21. Prospettive
Prospettive
Durante la notte, un sogno mi aveva preso per mano.
Ricordavo poco, un insieme sfocato di azioni e un caleidoscopio di sensazioni che si mischiavano e diventavano una cosa sola.
Eppure, ciò che ricordavo in maniera nitida sulla carne, quasi la natura di ciò che avevo provato in quella dimensione onirica non volesse ancora separarsi dalla pelle, era il cigolio sommesso di una porta che si spalancava al mondo. Non una porta qualunque, ma quella appartenente a una gabbia. Io mi trovavo al centro, era la mia dimora, le inferriate erano lunghi artigli cinerei, perfide promesse di reclusione e illusione, poiché tra l'una e l'altra riuscivano a far pregustare uno scorcio di libertà, senza che si potesse raggiungerla.
Tuttavia, non c'erano praterie, né cieli sgombri di nuvole, laghi, paesini che riposavano ai piedi dei monti. Niente che alludesse a un panorama fiabesco. A me era stata concesso un ingombrante fascio di luce che riempiva il mondo al di là della gabbia, come se il Sole, di punto in bianco, avesse deciso di ripudiare le leggi della fisica per avvicinarsi e cullare la mia prigionia. Ricordavo la pelle d'oca sulle gambe, il cuore che picchiava allo sterno, il sollievo che mi aveva mozzato il respiro dopo tanto tempo di avvalermi soltanto a delle prospettive buie.
La porta si era aperta e io avevo allungato un piede fuori, lasciandomi accogliere dalle braccia della luce, la mia libertà, come una madre che non rivede la figlia dopo tempo immemore.
Lì, il sogno mi aveva abbandonata alla realtà.
E nella realtà, la dormita era avvenuta a intervalli; durante le prime ore del mattino, il sonno era stato compromesso dal picchiettare implacabile della pioggia e dal rumore attutito di una porta che si chiudeva. Poi era subentrata una voce sgraziata, un'intimazione ad abbassare il tono, e i brusii si erano spostati altrove. Dopo lo scorrere di un'ulteriore porta, non avevo udito altro.
Ora, completamente sveglia, provai a ricordare altro, ma all'ennesima rimuginazione mi arresi ad affondare la faccia nel cuscino, soffocandoci un lungo sbadiglio; solo allora le narici inalarono un odore diverso, non mio, non appartenente al mio letto, o alla mia stanza. All'inizio non capii perché la federa trattenesse un pungente aroma di dopobarba. Poi, quando il cervello iniziò a riscuotersi dal torpore e mi costrinse a fissare un lampadario mai visto prima, riuscii a mettere insieme i tasselli della sera precedente.
Desmond aveva accolto la mia fuga. In casa sua.
Frastornata, mi sistemai seduta, premendo le mani su un materasso rigido. Sbattei più volte le palpebre per la confusione.
Non ero sul divano?
Stropicciandomi gli occhi, misi a fuoco l'ambiente circostante: dal salotto ero stata trasferita in una comune camera, con il letto a una piazza e mezzo all'angolo del muro e un'ampia scrivania dinanzi. Una scrivania particolare, in realtà, modellata nel vetro e dalla superficie inclinata verso il basso, che immaginai agevolasse Desmond con le imprese da artista. Là sopra regnava un macello di bozze, fogli di ogni sorta e una tazza nera che faceva da portamatita.
Deve avermi "trasportata" lui.
«Grande» sussurrai, massaggiandomi le tempie.
Sopraffatta dall'imbarazzo, mi costrinsi ad alzare lo sguardo. Sotto alla finestra una cassettiera occupava gran parte della parete ocra. Riconobbi un caricabatteria attorcigliato su se stesso, tre cornici e un cellulare. Il mio cellulare. Sebbene la testa pulsasse ancora, piombai giù dal letto, mi allacciai le scarpe da ginnastica e mi fiondai a recuperarlo. Una chiamata persa di papà, e poco sotto tre di mia sorella affiancavano un orario che mi fece sobbalzare. Le undici.
«Porca miseria. Dannazione. Cazzo.»
Di solito tornavo a casa appena i bambini a cui badavo facevano colazione. E non avevo mai sforato le dieci del mattino. Posai una mano sulla fronte. Fortuna che avevo avvisato i miei la sera prima.
Ma Olivia... perché mi ha cercata? Mi si mozzò il fiato. E se avesse scoperto dove sono? E se le fosse suonato strano questo mio improvviso cambio di programma? Forse è venuta a controllare di persona che la mia macchina fosse davvero parcheggiata dagli Holmberg. Almeno era davvero così, visto che ero arrivata qui grazie a quella di Desmond. Oppure potrebbe aver...
«Basta così, Ophelia. Olivia non lo farebbe mai, stai delirando» mormorai, premendo lo schermo al petto. «Forse si è solo preoccupata per questa assenza prolungata, sarebbe più sensato.»
Selezionai la rubrica, slittai nella sezione dei preferiti e feci per chiamare papà, ma ci ripensai. Ero troppo agitata per apparire tranquilla, si sarebbe insospettito. Preferii mandare un messaggio sul gruppo di famiglia, specificando che Gregg era tornato più tardi del solito e, come ringraziamento extra, aveva insistito perché mi fermassi a fare colazione. Meditai. Decisi di aggiungere che già che ero lì mi ero offerta di aiutare i ragazzi con dei compiti in arretrato.
