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22. Per un bicchiere


Per un bicchiere











P.S musicale: provate ad ascoltare Cups nel momento in cui, nella seconda parte, Ophelia... Beh, lo capirete da soli. 🤓 Buona lettura! 🕊️







Prima
















Da bambina non ero una grande fan dell'estate.

Gran parte dei passatempi erano divertenti e produttivi se si aveva una compagnia su cui contare, un gruppo di amici con cui condividere le cadute a terra o le vittorie a ruba bandiera. Quando Olivia non era indaffarata con lo studio o con dei servizi fotografici occasionali, spesso era lei a offrirsi di accompagnarmi al parco giochi. Anche se ero sicura che non sempre fremesse dalla voglia.

Giocava per un po', giusto per adempiere al suo dovere di sorella maggiore, dopodiché andava a isolarsi alle panchine, senza perdermi di vista e cominciando a utilizzare il suo primo cellulare touchscreen.

Così, finivo con l'oscillare sull'altalena da sola.

A otto anni trovavo abbastanza scoraggiante guardarmi intorno e osservare i miei coetanei formare dei gruppi solidi con una facilità che mi spiazzava. Il mio problema non mi aveva mai agevolato l'impresa; mi scioglievo solo con la mia famiglia, con chi conoscevo bene. Mentre fuori, involontariamente, il pensiero che l'interlocutore avrebbe dovuto ascoltarmi bastava per farmi sudare e trasformarmi in un guscio chiuso; avevo passato tre anni scolastici a bloccarmi come un'idiota non appena un bambino cercava di parlarmi, che fosse per prestargli un temperamatite o per mangiare la merenda insieme.

E per garantirmi una decente e minima partecipazione alle lezioni, i miei genitori avevano informato gli insegnanti sulla mia condizione particolare, tant'è che nei consigli di classe era stato approvato un Piano Didattico Personalizzato, così che il modus operandi dei docenti avesse potuto adeguarsi e coinvolgermi più attivamente.

Tuttavia, dai corridoi mi erano arrivate le chiacchiere di alcuni compagni di classe su quanto fossi agevolata rispetto agli altri. Quel cambio di programma, quell'adattarsi che gli insegnanti avevano dovuto pianificare a causa mia, in un certo senso mi aveva fatta sentire etichettata, un soggetto fragile verso cui era necessario essere "cauti", tipo gli scatoloni che si spediscono con la dicitura "Maneggiare con cura". Era incredibile: il mio cervello funzionava alla grande, le nozioni le capivo come qualsiasi altro bambino, sapevo ragionare, contare, imparare le poesie a memoria; ma se la voce non collaborava, soltanto lei, una competenza neanche tanto rilevante quanto le capacità motorie, era da considerarsi un handicap.

Lo trovavo uno scherzo di pessimo gusto.

Delle volte, in camera, stringevo i pugni e mi arrabbiavo. "Stupida voce, se non mi vuoi bene perché non te ne vai? Perché mi imbrogli? Perché mi fai parlare con mamma e non con i miei compagni?"

Una domenica ero scoppiata a piangere.

Mamma e papà si erano guardati perplessi, mi avevano domandato la ragione, ora con una carezza sul capo, ora massaggiandomi la schiena. Mi ero rifiutata di rispondere. Alla fine si erano proposti di accompagnarmi al parco, che magari respirare, prendere una sana boccata d'aria avrebbe potuto farmi stare meglio.

Avrei voluto urlargli che non sarebbe servito a niente. Ma me ne ero rimasta zitta, non me l'ero sentita di sgonfiargli l'entusiasmo.

Quindi, approfittando che mia sorella fosse andata a trovare una sua compagna, ci eravamo diretti al Daisy Field, un parco diverso da quello che eravamo soliti frequentare, comunicante con il vasto Wissahickon Valley Park, dove oltre ai classici giochi da arrampicata o agli usuali scivoli con annesse le altalene, tra le siepi spuntavano anche i percorsi per chi si godeva delle camminate o del jogging.

Non era male, ed era parecchio visitato.

Dopo un po' ci eravamo fermati davanti a una panchina. Pizzicata dalla curiosità, mi ero guardata in giro; avevo riconosciuto alcuni miei compagni con le rispettive famiglie, poi l'attenzione era balzata su dei ragazzi più grandi, forse delle medie, che fumavano sigarette dietro ai tronchi, infine su una specie di stand. In realtà era una panchina occupata da due ragazzi e sopra cui svettava un piccolo cartello. Da lontano non ero riuscita a leggere cosa ci fosse scritto.

«Vuoi che ti spinga sull'altalena? Che ne dici?»

Mamma si era inginocchiata, indicandomi l'altalena libera.

Avevo stretto la bocca. «Faccio da sola.»

«Sicura?»

Avevo annuito, e papà aveva riso mentre si sedeva sulla panchina. «La nostra Ophelia vuole essere indipendente. Lasciala fare.»

Lei, con un sorriso, mi aveva sistemato i ciuffi fuori posto. «Va bene, tesoro, come vuoi. Però se hai bisogno di noi ci chiami, ok?»

Le avevo schioccato un rapido bacio sulla guancia in segno di assenso ed ero corsa all'altalena, prima che venisse occupata. Avevo stretto le mani attorno alle catene e, facendo due passi indietro, mi ero data una spinta con le ginocchia, le gambe più in alto che potevo.

Per un po' mi ero goduta l'aria spumeggiante di inizio estate, il sudore che imperlava la fronte, i cigolii cantilenanti a ogni dondolio, gli schiamazzi dei bambini a seguito dei rimproveri dei genitori. E avevo oscillato così, per parecchio tempo, a occhi chiusi, rincorrendo dietro le palpebre delle realtà irrealizzabili, realtà in cui parlavo senza farmi schiacciare dall'ansia, realtà dove le parole erano libere.

Quelle fantasie si erano spezzate appena avevo avvertito qualcuno precipitarsi nella mia direzione e occupare la postazione accanto alla mia. Aprendo gli occhi mi ero accorta che una bambina dai tratti ispanici e dai capelli ricci si era seduta, senza però dondolarsi. Mi fissava. Così, avevo arrestato il mio dondolio, fissandola a mia volta.

La bambina aveva sorriso. «Ciao.»

Basita, avevo schiuso le labbra. Dalla sorpresa non era uscito nulla. Lei, però, mi aveva indicato un punto lontano, accanto a una fontanella, dove già una torma di ragazzini si stava divertendo a rincorrersi. «Vieni? Ci servono delle persone per fare le squadre.»

