23. Per una voce
Per una voce
Prima
«Sondaggio.»
«Vai.»
«Del quarto anno: meglio Cal Mitchell o Johnny Ross?»
Avevo riso. «Keira, mi stai chiedendo di scegliere tra una crostata alle fragole e una cheesecake alle fragole. Non posso decidere così!»
«In effetti bisognerebbe testarli entrambi per farsi un'idea.»
Considerato il casino che aveva affollato la palestra del Martin Luther King High School, i nostri commenti suonavano marginali, inghiottiti da una spirale di urla e stridii di scarpe da ginnastica. Sul parquet lucido e in cui era facile specchiarsi, si riflettevano le luci delle lampade a sospensione e le sagome scattanti dei giocatori che avevano disputato la finale del torneo di pallavolo conteso tra gli studenti del senior year.
A tutti gli altri era stata data l'opportunità di fare il tifo e assistere dagli spalti, che ricoprivano l'intero perimetro. Per fortuna non avevo dovuto dare priorità a qualche interrogazione, lo stesso Keira, ragazza di origini ghanese e dalla parlantina vivace con cui, all'epoca, avevo condiviso le lezioni di Spagnolo. Eravamo riuscite ad avere una panoramica precisa della partita occupando i posti in prima fila, a pochi passi dalla spessa e nera striscia che segnava l'area di campo.
Al di sopra, il nome del liceo a caratteri cubitali.
«A proposito di test.»
Non capendo, l'avevo guardata con una certa confusione, lei aveva fatto cenno alla sua sinistra; neanche tanto lontano, tre gradini più su, si era seduto Connor Gray, un ragazzo con cui avevo iniziato a parlare solo da qualche tempo. La frazione di secondo in cui avevo deciso di controllare aveva coinciso con quella in cui Connor si era girato per incrociare il mio sguardo.
Aveva ammiccato senza pudore, ed io, tornando composta, mi ero sentita arrossire.
«A giudicare dalla tua reazione, l'ha fatto di nuovo.»
Mi ero tamponata le guance. «Ho la pelle troppo chiara.»
«Non è un male, fai tenerezza quando arrossisci. E comunque dovresti dagliela una possibilità, o dargliela e basta.» Mi aveva teso una confezione arancione di Cheetos. «Voglio dire, è prezioso se continua a farti il filo, da mesi poi, nonostante i tuoi due di picche.»
«Eh, ma non penso che accetterò mai le sue avances.» Avevo pescato due patatine intanto che l'arbitro, uno degli insegnanti di Educazione Fisica, aveva fischiato per assegnare un punto alla squadra che giocava nella metà campo di destra, quella davanti a noi. «Non mi convince... È immaturo e non mi piace come ragiona. E poi è insistente perché vuole portarmi a letto, non perché gli piaccio.»
Masticando, aveva chiesto: «Cosa? Ne sei sicura?»
«L'avevo sentito parlare coi suoi amici, non mi aveva vista.»
«Stronzo.»
«Già.»
«Beh, che te ne frega: vacci lo stesso e sperimenta per conto tuo.»
«Non sono il tipo che sperimenta a caso.»
«Ah già, vero, scusami: tu aspetti il "vero amore".»
«Keira, non prendermi in giro.»
«E scommetto anche che "vero amore" fa rima con "quel tizio super gnocco che viene a fare lezioni di canto dalla mia mammina".»
L'avevo spintonata, scoppiando a ridere. «E smettila!»
«Ci sono stati sviluppi?»
Mi ero sistemata i capelli dietro le orecchie, riacquistando del contegno. «No e non ci saranno mai: siamo solo amici, te l'ho detto.»
«Certo. Fra qualche tempo me lo verrai a ripetere.»
"Fra qualche tempo" si sarebbe trasferita e, con grande dispiacere, ci saremmo perse di vista. Ma in quel periodo non poteva saperlo.
Dentro di me, avevo trovato ridicole quelle allusioni sconclusionate sul ragazzo che aveva visitato casa nostra per le lezioni di canto. Per anni aveva tenuto allenate le corde vocali grazie a mia madre. La sua famiglia, alquanto pretenziosa, si era rivolta a lei poiché era la migliore nel settore, e forse l'unica, in tutta Filadelfia, a potergli offrire un insegnamento degno, in preparazione alla Juilliard.
Io e lui avevamo corso sui binari dello stesso sogno.
