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2. In una matrioska

2. In una matrioska







Le fragole non erano servite.

Bethany mi aveva proposto di affogare i malumori nelle cucine, assoldando altri due dipendenti che avrebbero fatto "il lavoro sporco" durante la nostra breve assenza. Non era la prima volta che faceva la scaricabarile. Era successo anche con me, il più delle volte, le veniva naturale quando non aveva voglia di svolgere delle mansioni che l'annoiavano. Ma non me ne ero mai lamentata. Anzi, gliene ero sempre stata grata; assegnarmi dell'ulteriore impiego che mi evitasse il contatto visivo con i clienti corrispondeva a una scialuppa di salvataggio. Liberare i tavoli, passare la scopa sulle briciole, confezionare meticolosamente i prodotti, rifornire il banco dei dolci.

Anche se mi toccava comunque tornare alla cassa.

Sapevo che ricoprire un impiego da banconista comportava un confronto a tu per tu con le persone, ma non avevo avuto scelta quando mi avevano comunicato che mi avrebbero assunta qui, con un tirocinio che prevedeva, tra i tanti doveri, anche quello di... accogliere. Essere schizzinosa non mi avrebbe aiutata, e io dovevo lavorare, respirare aria pulita, ascoltare qualcosa di differente dai pensieri spiacevoli che mi si accumulavano in testa. Non che fuori la situazione fosse migliore. Perché se a casa c'erano troppe voci che mi sfibravano, all'esterno c'erano troppi occhi che urlavano. Urlavano a me. Ne ero sicura, non c'era bisogno di testarlo. Dopotutto, il mondo era fatto di "occhi negli occhi".

Ero sicura che il titolare, il signor Cole, nel corso del colloquio avesse intuito il mio disagio, perché non avevo fatto nient'altro di diverso  che osservargli il cespuglio di capelli brizzolati, o la finestra a forno che gli si apriva alle spalle. Mi ero concessa tre secondi su un volto invaso da una ragnatela di capillari visibili, poi sulla fede, di nuovo sugli inestetismi del viso, e poi ancora il panorama fuori.

Quando lo facevo, però, non stavo bene con me stessa; avvertivo un nido di sensi di colpa intrecciarsi intorno alla bocca dello stomaco, per poi edificarsi su per la gola, ostruendo ogni possibilità di fuggire, di reagire. Se non respiri, non puoi fare. E non facevo. Non facevo mai. Perché quel nido era il risultato di quanto accumulato negli anni, costruito nelle paure che quotidianamente infossavo dietro a un sorriso di cortesia.

Guardare o non guardare. Conflitto eterno, dilemma di cui ero schiava. Meglio di no, piccolo usignolo. Finivo per dare retta a quella vocina che mi era amica, e le vere amiche non dicono bugie. Lo dico per proteggerti, perché ti voglio bene, lo sai che ti voglio bene. Mi proteggeva, affermava, ma al contempo mi impediva di dominare un istinto da vigliacca, che al liceo non mi era mai appartenuto.

Ora mi ci trovavo incatenata e affezionata, al punto da considerarla una seconda pelle. Strapparmela avrebbe significato dolore, farmi male. Il solo pensiero mi impediva di liberarmene.

Così, mi trovavo rinchiusa in una vita che mi intrappolava quanto facesse una matrioska: nido dentro a una gabbia, gabbia dentro la paura. Ma era nella paura che riuscivo a percepire quella sicurezza che il coraggio, al contrario, non era capace di darmi. E quando la paura si diradava lasciando spazio alla lucidità, ricordavo che era meglio così, perché: "Guardarli in faccia potrebbe farti sentire peggio, e tu non vuoi che succeda." Non lo volevo. Aveva ragione. Sarebbe stato da incoscienti permettere agli estranei di guardarmi e di leggere il fallimento che riposava dietro ai miei occhi.

A volte desideravo unicamente tornare indietro e resettare tutto.

Ma nel mio presente, le macchine del tempo non esistevano.

