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24. Per uno sguardo



Per uno sguardo


P.S. musicale: sarebbe carino ascoltaste Je Te Laisserai Des Mots nel momento in cui, qui nel flashback, i due si parlano 🖤


Prima

















«Che farò senza Euridice?

Dove andrò senza il mio– No.»

Mia madre si era bloccata con le dita sopra i tasti e, annuendo, aveva riattaccato con il brano che stava cantando uno dei suoi alunni.

«Che farò senza Euridice?

Dove andrò senza il mio– Di nuovo.»

Ancora una volta, mia madre aveva ricominciato.

«Che farò senza Euridi– Orribile, cazzo.»

Mamma si era arresa a un sospiro. L'alunno, preda della tensione, aveva dato una manata sulla superficie di quel pianoforte a coda. Accomodata sul divano a fondo sala avevo assistito alla lezione con una certa perplessità; avevano proseguito così per almeno mezz'ora.

«Sai cosa trovo di esilarante in tutto questo, Alejandro?» Mia madre, posata e a schiena dritta, si era messa a riordinare gli spartiti che aveva davanti a sé, sul leggio. «Che pur essendo la tua insegnante, sei sempre tu a correggerti. Anche quando non dovresti.»

Il tale aveva continuato a premere i palmi sul pianoforte, le vene sulle braccia in risalto per l'eccessivo vigore. Poi aveva iniziato a tamburellare insistentemente il pollice, forse per placare il nervoso. Avevo notato indossasse un anello dorato, come anche al mignolo.

«Signora Burns, co-continuo a stonare.»

«Ti assicuro di no. Stavi andando bene, sei solo nervoso.»

Si era incurvato sullo strumento, i gomiti sulla superficie bianca e le dita che affondavano tra i capelli di un biondo cenere, che ricordavano tanto dei campi d'erba essiccata. Avevo osservato che li portava più lunghi davanti che dietro; un taglio un po' inusuale, se messo a confronto con quello dei coetanei che visitavano casa nostra.

«Non mi sento preparato per la Juilliard. Quelli mi mangeranno vi-vi– Mierda.» Aveva alzato il capo, le mani intrecciate sulla nuca e le palpebre calate per imporsi la calma. «Finirò per balbettare anche da-davanti alla commissione che presenzierà. Io lo so, me lo sento.»

«Alejandro.» Mia madre, sul panchetto, aveva accavallato le gambe e gli aveva sorriso dolcemente. «Non hai le audizioni domani, le avrai dopo il liceo. Chiaro: sempre se deciderai di buttarti subito.»

«Due anni sono pochi, passano in fretta.»

«Due anni sono tanti, e sono abbastanza per sistemare quei piccoli nei di cui stai pian piano prendendo consapevolezza, ma soprattutto.» Si batté il palmo sulla gola. «Possono essere abbastanza per risolvere la balbuzie. Probabilmente non mi darai retta: ma il ragazzino che è venuto da me tre anni fa non è più il ragazzino che ho qui davanti.»

Sconfortato, aveva negato con la testa. «Però continuo a farlo.»

«Ma non è più frequente come un tempo. Fra qualche anno, se continui le terapie, magari sparirà del tutto. E poi quando canti la balbuzie fa sempre un passo indietro. Te ne rendi conto, vero?»

Non aveva risposto, non subito.

«O magari non guarirò mai per b-bene, signora Burns, magari da qui a due anni entrerò in una fo-fottuta condizione di stallo e non cambierà nulla. C'è chi se la porta dietro pure a trent'anni, lo sa?»

«Oh, se lo so.» Non era stata sarcastica, solo sincera. «Mio marito ci lavora tutti i giorni con questi disagi; c'è chi ne esce subito, chi ci impiega di più e chi non ne esce mai del tutto.» Aveva puntato il pollice alle sue spalle, dov'ero io. «Mia figlia ha dieci anni e solo adesso non si fa problemi a parlare con la gente, anche se fa ancora fatica a interagire con gli sconosciuti. Quando avevi cominciato le lezioni faticava a parlare persino con noi, che siamo i suoi genitori. C'è voluta tanta pazienza prima che vedessimo i primi risultati...»

Alejandro aveva sollevato lo sguardo per incrociare il mio. Senza volerlo davvero, il mio l'avevo abbassato sul quadernino per gli appunti, tracciando insistentemente il contorno di una stella cadente.