Scuotendo la testa, avevo rimpiazzato i pensieri sul ragazzo con il sapore salato delle patatine che ero andata rubando dal sacchetto di Keira, l'attenzione sulla competizione in atto. Un fischio, e la squadra di destra si era lanciata in grida di esultanza. Il tabellone, posizionato più alto rispetto al canestro, aveva fatto scattare il quattordicesimo punto. Un secondo fischio, poi, aveva obbligato la partita ad arrestarsi; dopo che il professore aveva scambiato due parole con una ragazza dell'altra squadra che si tastava continuamente il polpaccio, aveva acconsentito a farle dare il cambio a una compagna di squadra, rimasta fino a quel momento a occupare la panchina, le gambe divaricate, scomposta. La ragazza richiamata all'appello si era alzata senza una particolare voglia di partecipare.
«Oh merda.»
La voce era giunta da un tipo seduto sul gradino dietro. Il tale si era chinato per sporgersi tra le nostre teste. Solo dopo essermi voltata avevo capito, dai ciuffi rossicci, che si trattava di un amico di Keira.
«È la Price.»
Keira aveva soffocato una risata. «Ora sì che ci divertiamo.»
Non capendo, avevo guardato la mia amica. «Chi?»
«Come chi? Gwenda Price.» Battendo le palpebre aveva intuito che no, non avevo la minima idea di chi fosse. Solo il cognome mi era suonato familiare. «Mai sentito parlare di Latisha Price?»
Oh, ecco. Usciva spesso dalla bocca di mia sorella.
«La modella?»
«Già, e lei è la sorella minore.» Aveva masticato un'altra patatina, aggiungendo: «Vuoi la versione lunga e dettagliata o quella breve?»
«Fai tu.»
Nel frattempo, Gwenda aveva raggiunto la sua squadra masticando una gomma, l'aria impassibile e attenta a rimanere in disparte, dando l'idea che le repellesse anche solo la vicinanza dei compagni. I pantaloncini aderenti e una maglietta a maniche corte che rievocavano i colori della scuola – oro e viola – delineavano un corpo minuto e dei fianchi larghi, regalandole la forma graziosa di un mandolino. Sotto la luce delle lampade, la pelle scura risultava più luminosa, i muscoli delle gambe scolpiti.
Avevo capito subito avesse una bellezza particolare: la sua era grezza, e l'insensibilità che le velava lo sguardo come se fosse costantemente adombrato dalla tesa di un cappello rappresentava un accessorio in più, che ben si accostava al piercing alla narice. Ad oggi conoscevo il motivo di quella facciata di pietra: era brava a nascondere le crepe che le fendevano l'animo con dosi spropositate di stoicismo, la sua armatura preferita, quella che le avrebbe garantito di sopravvivere in mezzo a troppo moralismo, così ripeteva.
«Partiamo da questo presupposto: non è un esempio da seguire se vuoi essere ricordata come una studentessa con una condotta eccellente.» Keira aveva continuato a sgranocchiare patatine. «Prima di cambiare scuola è stata bocciata un paio di volte alla Nazareth Academy High School. Ce l'hai presente, no? La scuola cattolica sulla Frankford Avenue.»
«Il liceo femminile, intendi?»
«Quello.» Aveva trattenuto una risata. «Assenteismo, risse, bestemmie davanti al corpo insegnanti, alle suore... Ah, e mi pare abbia spedito una tipa al pronto soccorso per... Aspetta, per cosa?»
«La sventurata aveva avuto la brillante idea di chiamarla troia, perché si credeva si fosse scopata il suo ragazzo. Era scoppiato un casino. Mia cugina andava in quella scuola e all'epoca se ne sentivano di ogni.» L'amico aveva riso. «L'anticristo per antonomasia, insomma. Ma che ci faceva in una scuola cattolica?»
Avevo arcuato le sopracciglia all'insù. «Bel tipetto.»
«E non hai sentito la parte peggiore.» Aveva ripreso parola Keira, indicando il campo. «Lo vedi il capitano della squadra avversaria?»
Mi aveva fatto cenno a un ragazzo altissimo e dai capelli rasati in entrambi i lati. Si era aggrappato alla rete, il viso attaccato a essa. Mi era parso che stesse cercando di richiamare l'attenzione di Gwenda.
Avevo annuito, lei aveva buttato giù le briciole.
«È il suo ex.»
«Ed è un male?»
«Se sei stata vittima di revenge porn direi di sì.» Accartocciò la confezione di plastica, producendo degli stropiccii fastidiosi. «Anche se non si capisce se lo sia realmente stata. Alcuni dicono che lui avesse fatto girare foto e filmati senza il suo consenso, altri che sia una ninfomane e che li abbia caricati lei stessa su un sito porno da quattro soldi. Dopo la denuncia, però, sono stati rimossi subito.»