«Ero diventata fissa, sai? Da un paio di annetti. Anche se essere la fidanzata di suo figlio credo mi avesse un po' privilegiata. Però lo trovo ugualmente incredibile. Strana la vita, vero? Fino a ieri ci sei, domani chissà.» Anche fuori, a contatto con l'aria estiva di fine giugno, la mia collega non si era fermata un secondo, non mi lasciava neanche il tempo di formulare una risposta. Ma temevo che il suo fosse un modo per esorcizzare l'accaduto, lasciando che la logorrea riempisse i vuoti. Controllò l'interno della sua borsa, borbottando: «Pazienza, si vede che doveva andare così... Ah, mi sa che andrò a mangiare un boccone da McNally's prima di affrontare l'atmosfera a casa di Dave. Vuoi farmi compagnia, ti va?».

«McNally's? Il ristorante in fondo alla via?»

«Proprio quello.»

Mi fermai in mezzo al marciapiede di Germantown Avenue, una delle vie principali, patrimonio di boutique e ristoranti di fama. Si dovette fermare anche lei mentre controllava il portafoglio, io osservai la strada attorcigliandomi le mani sudate.

L'eleganza del pavé era attraversata dalla pigrizia di alcuni veicoli e da una solitaria rete tranviaria. Qualcuno, in pantaloncini e occhiali da sole, si accingeva a terminare il proprio allenamento di jogging, altri viaggiavano per i negozi che si affacciavano sulla carreggiata. Trovavo splendido come l'altezza di quella serie di costruzioni sofisticate fosse la medesima, curata al millimetro. I tetti a punta, che proiettavano ombre di quelli che parevano cappelli da stregone, rispettavano la stessa misura. Nessuno si permetteva di predominare.

«Io credo che...» Feci segno dietro di me con il pollice. «Mi dispiace, è che prima devo fare delle cose. Non fraintendermi, ma...»

Mi bloccò, riponendo il portafoglio in borsa.

«Hai la mia comprensione, non ti preoccupare. Le pessime notizie stringono lo stomaco un po' a tutti.» Fosse solo la pessima notizia... Si sistemò la treccia ramata su una spalla, sorridendo. «Allora ci si vede, Ophelia, e in bocca al lupo per il futuro! Con tutto quello che hai già fatto sono convinta che troverai un impiego migliore. E magari con un titolare più sano del signor Cole!»

Mi voltò le spalle, sventolando la mano. La imitai con sguardo perso, anche se ormai non poteva più vedermi. «Già...» mormorai.

Le opzioni erano limitate: o mi sarei fermata a mangiare fuori, o avrei rincasato. Che fosse l'una o l'altra, si tornava sempre al punto due. Quindi, decisi di incamminarmi dentro uno di quei posti che, una volta, fungeva da... ritrovo. Un ritrovo in cui non si trova più. Un ritrovo in cui non ci siamo più ritrovati. Un ritrovo in cui nessuno ha voluto più ritrovarsi. Per colpa mia. Mi morsi la guancia, chiudendo gli occhi. Non è il momento di pensarci, non adesso.

Guardai l'orologio, riflettendo che era un sabato.

Meglio. Non sarebbero stati di turno.




Caffè vegetariani, soul food, cucine che sfornavano prelibatezze del continente asiatico. Queste erano solo alcune delle sciccherie che addobbavano il quartiere della rinomata Germantown Avenue, grande polmone verde di Filadelfia. E il verde, lì, era un colore di pace e amore fraterno che regnava quanto un sovrano buono, distribuendo la sua egemonia in ogni dove, con una naturalezza che mi meravigliava nelle giornate in cui lo scuolabus mi portava a scuola. Naso incollato al finestrino, schiamazzi infantili intorno, quartieri che mi scorrevano davanti agli occhi. All'epoca ero convinta che, vista da un aereo, Filadelfia fosse la riproduzione della faccia di un bambino con la varicella. Una varicella verde. Inquietante e bizzarro, ma non sarei riuscita a fare paragoni migliori.

Lungo i marciapiedi, dove i lampioni erano intervallati dalla presenza di alberelli decorativi, era più frequente specchiarsi su vetrine di costruzioni storiche, risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, piuttosto che del XXI secolo. Chestnut Hill, d'altra parte, si distingueva dagli altri quartieri proprio per un'architettura di lunga data, in cui saltavano all'occhio facciate di mattoni chiari, imposte porpora e tetti che sfidavano il cielo estivo.

La tavola calda dove mi ero rifugiata non era da meno.

Taste a Wish.