Giusto per essere abbastanza credibile.
Infilai il telefono in tasca e, avvertendo un'ondata di brividi raffreddarmi le braccia, mi sistemai sulle spalle la coperta che Desmond mi aveva offerto quando mi ero raggomitolata sul divano. Mi resi conto che l'aveva usata come copertura aggiuntiva, insieme alla trapunta.
Avvicinandomi al comodino, oltre a una sveglia digitale e un manuale illustrativo di anatomia dinamica, c'era un bicchiere di carta. Accanto, la confezione di aspirine e una bottiglietta d'acqua. Sull'etichetta, un post-it. "Se hai bisogno, svegliami".
Un calore insolito circondò le orecchie.
Ma non ebbi nemmeno il tempo di pensare a dei ringraziamenti, che al di là della stanza sopraggiunsero dei rumori. A un primo acchito parve lo stridio di una sedia che strisciava sul pavimento, dopodiché arrivò una risata maschile. Due. Desmond non era solo.
Lasciai perdere il post-it e, stringendomi nella coperta, uscii dalla camera da letto. Attenta a non far rumore, attraversai l'ingresso per poi sbucare nell'ampio soggiorno. Sul divano, una coperta simile alla mia era spiegazzata accanto al bracciolo. Segno che lui era rimasto a dormire lì.
Non è giusto. Per correttezza avrei dovuto esserci io.
Trattenni un sospiro rammaricato appena raggiunsi l'origine dei brusii: una porta scorrevole che immaginavo conducesse in cucina. Era stata dimenticata socchiusa, e un sottile spiraglio permetteva a chiunque di poter spiare e di lasciar fluire una pungente scia di fumo. Probabilmente con chiunque fosse stava fumando.
Con una spalla al muro, allungai il collo.
Riuscii a scorgere uno spicchio di tavolo; al di sopra regnava un portatile aperto, a sinistra quello che aveva l'aria di essere un blocco note aperto e a destra una tazza da caffè di plastica, di quelle che ti danno da portare via. Riconobbi il marchio arancio e fucsia di Dunkin' Donuts.
Tuttavia, fu altro ad attirare la mia attenzione: davanti allo schermo della Apple spuntava la capigliatura scombinata di Desmond, provata dalla dormita, poi la fronte aggrottata che lasciava presagire un'espressione alquanto concentrata, e un paio di occhiali dalla forma rettangolare, la montatura sottile, dai contorni trasparenti. Mi sorprese. Non mi aspettavo li portasse. Ma forse, visto l'impiego, aveva necessità di usarli solo quando doveva lavorare al computer.
Gli rendevano lo sguardo più severo, tipico di un professore.
«Quindi?»
Identificai l'altra voce: apparteneva a Ian.
«Quindi cosa?»
«Stanotte con chi hai fatto le ore piccole?»
Senza staccare gli occhi dallo schermo, Desmond mosse il mouse che impugnava con la mano sinistra. Lo fece rapidamente. Altrettanto rapidamente, ci cliccò sopra diverse volte. «Argomenta.»
«Beh, amico mio.» Spuntarono un paio di scarpe, le caviglie accavallate. «Quei capelli mi suggeriscono che hai passato una nottata niente male. Appena ti ho visto mi son detto: "Oh, finalmente si sta impegnando a dimenticarsi di quel palo in culo di Latisha".»
«In effetti quel divano non mi ha lasciato un attimo di tregua.» Sempre impegnato con qualsiasi cosa stesse facendo, con una mano schioccò le dita e indicò verso il basso. «E giù i piedi dal tavolo.»
L'amico lo ignorò, e rise. «Sul divano? Io lo trovo scomodo.»
«Non hai capito: la "bella" nottata di cui parli me l'ha fatta passare il divano.»
«Ah.» Parve deluso. «E che ci dormi a fare, scusa?»
«Ho ospitato una persona» tagliò corto. «Ma piuttosto che intervistare me, parliamo un attimo di te» borbottò, posizionando due dita davanti alle labbra. Stava analizzando accuratamente ciò che aveva davanti. «Ti stai trattenendo un po' troppo, e la scusa della colazione non era credibile. Però grazie lo stesso per il pensiero: caffè e zuccheri gratis fanno sempre comodo.»
Ian buttò giù i piedi. Al loro posto spuntarono i gomiti, le mani che sorreggevano la faccia. «Avevo bisogno di supporto morale.»
«Cioè?»
«Eh, come te lo spiego.»
Desmond non rispose, ma mosse soltanto gli occhi, che saettarono nella sua direzione. Bastò perché gli facesse intendere di continuare.
«Ieri sera mi ha scritto una con cui ero stato un mesetto fa, all'incirca.» Si scostò il viso dai palmi e diede una tirata alla sigaretta, che fece scrollare in un piccolo posacenere di vetro. C'erano già depositati altri mozziconi. «Niente, ha un ritardo di due settimane e l'unico che si era scopata in quel periodo sono io. Stamattina andava a farsi il test. Nel frattempo me l'ha voluto far sapere.» Incastrò la sigaretta in bocca e mostrò il cellulare, accendendolo e spegnendolo in un secondo. «Ancora nulla. Inizio a pensare che sia incinta e che ora stia metabolizzando la notizia...»