Non avevo commentato; mi ero focalizzata sulla ragazza, a mettere insieme quella valanga di informazioni sgradevoli. Dalla mia angolazione non avevo potuto cogliere come il suo ex le si stesse rivolgendo, ma avevo supposto anche da sola che la stesse stuzzicando in qualche modo. Gwenda, però, aveva continuato a ignorarlo, rivolgendo un'attenzione vuota al pubblico che assistiva alla partita; era una statua di sale, intenta a muovere la mandibola a scatti e da cui uscivano, ogni tanto, delle bolle rosa dalla bocca, che poi sgonfiava coi denti e, candidamente, ritirava.
Un paio di ragazzi del senior erano passati accanto alla linea di campo, diretti all'uscita. Avevano occhieggiato la ragazza, maliziosi. Uno di loro, senza fermarsi, le aveva indirizzato delle parole che non avevo capito.
Non mi era stato difficile afferrarne la natura.
La ragazza, con una naturalezza impressionante, quasi ci fosse abituata, aveva alzato il pugno all'altezza delle labbra, spalancandole, e aveva mimato un'evidente allusione al sesso orale. Dopodiché, affilando lo sguardo, aveva tramutato il pugno nel dito medio. I ragazzi avevano sghignazzato, lei gli aveva rivolto un sorriso sprezzante. Poi, il nulla: era tornata il solito muro di granito.
Era come se avesse premuto un pulsante di ripristino.
«Mi chiedo come faccia» aveva mormorato Keira.
Il professore aveva stabilito una pausa e ne aveva approfittato per discutere con un altro docente di Educazione Fisica. Una ragazza con un paio di occhiali, invece, si era avvicinata a una sua compagna di squadra, vicino alla rete. Mentre parlava aveva rivolto delle occhiate algide a Gwenda. In risposta, lei aveva sollevato un sopracciglio.
L'altra aveva alzato le mani, ma non mi era sembrata pentita.
Gwenda si era mossa lenta, a passi studiati; si era accostata alla rete, artigliandola con le unghie. Mi aveva ricordata uno di quei cani pronti a latrare ai passanti molesti, il muso schiumoso alle inferriate.
Non mi sarei mai aspettata ciò che sarebbe successo dopo.
L'altra ragazza, insieme all'amica, si era spostata a fondo campo. Gwenda, continuando a masticare la gomma, aveva annuito e si era calata di nuovo l'indifferenza più totale. Era andata a recuperare la palla, ferma all'angolo. Sebbene qualcuno le si fosse avvicinato per rabbonirla, lei l'aveva scansato in malo modo; si era collocata nell'area dedicata al servizio, al limitare della linea, aveva teso la mano che reggeva la palla e aveva mirato un punto al di là della rete.
Avevo capito.
Poi era accaduto tutto troppo rapidamente per realizzarlo: palla lanciata per aria, lei che prendeva la rincorsa e, con una potenza straordinaria, assestava una schiacciata da professionista. Avevo creduto fosse una meteora, tanto veloce da essere risultata invisibile.
La palla aveva urtato la guancia della ragazza. In aggiunta, le aveva spostato la testa di lato e gli occhiali le erano volati via, a distanza di qualche metro. La tale aveva barcollato, le palpebre strizzate, finché non si era lasciata cadere, premendosi forte il naso.
Un brusio si era levato dagli spalti.
Il professore aveva sollevato lo sguardo dai moduli che gli aveva posto sottomano l'altro docente. Aveva fischiato tre, quattro volte.
«Price!»
Alcune ragazze erano accorse dalla sfortunata.
Gwenda aveva giunto le mani a preghiera, la faccia di bronzo. «Mi dispiace, prof, sospetto di avere qualche disturbo all'udito. Forse è acufene, chissà. Sa, sento continuamente dei fischi.» Aveva fatto segno alle sue orecchie. «Credevo avesse fischiato per riprendere.»
«Allora le suggerisco al più presto una visita dall'otorino.» Aveva riconsegnato i moduli, secco, il fischio che gli pendeva sul petto tornato in bocca. «Riprendiamo. Foster, laggiù, tutto ok col naso?»
Foster non aveva risposto, impegnata a non svenire per il dolore, le compagne, inginocchiate attorno a lei, che le stavano controllando il viso. Gwenda aveva alzato il braccio, affrettandosi a raggiungere la ragazza. «Ci penso io, prof. È una mia responsabilità. Se ha bisogno di un controllo, l'accompagnerò in infermeria.»
C'era stato un che di intimidatorio nell'affermazione.
Le altre, vedendola arrivare a passo marziale, avevano arretrato, lasciandole spazio; Gwenda l'aveva aiutata ad alzarsi, la Foster l'aveva assecondata, rossa in viso. Dopodiché, erano sparite oltre l'uscita situata tra gli spalti. Io e Keira, stupite, ci eravamo guardate.