Una semplice insegna al neon che si alternava da azzurro a rosso, che poteva sembrare una delle tante con un bel nome attira-clientela, le cui curve morbide e grassocce ti suggerivano che all'interno avresti trovato un sovrapporsi di jukebox e acconciature anni Cinquanta. Personalmente mi era sempre piaciuto, proprio perché ogni piatto che ordinavi, dal momento che accompagnavi la forchetta alla bocca, sembrava riuscisse a esaudire qualsiasi desiderio trattenessi nel cuore. Bastava un boccone che eccolo lì, il sorriso, la felicità genuina di un cliente che sembrava aver trovato tutto, senza l'aiuto della bacchetta magica e dei suoi sfolgorii accecanti.

E dietro le quinte di quelle tre parole si nascondeva una galleria di ricordi che portavo ancora cucita sotto la pelle. Nonostante tutto. Ogni tanto ci ritornavo quando avevo bisogno di espellere una pessima giornata o la scorticante sensazione che ogni cosa facessi risultasse sbagliata, o mai abbastanza, proprio perché, dentro di me, credevo che questo posto riuscisse a esaudire anche i miei, di desideri: che tutto non fosse mai accaduto, che non avessi mai preso una scelta simile, che non mi fossi mai buttata in pasto ai leoni.

Lei mi aveva avvertita, io avevo fatto l'errore di non ascoltarla.

Sul divanetto di pelle nera, appostato accanto alla vetrata che dava sulla strada principale, osservavo i due sandwich di pollo preparati a involtino, da cui strabordavano foglie di lattuga e senape al miele.

Da quando il cameriere mi aveva consegnato l'ordinazione mi si era automaticamente rivoltato lo stomaco, accartocciandosi come alluminio. Alla fine avevo spiluccato le patatine fritte che facevano da contorno e mezzo involtino. Uno dei due. Le pessime notizie stringono lo stomaco un po' a tutti. Osservai le persone riempire sgabelli e divanetti. Sorridevano, ridevano, scherzavano. Bambini, adolescenti, sorelle e fratelli. Famiglie. Si vede che la magia, su di loro, aveva avuto l'effetto sperato dal locale. Probabilmente, le falle erano ovunque e non tutto si dimostrava essere una scienza esatta.

O magari, con me, l'effetto arrivava a scoppio ritardato.

«Ophelia? Mio Dio, sei tu?»

Saltai dal divanetto, voltandomi di scatto.

Quando fronteggiai la signora Murray, incastrai le dita tra loro, sopra il tavolo. Reggeva in mano una brocca trasparente di caffè, da cui ondeggiava la bevanda marrone, e in capo svettava una coda di cavallo schiarita, rendendo il biondo con cui l'avevo conosciuta anni addietro di una sfumatura che rasentava il platino. Le piacevano ancora, le tinte. Come le piaceva ancora sorridere con tutta la faccia.

Ricambiai il sorriso, fissandole gli orecchini a cerchio.

«Salve, signora Murray... Quanto tempo.»

«Vero? Diamine, sembra passato un secolo da quando ti vedevo insieme ai miei marmocchi» disse, inclinandosi per versare il caffè nella tazza. «Ah, i ricordi. Voi e la guerra dei pancake. Marmocchia numero uno che rubava i bacon da marmocchio numero due, e...»

«... marmocchio numero due che rubava le fragole dai pancake di marmocchia numero tre» mormorai, spostando una patatina con un dente della forchetta, sorridendo quasi avessi la scena di fronte.

«Un circolo vizioso che non aveva mai fine. Quante volte ho dovuto riprendervi per il casino che combinavate...» Poi, sul suo volto, calò un'ombra che le andò a sbiadire la risata. «Perché non sei più passata? O meglio, perché non sei più passata in settimana? Purtroppo non sono mai riuscita ad avvicinarmi perché, come potrai immaginare, ci sono sempre troppi casini in cucina a cui devo dare un occhio. Ma scommetto che avrebbe fatto piacere a...»

«No.» Abbassai lo sguardo sul piatto ancora colmo di cibo, quasi sperassi che parlasse al posto mio. «Scusa, volevo dire che non credo gli farebbe piacere... Non dopo che...»

Non terminai, ma lei parve intuire ugualmente.