«Cosa l'ha aiutata, signora Burns?»

«La stessa cosa che ha aiutato te.» Stavolta aveva girato il capo; il sorriso fiero di mia madre aveva illuminato la stanza. Avevo ricambiato, con inspiegabile impaccio. «Non le ho detto niente; un giorno mi ha presa in disparte e mi ha chiesto "Cos'è la Juilliard?". Probabilmente mi sentiva quando ne discutevo con altri ragazzi.»

«Pure lei ambisce a entrarci?»

«Oh sì, ed è una concorrente molto caparbia.»

Lui aveva soffocato una risata. «E scommetto che le permette di assistere ai miei disastri così che possa ridere alle mie spalle, vero?»

«Quello mai.» Riacquistando un tono serio, si era sistemata di nuovo davanti alla tastiera, stiracchiando le braccia. «È una bambina che rispetta chi non conosce e, soprattutto, che rispetta le difficoltà altrui. Visto che sa essere educata, le ho permesso di assistere alle lezioni in modo che possa imparare da chi è molto più bravo di lei.»

«Mah, mi chiedo cosa potrebbe mai imparare da me...»

«Tanto.» Aveva inferto un paio di colpetti sulla superficie, in modo da indurre Alejandro a risollevarsi e a drizzare la schiena. «Scrive sul quadernino le sue osservazioni, le sue perplessità, e a fine giornata me le fa leggere. Devi sapere che sei fra i suoi preferiti.»

Avevo avvertito le orecchie avvampare.

Dio, che imbarazzo.

Il campanello si era intromesso, trillando per un po'. Mamma, sorpresa, aveva controllato l'orario, borbottando: «Ah, è in anticipo».

Scusandosi, si era alzata ed era sparita per il corridoio, lasciando la porta socchiusa. Alejandro, scrocchiando le nocche e lanciandomi un'occhiata circospetta, di chi non accetta attorno a sé qualcuno che lo spii, non aveva potuto controbattere. Il che l'avevo ritenuto un sollievo; quel ragazzo dal sangue ecuadoregno, all'epoca, riusciva a farmi sentire un'incompetente. Al tempo stesso, però, provavo una profonda ammirazione nei suoi confronti. Tenace, attento, talentuoso. Autocritico. A volte lo era un po' troppo, ma ero sicura rientrasse nel pacchetto "insicurezze" che, al liceo, si trascinava sempre con sé.

Ingenuamente, mi ero domandata come avrebbe reagito se avesse saputo cosa scorresse tra i cunicoli della mia mente ogni volta che lo guardavo esercitarsi, se avesse potuto aiutarlo a risollevarsi quando si buttava giù. Che fosse stato del solfeggio cantato, che fosse stato per intonare qualche famosa aria italiana, sapeva uniformarsi al brano, al personaggio richiesto, come se l'avesse composto lui stesso.

Nelle ultime settimane, tuttavia, il pensiero costante alla Juilliard gli aveva impedito di lasciarsi andare a trecentosessanta gradi. Pugni stretti, sospiri, mani nei capelli, balbettii involontari. Terminava ogni sessione insoddisfatto, mai che l'avessi visto sorridere a fine lezione.

Nel frattempo, approfittando dell'assenza della sua insegnante, Alejandro aveva sfoderato il suo telefono; prima ci aveva pigiato le dita alla velocità della luce, poi se l'era portato all'orecchio per una telefonata lampo, alternando frasi in inglese e in lingua straniera. Avevo dedotto si trattasse di sua madre dagli innumerevoli mamà.

Terminata la chiamata, si era accomodato sul panchetto.

Si era messo a premere il Sol, di continuo, in perenne trance.

Un po' per curiosità, un po' perché attratta dalla sua personalità particolare, un po' perché era da qualche tempo che ricamavo dentro di me il desiderio di scambiarci un paio di parole, che ero scesa silenziosamente dal divano, il quaderno per gli appunti sottobraccio.

Anche quando ero giunta al suo fianco aveva proseguito a pigiare quel tasto. Dapprima mi ero focalizzata sul sottile orecchino a cerchietto al lobo, dopodiché ero passata alla faccia dalla carnagione abbronzata e dai lineamenti rigidi; giaceva una tristezza che teneva a bada serrando le labbra. Le palpebre pesanti, calate a metà, i guizzi nervosi alla mandibola, punteggiata da qualche accenno di barba.