Qualche instante, e gli occhi di Desmond tornarono a fissare lo schermo. Liberò il mouse dalla presa e rimosse dalle labbra una sigaretta giunta al suo epilogo, e che lo schermo non mi aveva permesso di notare prima. La schiacciò nel posacenere a lato, sbuffando rivoli di fumo dalle narici. «Tu sei stato attento?»
«Ecco... la situazione è abbastanza compromettente.» Se possibile, parve voler fondere la faccia col marmo del tavolo. «La tipa mi aveva rassicurato di prendere la pillola, così io non ho...»
«E bravo coglione, bravissimo.»
«Non sgridarmi, ti prego, che sto per mettermi a piangere.»
«Ah, ti devo pure fare le congratulazioni?» Ian fece per rispondere, ma Desmond glielo impedì assestandogli un coppino secco che lo obbligò a stare con la fronte sul tavolo. «Che ne sai se stava dicendo la verità? La conosci abbastanza da permetterti di assecondarla? Cristo, ma te lo devo dire io che per una botta e via è sempre meglio infilarselo?»
«Lo so!» sbottò.
«Non sai un cazzo, invece!»
«Pensavo solo a farmela! Ero stupido!»
«Tu sei stupido! Vabbè, basta, affari tuoi.»
Per quanto drammatica fosse la situazione, mi dovetti parare la mano davanti alla bocca per affievolire la risata. Mi dissi che avrei aspettato nel mio nascondiglio un altro po', curiosa dell'esito, e poi sarei uscita allo scoperto. Dovrei proprio smetterla di procrastinare.
«Dio» piagnucolò Ian, le dita nei capelli. «Non voglio bambini.»
«Buffo. Ho un déjà-vu.»
«Giusto, scusa.»
Desmond tornò a lavorare al computer, ma dalla rughetta nata tra le sopracciglia sembrò abbastanza irritato. «Tranquillo, mi stai solo facendo rendere conto che farsi una famiglia non è l'ambizione di tutti.»
«Di sicuro non me ne creo una con quella che...»
«Parlavo in generale, non di te.» Sospirò, massaggiandosi le palpebre dietro agli occhiali. «Faccio l'errore di dare per scontato che prima o poi chiunque voglia fare quel passo, e ho commesso lo stesso errore con Latisha. Non le ho mai detto niente, ma ha ragione: non ha tutti i torti a essersi involontariamente sentita sotto pressione.»
«Beh, se posso dire la mia...» Ian giocherellò con un mozzicone, pigiandolo di volta in volta. «Tu non fai testo, c'hai proprio le fottute crisi di paternità dal college. Ricordo quando avevi conosciuto la famiglia di mia sorella... Sua figlia aveva pochi mesi e tu continuavi a farle quei giochini del cazzo. Riuscivi a farla smettere di piangere in così poco tempo che Natalie e suo marito volevano assumerti come balia a tempo indeterminato.» Desmond accennò un mezzo sorriso mentre ticchettava sulla tastiera. «Questo per dirti che sei raro, e a poli opposti anche Latisha. Ma fidati, non è difficile incontrare una con la tua stessa ambizione.»
Desmond non rispose.
Sebbene l'attenzione l'avesse puntata sul computer, appresi lo stesso l'espressione assumere un'ombra di malcontento. «Vedremo.»
Il silenziò venne colmato dallo scrosciare della pioggia, simile al picchiettare che, frenetico, provocava Desmond sulla tastiera. La finestra alle sue spalle piangeva, era diventata un mosaico di gocce che percorreva gare sul vetro. Mordendomi il labbro, mi decisi a voler scorrere la porta. Ma stetti con le dita a mezz'aria quando Ian, dopo aver controllato il telefono per l'ennesima volta, riprese parola. «Allora, chi è la tipa a cui hai gentilmente offerto vitto e alloggio?»
«Chi ti dice che è una lei?»
«Non ti ci vedo a fare il gentiluomo con un lui. Scusa.»
Posò la mano su una spalla e la roteò lento, chiudendo gli occhi. «La conosci anche tu. La ragazza che sta badando ai miei nipoti.»
«Quell'Ophelia?»
«Già.»
Seguirono altri istanti di silenzio. Troppi istanti di silenzio.
Finito di far scrocchiare le ossa, Desmond lo scrutò. «Cosa?»
«Niente, niente.»
«Ian, cosa?»
«Pensavo.» Dal tono pareva sarcastico. «È una ragazza molto carina. Vista dall'esterno è una situazione abbastanza, sai, equivoca.»
Tornò a smanettare. «Fingo di non aver colto l'allusione.»
«Ah, non la trovi carina?»
«Ma che domande fai?»
«Rispondi e basta.»
«Certo che lo è, e allora?»
Se prima avevo avvertito le orecchie avvampare, ora il calore si era diffuso anche sul collo. Nell'ultimo periodo mi rifiutavo di specchiarmi, ero consapevole di starmi trascurando e che non ero un bel vedere. Quindi mi lasciava perplessa che mi trovassero carina.