«Conosco la storia... So quanto ci siano rimasti male, ma non sono comunque d'accordo, sai?» Quelle parole mi rassicurarono a tal punto da obbligarmi ad alzare gli occhi su di lei. «Conosco i miei due pupilli, e so che non sarebbero in grado di serbare rancore nemmeno alla tavola calda di fronte, e penso tu ti ricorda quante ne abbiamo passate per colpa della concorrenza, all'inizio.» Mi ricordavo bene, e quel lontano ricordo contribuì a farmi salire il magone in gola. Era il periodo delle elementari, quando era ancora tutto fresco e spensierato. «Forse, e dico forse, fra i due la più propensa a mantenere il muso è Fannie, ma tu dalle una motivazione sincera e una seduta gratuita dal parrucchiere che si dimentica tutto.»

Strizzò l'occhio.

Non ero sicura che bastasse intavolarle le mie motivazioni per garantirmi il perdono. Non le avrebbe capite. Nessuno di loro avrebbe capito cosa aveva significato per me ciò che era successo. Loro erano forti abbastanza da passarci sopra, e l'avevano fatto con l'aria di chi sapeva come gestire un sentimento orribile come la vergogna. Ma io no. Dio, ci avevo provato, ma avevo capito che non rientrava nelle mie capacità.

Quando avevo scelto consapevolmente di allontanarmi da tutti, era per questo: smettere di essere una presenza imbarazzante e un peso deludente. Mossa intelligente, mossa stupida. Qualcuno confermava che era stata la decisione migliore che potessi fare, e io mi fidavo di quella voce. Inoltre, Fannie non era il genere di persona che viveva di parole. Sapeva cantarle, sapeva ascoltarle, ma non sapeva accettarle se non bastavano a reggere una lontananza durata quasi tre anni. O a giustificare la rottura di un'amicizia durata quasi un'eternità.

Non meritavo nessuno di loro.

Riabbassai lo sguardo, lisciando l'anello d'acciaio legato al mignolo. «Grazie, comunque... Queste parole significano molto.»

Mi diede una carezza affettuosa sulla gota. «Non avere paura di riprovarci, pulcino. Warren e Fannie ti vogliono ancora bene.»

Annuii, anche se non l'avrei mai scoperto.

«Cielo, era anche uno dei tuoi piatti preferiti» esclamò allarmata, indicandomi gli involtini. «L'apocalisse è vicina, me lo sentivo. Sapevo che mio marito non doveva cambiare la lattuga, o l'impasto. Figurarsi! Sperimentiamo pure, che alla gente piace cambiare! Ma ora mi sente, quel baccalà. Poi ha pure la faccia tosta di dire, a me, che se perdiamo clienti la colpa è solo mia che sono scorbutica! Ah, ma adesso vado di là e vedi come lo...»

Si era già alzata le maniche, mettendo in mostra delle braccia piene. Alcuni si girarono. Prima che avvenisse una strage, le scossi frettolosamente le mani davanti. «No, momento! Gli involtini sono ottimi, fantastici, la fine del mondo, giuro! Non ucciderlo!» Anche perché un lutto, per quella giornata, mi era già bastato. «È solo una giornata no, credo. E mi dispiace aver ordinato per nulla... Era tutto perfetto, come sempre.»

«Sicura? Lo sai che non ci impiego nulla a...»

«Mai stata più sicura di così.»

«E le patatine?»

«Magnifiche.»

«Fritte al punto giusto?»

«Fritte al punto giusto.»

Inarcò un sopracciglio, ma poi si tirò giù le maniche.

«Salvato in corner.»

Stava per portare via il piatto, ma d'istinto mi balenò un'idea che mi portò ad afferrarla dalla manica. «Ah no, aspetta un attimo.»

Corrugò la fronte. «Dimmi, cara.»

«È possibile portare via questi avanzi?»

Schiuse la bocca, riflettendoci. Probabilmente si stava chiedendo che mai avrei dovuto farci se non riuscivo neanche a toccare cibo. «Certo, te li incarto. Dammi un attimo che...»

«E magari me ne prepari un altro, sempre da portare via.»

Stavolta batté le palpebre dalla confusione.

Alla fine, senza chiedere spiegazioni, eseguì.








Non per procrastinare ancora — e in fondo lo stavo facendo — ma non avevo pensato all'eventualità di fare una visita alla vecchia Judy.