Era la prima volta che lo studiavo da vicino.

«Hai intenzione di appuntarti pure le mie stranezze?»

Piatto, apatico, inflessibile. Tuttavia, non aveva mai distolto lo sguardo da lì, tantomeno smesso di assillare quel tasto deprimente.

«Non puoi farlo.»

«Ah no?» Continuando, mi aveva guardato. «Impediscimelo

«Mamma si arrabbia con te se ti becca a usarlo.»

«Nah, tua madre mi adora, al massimo mi punirà a modo suo: o con un pezzo del Barbiere di Siviglia, o con uno delle Nozze di Figaro.» Appena aveva pronunciato i brani, l'ilarità era evaporata dal volto. «Ma anche obbligandomi... non usciranno mai come vorrei.»

Mi era parso che avesse parlato più con se stesso che con me. Per qualche istante, un silenzio accorato si era intrufolato tra noi, creando un solco che avevo trovato sgradevole. Come poteva imporsi degli standard così alti se, ai miei occhi, era già a un livello straordinario?

Incerta, gli avevo indicato il panchetto. «Posso?»

Non aveva risposto, tantomeno cambiato espressione; si era fatto da parte quel poco che mi permettesse di accomodarmi vicino a lui.

Avevo posato il quadernino sulle ginocchia, i piedi che non toccavano terra e che avevano preso a oscillare come due altalene sospinti da un timido vento. Dopo aver raccolto diversi secondi per fissare l'anello dorato al pollice di Alejandro, fisso su uno dei tanti tasti, avevo sollevato il capo. «Perché non ti piace come canti?»

Distrattamente, aveva pigiato il Re.

«Secondo te?»

«Però quando lo fai non balbetti mai...»

«Non è per quello, nena.» Fece un mezzo sorriso, un sorriso arrendevole, amaro. «Non sento di ar-arrivare alla gente quando lo faccio. Mi sento troppo meccanico, un robot. Non mi sento sciolto.»

Mi grattai la narice, le gote accalorate. «A me piace come canti.»

Voltò il capo, l'espressione che rasentava la compassione, quasi gli facessi tenerezza. «Perché sei una bambina, no-non hai pretese sugli altri. Gli adulti le hanno spesso. Per non parlare della Juilliard.»

«Mamma dice che sono molto severi.»

«Già, e anche molto se-selettivi. Però se riesci a entrare nelle loro grazie, avrai la soddisfazione di essere formato al cento per cento per quello che aspiri a di-diventare. Dios, un sueño.» Ne parlava sempre in maniera molto placata, quasi ritenesse che l'entusiasmo fosse una vergogna, una sorta di blasfemia. Eppure, quegli occhi celesti brillavano di speranze, come il mare quando viene colpito dai raggi del sole. «Se solo esistesse qualcosa che mi dia una ca-calmata...»

Avevo storto la bocca, meditando una risposta decente.

«Uhm, io di solito chiudo gli occhi.» Notando che mi stava prestando attenzione, mi ero concentrata a strofinare i polpastrelli sulla copertina ruvida del quadernino. «Cioè, mi aiuta. Immaginare cose mentre canto mi aiuta un sacco a calmarmi e a "immedesimarmi nel brano". Mamma mi aveva detto queste parole, l'altro giorno.»

«Davvero?»

«Mh-mh.»

«Sai che a volte lo faccio anche io?» Aveva fissato il leggio, ma era come se i suoi occhi avessero navigato ben oltre quella serie di pentagrammi che stavano lì a reggere le note di Orfeo ed Euridice. Forse non se n'era accorto, ma a un certo punto aveva sorriso. «Anche se a dif-differenza tua non immagino nulla di particolare... Di solito, dal nulla, appare questa pagina bianca e le lettere che ci volano sopra; ma-magicamente trovano il loro incastro, da sole, senza che sia io a condurle al loro posto. Es meravilloso.» Aveva ridotto la voce a un sussurro, compromessa però da una nota stonata, infelice, simile a quella che aveva pigiato subito dopo. L'indice aveva continuato a premere, lo sguardo immobile. «S-se solo parlare fosse come cantare, la mia vita avrebbe avuto una svolta diversa.»

