Mi strofinai il naso. «Perché ne sei così sicuro?»
«Perché l'Ophelia che ero abituato a vedere, negli ultimi tempi non c'era più, sparita. Ai bambini è mancata... e anche a me.» Spezzò quel pensiero con una pausa improvvisa, durante la quale avvertii chiaramente il petto gonfiarsi, imbottirsi di una sensazione che pareva realizzarsi nella lana; ingombrante e morbida, pizzicava e coccolava e rilasciava un calore in grado di commuovermi. «Ti sembrerà una considerazione da idioti, ma ogni volta che provavo a parlarti c'era qualcosa di strano, qualcosa che mi sfuggiva. E sfuggente lo sei stata parecchio, sai? Rispondevi a monosillabi, sorridevi di meno... non alzavi mai gli occhi da terra.» Parve esitare, ma alla fine colmò il silenzio. «Non lo stai facendo neanche adesso.»
Appena realizzai il significato delle ultime parole, dapprima corrugai la fronte. Impossibile. Sollevai gli occhi, credendo di aver capito male; per un attimo mi diedi dell'ingenua – non sa dove sono, non può saperlo – eppure, quando un gruppo di signore si scansò dal mio raggio d'azione, scorsi una figura autorevole accanto all'entrata.
Cappotto pece che gli sfiorava le ginocchia, la sciarpa cinerea divisa in due braccia che slittavano giù, fino a toccargli la vita. No, è impossibile. Continuando a guardarmi, Desmond incurvò le labbra all'insù per poi riporre via il telefono. Io non riuscii a farlo; fu un gesto troppo complicato, richiese un grosso sforzo a livello mentale.
Come può... come.
Scostò gentilmente due ragazzi che indossavano, come anche gran parte degli organizzatori, la maglia blu del Covenant House, il logo con la colomba bianca al centro. Seppur esitante, gli andai incontro.
«Desmond, ma...»
«Mi trovavo nei paraggi.»
Inclinai il viso, per nulla intenzionata a credergli. «Non potevi sapere che ero qui, tu...» Ero talmente sconvolta che le emozioni implosero, mi impedirono di comporre delle frasi semplici. Poi, dandomi una calmata, glielo domandai seria: «Come lo sapevi?»
Con le mani nelle tasche, si guardò intorno, divertito.
«Non lo sapevo. A dire il vero, non ci sarei mai arrivato.» La sua mano, dentro la tasca, frugò per un po' e dopo qualche secondo uscì trionfante con un pezzo di stoffa rossastro tra le dita; riconoscerlo mi fece tremare il cuore. «Ricordavo dove abitassi, così sono andato fino a casa tua sperando di trovarti lì. Un tipo simpatico tuo padre.»
Mi sfregai la bocca, fissando stordita la benda.
Quando mi è scivolata dalla borsa?
«Che imbranata, mi dispiace...»
«Ringrazia Cindy, che l'ha trovato sotto al letto.» Oh, Cindy... Mi porse la fascia. Feci per riappropriamene, ma lui mi trattenne la mano, incatenandomi dolcemente alla sua, più fredda. «Sai qual è stata la prima cosa che mi ha chiesto quando mi ha dato la benda?»
Mi vergognai di me stessa.
In assenza di una mia risposta, mormorò: «"Perché tu e la babysitter non vi parlate più? Avete litigato?"» E lo disse con un tono che oscillava a metà tra l'ilarità e la tristezza. «Non le ho saputo risponderle. Quindi perché, Ophelia. Perché non ci parliamo più?»
Mi morsi la lingua, frenandola dal rigettare risposte sbagliate e mal interpretabili. Tuttavia, a bloccare ogni tentativo di formulare una risposta pulita fu una signora del Covenant, scura di pelle e con un cartellino che le pendeva sul seno prosperoso. Richiamò all'attenzione i presenti e li invitò a prendere con sé l'occorrente nello stanzino adiacente a quello dell'ufficio amministrativo: un cartone e un sacco a pelo che mettevano a disposizione dell'evento.