«E allora c'è l'equazione perfetta per creare qualcosa di vagamente ambiguo: tolta Latisha dalle scatole, ti metti a fare la crocerossina con questa ragazza. Non mi sorprende che alla prima richiesta d'aiuto tu le abbia aperto le porte.» Tornò coi piedi accavallati sul tavolo. «Della camera da letto, poi. La cosa è seria.»
Desmond lo guardò impassibile, ostentando l'aria di chi è abituato ad assecondare i voli pindarici del proprio amico. Poi scosse la testa e tornò allo schermo, dando dei secchi colpi di tosse. «Ti pregherei di non parlare di lei come se fosse una che ha costantemente bisogno di aiuto» pronunciò con una severità tale da indurre l'altro a tornare composto. «È una ragazza indipendente, intelligente e, anche se spesso non lo dà a vedere, ha più palle di noi due messi insieme.»
Ian parve colpito. «Spiegati.»
«È lei che si è presa cura di quei bambini anche quando non era vincolata da un accordo scritto. È lei che è rimasta con loro la sera che hanno ricoverato Gregg, ed è lei che ha salvato Cindy da un annegamento certo. L'ha rianimata, Ian, salvata. Credo che se non fosse stata presente quel giorno...» Smorzò il discorso con un sospiro. «Sta passando un pessimo periodo a casa. Ospitarla è stato il minimo. E se me lo richiedesse, lo rifarei. Le sono debitore a vita.»
Sono io a esserti debitrice, Desmond.
Quelle parole fecero sorgere in me un sorriso di gratitudine. Fu abbastanza perché mi spingesse a bussare un paio di volte e, ricevuto il consenso di poter entrare, a far scorrere la porta.
Dall'impaccio, mi strinsi ancor più nella coperta. «Ciao, Ian.»
Lui, coi gomiti sul tavolo, si stava sfregando le mani davanti al naso e, vedendomi, mi indirizzò sia un cenno di saluto che un sorriso radioso. «Spero che la mia intrusione non ti abbia svegliata.»
«Per niente. È passata inosservata.» Incrociai le braccia, reprimendo i brividi del freddo, e spostai l'attenzione su Desmond. Incurvai debolmente le labbra all'insù, lo stesso fece lui. «Ehi.»
«Ehi.» Osservò la coperta. «Come ti senti?»
«Potrebbe andare meglio.» Feci segno dietro di me col pollice. «Volevo solo avvisarti che stavo per togliere il disturbo.»
«No, no. Il disturbo lo stava per togliere lui. Tu rimani pure.»
L'altro giunse le mani. «E dai, altri cinque minuti... quella manco mi ha scritto.» Gli indicò il pc. «E poi si può sapere che stai facendo? È da quando sono qui che ascolti le mie lamentele con un orecchio.»
«Lavoro, a differenza tua. Mi porto avanti con una copertina.»
Desmond si rilassò sullo schienale e fissò insoddisfatto lo schermo, assottigliando le palpebre. Non mi abituerò mai a vederlo con quegli occhiali. Incrociando le braccia al petto, le maniche risvoltate agli avambracci, si strofinò la mandibola.
Poi, con un movimento secco, girò il computer verso Ian, cercando di non far scontrare il filo che lo attaccava alla presa con il bicchiere. «Se vuoi rimanere qui, allora sii utile e dammi un parere.»
Ian studiò la grafica per qualche minuto e assunse una smorfia, gli angoli della bocca all'ingiù. «Mh, boh. Bello?» Desmond si accigliò. «Scusa, amico. Io frequento solo la fumetteria sulla Main Street e guardo esclusivamente manga, salvo quando l'altro giorno cercavo una guida sulla gastronomia thailandese. Il resto manco lo calcolo.»
«Ricordami perché siamo amici. Ho un vuoto.»
«Perché rendo la tua vita più interessante.»
«Irritante, al massimo» lo corresse Desmond, poi alzò lo sguardo su di me. «Ophelia, vieni. Dammi delle soddisfazioni, almeno tu.»
Sinceramente intrigata, lo raggiunsi in due rapide falcate. Accanto a lui mi chinai in avanti e mi trovai alla medesima altezza dello schermo; Photoshop riempiva la schermata del desktop e quella che avevo di fronte era la struttura della copertina in questione, in cui erano inclusi il retro e il dorso. Fitti rami di spine strisciavano un po' ovunque in uno sfondo buio, sbucando e dileguandosi nei bordi. Davano l'impressione di essere code di serpi. Si aprivano sentieri in direzioni in cui si torcevano sinuosamente su se stessi e tra le parole del titolo, "The Son of Thorns", che spiccava al centro, il quale giocava il ruolo del protagonista nell'intero lavoro grafico. Dalle spine che lambivano le lettere colavano rigagnoli di sangue, sottili capillari scarlatti che davano l'idea di sgocciolare nel vuoto.
Immaginai si trattasse di un dark fantasy.
Non mi sorprese che avesse talento pure senza l'ausilio di matite e pezzi di carta. Che fosse arte tradizionale o digitale, non faceva eccezioni: sapeva gestire entrambe.