Di certo non rientravo nella categoria delle persone più ecosostenibili del pianeta, ma sotto il mio nuovo tetto mi era stato insegnato a dare un certo peso anche alle briciole. Alan e Cordelia non erano mai stati rigidi, né pretendevano diventassi qualche nuovo e memorabile leader ambientale, ma il mantra del "Ciò che si lascia, non lo lascerebbe qualcun altro" mi era rimasto impresso, ed era abbastanza perché mi spingesse a non buttare un desiderio che avevo sprecato al Taste a Wish.

Così, prima di pentirmene, avevo scelto di portarli a qualcuno che quasi sicuramente ne avrebbe apprezzato il gesto. E che, con ogni probabilità, avrebbe scaturito l'effetto desiderato. Per una come lei, d'altronde, non era necessario offrire tanto per essere felice.

Avevo parcheggiato in una traversa di Germantown Avenue, verso la fine, dove la strada procedeva in discesa e la concentrazione di negozi era minore. Si respirava più normalità e meno classe, lì, fra alberi che spargevano ombre a mosaico sull'asfalto e un piccolo ospedale veterinario esclusivo per felini, che faceva da angolo sulla strada opposta.

Sul sedile del passeggero avevo guardato per un lungo momento i due sacchetti che portavano il logo della tavola calda: sfondo rossastro in cui forchetta e coltello si incrociavano come spade da schermitori, e in primo piano uno schiocco di dita. Avevo sospirato, poi gli avevo slacciato la cintura. La prudenza non era mai troppa.

Per fortuna l'affluenza di persone, il sabato, era pressoché limitato e mi permetteva di non dare nell'occhio. Non si scorgevano agenti in divisa, né pattuglie per strada. Per cui, valicare la ringhiera parzialmente recisa di un vicolo non comportò alcun pericolo.

Bastarono pochi passi che un odore stagnante di urina e pattume mi costrinse a strizzare sia occhi che labbra. Mi addossai alla parete, dove erano posti due bidoni dell'immondizia dal coperchio spalancato. Tentai di emettere tre fischi consecutivi. Avrebbe dovuto essere l'imitazione del merlo, ma sembrò tanto l'imitazione di una ghiandaia a cui era andato di traverso il pranzo. Aveva ragione quando diceva che ero una pessima chioccolatrice.

Attesi un po', osservando la sporcizia che scavava i muri.

Poi una risposta: tre rimandi al merlo, quello vero.

Era da sola.

Lo scalpiccio delle scarpe da ginnastica echeggiò per tutta la lunghezza del vicolo, piccolo cuore spento fra mille altri che gli pulsavano attorno. Tutte le volte che percorrevo quella scorciatoia trascurata dal tempo, non riuscivo a non pensare di essere catapultata in un vecchio labirinto, di oscurità e contraddizioni, da cui ci si aspettava che delle mani grottesche uscissero per acciuffarti e trascinarti con sé. Un passo indietro, e non c'era altro che un sole che batteva come una calda promessa, i chiacchiericci briosi della gente, la vita a braccetto con i suoi colori vivaci. Un solo passo avanti, e ti ritrovavi a varcare un'altra dimensione, dove l'altezza degli edifici in mattone che delimitavano la strettoia impediva ai raggi di sfiorare quell'angolino apparentemente sperduto. O di colorarlo, vitalizzarlo.

Farci caso era sempre angosciante.

L'estensione della parete si interruppe, lasciandomi alla triste visione di uno spazio abbandonato a se stesso. Suolo da cui fuoriuscivano folti ciuffi d'erba e schegge di vetro, due tende gialle tra il pietrisco, e poi... solo sacchetti di plastica, carrelli e bottiglie accartocciate.

Un tempo si ergeva un minimarket, che in seguito avevano demolito in vista di un urgente modernizzazione del vicinato. Per buona parte del quartiere avevano apportato quanto promesso, ma di quel riquadro non si era fatto ancora nulla. Erano passati anni da allora. Così, ciò che era restato dei ruderi, era diventato un rifugio per alcuni senzatetto.

«E quello lo chiami merlo, signorina?»

All'angolo, spuntò la figura incurvata di Judy con il tappo di un pennarello in bocca e una rada capigliatura spenta che le sfiorava la mandibola, alternando argento a carbone. A malapena sessant'anni, diceva di avere, ma la vita di strada gliene aveva regalati altri venti.