Mi ero presa un lembo della maglietta e avevo iniziato ad attorcigliarlo intorno alle dita, focalizzata su quel gruppo caotico di coetanei. Rendendomi conto che i secondi di silenzio erano diventati minuti, avevo guardato la sconosciuta. Aveva atteso a lungo, ma vedendo che non spiccicavo parola, aveva abbassato le sopracciglia.

«Allora?»

Mi ero concentrata sulle mie scarpe.

La frustrazione era salita a dei livelli sconfortanti. Le mani si erano inumidite, il cuore aveva preso a palpitare talmente veloce che aveva implicato una respirazione irregolare, avevo scagliato occhiate d'aiuto ai miei genitori, impegnati però a conversare fra loro. La risposta è , non è difficile. Apri la bocca e dillo. Avevo schiuso le labbra, trepidante di riuscirci, ma avevo deglutito e le avevo richiuse.

«Vabbè, lascia perdere. Ciao.»

Sbuffando, aveva liberato il posto.

Appena si era allontanata verso un altro bambino avevo sussurrato un «Sì» affranto, desiderando con tutto il cuore che la parola prendesse la forma di un peluche, così che avessi potuto picchiarla. All'epoca desideravo prendere a pugni un sacco di parole. Come loro prendevano a pugni me ogni volta che si rifiutavano di ubbidirmi.

Mi era salita l'impellente voglia di tornarmene a casa. Tuttavia, una vocina interiore mi aveva suggerito che farlo avrebbe significato darla vinta ai silenzi. Perciò, mi ero imposta una sfida: scambiare due parole, anche una soltanto, con qualcuno. Mi ero detta che non poteva essere così complicato: un rapido saluto per poi scappare via.

Ero scesa dall'altalena, triste ma determinata, e mi ero messa a passeggiare nei dintorni, con mamma che mi ricordava a gran voce di non allontanarmi dal loro punto. A braccia conserte, schivando dei ragazzi che cercavano di acchiapparsi dalla maglietta, mi ero messa a ispezionare quel verde ritaglio di tarassachi e filipendule. Avevo constatato che molti bambini si trovassero in compagnia di amici o familiari, troppi perché riuscissi a mettere in atto la mia prova di coraggio. Già con una persona lo trovavo estremamente difficoltoso.

All'improvviso, le orecchie avevano afferrato una melodia.

Avevo voltato il capo e, aguzzando la vista, avevo capito che proveniva dalla panchina che avevo adocchiato prima. Si era formata una brevissima fila: davanti a chi aveva allestito quella specie di angolo musicale si era seduta una ragazza, ma tempo niente che era stata congedata. Mi ero avvicinata per capire che cosa avessero organizzato. Era stato un istinto primordiale: la musica la consideravo l'equivalente del canto di una sirena per un pescatore.

Mi ero infilata dietro a un ragazzo secco quanto un fiammifero, la cui altezza mi aveva reso impossibile sbirciare oltre. Quindi mi ero sporta oltre il suo profilo, i capelli che penzolavano vicino alla spalla.

«Perché non va bene?»

«Sei fuori tempo e ti distrai.»

«Ehi, non è vero!»

«Il prossimo.»

Avevo notato un'incredibile somiglianza tra i due ragazzi, che a quanto pareva ricoprivano il ruolo dei giudici di un qualche contest: entrambi biondissimi, tanto da correre il rischio di confondere i loro capelli con dei nastri di luce, i tratti delicati, di porcellana, e costellazioni di acne ed efelidi che punteggiavano naso e gote. L'unica differenza stava nel fisico: lui parecchio smilzo, lei in carne.

Il ragazzino aveva appoggiato il gomito sul tavolo, reggendosi la guancia con il pugno. Così facendo, l'aveva obbligato a stringere un occhio. «Sorella, pretendi troppo. Sono due settimane che mi sfrutti.»

«Nel nostro futuro club c'è bisogno di manodopera speciale.»

«E che cazzo è la manodopera?»

«Non li ascolti mai i discorsi di mamma e papà?»

«Ma secondo te? Quando so che parleranno di economia e povertà nel mondo comincio a ripassarmi a mente le canzoni di Tupac.» Avevo chiuso gli occhi, estasiato. «Quanto spacca nei ritornelli.»

«Vabbè ma che ti parlo a fare.» Si era stretta la coda, sospirando, e poi gli aveva dato una manata sulla fronte. «Sveglia. A settembre inizieremo il liceo, e visto che siamo stati etichettati come sfigati irrecuperabili dalla nostra fantastica classe, dovremmo sopravvivere ai più "fighi" esibendo compagnia altrettanto "figa".» Al termine figo aveva continuato a fare il segno delle virgolette con le dita grassocce.

«Ok, capo.» Ma dallo sguardo ero certa non avesse afferrato. «E vuoi riuscirci chiedendo a dei disgraziati che passano qui per caso di cantare la Cup Song? Saper cantare non significa essere fighi.»

«Come si vede che non capisci niente.» Aveva aperto la plastica di una merendina facendola scoppiare nel pugno e, mentre masticava un boccone, aveva continuato: «Devi sapere, Warren, giusto per darti lezioni di storia della musica, che in origine era un brano degli anni Trenta. Da qualche anno i Lulu-qualcosa hanno aggiunto la versione geniale con i bicchieri. Sfido chiunque a non trovare figo chi canta e, allo stesso tempo, fa tutta quella roba con le mani. Dio, io lo amo.»

«Ah beh, auguri. In tutta Chestnut Hill saremo gli unici in grado di farlo. Cosa che ci rende – rullo di tamburi – esatto: degli sfigati.»

Lei aveva scosso la testa, terminando la merendina e aprendo uno snack che custodiva in uno zainetto. Dal colore della confezione avevo dedotto fossero le Peanut Chews al cioccolato fondente.

Nel frattempo, il ragazzo di fronte si era dileguato, facendo sì che fossi la prossima. Tuttavia, ancora prima di muovere un passo verso di loro, si era introdotto un energumeno che era il triplo di quel Warren, e che si era trascinato dietro un fastidioso olezzo di sudore. Nonostante la stazza, avevo ipotizzato che avessero la medesima età.

La ragazza aveva assestato al fratello una gomitata, pulendosi la bocca. «Forse è meglio chiudere tutto. C'è il tuo migliore amico.»

«Bel modo di chiamare chi mi fa gli occhi neri da tre anni...»

Il tale si era avvicinato a braccia spalancate. Poco distante avevo notato altri ragazzi che lo fissavano sogghignando. «Bene, bene. Che cosa abbiamo qui? Il fottuto chiosco dei baci?» Aveva appoggiato i gomiti, inclinandosi verso Warren. «Immagino sia tu la donzella.»