Con quel pensiero, strinsi gli occhi e mi aggrappai alla sua spalla per chinarmi un altro po'. Non possedevo chissà quale spirito critico, ma cercai di essere onesta, puntando l'indice in un'area in alto e facendogli presente che forse c'era un sovraccarico di spine. Ci rifletté, mugugnò qualcosa, mi afferrò il dito e lo spostò in basso, domandandomi se fossi della stessa idea pure in quel punto.
Continuammo così, ricordandomi solo dopo della presenza di Ian.
Infatti, nel bel mezzo del confronto, mi capitò di osservarlo con la coda dell'occhio. Grattandosi la mascella pronunciata, pareva non essersi perso nulla a giudicare dall'espressione interessata. O per meglio dire: incuriosita e leggermente... divertita. Capii che non era dovuto ai nostri discorsi; teneva gli occhi incollati sulla mia mano, quella che stava stringendo la spalla di Desmond, dopodiché, svelto, passava al dito preda della sua stretta delicata e con cui ora, mentre criticava i colori troppo spenti, mi obbligava a puntare la cornice.
Ci controllò diverse volte, spudorato.
Poi nascose un sorriso dietro al bordo della tazza, bevendo il caffè. Inspiegabilmente, fu un monito per scostarmi da quei contatti.
Desmond modificò alcuni dettagli, borbottando: «Continua a non convincermi. Troppo anonima, troppo simile a tante altre copertine che girano nel mercato editoriale. Ma è pure vero che non decido io».
«Io la trovo carina. Il suo impatto ce l'ha.»
«Tu sei troppo gentile.»
«E tu troppo severo.»
«E io sono lo stronzo più fortunato del mondo» gridò Ian, facendoci sobbalzare. Era saltato in piedi, il cellulare davanti al viso. Inserendolo nella tasca dei jeans si baciò due dita unite e, commosso, le orientò al soffitto. «Grazie.»
Desmond nemmeno lo calcolò; continuò a lavorare.
«Fammi indovinare: te la sei scampata.»
«Oh sì, puoi dirlo.» Di slancio, mi offrì un abbraccio stritolante. «Vi voglio bene.» E andò a posare tanti baci sul capo di Desmond, il quale stette fermo e impassibile. «Vi voglio bene, cazzo, vi amo.»
Scoppiai a ridere, Desmond si alzò. «Bene, auguri, ora vai?»
«Subito, addio.» Si fermò sulla soglia, guardandomi. «Ah, glielo dici tu che quegli occhiali lo invecchiano? A me non crederebbe.»
Desmond lo spintonò oltre. «Fuori.»
«Diglielo, Ophelia!»
«Fuori, ho detto.»
Li seguii mentre battibeccavano.
Alla porta d'ingresso Ian stava per andarsene, ma all'ultimo minuto si girò e impedì all'altro di chiudere. «Aspetta, ti devo dire una cosa.» Gli si avvicinò all'orecchio e gli sussurrò: «Maniaco».
Desmond gli sbatté la porta in faccia, e quando tornò da me apriva e chiudeva le mani a pugno, l'espressione che suggeriva fosse al limite della pazienza. «Ignoralo. Ha avuto un'infanzia difficile.»
«Davvero?»
«No. Da amico, cerco di giustificare la testa di cazzo che è.»
Mi sedetti al posto che aveva occupato Ian e, placando la ridarella, mi coprii il collo. «A me sta simpatico. Sembra un orsacchiotto.»
«Tutta apparenza.» Aprì il frigo e agguantò un piatto avvolto dalla pellicola. «Che ne dici, te la senti di mettere qualcosa sotto i denti?»
Un tenue brontolio allo stomaco rispose al posto mio. L'ultima volta che avevo mangiato era stato a pranzo del giorno prima. Poi era diventato tutto troppo stretto e amaro e opprimente anche per riuscire a ingerire qualcosa. Ora, però, sentivo di essermi sbloccata un po'.
«Data l'ora posso pure aspettare di pranzare a casa e...»
«Certo, così svieni per strada. Ma tanto io lo so come convincerti.» Mi piazzò davanti il piatto, rimosse la pellicola e mi porse una forchetta, ammiccando. «Non fare complimenti, ok?»
«Ma...»
«Quella fetta di cheesecake alle fragole mi era avanzata da ieri, mi sembrava un peccato buttarla» spiegò, intanto che gettava le tazze nel cestino. Con un sorriso, aggiunse: «Ammetto di averti pensata».
Alle fragole...
Fissai la salsa rossastra che strabordava sul piatto di ceramica, creando lingue purpuree sul composto di biscotti. Subito mi tornò in mente mia madre che cantava al pianoforte in salone e io, piccola e ingenua, che mi ero nascosta dietro alle tende per ascoltarla. Era tutto nato da lì, un bel ricordo ornato dalla mia prima parola e dalla promessa che mi sarei guadagnata una fetta del mio dolce preferito se fossi uscita dal nascondiglio. Mi sembra una vita fa, e le cose tra di noi sono così cambiate, mamma... Perché hai finto di credere in me?
Mi diedi della sciocca appena avvertii le lacrime agli occhi.