La partita aveva ripreso; nonostante la bravura dei giocatori e i pettegolezzi di Keira, non ero riuscita a rimanere concentrata. Tra le urla e i brusii generali, una parte di me si era chiesta se le due fossero andate sul serio in infermeria, viste le premesse su quella Price. Insomma, la pallonata in faccia non era stata frutto di una casualità.
Mette i brividi.
Puntualmente, una fitta al basso ventre – la terza della giornata – era tornata a mordere senza pietà. Mi ero massaggiata il punto con una smorfia sofferente, dopodiché mi ero girata verso Keira, che intanto si era messa a smanettare col suo cellulare. «Non è che hai un assorbente? Con me ho solo un salvaslip...»
Aveva sfilato una bustina viola dal suo portafoglio. «La gente ci nasconde i preservativi, io gli assorbenti. Sono anticonvenzionale.»
Ridacchiando, ero corsa in direzione dei servizi sanitari, uscendo dalla palestra. Dai corridoi aveva intercettato solo gli echi che rimbombavano dalle palestre, le spiegazioni degli insegnanti, i toni alti abbastanza da oltrepassare le porte chiuse, e lo stridio del carrello delle pulizie che trascinava una signora, verso il bagno per disabili.
«Aspetta, Gwenda.»
«No, tu ora ascolti me.»
Mi ero bloccata, la mano esitante sulla maniglia del bagno.
Visto il contesto, avevo intuito a chi appartenessero le voci. Avevo increspato le sopracciglia in un moto di perplessità. Quindi avevo ragione: non erano andate in infermeria. Perché sono qui?
Gwenda l'aveva interrotta in modo molto garbato, blando, una sfumatura d'avvertimento sullo sfondo. Tra una parola e l'altra, però, avevo colto delle pause troppo ampie, come se avesse il fiatone e stesse cercando di placarlo. «Tu... non farai mai più uscire la parola "puttana" dalla tua bocca, ed io... eviterò di diffondere in giro che ci fai entrare il cazzo del professor Wagner per mantenere la sufficienza in trigonometria. Andata?»
Altro silenzio, scandito dalla tensione.
Ne avevo approfittato per entrare; in fondo avevo un'urgenza. Al massimo si sarebbero spostate, se era una conversazione così privata.
La ragazza con gli occhiali, la montatura più storta del normale per la pallonata, si era voltata all'istante. Occhi sgranati, pallida come un lenzuolo, il naso che aveva assunto un colorito bordeaux.
«So-sono delle stronzate.» Gwenda non aveva distolto lo sguardo dalla ragazza. Eppure il suo respiro, dalle narici dilatate, era troppo pesante. «Non so chi te l'ha detto, non mi abbasserei mai a...»
«Benissimo, allora un po' di pubblicità non guasterà. La gente qui si annoia, ha bisogno di intrattenersi con qualche nuova fake news.» Come se le fosse costato una gran fatica, aveva indirizzato gli occhi su di me, intenta a sciacquarmi le mani. «Ehi, tu, senti un po'.»
L'altra l'aveva trattenuta dalla manica. «Aspetta, Price, evita. Non vorrei che... Sai, non...» Non aveva saputo trovare le parole giuste, se non un intrico di balbettii insensati. «Ti chiedo scusa per prima.»
Gwenda l'aveva guardata in faccia, seria, il petto che le si alzava e abbassava profondamente. Che cos'ha? Qualsiasi cosa avesse, in quel momento non aveva avuto importanza; aveva preferito mantenere la calma, di fronte a lei, per una questione più rilevante.
«Mi fate schifo» aveva sibilato crudele, stringendo un pugno. «Si deve arrivare ai ricatti per guadagnarsi un briciolo di rispetto?»
Foster aveva indietreggiato. «Non volevo che...»
«Vattene.»
«Ti prego, non dire a nessuno che...»
«Vattene subito.» Con uno scatto da lepre spaventata, l'altra aveva raggiunto la porta. «E non ti permettere mai più a chiamarmi in quel modo, o la prossima volta starò attenta a centrare la bocca, chiaro?»
Era sparita.
Io avevo chiuso il rubinetto, fingendo di non aver ascoltato nulla. Prima di proseguire per la toilette, però, mi ero bloccata; Gwenda era corsa a spalancare l'unica finestra presente. Ci si era affacciata, il collo teso, come se non avesse aspettato altro.
Se prima i respiri, già pesanti di per sé, li aveva tenuti a bada con un autocontrollo ammirevole, in quel momento aveva deciso di non trattenersi più; aggrappandosi al davanzale fino a far sbiancare le nocche, aveva preso a respirare con serio affanno, a bocca dischiusa, rapidissima.