E per "svolta diversa", in seguito, avrei capito alludesse all'ambiente scolastico che non aveva tutelato la sua condizione. Come era accaduto a me, alle elementari era stato vittima di alcuni spiacevoli episodi di emarginazione. A lui era toccato pure del bullismo verbale, alle medie. Nulla di fisico, nulla che fosse sfociato nell'estremo, ma era bastato per rovinare le corde del suo animo sensibile. Col tempo, aveva imparato a convivere con il problema.

Ma era evidente che non vedesse l'ora di liberarsene.

Si era ridestato schiarendosi la gola, io avevo sorriso. «Secondo me devi provare anche tu a immaginare qualcosa, a occhi chiusi.»

«Va bene. Ma se la situazione peggiora, sappi che me la prenderò con te.» Avevo ridacchiato, lui aveva abbassato lo sguardo sul mio quaderno, focalizzandosi sull'adesivo con il mio nome. «Quindi si chiama Ophelia la "concorrente caparbia" che tanto elogia Cordelia.»

«E tu Alejandro, vero?»

«No, ti prego.» Mi aveva sottratto il quadernino dalle ginocchia; senza chiedermi il permesso, aveva sfilato la penna attaccata lungo il dorso e aveva voltato la prima pagina. In cima, nei margini bianchi, aveva scritto rapidamente tre lettere in stampato maiuscolo. «Jay.»

«Jay?»

Non ero riuscita a capire.

«Preferisco essere chiamato così.»

«Ma è diverso dal tuo vero nome...»

«Lo so, ma c'è un perché.» Aveva cerchiato solo l'iniziale, più volte. «Quando ero piccolo e av-avevo iniziato a balbettare, la lettera che facevo più fatica a pronunciare era questa: la lettera J. Sai, nella mia lingua madre la pronuncia è di-diversa e un po' più complessa rispetto all'inglese.» Mi aveva consegnato la biro. «Si direbbe jota

Interdetta, avevo alzato le sopracciglia.

Aveva riso. «Lo so, suona come una brutta scatarrata. Ma se alle medie vorrai studiarlo, vedrai che è solo questione di abitudine» mi aveva rincuorata. «Vedi, non riuscivo a pronunciare bene neanche il mio nome... e quando ho superato quell'ostacolo, ho de-deciso che i miei amici dovevano chiamarmi come uno dei miei primi traguardi. Jay. Per me è importante, quindi chia-chiamami sempre così, ok?»

Ancora interdetta, mi ero limitata ad annuire.

Riprendendo il quadernino, avevo notato che accanto al suo nomignolo ci aveva disegnato una faccina sorridente. «Jota.» Ci avevo riflettuto, poi l'avevo guardato raggiante. «Mi piace il suono!»

«Vero?»

«Mi dici altre parole con la jota

«Mh... mujer, ojo, jabòn, pendejo– Cioè, no. L'ultima no.»

«Pendejo

«Oddio.» Era scoppiato a ridere. «Non lo dire, che è meglio.»

«Ma ha un bel suono!»

«Sì, ma...»

«E che significa?»

«Allora, che sta succedendo qui?»

Ci eravamo voltati nello stesso momento.

Mia madre era tornata; con un'occhiata austera aveva battuto le mani un paio di volte. «Su, coraggio. Ophelia, va' al tuo posto.»

«Mamma, che vuol dire pend–»

La mano di Alejandro aveva premuto sulla mia bocca.

«Pendant» mi aveva preceduta. «Mia zia lavora in un negozio di abbigliamento. Le stavo spiegando dei termini che le sentivo dire.»

Avevo sbuffato sul suo palmo, mamma aveva scosso la testa.

«Certo, certo.» Con un cenno sbrigativo della mano mi aveva indirizzata al divano; quindi mi ero scusata a capo chino ed ero sgambettata via, non senza fare la linguaccia ad Alejandro, di nascosto, con la mano a lato della bocca. «Un'alunna ha sbagliato giorno e mi son dovuta intrattenere più del dovuto. Mi auguro soltanto che tu abbia approfittato di questo intervallo per esercitarti.»

«Più o meno.»