Chiusi gli occhi. «Possiamo rimandare? Dovrei andare con loro.»
Storse la bocca in una linea obliqua, assumendo una smorfia che mi lasciò intendere stesse riflettendo; fissò la gente sorpassarlo a destra e a sinistra, dopodiché, senza scomporsi, mi diede le spalle e si posizionò davanti alla vetrata della segreteria. Si inclinò appena, in modo che la donna seduta al computer riuscisse a sentire. «Sono un ritardatario. Cosa posso fare per partecipare all'iniziativa adesso?»
Sgranai gli occhi, afferrandolo dal gomito. «Non se ne parla!»
Mi schiacciò il palmo in faccia, facendomi indietreggiare.
«Non le dia retta e risponda a me.»
«Desmond... per favore, no.»
Continuò a ignorarmi per ascoltare la donna. Sperai che gli comunicasse che non era più possibile partecipare, che magari bisognava registrarsi mesi prima, qualcosa del genere, qualsiasi cosa. I sensi di colpa non sarebbero riusciti a reggere anche quello. Invece, dopo una telefonata di conferma, gli disse che mancavano quattro partecipanti all'appello e aveva l'opportunità di sostituire uno di loro.
Appena gli fece compilare un modulo di registrazione e gli spiegò che il versamento per donare il proprio contributo poteva benissimo farlo il giorno seguente, Desmond esibì un sottile sorriso di vittoria.
Scossi la testa. «Non ci credo...»
«Credici, e fammi strada.» Ammiccò, pronunciando con un tono più severo anziché sardonico: «Ho tutta la notte per starti a sentire».
«Torna a casa, Desmond.»
«Va bene.»
«Sono seria.»
«Anch'io.»
«Ti ammalerai. Dormirai poco. Ti farà male la schiena.»
«Potrei dire la stessa cosa per te, ragazzina.»
Acquartierati nel grande e polveroso parcheggio a lato del Covenant House, limitato da una ringhiera che, a sua volta, era foderata da una retina azzurra, parte dei partecipanti aveva già provveduto a sistemarsi; gli uni vicini agli altri, infilati nei sacchi a pelo, una distanza infima a garantire la giusta privacy. Chi sveglio, chi provava già a prendere sonno cercando la posizione più comoda. Da un elicottero potevamo apparire come un denso esercito di larve.
Non riuscivo ancora a realizzare che Desmond si fosse intestardito a tal punto; non aveva avuto dei ripensamenti a tradirlo, nemmeno uno. Dormire fuori, qualsiasi sia la condizione atmosferica, non era un gioco, tantomeno un'esperienza eccitante come il campeggio. Eppure, pur di chiarire, si concede di rinunciare alle comodità...
Un'oretta prima ci avevano suddivisi in gruppi e ci eravamo seduti in cerchio sull'asfalto umido. Sperando non mi beccasse, mi era capitato di osservarlo spesso. Non avrei saputo definire se incredula o rapita; attento, mentre reggeva la candela per la veglia notturna, aveva seguito le parole riconoscenti degli organizzatori, o delle esperienze dei partecipanti che un tempo erano ex senzatetto, di quanto il Covenant House li avesse supportati offrendogli un tetto, un pasto caldo, una speranza per proseguire gli studi, per guadagnarsi la vita che meritavano. Ogni tanto abbassava lo sguardo sul bicchiere che conteneva la fiammella e studiando la cera depositata, il volto attraversato da una tenue lama dorata. Dopodiché tornava a seguirli.
Ora stava cercando di stendere per intero il cartone a terra, copiando l'esempio degli altri. Tossì, un pugno sulla bocca, ma non si fermò; recuperò il sacco a pelo, inserendo un piede e poi l'altro.
Perché devi per forza arrivare a tanto?
«Hai già una brutta tosse, non sei nemmeno vestito a strati, per favore. Se poi finisci con l'ammalarti, io...» lo implorai, la schiena alla ringhiera, ma vedendo che non ascoltava sospirai: «Desmond».
«Non è un problema tuo» disse, mentre si metteva a sedere sopra al cartone, vicino a me. «È una mia scelta. Non ne sei responsabile.»