«No, ehi.» Desmond mi collocò davanti un foglio. Più di uno. Dalle vignette capii che erano le bozze satiriche realizzate la sera prima con il tablet. «Ricordati di questi e di quello che ti ho detto.»
Come se avesse pigiato su un interruttore, le lacrime tornarono indietro. Mi schiarii la gola, sforzandomi di tenere un tono allegro. «Li hai... stampati?»
«E perfezionati. Sono un regalo.»
«Cosa? Sei sicuro?»
«Certo.»
Me li consegnò con un debole sorriso e io sfogliai, la tristezza scavalcata dall'emozione, mentre imboccavo delle corpose forchettate di dolce e andavo pulendomi gli angoli della bocca con il pollice. Mi resi conto che Desmond aveva donato un'identità allo sfondo, colorandolo con dei colori pastello e affidandogli una conformazione simile al salotto. Oltretutto, aveva arricchito l'insieme di dettagli creativi: sedie e divani ribaltati, un tappeto che spalancava le fauci e dalle cui frange uscivano fontane di lacrime, come a me, il cordless a cui erano spuntate delle gambette sottili e che scappava con i documenti di Desmond sottobraccio per metterli in salvo.
Mi spuntò un sorriso per quanto fosse esilarante.
Desmond, intanto, si era seduto con una gamba sul tavolo, piazzandomisi di fronte, e si stava lucidando gli occhiali con l'orlo della maglia grigia. Era così insolito vederlo senza l'usuale camicia.
«Gli dai ragione?»
«Mh?» Interruppi la masticazione.
«L'hai sentito Ian.» Li sollevò in alto, in modo che la luce del lampadario si scontrasse con le lenti. «Dice che mi invecchiano.»
«Solo un po'.»
«Prego?»
«Scherzo.»
Posò gli occhiali e mi fissò inarcando un sopracciglio. «La prossima volta eviterò le fragole. Hanno un pessimo effetto su di te.»
Risi, torturando alcune briciole con i denti della forchetta «Però è vero: ti danno un'aria molto più adulta. Confesso di preferirti senza.»
Per qualche istante gli unici rumori furono quelli dell'utensile che stavo facendo stridere sul piatto e delle lancette di un orologio affisso accanto a un calendario. Sapendo di essere osservata da lui, dall'alto, alzai lo sguardo. Esitai appena dovetti fronteggiarmi col suo, specie perché ci lessi una sottile apprensione adombrargli ancor più gli occhi scuri. Deglutii, esaminai di nuovo il piatto, le briciole, la forchetta, le dita che fremevano di fare qualcosa.
Stabilii di fare la cosa più sensata: alzarmi.
«Devo proprio andare. Scusa se mi sono trattenuta.»
Sistemai la sedia al suo posto, collocai il piatto nel lavabo. Ma a nulla servì affrettarmi a uscire, perché Desmond mi richiamò con un pacato ma deciso: «Aspetta, prima vieni un secondo qui».
Vidi che era in piedi e si era aggrappato allo schienale della sedia, da dietro. Gli indicai il salone. «Possiamo parlare un altro...?»
«No, adesso.»
«I miei genitori si staranno chiedendo che fine abbia fatto.»
«Se fanno storie, ci parlerò io. Ora ho bisogno che tu ti sieda.»
Titubante, mi rassegnai a eseguire. Lui, invece, afferrò agilmente la sua sedia, me la posizionò davanti, a distanza di qualche metro, la girò e ci si accomodò al contrario, con le braccia incrociate sullo schienale e le gambe ai lati, come se si trovasse in sella a un cavallo.
Non capii cosa avesse in mente di fare.
Senza un chiarimento, posò il mento sulle braccia e mi guardò. Stette serio, tranquillo, ma profondamente insistente. Interrogativa, compii la stessa cosa, attendendo che aprisse bocca. Non accadde mai; mi guardò e basta. Ma il dettaglio più sconcertante fu quella bizzarra perseveranza, quella sottile sfida, poiché non spostò l'attenzione dai miei occhi. Come se stesse attendendo qualcosa. Una reazione, una rivelazione, una spiegazione. Tuttavia, dopo una manciata di secondi trascorsa a studiarci, percepii il solito, familiare disagio cominciare a formicolarmi lungo la spina dorsale, le braccia.
Distolsi lo sguardo sulle gambe della sedia.
«Immaginavo.»
Sollevai il viso. «Come?»
«Dimmi una cosa, Ophelia.» Alzò il mento, senza sciogliere l'abbraccio allo schienale. «Da quando ci conosciamo, quand'è stata l'ultima volta che mi hai guardato in faccia per più di tre secondi?»
Schiusi le labbra. Allora se n'era accorto.
«Non lo faccio di proposito, mi dispiace. È che...» Sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio accaldato. «Penso sia partito da quella brutta esperienza che ho avuto sul palco.»
«Paura di essere giudicata?»
«Paura che negli occhi altrui ci sia la conferma di quanto mi senta un fallimento» mormorai, attorcigliandomi le dita. «Tu non c'entri.»
«Quindi scappi.»
«Scappo.»
«Per paura.»
«Per paura.»
«Posso dirti una cosa?»
Alzai lo sguardo, di nuovo. Aveva su di sé un tenue sorriso.