«No, tuo padre. Mi aspetta dietro l'angolo.»

Il tipo gli aveva subito afferrato il bavero della camicia. Warren, di riflesso, aveva strizzato gli occhi. «Non ti sono bastate le lezioni che ti ho dato come inaugurazione dell'ultimo giorno, finocchio?»

Dentro di me mi ero chiesta perché gli avesse rifilato il termine di una verdura. Non l'avevo mai sentito come nomignolo, ma avevo capito anche da me che sapeva di insulto. Quel giorno ci aveva pensato mia madre a spiegarmelo, con tatto, come anche la varietà di definizioni poco carine che avevo sentito sparare dalle loro bocche.

La sorella di Warren, seppur intimorita quanto me dalla piega che aveva preso la situazione, si era schiarita la voce e aveva sollevato il viso, l'aria supponente. La solita, quella che si dipingeva sempre in volto. Aveva posato la mano su quella del tipo, incoraggiandolo a sciogliere la presa ferrea. «Colton, datti una calmata. Se ti resta ancora un po' di materia grigia, capirai anche da solo che sarebbe una mossa da idioti dare spettacolo davanti a degli agenti di polizia.»

La testa rasata di Colton si era girata; poco distante passeggiava un'allegra coppia di uomini in divisa, le mani dietro la schiena.

Era stato l'incentivo giusto per rabbonirlo.

«E poi» aveva ripreso la ragazza, incrociando le braccia sul tavolo. «Non ti sei stufato di farti bocciare? Noi andremo al liceo, mentre tu sarai ancora bloccato a rifare i compitini di terza media.»

«Per la seconda volta» aveva rincarato Warren.

«Che cazzo hai detto?»

Colton l'aveva ripreso dal colletto, ma Warren non si era lasciato intimidire. «Dai, stronzo, picchiami. Sarò felice di vedere quegli agenti stanarti le bustine di metanfetamina che ti ficchi nelle mutande. Magari è la volta buona che ti portano finalmente in riformatorio.»

La sorella aveva annuito, d'accordo con lui.

Essendo di spalle, non avevo potuto cogliere la reazione di quel Colton. Tuttavia, aveva ridacchiato e l'aveva spintonato, per poi rivolgersi alla sorella. «Un consiglio, Cox: di' alla balenottera di tua sorella di starsene muta. Ogni volta che parla si rischia una doccia.»

Warren si era alzato. «Non ti azzardare a chiamarla così!»

«Se no che fai? Mi succhi l'uccello?»

A quel punto stava per scavalcare la panchina, ma sua sorella aveva fatto in tempo a trattenerlo da un braccio. «Piantala, Warren.»

«Ma che cazzo, ti ha chiamata–»

«È più importante che le tue duecentosei ossa non vengano usate per giocare a Shangai. Tanto non lo rivedremo mai più.» Si era rivolta a Colton. «E le docce sono per via di questo.» Si era puntellata i denti con l'indice, rivelando un apparecchio. «I miei genitori lo chiamano "investimento per il futuro". Perché un giorno i miei denti saranno stupendi, mentre i tuoi saranno ancora tutti storti.»

«Può essere.» Mentre rideva, era stato raggiunto dalla sua combriccola, che l'avevano incitato ad andare via da lì. Con un ultimo sguardo irriguardoso, aveva aggiunto: «Ma faranno lo stesso miracolo anche con tutto quel lardo? Ho i miei dubbi, balenottera

L'avevamo fissato mentre si dileguava a suon di pacche.

Per qualche strana ragione, quell'insieme di scambi mi avevano messo addosso un'inquietudine spaventosa. Mi si era seccata la gola ancor più di quando non riuscivo a parlare. Warren, invece, aveva guardato in cagnesco il punto in cui quel bulletto si era allontanato.

«Servirebbero delle mentine a quel figlio di puttana.»

La sorella non l'aveva ascoltato; era impegnata a fissarsi e a strizzarsi la pancia con espressione fredda. Poi aveva ripreso in mano lo snack al cioccolato rimasto a metà, ma ancor prima di portarselo in bocca, l'aveva passato a suo fratello. «Tieni. Mi è passata la fame.»

«Finiscilo. Non devi ascoltarlo a quello.»

«Tranquillo, ho pure le pesche che mi aveva tagliato papà. Almeno mangio qualcosa di sano.» Aveva sfoderato un piccolo contenitore di plastica, con all'interno la frutta e una forchetta. «Un giorno diventerò magra e bellissima» aveva mormorato, imboccando uno spicchio con rabbia e reprimendo delle smorfie che anticipavano un pianto in arrivo. Eppure, si era trattenuta. «Io lo so, e sarà così

Lo era diventata sul serio.

Warren, sospirando, le aveva dato delle carezze confortanti alla schiena. La ragazza, invece, aveva sollevato gli occhi lucidi. Accorgendosi della mia presenza, si era obbligata a interrompere la masticazione a metà. Ed io mi ero dimenticata perché mi trovassi lì.

«Stai facendo la fila per noi?» aveva domandato Warren, senza alcun velo di emozione. «Torna dai tuoi genitori, per oggi non...»

«Zitto» si era intromessa l'altra. «Vuoi provare?»

«Ma è una bambina...»

«E allora? I Cox non fanno alcun genere di discriminazioni.» Lui aveva sbuffato, tornando a poggiare la guancia sulla mano, mentre la sorella si era stampata un largo sorriso. «Come ti chiami, pulcino?»

Mi ero avvicinata e aggrappata al bordo del tavolo; preda dell'ansia, avevo studiato le cianfrusaglie sparse, quasi a volerci trovare la risposta. Tuttavia, l'agitazione mi aveva sigillato le labbra.

Nel panico, mi ero voltata indietro.

Mamma, dalla panchina, aveva sollevato i pollici all'insù.

Quindi, a testa bassa, avevo provato a sussurrare un: «Ophelia».

«Eh?» avevano chiesto in coro; la ragazza aveva ripreso parola. «Scusa, non ho capito, potresti ripetere a voce un po' più alta?»

Non avevo più risposto.

Lei, comunque, non si era arresa. «Va bene, ehm, io sono Fannie, lui è il mio gemello Warren – non per scelta. Quanti anni hai?»

Sempre peggio. Il timore di sembrare ridicola si era invischiato in gola e non mi aveva permesso di sciogliermi, di essere naturale, me stessa; così, in un movimento estremamente lento e meccanico avevo alzato le dita, affinché mostrassi loro che avevo otto anni.