«Sì, invece! Per colpa mia...»
«Per colpa tua» ripeté, sfregandosi le mani nude, un sorrisetto che intravidi solo grazie al lampioncino collocato fuori dalla recinzione. «Quindi me lo stai confermando: non è stata la mia immaginazione.»
Schiusi la bocca, da vigliacca guardai giù.
«Ophelia.» Chinò la testa. «È a causa mia?»
«No.» Per un po' mi appellai al silenzio, mio vecchio alleato, strofinando i guanti colorati tra loro. «Tu non hai nessuna... colpa.»
Si arrotolò la sciarpa cenerina attorno al collo, in modo che gli coprisse meglio bocca e colpi di tosse, e tenne le mani in grembo, riparato dal sacco rosso. Presto rinunciai a procrastinare; mi aveva raggiunta, aveva persino messo in conto di passare un'intera nottata al freddo. Confessare era il minimo. Glielo dovevo. Però quel pensiero concesse alle mie dita di sfogare il nervosismo: presero a tormentarsi – grattando, pizzicando, stringendo – senza controllarlo.
Non riesco a controllare nemmeno una piccolezza.
Desmond impedì quella tortura appropriandosi delle mie mani, trattenendole tra le sue. «Sono pur sempre senza guanti, e si gela.»
Per qualche secondo me ne sorpresi, fissando in trance l'unione di lana e pelle, le sue dita lunghe tra le mie più magroline, più corte.
Avevo paura di guardarlo in faccia, convinta riuscisse a vedere i miei sentimenti, le mie colpe, il mio essere così trasparente e assolutamente infantile, travolta dalla dura consapevolezza di aver sbagliato. Eppure, quel contatto che era un continuo strofinarsi e ricercare calore, mi spronò a farlo. Guardami, Desmond, guarda i miei danni, guarda come non riesco a controllare niente; né ciò che provo ogni volta che Olivia mi fa sentire in difetto, né questa specie di affetto che provo con te, e che cresce e fa male e non la capisco.
«Qualche giorno fa avevo sentito la telefonata con tua madre... Non era mia intenzione origliare, volevo solo salutarti, ma poi...» Divenne serio, gli occhi che zigzagavano qua e là, forse nel tentativo di ricordare a quale giorno alludessi. «Discutevate di adozioni, però davvero, è un problema mio, sono fatta così, e tu non hai colpe, e...»
Quella raffica di giustificazioni si rabbonì appena l'espressione di Desmond si indurì di mortificazione. Rilassò la testa alla ringhiera, provocando un rumore metallico, e chiuse gli occhi. «Ho capito.»
«Aspetta, però...»
«Cazzo, mi dispiace» borbottò affranto, pizzicando dolcemente alcuni punti dei miei guanti, come fosse un divertente rito scaramantico. «Non avevo idea che fossi lì, credevo fossi andata.»
«No, Desmond.» Lo guardai, lui invece no; preferì concentrarsi sui miei guanti a strisce e su quello che interpretai come un gioco per affrontare la difficoltà del discorso. «Io non voglio le scuse, né delle giustificazioni. Tu la pensi così, e mi va bene, sono io che poi mi...»
Mi bloccai. Sono io che poi non mi sono sentita accettata. Come se non andassi bene nemmeno a te, che sei diventato un posto sicuro.
«Quello che ho detto, il modo in cui l'ho detto» proseguì cauto. «Sono il risultato di quando arrivi al culmine della pazienza. Non meritavi di sentirlo, e vorrei fosse chiaro che non gliene stavo parlando facendo riferimento a te: i tuoi genitori ti vogliono bene, ti amano. Mi è bastato il breve scambio con tuo padre per capirlo. Sai che mi ha raccomandato? Di non rovinarti la benda, che ci tieni.»
In mezzo alla serietà del discorso, gli scappò una risata.
A cui mi unii anch'io. «Davvero? Ti ha chiesto questo?»
«Era serio.» Guardò la borsa ai miei piedi. «È intatta, vero?»