«Gli occhi della gente non sempre confermano ciò che credi. Ho imparato a mie spese che a volte sanno sorprenderti, darti altre conferme.» Inclinò la testa. «Quello che ti avevo detto la prima volta che ci siamo incontrati, al Down Nightclub intendo, non era un aforisma qualunque. Quegli occhi dovresti tenerli alzati, ragazzina, ma per davvero, soprattutto in questo pessimo periodo che ti costringe a scappare.»
«Ci ho provato.» Repressi il tremolio della voce. «Ogni cosa che faccio, penso o sperimento viene bloccata, senza che possa avere l'opportunità di tastare il terreno» mormorai. «Allora forse è tutto inutile, forse la mia vita deve rimanere questo: una gabbia chiusa.»
Silenziosamente, lo sguardo gli cadde sulla mia spalla.
«Non è detto.» Torno su. «Magari è sempre stata aperta, ma non hai ancora capito come e perché tu non riesca a trovarne l'uscita.»
«Ho già controllato.»
«Ovunque?»
«E a fondo.»
«Continua a farlo.»
Lo guardai a lungo, esitando un: «Anche se non cambia nulla?»
Incurvò le labbra all'insù, sfiorandosi la spalla. «Non crederò in Dio, non crederò in tante cose a mio parere sopravvalutate, ma se c'è qualcosa in cui credo fermamente è proprio questo: il cambiamento. Se cambi prospettiva è impossibile che la realtà rimanga inalterata.»
Che abbia ragione?
Se da una parte la trovavo un'idea inutile, che tanto sarebbe stato un esperimento – l'ennesimo – andato a vuoto, dall'altra era un'idea che mi incuriosiva e al contempo mi spaventava; e se avessi appreso altre sfumature nei miei genitori? Magari anche peggiori? O di mia sorella? Di me stessa? Della mia vita da quando ne avevo ricordo?
«Non saprei neanche da che cosa cominciare...»
«Beh, se permetti io un punto di partenza ce l'avrei.» Sollevò il mento e piegò il gomito, per reggere la guancia con la mano. «Non ho potuto fare a meno di notare quanto spesso nomini tua sorella. Ma non è quello a lasciarmi perplesso, piuttosto il come tu la tenga al corrente su ciò che combini fuori di casa. E soprattutto, come tu la giustifichi anche quando compie qualcosa di moralmente sbagliato.»
Volli rispondere, specificare che non era così. Tuttavia, la lingua si appiccicò al palato, e io non riuscii ad aprire bocca.
Desmond, notando il mio silenzio, continuò.
«Provi a cantare, e ti fa notare che non va bene.» Sollevò il pollice. «Provi a chiederle un parere, se è il caso di confrontarti coi tuoi per avere delle idee più chiare, ma non va bene neanche questo.» Sollevò l'indice. «Le fai un torto e ti lascia il segno.» Toccò al medio. «Hai capito che andarle contro non porta a nulla di buono e le hai nascosto di essere venuta al Jolly Roger, perché chissà che cosa avrebbe mai potuto pensare se avesse scoperto che nella compagnia c'ero pure io.» Sollevò l'anulare. «Ultima cosa: i cari amici di cui mi hai parlato, quelli da cui è partita la tua passione, che fine hanno fatto?»
«Abbiamo rotto i ponti.»
«Perché?»
«L'ho voluto io, mi hanno... mentito.»
«E ne sei sicura o è una certezza nata da un suggerimento esterno?»
«Me l'ha fatto capire mia...» Mi fermai, il cuore a mille, e non ne capii il motivo. «Non importa chi, però ho visto da sola che è vero.»
Quella giustificazione non gli impedì di alzare pure il mignolo.
Mi mostrò le dita, quei cinque punti di partenza, e le mosse. «Non sarò io a dirti di cambiare prospettiva, devi esserne sicura tu. E quando credi di ritenerlo opportuno: buttati e tenta. In caso, rispetto all'esperimento andato male, provaci in maniera diversa.»
Corrugai le sopracciglia. «In che modo?»
«Senza aggiornare tua sorella. Vediamo se il risultato cambia.» Diede un colpetto allo schienale e si alzò. «Detto ciò: sei libera.»
Mise in stand-by il portatile con un paio di colpi col mouse e mi accompagnò in salone.
Con la testa a rimuginare sulle sue ultime parole, afferrai gli sketch, inserendoli in borsa, e infilai il giubbotto che mi tese. Arrivata alla porta d'ingresso, tuttavia, Desmond si sporse oltre la soglia, notando che stava piovendo. «Aspetta, magari ti riaccompagno alla tua macchina con...»
«No, per favore» lo implorai di getto, le mani avanti. «Hai già fatto troppo. Non ti voglio far scomodare... e poi sono due gocce.»
«Come preferisci, però vedo che non sei ancora in forma.»
«Ma no, rispetto a ieri sto molto meglio. E poi ho l'ombrellino tascabile.» Ne tirai fuori uno giallo. «Visto? Sono attrezzata.»
«D'accordo.» Tese le labbra, ma alla fine sorrise. «Allora fammi sapere, qualsiasi sia la decisione che prenderai. Sono curioso.»
Annuii, anche se tutto quel discorso mi aveva lasciata disorientata.