Fannie aveva annuito, poi si era rivolto al fratello.

«Forse è solo timida.»

«Allora è tutto inutile.»

«Vediamo.» Era tornata a me. «Conosci la Cup Song

Avevo negato con la testa.

«Sai leggere, vero?»

Avevo annuito.

«Perfetto!» Aveva strappato un pezzo di carta da un quadernino ad anelli e, infilandosi il cappuccio di una biro in bocca, aveva cominciato a scrivere alla velocità della luce, continuando però a parlare. «Allora se vuoi imparare questa cosa super difficile e super bella, basta che chiedi a tuo papà o a tua mamma di cercarlo su YouTube. E se riesci a impararlo, vieni pure a farcelo vedere. Tanto ci troverai qui tutte le domeniche pomeriggio. Fino a settembre, eh.»

Mi aveva teso il foglietto con le istruzioni, che io l'avevo guardato scalpitando dalla gioia. In quel momento si era fatta largo in me una speranza. Minima ma importante, preziosa quanto una perla appena nata, e ne avrei avuto cura finché non sarebbe diventato qualcosa di tangibile, un trofeo che avrei potuto indossare come una bella tiara.

Avevo trascorso l'intera estate dietro a quel brano, senza mai fermarmi, senza mai una tregua; appena alzavo la testa dal cuscino, dopo i pasti, sotto la doccia, prima di andare a dormire. A volte rischiavo di addormentarmi con il bicchiere che usavo per allenarmi, quasi fosse un orsacchiotto. Mamma e papà, a turno, mi avevano aiutata per mesi a inseguire il ritmo giusto della canzone. Si erano divertiti quanto me, ed io avevo scoperto quanto mi piacesse; prima di allora non mi era mai capitato di combinare sia voce che azioni.

Ad oggi ricordavo l'esito del mio impegno con un gran sorriso.
















Adesso










Warren aveva risposto alla mia richiesta in un lasso di tempo relativamente breve; all'inizio si era mostrato restio e mi aveva persino domandato se non fossi un bot. Gli avevo dovuto mandare un selfie come prova. Compreso fossi io, si era allarmato e mi aveva chiesto se non fosse successo qualcosa, visto che, escluso il nostro "scontro", non avevo avuto il coraggio di contattarlo per due anni.

Gli avevo spiegato a grandi linee che avevo bisogno di parlare con entrambi e che avrebbe dovuto fidarsi di me, che era importante. Appena avevo nominato la parola "amicizia", non aveva più insistito. Mi aveva semplicemente chiesto di farmi trovare al Taste A Wish, tavola calda in cui lavorava con l'intera famiglia, e di essere presente lì all'orario di chiusura, che poi ci avrebbe pensato lui ad aprirmi.

Era meglio parlare in un ambiente tranquillo, a detta sua.

Così, titubante e con la mente che tutt'ora sussurrava continuamente "grande idea del cazzo", avevo eseguito gli ordini; mi ero ritrovata davanti al locale dopo le ventitré, con un vento concitato a insinuarsi oltre la spessa fibra del cappotto. Dalle vetrate che affacciavano sul marciapiede, avevo scorto Warren a capo chino, concentrato alla cassa e a fare la conta delle banconote. Di volta in volta dava delle sbirciate allo schermo del computer che aveva a lato.

Avevo notato la madre passare lo straccio sui tavoli, mentre il marito l'aiutava a tirare su alcune seggiole. Fannie non l'avevo vista.

Quando Warren, nervoso quanto me, mi aveva fatta entrare, avevo lanciato un silenzioso cenno di saluto ai genitori, che mi avevano sorriso a loro volta. Dopodiché mi aveva fatto segno di stare zitta, dato che sua sorella era all'oscuro dell'inghippo. L'aveva riferito solo ai suoi, poiché se la ragazza ne fosse venuta a conoscenza probabilmente non mi avrebbe fatto entrare. O almeno, così aveva dedotto, quindi aveva preferito andare sul sicuro.

Poi mi aveva fatta accomodare in uno dei divanetti rossi collocati vicino alle finestre, promettendomi che mi avrebbe raggiunta presto.

Ora, picchiettando le unghie sul tavolo disinfettato, fingevo di trovare interessante le strade umide di pioggia e di non sentirmi sulle spalle un grosso carico di colpe. Mi sto comportando da ipocrita... Se non mi vorrà ascoltare non è da biasimare, in fin dei conti.

Warren mi aveva distolto dai miei pensieri, fiondandosi nel posto di fronte al mio. Diede una riavviata all'indietro a quei lunghi ciuffi biondi e, rilassandosi sullo schienale, mi lanciò un sorriso tiepido.

«Nervosa?»

«Solo un po'.» Vicino all'entrata, osservai i suoi genitori allacciarsi i giubbotti, pronti ad andarsene. «Tua sorella non c'è?»

«Figurati, quella è in cucina a caricare i frigoriferi. Oggi tocca a lei.» Allungò il braccio sulla spalliera, l'altro lo distese sul tavolo. «Posso confessarti che trovo tutto questo assurdo? Cos'è cambiato?»

Mi guardai le dita, lievemente impacciata. «Non lo so.»

«E fra tutti hai contattato proprio me.»

«Già.»

«Perché?»

Mi obbligai ad alzare lo sguardo, un velo di inquietudine che gli solcava gli occhi azzurri. «Gli altri non avrebbero riposto la stessa fiducia. Conosco i modi di tua sorella e so che tipo è Gwenda.»

Fece un mezzo sorriso. «E che mi dici di Jay?»

«Con lui è tutto molto più complicato.»

«Ah sì, conosco bene quelle "complicazioni".»

«Warren...»

«Dai, scherzo. Mi sento onorato a essere il prescelto.» Giunse un gran fracasso oltre la porta della cucina; volarono imprecazioni e, dal rumore sordo, probabilmente qualche utensile era finito a terra. Warren si girò, sua madre sospirò e andò a controllare. Appena sparì, tornò a rivolgersi a me. «E se vuoi qualche dritta sul come prendere quel demonio di mia sorella, ti suggerisco di non fare rievocazioni strappalacrime sul passato. Lo odia e la irrita. Io ci ho pure provato.»

La notizia non fu confortante.

Dall'espressione desolata che avevo assunto, capì. «No...»

«Eh.»

«Non hai argomenti di riserva?»

Socchiusi un occhio, colpevole. «Il fatto è che...» Aprii la borsa che avevo in grembo e tirai fuori un bicchiere di plastica. «Capito?»