«Bene.» Sul panchetto, aveva lanciato un rapido sguardo al ragazzo; l'aveva beccato a ricambiare la linguaccia. Mi ero dovuta mordere le labbra per non ridere. «E cerca di seguire l'esempio di Orfeo: non guardare mia figlia, o sarò costretta a mandarla via se vedo che rappresenta una distrazione. Massima serietà, chiaro?»

«Sì, signora.»

Intanto che girava la pagina dello spartito e Alejandro correggeva la postura, il tono di mia madre si era addolcito. «Promemoria per i prossimi anni: in generale, segui il suggerimento anche quando ti imbatterai nella Juilliard. Meno distrazioni avrai, meglio sarà per te.»










Adesso














Il colloquio con Gwenda era stato troppo sbrigativo per riuscire a estorcerle delle informazioni su Jay. Di nuovo, mi ero dovuta appoggiare ai gemelli Cox; Fannie ricordava vagamente che stesse ancora proseguendo i suoi studi all'Università della Pennsylvania, Warren, invece, era stato più dettagliato; aveva avuto la fortuna di incontrarlo solo qualche mese prima, sull'autobus. Dalla rapida chiacchierata era saltato fuori che si fosse laureato in Composizione.

Seduta su una panchina di pietra, una delle tante che ornava il campus, controllai il telefono per la quinta volta. Mi accorsi che stavo attendendo un miracolo da almeno un'oretta. L'orario della pausa pranzo, in genere, si aggirava attorno all'una, a seconda del tipo di corso. Era pure vero che non sapevo cosa stesse frequentando Jay, quali fossero i suoi orari, se fosse rimasto a casa, se per pura fatalità fosse malato, se nel frattempo si era congedato dagli studi...

Non sapevo niente di lui, non più.

L'unico indizio era il dipartimento: quello di musica.

Saperlo lì e non alla Juilliard a inseguire un sogno che custodiva da quando era bambino, mi aveva provocato una tremenda fitta al cuore. Non c'era bisogno di rimuginare sul perché: significava che non era stato preso nemmeno alla seconda audizione, e che adesso stava inseguendo le tappe di un ripiego. Ero a conoscenza di quanto fossero esigenti i membri della giuria, ed ero consapevole che dopo due tentativi andati male le possibilità di riproporre la propria candidatura ti venivano strappate a priori. Non mi sarei aspettata altrimenti da una delle scuole artistiche più ambite a livello mondiale, eppure... Mi morsi la guancia. Se non ci sei riuscito tu che sei eccezionale, Jay, non avrei avuto alcuna possibilità neanche io.

Osservai i nugoli di studenti che si apprestavano a correre in direzione della fermata del pullman. Altri, invece, acceleravano il passo tra un dipartimento e l'altro, il capo di tanto in tanto all'insù, intuendo che forse era meglio sfoderare l'ombrello. I nuvoloni scuri avevano calato sulla città una cappa d'ombra, scacciando gli ultimi strascichi di sole, e i tuoni lontani presagivano l'arrivo del temporale.

Un brivido mi costrinse ad affondare la bocca nella sciarpa.

Quanto ancora dovrò aspettare?

Notai un ragazzo uscire dalle porte del dipartimento, veloce. Feci per alzarmi e cogliere l'occasione al volo. Magari poteva conoscerlo. Neanche il tempo di fermarlo che, poco dopo, alle orecchie giunse una parola. Limpida, urlata, sfumata da una sottile vena umoristica.

«Aspetta, com'è che dite voi? Eres un pendejo

Ci fu un giro di risate dal timbro maschile, oltre a dei commenti che non ero riuscita a distinguere. Un gruppo di ragazzi si stava apprestando a uscire dal campus, un paio cambiò rotta, e l'altro...

Tra le pieghe della sciarpa sorse un sorriso.

L'altro era Alejandro.

Stava scendendo i gradini che si aprivano davanti all'ingresso, mentre si portava una sigaretta in bocca. Sguardo al cielo, forse intuì che non sarebbe stata una mossa intelligente accendersela proprio ora, ma diede lo stesso una scrollata di spalle. Per un tempo indefinito si tastò le tasche del cappotto, dei jeans, dopodiché intrufolò la mano nella borsa a tracolla, la bretella che gli tagliava il busto in una retta diagonale. Capendo che non trovava l'accendino si arrese a reclinare il capo all'indietro in un riflesso di rassegnazione.