«Ehi.» Mi ero avvicinata all'istante. «Ti senti male?»
Non era nemmeno riuscita a rispondere; aveva tenuto gli occhi strizzati in un dolore muto, l'orlo delle ciglia cinto da un sottile velo di lacrime. Aveva annaspato a raffica, l'affanno a dei livelli terribili.
«Aspetta, vado a chiamare la signo–»
Col cuore in gola, avevo guardato giù. Mi aveva afferrato la manica, e non nel modo più gentile del mondo, senza aprire gli occhi. «Non... chiamare un... cazzo di... nessuno.»
«Ma se stai...»
«Nessuno.»
Chiaro: era meglio assecondarla. Riflettendoci ora, in quella scuola non tollerava l'aiuto di nessuno. In generale, non voleva essere aiutata, detestava trovarsi nella posizione di debitrice.
Mi ero guardata intorno. Non ero preparata a fronteggiare una circostanza simile, non mi era mai capitato di assistere a un attacco di panico, non avevo idea di come poter essere d'aiuto.
Non che ci fosse tanto che potessi fare.
«Perché non provi a sederti a terra?»
Coi suoi respiri a comporre un sottofondo opprimente, in grado di togliere il fiato persino a me, ci era voluto un po' prima che mi ascoltasse; sapeva anche da sola quello che avrebbe dovuto fare. Non mi aveva dato l'aria di una che fosse estranea a quel genere di malessere, tutt'altro. Ma era stato più forte di me provare a suggerire qualcosa, paziente, pur di non mostrarmi inutile.
Sul pavimento, mi ci ero seduta vicina.
Sebbene l'impulso di scappare da quella situazione fosse stato forte, avevo preferito controllarla. A ruoli opposti, affrontare una simile condizione da sola, senza un aiuto o una mano a cui aggrapparmi, mi avrebbe fatta sentire ancor più spaventata, ancor più soffocata.
Ad oggi, sapevo bene come ci si sentisse.
Mentre lei tendeva al muro, ero rimasta in rispettoso silenzio, la sua mano avvinghiata alla mia manica. Qualche minuto dopo il ritmo del suo respiro si era calmato, ma non del tutto.
«Pensa a qualcosa di bello.»
Aveva scosso la testa, sofferente.
«Ok, c'è qualcosa che ti fa stare bene?»
Ci era voluto qualche minuto in più del normale, qualche minuto che era equivalso a un'eternità prima che riprendesse dei respiri regolari, il tremore alla mano sedato. Aveva sollevato le palpebre; una finissima linea di eyeliner si era leggermente scomposta per le lacrime.
Avevo sorriso. «A cos'hai pensato?»
Ritirando la mano dalla mia maglia e tenendo gli occhi sul termosifone alla sua destra, aveva mormorato, rauca: «All'unica cosa che non mi fa pensare alla merda che continuo a passare».
«Ti va di dirmelo?»
Aveva accennato una risata, l'espressione spossata. «È puro e semplice interesse, il tuo, o è semplice voglia di farti i cazzi miei, travisarli a tuo piacimento, per poi spifferarli ai quattro venti?»
«No, te l'ho chiesto perché mi interessa davvero.» Un po' impacciata, avevo abbassato lo sguardo sugli anelli che le impreziosivano le dita affusolate. «Non ho mai visto qualcuno che soffre di attacchi di panico... Ero solo curiosa di sapere cosa ti avesse tranquillizzata. Ma se non vuoi dirmelo, non c'è problema.»
I suoi occhi, capaci di mettere in soggezione, li aveva spostati su di me, visibilmente assottigliati dal sospetto. «Ai cori gospel.»
«Davvero?»
«Quando ne ho voglia presto la mia voce alla Grace Church of Philly.» Si era premuta la mano al petto, sfibrata. Poi aveva aggiunto, non senza affilare la lingua: «Immagino ora ti faccia strano che una troia, atea per giunta, canti in una cappella. Che barzelletta blasfema, penserai.»
Spiazzata da quella domanda pregna d'astio, l'avevo osservata piegare le labbra in una smorfia di sprezzo, gli occhi sul calorifero.
«Non ti considero una troia.»
«Molto male. Non le senti le voci che girano?»
Quel sarcasmo aveva acceso in me una scintilla di rabbia; piccola, debole, ma mi aveva permesso di indurire il tono. «Le ho sentite, ma non me ne faccio niente perché non ti conosco.» Mi ero stritolata le dita, lei non aveva battuto ciglio. «I miei genitori mi hanno sempre insegnato a non dare retta alle voci degli altri. Finché non sento quella che davvero importa, il resto è aria.»