Lui si strofinò la faccia, stando poi coi palmi sulle guance.

«Merda.»

Le porte della cucina si spalancarono e ricomparve la madre dei gemelli mentre si stava riavvolgendo la sciarpa intorno al collo. Accennò al marito dell'imbranataggine della figlia, il quale emise una risata in grado di far vibrare le finestre, per quanto fosse tonante.

Appena dopo, varcò la soglia Fannie.

Allungò il braccio dietro di sé e spense la luce delle cucine, il che rese ancor meno precisa la sua immagine. Però mi arrivò forte e chiara una sbuffata, a seguito di un fiacco: «Dov'è quell'ingrato?»

Madre e padre fecero un cenno nella nostra direzione.

Bene, ora sì che posso iniziare a sudare.

Warren alzò un braccio e lo sventolò, continuando a guardarmi. «Perché invece non vieni a sputare qui la tua adorabile acidità?»

«Perché sono stanca e non vedo l'ora di mettermi orizzontale.» A giudicare dall'assenza di reazioni, supposi non mi avesse notata, poiché la vidi incastrare un elastico in mezzo alle labbra mentre raggruppava una gran quantità di capelli, mugugnando: «Quindi preferirei alzassi il culo, ho bisogno delle mie otto ore di sonno.»

«Domani è il tuo giorno libero. C'è l'ultimo arrivato.»

«Vero, mi correggo: stavolta ho bisogno di almeno dieci ore.»

Warren diede delle incoraggianti patte sullo schienale. «Meno lamentele e vieni qui, coraggio. C'è qualcuno che freme dalla voglia di parlarti.»

«Ma che dici? Di cosa stai–»

L'eco si smorzò in quell'ambiente, ora illuminato soltanto da un paio di lampade. Warren si era trascinato strategicamente da parte, fino a raggiungere il posto che accostava la vetrata. Così facendo, però, permise di accorgersi della mia presenza. Dalla netta distanza, non riuscivo a cogliere l'espressione che avesse assunto.

È troppo tardi per ripensarci.

Lei impiegò qualche minuto prima che si muovesse. I suoi genitori, intanto, conoscendo la situazione che gli aveva anticipato il figlio, preferirono appellarsi al silenzio e procedere verso l'uscita.

Fannie agguantò il cappotto e, a passi pesanti, ci raggiunse. Ebbi una visione più chiara del suo volto, scavato da uno sconcerto che immaginavo faticasse a mascherare; eppure, non distolse mai lo sguardo stralunato dal mio, anche quando abbandonò il giubbotto sullo schienale e, meccanicamente, prese posto vicino al fratello.

Davanti a me.

«Lo sapevi?» chiese la ragazza a Warren, il tono secco. Ma non attese una risposta, poiché si voltò indietro, di scatto. «Lo sapevate?»

Entrambi alzarono le spalle, però fu la madre a parlare, ignorando il quesito. «Cercate di fare un ultimo controllo prima di uscire, spegnete tutte le luci e chiudete bene a chiave. Due mandate. Due. Ci abbiamo già pensato noi a spegnere il riscaldamento.» Aprirono la porta, la stazza massiccia del marito fu la prima a sparire, mentre l'altra si trattenne un'ultima volta, puntandoci il dito e avvertendoci con un intimidatorio: «E non fumate, che domani me ne accorgo».

I gemelli salutarono agitando la mano, e Fannie, scuotendo la testa, si rassegnò a tornare composta. Appena la porta si chiuse, però, entrambi sfoderarono dalla borsa di lei una sigaretta elettronica ciascuno. Stupita da tanta coordinazione, mi venne spontaneo alzare le sopracciglia. Mentre si mettevano d'accordo su quale aroma far fluire nel serbatoio, l'attenzione venne calamitata dalla sorella: aveva sistemato la frangetta bionda affinché spuntasse un triangolo della sua fronte spaziosa, al centro, come un sipario aperto, mentre i capelli avevano subito una drastica spuntata. Le arrivavano al collo.

Non voleva dire che fosse diventata meno attraente.

Da quando l'aveva conosciuta nel periodo delle insicurezze che caratterizzava le medie, anno dopo anno avevo visto il fuoco della determinazione accenderle quegli occhi cristallini e incredibilmente belli anche senza trucco, e accompagnare le sue scelte, le prese di posizione, i sacrifici; tutto ciò l'aveva portata a curarsi, a lavorare su se stessa, spesso prendendo spunto dalle storie di attuali modelle con un vissuto simile al suo, o semplicemente di gente che, da bambini e a seguito della tonsillectomia, aveva iniziato ad aumentare di peso.

Come lei.

Già ai tempi in cui l'avevo conosciuta aveva un bel visino. Aveva solo bisogno che si volesse più bene, ripeteva. E lei, ora, era quello: un equilibrio di occhi grandi, fisico allenato e viso a cuore. Le principesse delle favole le immaginavo sempre con un volto simile.

Warren diede la prima lunga svapata, una nuvola di vapore dall'aroma fruttato mi penetrò nelle narici, e posò la guancia sull'altra mano. Stessa posizione del nostro primo incontro al parco. Mi lanciò uno sguardo indecifrabile, poi, che sapeva di avvertimento.

Fannie, invece, non mostrò emozioni.

Mi studiava, e io studiai lei, di continuo, nascondendo il tremito delle mani sotto al tavolo, adagiate sulle ginocchia. Nonostante vantasse un corpo scolpito e di tutto rispetto, non aveva mai strafatto; le guance le erano rimaste abbastanza piene, le braccia sode.

«Allora, innanzitutto lei...» Warren, con una certa colpevolezza a nel tono, provò a rompere il ghiaccio. Non poté terminare la frase.

Sua sorella, irritata e supponente, lo stava fissando.

«Io e te parleremo dopo, a casa.» Espirò una scia di vapore dalle narici, mantenendo un tono distaccato. «La lingua ce l'ha. Parla lei.»

Warren alzò gli occhi al cielo e si cacciò la sigaretta in bocca.

Deglutii, e presi tempo guardandole le unghie smaltate di rosso.

«Mi dispiace per... questa intrusione fuori programma.»

Lei alzò le spalle, indifferente. «Beh, ormai siamo qui.»

«Ok» borbottai, dandomi un'immaginaria pacca di sprono, poi giunsi le dita sul tavolo. «So che sembra un pessimo scherzo, ma...»

«No, a me sembra proprio una presa per il culo, se permetti.»

«Fannie...» intervenne Warren, cercando di placarla.