Impaziente, al solito.

Si guardò nei dintorni, intanto che faceva rotolare la sigaretta a destra e a sinistra, tra le labbra, segno che stava riflettendo sul da farsi. Avanzai di qualche passo, pronta ad agitare il braccio per farmi notare, ma questo rimase a mezz'aria appena Alejandro si accostò alle spalle di una ragazza, intenta ad avvicinarsi l'accendino acceso.

Con le mani in tasca, si chinò oltre la spalla di lei come un ramo decadente, affinché la sua sigaretta incontrasse la fiammella, guancia contro guancia. La ragazza non sembrò scossa da quell'invasione, anzi, parve aspettarselo; con grande naturalezza si accese la sua sigaretta e, dopo aver riposto l'accendino in borsa, sollevò il braccio per cingergli il collo, dandogli degli affettuosi colpetti sulla nuca. Per condividere una tale confidenza, dedussi si conoscessero da un po'.

Mi strinsi nel giubbotto e decisi di aspettare a una distanza rispettosa. Tra una tirata e l'altra, vidi Alejandro intraprendere una conversazione con la tale; lei si lamentò di qualcosa inerente agli esami, lui approvò, lei gli fece vedere qualcosa sul telefono, lui rise.

O almeno, finché non dovette alzare lo sguardo.

Gradualmente, il suo sorriso si affievolì.

La ragazza controllò il cellulare e gli fece presente che se non si sarebbe mossa avrebbe perso il pullman. Quindi si sollevò sulle punte per stampargli un bacio frettoloso sulla guancia. Solo allora Alejandro si ridestò dalla trance, indirizzandole un saluto distratto.

Per i secondi a seguire, il silenzio.

Immobili, coi tuoni che parlavano al posto nostro.

Passò qualche istante, ma niente, non si mosse: accigliato, paralizzato, quasi avesse resettato le capacità motorie, quasi non stesse vedendo me ma una mia proiezione, un ologramma. Quindi, senza sciogliere le braccia dal petto, azzardai qualche timido passo.

Davanti a lui, la situazione non fu differente: né un sorriso di circostanza, né una parola. Non seppi se sentirmi ferita da quell'indifferenza. Ma magari era meglio così, che da lui non avrei sopportato un riscontro più aggressivo, come quello di Gwenda e Fannie. Repressi il disagio concentrandomi sulla cenere che cascava da sola, tra le sue dita, poi sulle ciocche che gli lambivano i le gote.

«Ciao.»

«Non...» Esitava persino a parlare; guardava me, si guardava intorno, e poi ancora me. «Non mi aspettavo di trovarti proprio qui.»

«Nemmeno io.»

Scrollò rapidamente la cenere e, seguendo con gli occhi il percorso di alcuni ragazzi in bici, si portò la sigaretta alla bocca; intuendo che la stava terminando diede un'ultima tirata prima di gettarla a terra. Sbrigativo, la schiacciò con la suola, le mani in tasca.

Era nervoso.

Mi schiarii la voce. «La ragazza di prima è la tua...?»

«No.» Gettò il fumo dalle narici, sorrise. «Amica, collega.»

«Certo, capito.» Passai il peso da un piede all'altro; non era chiaro se per quel rigido giovedì di novembre o se per un'agitazione che in sua presenza non avevo mai provato. Due anni. Due anni e cambiano così tante cose. Decisi di guardarlo negli occhi, stavolta attentamente, non senza esibire del dispiacere. «Quindi... sei qui.»

Si morse la guancia, si guardò le scarpe. «Sono qui.»

Annuii, focalizzandomi sui bottoni del cappotto dalle tonalità sabbia. Con la suola trascinava un sassolino qua e là, come se così non mi potessi accorgere che le sue mani, nelle tasche, avessero preso ad aprirsi e a chiudersi in modo frenetico. E sapevo anche il perché.

«Posso...» Tentennai io, e tentennò la domanda che se ne stava proprio lì, a trattenersi e ad accartocciarsi sulla punta della lingua, al limite di quel trampolino che gli avrebbe garantito di saltare fuori dalle labbra. Ingoiando il groppo, mormorai: «Posso abbracciarti?»