«Genitori saggi» aveva mormorato, ma non si era più azzardata a guardarmi, come se in quel termosifone ci avesse colto un qualche tipo di rivelazione. Pian piano, la sclera le era diventata lucida, il rossore era andato ad allargarsi come una goccia di vino su una tovaglia. «Sai cosa vuol dire non avere più il diritto alla propria e legittima libertà? Sai cosa vuol dire essere consapevoli che centinaia di occhi sconosciuti hanno avuto il permesso di violentare la tua intimità? Che qualsiasi cosa dirai per giustificarti, non verrà mai ascoltata. Non puoi più nasconderti, non puoi più vantare di possedere uno spazio tuo, esclusivo al mondo. E io mi sento così: completamente nuda, anche ora, davanti a te, con dei vestiti addosso.» Si era strofinata il piercing alla narice, forse per esorcizzare l'umiliazione. «Il mio corpo sa che è stato esposto senza permesso. E se la prende con me perché non l'ho difeso abbastanza, e protesta così, con quello che hai visto.»
La sua mano aveva ripreso a tremare, a scatti, quasi bramasse di voler prendere a pugni qualcosa. Tuttavia, l'avevo lasciata sfogare con delle parole che mi avevano dato l'impressione non vedesse l'ora di espellere; avevo intuito non fosse il genere di persona propensa a manifestare i suoi sentimenti con leggerezza. L'avrei imparato col tempo.
«Mi dispiace tanto.» Era stato il massimo che ero riuscita ad articolare, turbata dalla sua spiegazione. «Però, per quello che può valere, non è stata colpa tua...»
Non mi aveva ascoltata; aveva solo piegato il ginocchio, negato con la testa, gli occhi perennemente fuori dalla mia portata. «Un consiglio: non fidarti e non appoggiarti mai a nessuno.» Una sottilissima lacrima le era scivolata via, che aveva scacciato con evidente fastidio. Peccato che un'altra l'avesse costretta a coprirsi gli occhi col palmo, il gomito sul ginocchio che aveva piegato. «E se vengo a sapere che hai detto in giro che piango nei cessi della scuola, ti troverò e rovinerò quel tuo bel faccino. Il che sarebbe un peccato.»
Involontariamente, mi aveva fatto sfuggire una debole risata.
«Va bene, ma solo se mi prometti una cosa.» Appena aveva abbassato la mano, le avevo teso la mia. «Vorrei che un giorno mi facessi sentire come canti. Il gospel piace tanto anche a me.»
Adesso
Attesi, appoggiata al muro della Grace Church.
Fannie e Warren, alla tavola calda, mi avevano confermato che Gwenda non aveva perso le abitudini; ogni domenica frequentava il coro gospel della chiesa, partecipando alla funzione che sarebbe terminata alle undici. Per anni, ancor prima che la conoscessi, per un'ora o due si concedeva di allontanarsi dal rumore delle voci di troppo per rinchiudersi là dentro, in un edificio di mattoni e dai portoni scarlatti, le sembianze di un'abitazione suburbana, dal tocco gotico e i tetti a punta. All'interno, la calda accoglienza dei fedeli.
Alzai il colletto del cappotto, contrastando il gelo che si trascinava il vento autunnale, e scesi i gradini, lo spiazzo deserto, fatta eccezione per le automobili parcheggiate di fronte e un senzatetto anziano che aveva trovato dimora ai piedi della gradinata. Sguardo vacuo, barba che aveva visto tempi migliori, infagottato in coperte e sporcizia che gli segnava la pelle livida. Da un lato, una bottiglia di birra rovesciata, dall'altro un cartone, su cui aveva trascritto: "Sono molto malato e senza casa. Per favore, ho bisogno di un miracolo. (Dio vi benedica)".
Senza pensarci, estrapolai dal portafoglio qualche dollaro, che lasciai cadere nel bicchiere. Non mosse un muscolo.
Incrociai le braccia e cominciai a fare avanti e indietro. Sebbene le porte fossero ancora chiuse, arrivavano lo stesso le parole ovattate del pastore. Visto l'orario, la funzione era agli sgoccioli.
Chissà cosa penserà di questa mia apparizione...
Tra i membri, Gwenda era sempre stata la più indecifrabile, un dipinto di difficile interpretazione. Dopo l'incubo che aveva vissuto da liceale, aveva preferito inseguire la filosofia dell'eremita.
Dopotutto, era un ruolo che le si addiceva. Le piaceva l'indipendenza, prendersi cura dei suoi spazi. Le piaceva incutere timore, le piaceva allontanare. Le piaceva tutelarsi. Solo con un trattamento tanto drastico nessuno avrebbe più avuto il permesso di violare la sua libertà.