Lei posò la sigaretta e incrociò le braccia, a mento alzato. «Per favore, spiegami con quale diritto vieni nel mio locale, a dover...»

«Nostro.»

«Warren.»

«Nostro locale.»

«Giuro che se continui a interrompermi torni a casa direttamente sulle tue gambe.» Lui la ignorò, rivolto serenamente alla vetrata. Fannie tornò a guardarmi, assottigliando le palpebre. «Che cosa mi dovrebbe impedire, Ophelia, di alzarmi e cacciarti fuori da qui come tu hai cacciato me, noi, dalla tua vita? Senza una spiegazione, senza una chiamata, un ultimatum, un messaggio, un che-cazzo-ne-so-io

«Nulla.»

«Come?»

«Nulla ti impedisce di farlo. Hai ragione.» Mi schiarii la voce, desiderando non avvertisse quanto mi costasse reprimere i balbettii. «Non ho mai risposto ai tuoi messaggi, ho ignorato le tue telefonate. Non mi sono comportata da amica. Sono scappata, sono scomparsa.»

«Amica» ripeté, trattenendo una risata amara, dopodiché si sporse in avanti. «Eri nostra sorella, non un'amica qualunque. E noi, gli idioti, che abbiamo fatto per tutto il tempo? Cercarti, interpellare i tuoi genitori, capire perché dopo l'esibizione di beneficienza andata male ti fossi allontanata proprio da noi.» Stavolta la facciata altezzosa si incrinò appena, lasciando che potessi scorgere uno sguardo meno severo, profondamente ferito. «In questi anni, Ophelia, sai quale spiegazione assurda mi sono data? Che magari, chissà, la colpa l'avessi data a noi. Per lo spettacolo, i commenti su YouTube.»

Per qualche secondo smisi di battere le palpebre, come un orologio a cui si scaricano le batterie di punto in bianco. La guardai e basta, con lo stesso sguardo ferito, quasi ci trovassimo allo specchio.

Finché non aggiunse, sussurrando: «Perché sei qui?»

«Perché non sto capendo.» Umettai le labbra, esitai, guardai giù. «Non sto più capendo niente, Fannie, sono arrivata a un punto della mia vita in cui non riesco a darmi delle spiegazioni... A volte non riconosco i miei genitori, non riconosco mia sorella, non riconosco me stessa. Cerco di collegare passato e presente, cerco di comprendere il senso delle mie scelte, cerco di capire il perché di questo e quello, e a volte, credimi, mi sembra così surreale pensare a come ci siamo allontanati tra di noi, come se fosse stato frutto di una volontà superiore, di altra gente, non mia, e...» Dovetti mordermi la lingua e chiudere gli occhi per evitare di scoppiare a piangere proprio lì, davanti a lei. Avevo già pianto abbastanza, negli ultimi tempi. «È frustrante non capire da che prospettiva devo guardare... e lo è ancora di più non capire di chi fidarmi, a chi appoggiarmi.» Alzai gli occhi, mormorando: «Ci sono giorni in cui mi sembra di impazzire».

La vidi deglutire, gli occhi sui miei.

Anche se notavo perfettamente quanto volesse rimanere in una posizione di assoluta freddezza, un velo di confusione e apprensione le ombreggiò lo sguardo. Parve cambiare faccia. «Spiegati meglio.»

«Ho conosciuto una persona, ed è forse l'unica che ad oggi sento di potermi fidare, e...» Guardai Warren; aveva terminato di fumare e ora mi stava rivolgendo la sua attenzione. Aveva ricamato su di sé la stessa espressione rigida e preoccupata della sorella. «Sto cercando di rivalutare la mia vita da un altro punto di vista, capire se posso avere delle risposte, se queste prospettive possono parlarmi

Lui guardò lei, lei guardò lui. Per un attimo fugace.

Fannie scosse leggermente la testa e sollevò un angolo della bocca, amareggiata. «Quindi è questo il tuo scopo? Sei qui per chiederci di fare le patetiche cavie nel tuo esperimento?»

«No.» Azzardai una mossa rischiosa: posarle la mano sulla sua. «Sono qui per chiedervi di aiutarmi a capire, di provare a ricominciare, a ricostruire. E se non volete, lo posso comprendere.»

Fissò il nostro contatto con un velo di quello che parve aria di sufficienza; dopodiché, puntando lo sguardo altrove, la sfilò per poter incrociare nuovamente le braccia. «Non lo so, Ophelia.» Mosse la testa in segno di diniego, in direzione della metà di locale buia. «Hai idea di come ci siamo sentiti? Hai idea di come io mi sia sentita? E adesso te ne esci così; sbuchi dal nulla e pretendi pure il perdono.»

«Non lo pretendo.»

«Sì, invece.» Diede un'aspirata alla sigaretta, aggiungendo: «Con queste premesse è inevitabile. Come credi che potremmo aiutarti senza prima una riappacificazione? Io al momento non me la sento».

Durante il discorso tenne gli occhi incollati da tutt'altra parte; si incupirono, brancolarono nel vuoto. Quasi si stesse imponendo di tenere fede a un copione che aveva continuato che ripassarsi a mente.

Warren si morse la guancia, rammaricato per la situazione. Ha ragione... Ha ragione a sentirsi così amareggiata. Amici per anni, e poi ecco che arrivo a troncare un rapporto quasi fraterno. Però, notai, che la sua era una delusione troppo autentica perché appartenesse a qualcuno che aveva goduto a illudermi. E se mia sorella avesse sbagliato sin dall'inizio? Se avesse avuto un abbaglio?

Trattenni un sospiro; aprii la cerniera della borsa e sfilai due bicchieri. Li posai sul tavolo, uno davanti a me e uno davanti a lei.

Fannie li fissò, indurendo lo sguardo. «Cosa stai facendo?»

«Mettimi alla prova.»

«Cosa?»

«Mettimi alla prova come quando mi avevi conosciuta.» Presi il bicchiere, ne lisciai il bordo di plastica, trascinata da un brivido di nostalgia. «Concedimi una possibilità. Se sbaglio, me ne andrò da qui e potremmo chiudere questa conversazione per sempre. Promesso.»

«Non è così che funziona.» Soffocò a stento una risata amara. «E poi, che cosa dimostreresti? Che rispolverando il passato io possa intenerirmi e sorvolare sopra alla merda che mi hai fatto passare?»