Posai la fronte sulla sua spalla, abbandonandomi a un'altra risata e abbracciando una leggerezza che mi era tanto mancata negli ultimi giorni. «Potevi aspettare a ridarmela, non c'era tutta questa fretta.»
«Sì che c'era.»
Alzai il viso, rendendomi conto di potergli sfiorare il mento.
«Accetto il silenzio, in genere, li accetto se devi riflettere, se devi concentrarti, li accetto se vuoi lo spazio necessario per rispondere, per metabolizzare. Accetto questo lato del silenzio, sì.» Inserì le dita tra le mie, lento, paziente, l'espressione corrucciata in una più severa. «Ma non lo accetto quando decidi di ignorarmi così all'improvviso. Il tuo silenzio, Ophelia, in questi giorni l'ho sentito davvero tanto.»
Si voltò altrove, percosso dai colpi di tosse.
E la lana, quella sensazione malandrina in perenne espansione, se ne approfittò per salire e ricamarsi sulle guance, sul collo, per poi riscendere a capofitto sul cuore, imbastendo ancora e ancora, quasi volesse prolungare i tempi di realizzazione. Alla conferma silente che il mio posto sicuro restava sicuro, gli risposi stringendo le mani.
«Ehi.» Sorrisi, lui si girò. «Hai parlato di "pazienza" prima, in riferimento alle adozioni... Per quale motivo? Se ti va di parlarne.»
Si massaggiò la tempia, osservando un gruppo di ragazzi, qualche fila più distante, smettere di chiacchierare coi vicini per provare a dormire. Così come tanti altri. I veglianti, a conti fatti, erano pochi.
«Diciamo che mia madre non è così diversa dalla maggior parte delle madri; la felicità la trova vedendo me e mio fratello raggiungere delle soddisfazioni, la realizzazione di una famiglia, con dei figli.» La sua mandibola, definita da un soffio di barba, guizzò. «Le piaceva Latisha, al che le domande sui figli, sul futuro, non sono nemmeno tardate ad arrivare. Non vivendo qui a Philly si fa sentire una volta a settimana... e ogni volta aveva preso la cattiva abitudine di chiedermelo. Sempre. Sperando in una risposta. Infatti quando li ha avuti Gregg avevo creduto bastasse a placarla, per un po' almeno.»
«E ti aveva suggerito le adozioni, conoscendo Latisha.»
«Già» ammise amaro. «Non è che sono contro. In realtà ammiro chi prende una decisione così delicata. Solo che...» Si inumidì le labbra, attraversato dal nervoso. «Non lo so, provo a immaginarmi con un bambino che non è mio e... mi sento bloccato. Forse è paura, o forse semplicemente non penso di esserne all'altezza. Però è così.»
Storsi la bocca, soppesando le sue parole.
Bloccato.
«Non sono d'accordo.»
Mi guardò. «Come?»
«Volendo, potrei farti l'esempio dell'animale da compagnia e– Hai mai avuto un cane?» Negò col capo. «Beh, Fannie e Warren, due fratelli della mia comitiva, quando andavano alle medie avevano un bassottino. Avevano scongiurato i loro genitori per anni pur di avere un cane. Per quanto i signori Cox siano due persone deliziose, erano assolutamente contrari all'idea... Pensavano che avendo già due irresponsabili per casa, un altro casinista avrebbe solo portato danni. Per farla breve: riuscivano a vedere solo gli aspetti negativi di una presenza estranea nella loro quotidianità, e non anche quelli positivi» spiegai, ripensando a quando mi avevano raccontato l'aneddoto una sera al mare, e ai pianti che si erano fatti quando avevano dovuto seppellire Wally. «Morale: era diventato un quinto membro della famiglia senza che nemmeno se ne rendessero conto. Riceveva le stesse cure, le stesse attenzioni e lo stesso amore di un figlio. Spesso ne riceveva più dai signori Cox che dagli effettivi padroni, sai?»
Tra le sue labbra sottili sorse un debole sorriso.