Assunse un sorriso triste. «Non dovresti neanche chiederlo.»

Fu curioso; nel momento in cui premetti il viso sul suo petto e le mie braccia andarono ad allacciarsi al suo torso, avvertii il peso delle preoccupazioni dissolversi. Mai esistito, mai costruito. Nella nostra amicizia, in fin dei conti, il contatto fisico era sempre stata un aspetto basilare, come la benzina lo è per un motore, ma anche estremamente naturale, che ci faceva sentire ancor più vicini, più compresi. Lui cercava me, io cercavo lui, a volte neanche ce ne rendevamo conto; prima della separazione, quelle volte che andavo a visitarlo nel piccolo appartamento locato fuori da Chestnut Hill, che fosse per provare qualche brano insieme agli altri o per il semplice gusto di dargli fastidio, mi ritrovavo magicamente sulle sue gambe mentre lui se ne stava sdraiato sul divano con uno spartito in mano.

Le sue dita che si attorcigliavano attorno alle mie ciocche quando discuteva con Warren, io che gli curavo le sopracciglia con la pinzetta, lui che mi solleticava il fianco, io che gli cingevo la vita quando, a tarda sera, passeggiavamo con gli altri componenti tra i quartieri lungo la Germantown Avenue. "Fratello e sorella", dicevano gli sconosciuti, e a me piaceva pensarla così. Inoltre, più volte aveva apertamente espresso di non voler essere figlio unico.

Guardava noi, e un po' ci invidiava.

Dopo qualche istante in cui Alejandro si perse ad accarezzarmi la schiena, riuscì a mormorare: «Il giorno dell'audizione ho sentito la tua mancanza, nena, tanto...» Si concesse una breve pausa, titubò. «Avrei voluto che mi avessi accompagnato anche questa volta».

Per il rimorso, non ebbi il coraggio di staccarmi.

«Meritavi la Juilliard.»

«Temo di no.»

Alzai il viso, corrugando le sopracciglia. «Cosa dici?»

«Che è giusto così.» Fermò le carezze, non mi guardava – perché non mi guardi? «Troppe distrazioni in quel periodo, troppe cose a cui...» Si inumidì il labbro. «Troppo a cui pensare.»

«Di cosa parli?»

Si allontanò, grattandosi la mascella sbarbata. Sebbene la mia visita l'avesse accolta meglio delle aspettative, non capii tutta quella freddezza nei miei confronti, quel perenne stato di dissociazione tra una frase e l'altra, dove il corpo era lì e la mente scollegata. Non mi guardava, non mi toccava come un tempo, non trovai calore nelle sue parole. Pareva che il mio allontanamento non l'avesse affatto scosso, a giudicare dall'assenza di commenti. Tuttavia, il suo allontanamento riuscì a ferirmi di più. Un trattamento equo, certo, eppure... perché?

«Jay» lo richiamai, prendendogli la mano. «Cosa ti prende?»

Sciolse la presa in fretta, rifugiandola in tasca. «Perdonami. Stanchezza, stress vario per il dottorato» si affrettò, grattandosi la tempia. «Come mai mi cercavi?»

«Giusto.» Una goccia d'acqua mi colpì, le nuvole avevano raggiunto una tonalità scurissima, funerea; ma ci pensò lui a ripararci sotto il suo ombrello. «Mi chiedevo se questa domenica ti andasse una riunione con gli altri. Vorrei riflettere su alcune cose... Sai, con voi.»

«E ci sono tutti?»

«Penso di sì.»

«Anche Gwenda?»

Aggrottai la fronte. «Spero. Non mi ha ancora risposto.»

Storse le labbra in una smorfia che mi lasciò supporre ci stesse riflettendo. Ancora una volta, però, scappò dal mio sguardo. «Penso di non c'entrare più nulla col gruppo, non so se gli altri...»

Avanzai di un passo. «Tu c'entri, se no non sarei qui.»

«Ophelia, non mi...»

«Ti prego, Jay.» E gli afferrai la mano libera, la disperazione che mi fece tremare persino le ossa. «Dammi, dacci un'ultima possibilità... So che non sarà facile, ma proviamoci.»

Dall'asfalto, finalmente spostò gli occhi sui miei; se fino a qualche anno prima si accendevano di speranze, ora, invece, ci risiedeva l'ombra di ciò che era stata la sua ambizione più grande. Un'ombra in cui ci colsi incertezze e qualcosa di molto simile alla paura. «Non me lo merito.»