«Non è per quello.» Riposai il bicchiere a testa in giù e la guardai negli occhi, spinta da un lampo di determinazione. «Ti voglio dimostrare che in questi due anni non ho mai dimenticato. Non ho mai dimenticato te, tuo fratello, tutti gli altri e tutto quello che abbiamo passato insieme. Io...» Presi un respiro profondo, strinsi i pugni, ricacciai indietro le lacrime. «Sai che quando passo una giornata nera, mi capita di rivedere i nostri filmati solo per confortarmi? A volte mi pizzica l'idea di cantare quei pezzi, ma...»

Il silenzio inghiottì il seguito, ed io rimasi a fissare il nulla.

Warren, tentennando, esitò: «Non lo fai?»

«Non ci riesco, è diverso.» Mi morsi la guancia; stavolta fui io a reprimere una risata amara. «Non mi sono più azzardata dall'esibizione. E se ci provo, se solo penso di farlo, mi tornano in mente tutti quei commenti su mia madre» mormorai, stuzzicando il bicchiere con le unghie, di continuo. «Mi fa male non riuscirci più... e ancora di più realizzare, in quei momenti, quanto mi mancate.»

Fino al giorno prima, sebbene l'ansia mi avesse suggerito di avvalermi a una preparazione in funzione dell'incontro, avevo preferito di non prepararmi dei discorsi. Avevo deciso fosse meglio presentarmi impreparata, sperando che le parole arrivassero più genuine, più mie, non frutto di un copione mentale. Ed era sorprendente rendermi conto di come mi stesse riuscendo più naturale delle aspettative, come se il cuore non avesse aspettato altro; un modo per svuotarsi dell'accumulo di parole che aveva trattenuto.

«Non capisco» meditò Fannie, a bassa voce, la sigaretta ormai terminata. «Ti manchiamo, e te ne sei andata via da noi. Perché?»

«Non lo so più» confessai. «Sto cercando di capirlo.»

Evitai di accennare a Olivia. Ma a quel punto era meglio così; decisi di cancellare dalla testa ciò che mi aveva suggerito in passato e di ricominciare. L'avrei stabilito da sola se erano stati dei bugiardi.

Fannie continuò a essere confusa a riguardo; guardò di nuovo suo fratello, lui però non si mosse. Quindi si adagiò allo schienale del divanetto e, sospirando, diede un secco cenno al bicchiere col mento.

«Una possibilità.»

«Va bene.» Un po' in imbarazzo, estrapolai dalla borsa la benda rossa. «Allora, se non ti dispiace, mi piacerebbe se lo facessi con...»

Si allungò e mi sfilò la benda di mano.

Me ne stupii, tant'è che per qualche secondo rimasi a fissare le estremità della benda penzolare dal suo pugno minuto, a pochi centimetri dal viso. Lei, tuttavia, mi stupì ancor di più, orientandomi uno sguardo diverso dai precedenti; rasentava una forma di tristezza smussata, dolce. «Non sei più una bambina. Questa non ti serve.»

«Aspetta, non... Io non riesco più a cantare se non mi copro.»

Mi guardò per qualche istante, seria. «Puoi farlo anche senza.»

«Ma...»

«O così, o quella è la porta.» Consegnò la benda a suo fratello, il quale se la sistemò sui capelli, lasciando che oscillasse da entrambi i lati del capo come stelle filanti. «Voglio che mi guardi in faccia.»

E vedere quanto ci tieni, parve aver voluto omettere.

Mi sforzai di non replicare; non avrebbe giovato alla mia causa. Percependo le gote divampare, inghiottii un groppo d'ansia in gola e chiusi e aprii i palmi più d'una volta. Appena afferrai il mio bicchiere, ritenni l'impresa problematica: le mani sudate non mi consentivano una presa ben salda e l'agitazione non fu un'attenuante.

Le sfregai sui jeans, mi schiarii la gola, cercai di calmarmi.

"Quegli occhi dovresti tenerli alzati, ragazzina".

Lo so.

Esibii un rapido riscaldamento, per capire se fossi ancora capace di connettere i passaggi da effettuare sul bicchiere; dopo almeno tre tentativi in cui rischiò di sfuggirmi di mano, mi reputai pronta.

Contai mentalmente fino a tre, e poi iniziai.

Mani. Tavolo. Bicchiere. Mani.

«I got my ticket for the long way 'round
Two bottle o' whiskey for the way
And I sure would like some sweet company
And I'm leavin' tomorrow, why don't you stay?»

Mani. Tavolo. Bicchiere. Mani.

Gli occhi, inizialmente, slittarono sui suoi gomiti, poi sulle braccia, conserte sopra al tavolo. Procrastinarono un sacco. Scivolarono sui bottoni neri della camicetta, su per il bavero sbottonato, il collo. Mento, labbra, naso, occhi. Rischiai di sbagliare.

Desmond aveva detto che dentro agli occhi altrui potevano nascondersi ben altri pensieri, altre intenzioni, altre verità rispetto a quelle che si potevano immaginare. Fannie, tuttavia, a qualsiasi cosa stesse pensando, dimostrò un autocontrollo spaventoso, lasciandomi così sguazzare nei dubbi. Non scorsi niente, neanche impegnandomi, se non un celeste limpido che ne cingeva le iridi. Era come se si aspettasse che sbagliassi, quasi l'errore fosse proprio dietro l'angolo.

Ti guardo, Fannie.

Ti guardo, perché ci tengo.

Ti guardo anche se non vorrei farlo, perché mi sento affossare dalla vergogna, mi sento un'ipocrita, mi sento pessima, indosserei una benda solo per non farti leggere quanta vergogna trattengo, che i tuoi occhi, così graziosi e puliti, non meriterebbero di contaminarsi così. Eppure non capisco; perché non dai per niente l'aria di essere una bugiarda? Perché sembra che il tuo dolore sia autentico, uguale al mio? Perché ora, proprio ora mentre sto cantando il ritornello, mi stai guardando come si guarda qualcosa che ti era mancato vedere?

Mani. Tavolo. Bicchiere. Mani.

«You're gonna miss me by my walk
You're gonna miss me by my talk, oh
You're gonna miss me when I'm gone.»

Terminato il ritornello, feci per proseguire con la seconda parte della canzone. Però, accadde qualcosa che non mi sarei mai aspettata.

Fannie, senza togliermi gli occhi di dosso e senza calarsi quella maschera severa, afferrò il suo bicchiere e cominciò a fare la stessa cosa. Seguì il ritmo, io seguii lei, per un attimo mi parve uno scherzo.

«I got my ticket for the long way 'round
The one with the prettiest of views.»

La sua voce che, sicura di sé, prendeva il comando.

«It's got mountains, it's got rivers
It's got sights to give you shivers

La mia voce che, intimidita, la inseguiva a capo chino.