Dopo aver passato una manciata di secondi a fissargli il maglione, gli diedi le spalle senza aggiungere altro e aprii l'ombrello. Quella cupola canarino parve uno spicchio di sole in mezzo all'essenza pesante del maltempo. Scesi i gradini, facendo attenzione a non scivolare con le suole lisce, e procedetti per la stradina che sboccava sul marciapiede.
Dopo pochi passi, però, mi sentii chiamare con un: «Ragazzina».
Mi dovetti voltare.
Tra le lacrime di pioggia che scivolavano e cascavano dal bordo dell'ombrello, intravidi la figura imponente di Desmond addossata allo stipite e l'espressione che pareva lievemente preoccupata, ma anche... esitante. «Da me le porte sono sempre aperte, se ne avrai ancora bisogno.»
Strinsi il manico dell'ombrello, spiazzata dalla sua disponibilità; fu uno dei motivi per cui percepii una forma di disagio molto simile a quella che mi formicolava sottopelle ogni volta che la gente mi guardava.
Gli indirizzai un debole sorriso.
«Grazie.»
Dopo aver preso un taxi al volo ed essermi fatta scarrozzare fino alla residenza degli Holmberg, ero filata a recuperare la mia macchina. Non con l'umore più gioioso. Umore che mi ero trascinata dietro durante il tragitto fino a casa. Giunta a Chestnut Hill mi ero ritrovata in mezzo a un concerto di sensazioni discordanti tra di loro.
Guardavo casa mia fuori dal finestrino, con l'ansia ad attanagliarmi il respiro, dopodiché passavo ai simboli nel quadro spento, ai disegni di Desmond e che avevo sfilato dalla borsa come supporto, infine sul cellulare che, in mano, pareva essersi tramutato in un ordigno pronto a esplodere.
Anche se probabilmente l'avrebbe anticipato il mio cuore; non aveva fatto che battere con prepotenza da quando avevo iniziato a cercare una certa persona su Instagram.
Deglutii, pensai ai pro e ai contro. Pensai a mia sorella.
Cambiare prospettiva.
Fissavo quel profilo privato da quindici minuti; un consistente numero di seguaci mi fece capire che non aveva perso la sua popolarità e una delle tante frasi che incorniciava la biografia rischiò di farmi emozionare. Probabilmente è l'unico che ha avuto il coraggio di mostrare al mondo le sue origini, scrivendo "Out Loud: io non dimentico".
Passai alle impostazioni, tentennando, e alla funzione che mi avrebbe permesso di inviare un messaggio nella sezione dei direct.
Coi polpastrelli sudati, picchiettai frenetica sulla tastiera, riscrivendo sempre la stessa frase a ripetizione. Infine, trassi un respiro profondo, chiusi gli occhi e mandai.
Sperai che Warren rispondesse.
ANGOLO AUTRICE
Buonasera, nightingalesss! 🕊️
Aggiornamento a un orario un po' insolito, ma ho preferito così. Anche perché ci tenevo ad aggiornare entro questo weekend. Dai, almeno ci sono riuscita proprio al pelo. 😂
Sebbene sia un capitolo di passaggio, appartiene a uno dei miei preferiti, per molteplici motivi e che, immagino, abbiate capito.
Questions:
▪️Ian; personaggio di sfondo e senza peli sulla lingua. Qui volevo mostrare un po' di più il genere di amicizia che lo lega a Desmond; tra l'altro osserva molto e non si risparmia di fare certi commenti dopo che apprende della situazione a casa dell'amico. Insomma, fa bene a punzecchiarlo? Secondo voi, dalla parte di Desmond, ci sono stati pensieri simili ai suoi? 🤓
▪️ Ophelia; piccola spiona del mio cuore. Apprende tante cose (complimento estetico incluso, puahaha) dopodiché ha un bel confronto con Desmond, che sembra tanto voler ricoprire il ruolo di una guida. La ragazza è tutt'ora confusa, sia dalle considerazioni che non fanno una pieda di Desmond, sia tutto ciò che riguarda la sfera di sua sorella. Capisce che c'è qualcosa che sconvolge la sua bussola, e sperimenta, cerca di farlo. Dopo l'esperimento andato male, sembra proprio di voler seguire nuovamente le parole di Desmond: cambiare prospettiva. Dite che stavolta ce la farà? Che cosa credete che abbia in mente di fare? Che cosa avrà scritto a Warren?
▪️ Desmond; non mi voglio sbilanciare ma... che cosa avete pensato di lui nel suo modo di fare, nel suo modo di agire, nel suo modo di prendersi cura di Ophelia? Pensieri? Scena preferita?💀
Vi anticipo che i prossimi tre capitoli saranno molto particolari. Presto capirete il perché. Già dalla conclusione del capitolo potete ben immaginare. ❤️ Fatemi sempre sapere ciò che pensate! Mi fa solo piacere confrontarmi con voi. 🕊️
A presto!
Playlist:
Death Of Me - Brandon Jenner (prima parte, finché Ophelia non inizia a origliare)
Wet Cigarettes - Strawberry Milk Cult (prima parte - da lì finché non mangia la cheesecake)
Downtown - Majical Cloudz (da lì fino alla fine della parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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