«Dovrei essere io a dirlo, non tu.» Strinse l'impugnatura al manico dell'ombrello, io adagiai la mano sulla sua guancia, carezzandogliela. Non si ritrasse, ma continuò a guardarmi, sempre con quel forte distacco che gli adombrava le iridi, un po' come il cielo quel giorno. «Ricominciamo da zero. E se cambiassi idea, vieni alla tavola calda dei Cox. A me piacerebbe che ci fossi anche tu.»

Ci impiegai qualche secondo in più del dovuto ad allontanare il palmo dalla sua gota e a tirare fuori l'ombrellino giallo dalla borsa, non senza una profonda delusione a stringermi il cuore. Forse sto sbagliando tutto quanto. Lo guardai in faccia un'ultima volta, sperando cogliesse gli innumerevoli "Cosa ti succede? Perché mi parli così? Perché sembra che tu stia tacendo apposta?" tra le righe.

Decisi di salutarlo con un debole, tirato sorriso e nient'altro. Ma appena lo superai, mi richiamo: «Per che ora sarebbe l'appuntamento, in caso?»

Mi voltai. «Ti scrivo appena lo vengo a sapere.»

Annuì, ma non aggiunse altro; dopo qualche attimo di esitazione stabilì di andarsene per la sua strada. Cosa ancor più triste fu il suo comportamento, lo stesso che Orfeo aveva adottato nei confronti di Euridice: perché Alejandro non mi guardò più, nemmeno una volta. 






















ANGOLO AUTRICE

Hello, nightingales! 🕊️

Sono raffreddatissima (grazie a little bro) ma ci tenevo a pubblicare entro questo weekend, quindi eccoci qui. Voi come state prendendo l'inizio dell'autunno? 🤧

Detto ciò, con Alejandro - alias Jay - concludiamo la saga degli amici di Ophelia. Due anni, come rimugina anche la ragazza, eppure sono cambiate tante cose. E dalle reazioni di ciascun singolo componente si può ben intuire. Dietro a un paio di loro sorgono ulteriori domande che confondono la stessa Ophelia. Penso abbiate capito a chi mi riferisco. 

Ammetto che mi è piaciuto scrivere anche di lui, in special modo del flashback (ricordatevi, sebbene venga specificato nei capitoli precedenti, che con gli amici ci son ben cinque anni di differenza). Su di lui ci saranno parecchie cose da chiarire, ma su questo ci sarà tempo. 

Curiosità:

▪️ Ebbene sì, per gli aspiranti cantanti che vorrebbero tanto entrare alla Juilliard, a parte fornire online una candidatura piena zeppa di informazioni (tra cui raccomandazioni, saggi di tot parole e un video parlato in cui, entro un minuto, devi presentarti), nell'audizione in presenza la giuria pretende che si portino 4 brani di un genere specifico, tra cui un'aria italiana data del Settecento (essendo una storia ambientata in America lo spiego qui, casomai vi fosse sembrato strano - giustamente). Credetemi, mi stancavo solo a leggere.







Questions:

▪️ Che impressione vi ha fatto Jay, sia nel flashback che nel tempo presente?

▪️ C'è qualcosa che vi ha colpito in particolare? Avete qualche interrogativo da esporre?

▪️ Visto che abbiamo concluso, quale capitolo vi è piaciuto di più? Quello dei gemelli Cox, quello di Gwenda o quello di Jay? E perché? (Il mio prefe rimane a mani basse quello di Gwenda 🖤)

Noi ci vediamo prossimamente e... preparatevi: dal prossimo si balla. 🌚

Ah sì: e torna Desmond.










Playlist:

Orfeo ed Euridice - Christoph Willibald Gluck - Pavarotti version (Prima parte, è il brano che canta Alejandro)

https://youtu.be/f-lZuYdfzrw

Je te laisserai des mots - Patrick Watson (Prima parte - da quando Ophelia e Alejandro parlano, fino alla fine della parte)

https://youtu.be/mcdO9UP0hp8

Tru Luv - Leach (seconda parte)

https://youtu.be/dA5xfmWY4C8

Instagram: The_blackcatshadow

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