«E se l'esempio dell'animale da compagnia non ti ha convinto, pazienza, te ne faccio un altro che troverai di sicuro più familiare.» Calcai la mia cuffia arancio giù, finché non coprì metà fronte; poi, guardandolo negli occhi, pronunciai candida: «Cindy e Leonard».
Arcuò le sopracciglia, una sottile ruga tra di esse.
«Loro...»
«Loro. Sì, Desmond.» Annuii. «Rispondi: da quando Gregg è andato incontro a tutta quelle problematiche con l'ex moglie, da quando l'ospedale non gli permette un attimo di respiro, da quando è assente dalla vita dei suoi figli... come stai cercando di aiutarlo?»
Si grattò la mascella, apparentemente senza risposte.
«Prendendomi cura di loro.»
«Di più: tu ti stai comportando da secondo padre con quei bambini. Porti Cindy dalla psicoterapeuta, porti Leonard dal logopedista, cerchi di farli distrarre quando avvertono la mancanza del papà, li fai ridere, li fai svagare, li rimproveri, gli insegni. Fai tutto questo, eppure... lo sai meglio di me: non sono tuoi.» Gli rivolsi uno sguardo dolce, lui che ammorbidì l'espressione secondo dopo secondo, colmandola di una luce in cui parve racchiuderci interrogativi nuovi. «Cosa ti fa pensare che la vita che stai conducendo adesso sia così diversa da quella con un ipotetico bambino adottato? Nessuno dice che sarà facile, o meno impegnativo, ma...» E gli strinsi la mano gelida, ma fu una morsa debole, veloce. Uno sprono. «"Se cambi prospettiva, è impossibile che la realtà rimanga immutata". Sono state queste le tue parole, Desmond.» Sorrisi, mormorando: «Credi ancora nel cambiamento?»
Si limitò a schiudere le labbra, occhi negli occhi. Per un lungo attimo, col vento tramutato in un lenzuolo freddo, lui, così inflessibile, così in alto rispetto alla mia posizione, si mostrò trasparente. Per un solo attimo lo vidi vicino a me, simile a me, travolto da una pioggia di paure. Uno come lui, per una volta, esitò.
«Sì.» Dopo un po', mi restituì il sorriso. «E tu, ragazzina?»
«Sto provando a crederci.»
«È già qualcosa.» Si issò il sacco a pelo fino al petto, stringendosi nelle spalle per reprimere i brividi, le temperature che andavano irrigidendosi a ogni respiro. «Se me lo permetti... non è che posso essere io a farti una piccola domanda, questa volta?»
«Certo.»
«Perché pure il mondo dei senzatetto?» Si schiarì la gola. «Cioè, mi spiego meglio: tu sei già eccezionale, ok? Sei bravissima con i bambini, sei una ragazza matura, indipendente, gentile, buona, hai una bella voce, hai salvato mia nipote... e fai anche volontariato?»
La sua genuina perplessità la trovai esilarante.
«Facevo. E non hai elencato i difetti.»
«Troppo educata?»
«Ho tanti difetti, molti di cui non vado fiera li hai visti anche tu» dissi. «Ah, il peggiore è che non ci so fare con la cucina.»
«Mi stai prendendo in giro.»
«Ho fatto sgonfiare un sacco di torte.»
«Stavo per dirti "fortunato chi ti sposa", e invece niente.»
Dovemmo ridere avvalendoci di un tono di voce sommesso, vista la gente che stava sonnecchiando, chi con la testa infilata in una scatola o chi segregato nel sacco. Quel dolce senso di familiarità quando parlavo con lui e il calore di quegli scambi attenuarono ogni fastidio; dal naso ridotto a una punta di ghiaccio, agli occhi arrossati per il vento, all'asfalto scomodo, ai sassolini sui glutei, sulle gambe.
Dopodiché, spinta dalla leggerezza del momento, tornai a posarmi sulla sua spalla. Le risa, pian piano, si placarono e altrettanto piano capii che non era difficile scegliere il genere di risposta. Sentivo che con Desmond potevo parlarne. Così, fissando una signora dinanzi a noi che si rigirava nel suo sacco a pelo blu, mormorai: «Mia madre».