All'improvviso, mi oltrepassò un manipolo di uomini e donne. Persa nei ricordi, nemmeno me ne ero resa conto. Sorrisi autentici, strette di mano confortanti, abbracci offerti anche a degli sconosciuti. Sguardi ridenti, accesi, di chi ha un peso in meno, di chi ha ottenuto la benedizione sperata. Di tanto in tanto, tra le diverse etnie, spuntava qualche volto bianco. Un turista che parlava una lingua straniera, forse italiana, stava cercando di riunire il gruppo.
Tra le teste, una figura si faceva largo fra di loro, in fretta. Si stava posizionando degli auricolari wireless alle orecchie mentre scendeva la scalinata. Lo sguardo, la solita e inscalfibile lastra di ghiaccio.
Eccola.
Senza che si concedesse di fermarsi, lasciò cadere qualche moneta nel bicchiere del senzatetto, che ancora una volta non accennò segni di vita. La pedinai, facendomi prudentemente largo tra la folla.
«Gwenda!»
Si fermò davanti alla sua vettura, afferrò le chiavi dalla borsa.
«Aspetta, ehi! Gwenda!»
«Ora non ho tempo. Firmerò le vostre utilissime petizioni contro l'aborto la prossima settimana.» Non si era girata; aveva spalancato la portiera dei sedili posteriori, depositandoci un sacchetto di carta. Si era sporta per controllarne il contenuto, mormorando: «Imbecilli».
Visto il suo umore, esitai.
«Non voglio farti firmare nessuna petizione.»
Si bloccò, la mano in cima alla portiera aperta. Ci tamburellò sopra parecchie volte prima di raddrizzarsi e voltarsi, i capelli bruni che le carezzavano le spalle esili, ora sospinti dal vento.
Non fu neppure un contatto visivo duraturo; due battiti di ciglia e, sbattendo la portiera, pronunciò atona: «Ma guarda, un miracolo».
Aggirò l'auto per raggiungere il posto del guidatore. Come se non mi avesse mai vista, come se fossi una persona qualunque. Mi spiazzò, ma non abbastanza da frenare la lingua. «Hai un attimo?»
Col mezzo a dividerci, la portiera del conducente la lasciò spalancata, posandoci un gomito, l'altro sul tettuccio. «È vitale?»
«Per me sì.»
Si grattò il piercing alla narice, ma non calò quella maschera ostile, anche quando mi invitò a continuare, con un cenno del mento.
«Mi piacerebbe rivedervi, Gwenda.»
«Rivederci.» Sporse un mezzo sorriso. «Tu credi davvero che per tutto questo tempo abbia reagito come i Cox? Sei proprio convinta che in questi due anni mi sia cullata in un angolino a disperarmi come una stupida ragazzina?» Scosse lievemente la testa, dando un colpo sul tettuccio. «Ho cose più importanti a cui pensare, Ophelia, cose più gravi. Struggermi per dei legami che, a quanto pare, non hanno mai avuto senso di esistere non rientra più nelle mie priorità.»
Era palese: voleva liquidare la questione in fretta.
Feci il giro attorno all'auto e, in un soffio, l'afferrai dal gomito, impedendole di entrare. «Per favore.» Fissò la mia presa salda. Se avesse voluto, avrebbe potuto liberarsene subito, forte com'era. Ma non lo fece. «Diamoci un'ultima possibilità. Non pretendo che torni tutto come prima, ma riproviamoci. Non ti... mancano quei tempi?»
«Mi manca la spensieratezza» puntualizzò. «Mi manca avere delle spalle amiche, mi manca avere delle voci che mi fanno sentire meno le mie, quelle in testa, quelle che mi capita di sentire tutt'ora.» Si liberò, con un movimento secco. «Ma riunirci non migliorerà ciò che sto passando ora. In confronto, la merda del liceo non è niente.»
Serrò le labbra, come se stesse respingendo delle parole che avrebbe voluto pronunciare, ma si perse a guardarmi la spalla, l'aria assorta. Una fila di taxi ci passò vicino, i clacson dei botta e risposta.
Corrugai la fronte, tentennando: «Cosa ti è successo?»
Il volto restò una facciata di marmo, incrollabile, che eppure era proprio lì per crollare come un edificio antico, che ha sopportato troppo a lungo il dovere di reggere e reggere. Con un po' di attenzione, potei notare delle occhiaie che non si era preoccupata di nascondere con il correttore, un paio di occhi vuoti. Non erano i suoi.
Troncò le mie rimuginazioni appena si chinò per collocarsi sul sedile, veloce, una scia di profumo fruttato che mi trapassò le narici. «Spero che a tua madre quei fiori siano piaciuti.»