«But it sure would be prettier with you

Le nostre voci che, dopo tanto tempo, si riabbracciavano.

Un lampo squarciò la mente, dissolvendo l'ambiente; mi si ripropose la pellicola di quel lontano pomeriggio estivo. Io che, fiduciosa, ritornavo al cospetto dei fratelli Cox, e loro con delle facce meravigliate. Mi ero presentata davanti a loro con mia madre e una benda; lei gli aveva gentilmente spiegato che mi sarei sentita più a mio agio e non avrei fatto fatica a cantare con delle persone presenti.

A fine prova, erano rimasti a bocca aperta.

Non avevano mai visto l'esecuzione della Cup Song da bendati. Specie da una bambina di otto anni. Era stato uno dei motivi per cui mi avevano chiesto di insegnarglielo e di entrare nel loro club, che ormai era diventato inutile. Io valevo per mille, aveva detto Fannie.

Sbloccarmi, con loro, era stato tremendamente facile.

«When I'm gone

I suoi occhi lucidi.

«When I'm gone

La mia voce tremula.

«You're gonna– Basta.»

«You're gonna– Cosa?»

«Basta» mormorò, mettendo da parte il bicchiere, secca; si coprì gli occhi, posando i gomiti sul tavolo. «Basta... basta. Direi basta.»

Warren, rimasto in disparte tutto il tempo, la guardò, ma parve comprendere qualcosa che mi sfuggiva; poiché lo vidi assumere un sorriso triste. Lei, invece, trasse un paio di respiri dalle narici, e intanto la fronte di Fannie si arrossava, una vena emerse nel mezzo.

«Sai a cosa penso?» Aveva la voce impastata, le parole le spingeva fuori a fatica. Non si era ancora permessa di scostarsi le mani. «Che ci ho provato a odiarti in questi anni di separazione.»

Schiusi le labbra, lei si strofinò le palpebre.

«Non sei il tipo che rompe i legami perché gli va. Tu, poi, che da bambina non cercavi altro, che speravi così tanto riuscire a rivolgere la parola a qualcuno, come io speravo che qualcuno la rivolgesse a me senza che si lasciasse condizionare da una patetica etichetta... Ma se persino una come te è arrivata a farlo, immagino ci sia una spiegazione seria, e che mi auguro ci darai.» Tolse le mani con un gesto secco e rivelò degli occhi gonfi e umidi; stette rigida anche in quel frangente, anche se era evidente quanto si stesse trattenendo. «Detesto ammetterlo, ma credo che... sia un reato volerti così bene.»

I miei occhi si riempirono di lacrime, in un secondo.

Guardai il mio bicchiere. «Io non pensavo che...»

«Vieni qui.»

«Cosa?»

«Vieni qui, prima che cambi idea.»

Lanciai uno sguardo a suo fratello, il quale, evidentemente anche lui sull'orlo della commozione, rispose con un sorriso che gli scavò una fossetta. «Fossi in te l'asseconderei finché ne hai l'opportunità. Le manifestazioni d'affetto non le fa neanche con me, 'sta stronza.»

Fannie fu più svelta: neanche tempo di alzarmi, che mi ritrovai le sue braccia intorno al collo e il mio viso premere sul suo petto. La sentii tirare su col naso, mentre mi accarezzava la schiena. Lentamente, si unì anche la figura di Warren; aggiunse un ulteriore abbraccio, ci avvolse come un nastro farebbe con un pacco regalo, determinò una sorta di collante che volle riattaccarci a forza, sebbene alcuni pezzi stridettero, si rifiutarono di incollarsi, faticassero a incastrarsi per come avrebbero dovuto, risultando diversi rispetto all'ultima volta. Dopo tanto tempo, mi ero detta, era inevitabile.

«Questa non te la perdono, Ophelia» mormorò Fannie, con una punta di rabbia. «Ti starò a sentire, cercherò di comprendere le tue ragioni, ma non te la voglio perdonare così facilmente, hai capito?»

Annuii, lasciando che le lacrime scorressero. E il bicchiere, un oggetto qualunque ma che era stato in grado di unirci, assistette silenziosamente in disparte a quella riunione. 










ANGOLO AUTRICE


Buonasera, nightingales! 🕊️

Finalmente siamo arrivati a uno dei miei capitoli - mezzi filler ma essenziali - preferiti. Ero proprio ispirata. Nella seconda parte della storia era inevitabile volgere l'occhio di bue agli amici di Ophelia, al loro vissuto, al come si fossero conosciuti. Dopo le parole preziose di Desmond, la ragazza decide di provarci per davvero, seguendo alla lettera i suoi suggerimenti.

Come lei stessa ribadisce: è l'unica persona di cui si sente di potersi fidare, ora come ora. 💔

Quindi... vediamo se ascoltarlo darà i suoi frutti nella sua evoluzione.

Questions:

▪️ Warren & Fannie; altresì i gemelli Cox. Avete notato l'alterazione di caratteri di quando erano adolescenti rispetto ai giorni nostri? Ora sembra proprio Warren quello più sciallo e solare, mentre Fannie pare quella più "acida", col pugno di ferro, tra i due. Come avrete notato, anche loro avevano avuto un vissuto abbastanza "travagliato", tipico del periodo delle insicurezze; non volevo inventarmi chissà quale vissuto. D'altronde, basta ripensare a certi atti di bullismo che accadono ancora oggi. Btw, il loro è stato un incontro molto... bizzarro, ma per la piccola Ophelia è stato un incentivo a credere un po' più in se stessa, a provarci. Che cosa avete apprezzato del flashback? A naso, chi preferite tra i due (anche se ne avrete di tempo per conoscerli meglio)?

▪️ Fannie pare quella a cui - giustamente - il rospo non è ancora andato giù; che cosa avete pensato del loro confronto? Che idea vi siete fatti di lei? Io l'ho adorato 🖤


Spero l'abbiate apprezzato 🥺 il prossimo sarà MOLTO più breve, ergo ci dovrei impiegare molto meno. Anzi, perdonatemi se vi ho fatto attendere tanto. 🤧 Chi conosceremo?

A presto,
Lara


Playlist:

Young Blood - The Naked And Famous (prima parte)

https://youtu.be/XlxNMTggMFc

Between The Bars - Elliott Smith (seconda parte - fino quando non Fannie non le concede una possibilità)

https://youtu.be/8aomt1gQ6So

Cups - Anna Kendrik (seconda parte - da lì fino alla fine del brano)

https://youtu.be/pjcOzqxu4JQ

Instagram: The_blackcatshadow

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