«Tua madre?» ripeté, con una leggera confusione.
«Mi hai chiesto perché i senzatetto.» Di colpo, frenai lo strofinio tra le nostre mani, concedendomi di chiuderle e aprirle, per distendere i nervi. «Se mi capita di ritagliarmi un po' di tempo per stare a contatto con un mondo che la gente spesso dimentica della sua esistenza, è proprio per lei. Parlo della mia mamma biologica.»
«Quindi era una senzatetto.»
«Giovane senzatetto. Avrà avuto sedici anni.» Sfregai i canini con la lingua, immaginando quante ne avesse passate una come lei. «Il Covenant House offre il suo aiuto solo ai giovani in difficoltà. Quando ero venuta a conoscenza di questa iniziativa ho sentito il bisogno di farlo, come se in qualche modo potessi starle più vicina, come se mi aiutasse a capirla un po' di più, a sentirla di più» spiegai, chiudendo gli occhi per qualche istante. «Non ho nemmeno una foto che possa farmela inquadrare meglio nella mia immaginazione. Per cui, nulla, mi faccio bastare i racconti di Judy.»
«Judy?»
«Già, scusa, una senzatetto che ogni tanto vado a trovare.» Sospirai, una nuvoletta si librò, così come tutte le parole che ne seguirono. «Quando facevo volontariato alla mensa del Faith Rescue Mission, ho conosciuto questa signora. Appena mi ha vista era quasi scoppiata a piangere... Dice che sono la fotocopia di quella ragazza.»
E così, le gelide raffiche di vento accompagnarono il frutto di tutti quegli anni passati ad ascoltare i racconti di Judy tra i ruderi dell'ex minimarket. Parlai degli incontri, di come le chiedessi nuovi aneddoti, anche insignificanti, delle volte le chiedevo di ripetermeli.
Uscì fuori che mia madre fosse una ragazza riservata, malata, in fuga tra i vecchi sobborghi che cadevano a pezzi, che portasse i capelli corti e un sorriso che le ripuliva sempre un po' il volto. Uscì fuori che dal Skid Row, uno dei più noti quartieri malfamati di Kensington, avesse preferito spostarsi a piedi e poi con un pulmino in un posto più sicuro, in cui non dovesse guardarsi le spalle ogni volta che dormiva su una panchina, o perlomeno non dovesse sempre fare attenzione a dove metteva i piedi, per paura di scontrarsi in qualche siringa usata o la spazzatura che lasciavano altri senzatetto.
Uscì fuori che non le mancava la famiglia, che le piaceva la strada ma le mancava un letto, che le piaceva cavarsela da sola ma che le mancava la voce rassicurante di qualcuno a sussurrarle dolcemente "va tutto bene, ora passa". Uscì fuori che per arrivare a Filadelfia aveva incontrato veterani di guerra che non si potevano permettere un mutuo, tossicodipendenti sbattuti fuori di casa, che cercavano il calore di una famiglia con dosi di eroina. Aveva incontrato anche innumerevoli, stravaganti artisti, molti dei quali le avevano insegnato dei trucchi per poter sopravvivere al giorno dopo.
Aveva stretto amicizie.
Ne aveva perse altrettante.
Non aveva paura, eppure dentro tremava. Tremava a ogni momento di debolezza che gli serbava la malattia. E quando aveva capito di essere incinta, aveva realizzato che la strada non poteva più essere casa sua. Solo allora aveva iniziato ad avere paura.
Judy lo raccontava sempre con una tristezza che le rendeva gli occhi lucidi. Nel suo piccolo, l'aveva considerata al pari di una nipote.
«Mi dispiace, Ophelia» mormorò Desmond, rendendomi conto solo allora di avere ancora la testa adagiata sulla sua spalla, gli occhi chiusi, pensando quanto fossi grata della sua vicinanza; il suo profumo, che era sempre un caldo abbraccio al cuore, alleggeriva il peso di quel racconto infelice. «Probabilmente non ti aiuterà a darti un quadro completo di com'era tua madre, ma sono sicuro che se sapesse quello che stai facendo, per te stessa e per lei, sarebbe fiera.»