«Li avrà apprezzati di sicuro.» Mi uscì un sorriso amaro, mentre mi grattavo il contorno delle unghie, le pellicine macchiate da sangue rappreso. «Stamattina sono andata al cimitero, e non ho potuto fare a meno di ripensare a quando eri venuta a trovarla. Non l'hai mai fatto...» Mi bloccai, lei che infilava la chiave nel quadro. «Perché?»
«Non è importante.»
«Per me lo è, Gwenda. Odi i cimiteri.»
«Passa una buona giornata e salutami Cordelia.»
Mise in moto, nonostante la portiera ancora aperta.
«È un no, quindi?»
Sospirò. «È un "non lo so".»
Si allacciò la cintura, celere. Avevo ancora poco tempo.
«Da quando mi sono allontanata, almeno voi vi siete rivisti?»
Le uscì uno sbuffo dal naso. Ebbe la fermezza di distogliere lo sguardo dal volante per puntarlo su di me, un'ombra di compassione nelle iridi scure. «Eri tu il nostro collante, Ophelia, non l'hai ancora capito? Tu ci hai unito, tu ci hai diviso. Senza di te non ci saremmo mai ritrovati, tantomeno incastrati, se devo usare una metafora» sottolineò. «Senza di te, la nostra amicizia non avrebbe avuto senso.»
Mi si creò un nodo in gola di fronte a quelle parole che sentii fin troppo oneste per i miei gusti; chinai il capo, sconfitta, ed ebbi il buon senso di fare un passo indietro, affinché riuscisse a chiudere a portiera. Ci ho provato. Tuttavia, attraverso il finestrino, notai Gwenda chiudere gli occhi, forse colta da un lampo di rassegnazione.
Si massaggiò le palpebre, e abbassò il vetro.
«Un consiglio spassionato, lo stesso di sempre: non fidarti e non appoggiarti mai a nessuno. Nel tuo caso, nemmeno se quella persona è tua sorella. Non hai idea dei racconti di Latisha.» Il suo sguardo si ammorbidì. «Riguardo alla tua proposta, ci dovrò pensare. Scusa.»
Annuii, non trovando altro da aggiungere.
Gli occhi di Gwenda si soffermarono in un punto dietro le mie spalle. Evitò il mio sguardo, lo fece apposta.
Poi alzò il finestrino e azionò la freccia. Fece retromarcia e, controllando la strada, si introdusse nel traffico, portando via con sé una sensazione senza nome, che mi fece rabbrividire, simile al vento di quel mattino.
Qualsiasi cosa fosse mi creò un vuoto allo stomaco. Perché, Liv? Non riuscivo ancora a spiegarmi come mai fosse nella bocca di tutti.
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno, nightingales! 🕊️
Stavolta passiamo a Gwenda; quella che sembra essere un po' più, passatemi il termine, "cazzuta". All'apparenza, almeno. Come i gemelli Cox, ha un vissuto particolare, che in qualche modo ha segnato lei e il suo orgoglio. Ma soprattutto, la sua più che legittima libertà. (Ci tenevo a parlare di questa tematica, seppur molto marginale).
Tra i membri è quella con cui ho empatizzato di più, nonostante abbiamo due caratteri opposti. Spero che l'abbiate apprezzata. Per qualsiasi cosa, fatemi pure sapere! ❤️
Questions:
▪️ Palesemente, l'incontro con Gwenda, rispetto a quello coi gemelli, risulta mooolto differente; se il primo è stato abbastanza emotional, il secondo, beh... è stato abbastanza freddo, celere. Un po' come il carattere della ragazza. Anche se veniva già accennato nei capitoli precedenti, qua è più chiaro: è la sorella minore della famosa Latisha. Opinioni sull'incontro? 👀
▪️ Ricordavate la scena al cimitero di diversi capitoli fa? Ricordavate che era spuntata pure Gwenda a posare i fiori a quella lapide? Svelato il mistero: la lapide appartiene alla madre biologica di Ophelia. Ma la vera domanda è: perché era andata a visitarla?
Ci vediamo al più presto, promesso. 🤍
Spero vivamente di pubblicare entro il mio compleanno. Anche perché, in caso, pubblicherò su Instagram (mi trovate col nickname che c'è a piè di pagina) una cosina che ho ricevuto qualche giorno fa. ✨ Chissà cos'è? Rimanete sintonizzati sulla mia pagina per scoprirlo u.u
Playlist:
Wires - The Neighbourhood (prima parte - fino a quando Ophelia non va in bagno)
Save The World - Wolfie's Just Fine (prima parte - da lì fino alla fine del flashback)
Freakin' Out on the Interstate - Briston Maroney (seconda parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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