«Lo spero.» Sollevai piano le palpebre. «Lo spero tanto.»
Notai qualche altro volto addormentarsi, eppure non avvertivo le palpebre pesanti, non sentivo il freddo tra le ossa. Neppure Desmond, a quanto pareva, che nel frattempo aveva deciso di chiudersi in un silenzio religioso. Uno colmo di riflessioni, di pensieri ingarbugliati. Uno di quelli che gradiva.
Calò la nebbia tra le foglie secche dell'acero che si ergeva fuori dal parcheggio, le nostre mani un perenne intrecciarsi, giocare piano.
«Desmond.»
«Mh?»
«Grazie.» Frenai aggiunte inutili, umettai le labbra screpolate, il buio che nascondeva un sorriso riconoscente. «Grazie di essere qui.»
Non rispose a chiare lettere, ma appena si aggrappò maggiormente alla mia mano, capii. Capii tante cose, cose che mi spaventarono. Come il fatto che la lana, ora, avesse ampliato i suoi orizzonti, dentro di me. E capii che il "qui" non era il parcheggio, non era quel posto sporco, grigio.
Era un posto colorato, tinto di rosso, il mio colore preferito.
E batteva, batteva forte, spazzando via le parole.
ANGOLO AUTRICE
BuonaZera, nightingales! 🕊️
Innanzitutto mi faccio i complimenti da sola: NON HO NEMMENO SFORATO LE 7k parole.
In secundis: questo rientra tra uno dei miei capitoli preferiti in assoluto. E devo ammettere che mi piaciucchia. 🥺 Btw, non solo è importante per il rapporto tra Ophelia e Desmond che, dopo quel breve allontanamento, tornano più uniti di prima (forse anche troppo 💀), ma soprattutto per quello che si dicono a vicenda, per il modo in cui si aprono.
Saltano fuori tante cose interessanti.
Specie dalla parte di Ophelia (e io non vedevo l'ora di parlarvene). 🦅
Questions:
▪️ Madre biologica di Ophelia; io penso che molti avessero già a teorizzare un espediente del genere, ma non avendolo mai letto a chiare lettere nei commenti, vi posso confermare che sì: la vera madre di Ophelia era una senzatetto. Il che spiega il suo attaccamento a questo mondo. Attraverso alcuni pensieri della ragazza vi fa rendere conto di quello che ha passato. Ci eravate arrivati? Cosa avete pensato di quella parte? Altre teorie?
▪️ Adozioni; a sua volta, pure Desmond approfondisce questo suo "non voler adottare"; eppure, Ophelia cerca di fargli vedere la cosa da un altro punto di vista (dopotutto era stato proprio Desmond ad averle insegnato a cambiare prospettiva, no?). Voi cosa pensate del suo discorso? Vi sentite più come Desmond o più come Ophelia? Cosa pensate delle adozioni?
▪️ Finale; cosa non meno importante, il capitolo è tutto un girare attorno ai sensi di colpa di Ophelia, al perché abbia reagito così, alle sue paranoie, ma soprattutto a una fondamentale presa di coscienza dei suoi sentimenti. Se all'inizio restava confusa, non si può dire lo stesso del finale. 😉 E voi che ne dite? Dalla parte di Desmond come sarà la faccenda?
▪️Scena preferita? 🥺
E preparatevi, il prossimo sarà ANCOR PIU' importante di questo.
Da qui in avanti, solo tisanine post scrittura, grazie.
Alla prossima! 🖤
Playlist:
Golden Skans - Klaxons (prima parte)
Love is a Laserquest - Arctic Monkeys (seconda parte - fino alla telefonata)
Falling in Love - Cigarettes After Sex (seconda parte - fino alla fine)
Lonely Stars - Oh Wonder (terza parte - fino a quando Desmond non spiega le adozioni)
Here Comes a Regular - The Replacements (terza parte - fino alla fine)
Instagram: The_blackcatshadow
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