Era accomodata su una cassetta di legno e, sulle ginocchia magre, stava goffamente tracciando su un cartoncino le parole che avrebbe rivolto alla sua "clientela". Così la chiamava. Il cartone, per il momento, chiedeva un disperato bisogno di denaro, con l'aggiunta di una faccina triste in fondo e una supplica a fare da contorno.

«Sì, in effetti era più una cornacchia.»

«No, tesoro, quello era un disonore alle cornacchie.» Tolse il tappo dalle labbra screpolate e mi mostrò fiera il suo lavoro. «Et voilà. Che ne pensi? Con la faccina ci arrivo ai dieci dollari?»

Avvicinai una cassa accanto a lei, con un piede. «Se non vado errato l'ultima volta eri arrivata anche ai venti. Circa.»

«Già, grazie a quell'orda di turisti io e i miei richiami spirituali abbiamo fatto grandi affari. Vedi quanto sono utili? Non solo attraggo merli o chicchessia, ma anche il buon vecchio George.» Sfilò dalla tasca della giacca a vento una banconota da un dollaro. «Attrarre un uomo grazie a un pennuto... Un po' ambiguo, non trovi?»

Mi fece ridere. «Beh, io la troverei una fortuna.»

«Finché non iniziano a romperti i cosiddetti, sì. Che poi...» Si bloccò iniziando a dilatare a ripetizione le narici secche, piene di croste. «Ma... cos'è questo...? È...? Ho le traveggole o...?»

Capendo a cosa si stesse riferendo, sfilai dalla borsa uno dei sacchetti di Taste a Wish. Chiazze d'unto imprimevano diversi punti del sacchetto, e quando intuì cosa reggessi parve aver visto l'ascesa di una divinità. «Oh mio...» Subito si drizzò in piedi, stringendosi nella giacca, e uscì dal vicolo, guardando a destra e a sinistra. Poi tornò a sedersi, strappandomi il sacchetto dalla presa. «Buon Dio, Ophelia. Quante volte ti ho detto che non devi farlo.»

«Oh, cosa vuoi che sia, per una volta...»

«Sei volte.»

«Gli avanzi preferisco non buttarli. Mi conosci.»

«E lo apprezzo tantissimo. Sei un angelo e ti spupazzerei di baci se non fosse per tutto questo lerciume. Ma, lasciatelo dire, a volte sai dimostrarti un angelo proprio stupido.» Roteai gli occhi. Me l'aspettavo. «Dovresti essere al corrente sulla nostra beneamata città che ha vietato la distribuzione del cibo a noi. E se ti avessero beccata!»

«Ma non è successo.»

«Ti hanno vista? Hai controllato?»

«Sì, una schiera di agenti è proprio qua dietro.»

«Ophelia

«Rilassati, Judy, dico davvero... Se mi avesse vista qualcuno di loro non avrei mai rischiato una sanzione.»

«Ne dubito, conoscendoti.»

Sospirai, grattandomi nervosamente i jeans della salopette. «Perché non mi ringrazi e basta? Si sta raffreddando, poi avrà un sapore orribile.»

I suoi occhi, scuri quanto la sporcizia che le segnava la pelle rinsecchita, mi lanciarono uno sguardo penetrante. Dopodiché scosse la testa. «Cara, piccola Ophelia...» borbottò, infilando una mano nel sacchetto. Provocò un continuo accartocciarsi di carta prima di sfilare un involtino. «Ah, ma questi li conosco... Prima di scappare dal mio ex marito ricordo che li facevano nel fast food vicino casa.»

«Non hai più provato a denunciarlo?»

Ingoiò un boccone, pulendosi gli angoli della bocca con le dita. «No» disse, mordendo un altro pezzo con foga, dal polso emerse una cicatrice spessa. «Le storie sono tutte uguali. A che serve la denuncia se rischi di finire comunque ammazzata in un vicolo come questo?»

«Non generalizzare, Judy, non è detto che...»

«Perché, credi che darebbero retta a me?» Sollevò il mento, facendo cenno a un sacco a pelo sistemato tra i cartoni. «O a lei? Credi che se glielo dicesse lei le cose cambierebbero? Siamo invisibili, Ophelia, dal momento che mostri al mondo le tue difficoltà per tirare avanti non sei più nulla, solo merda da eliminare, perché è questo ciò che siamo: un problema che la società non sa come gestire. E tu parli di denunciare. Chiedere aiuto. Ah, certo. Se ne fregano della gente comune, figurati di un barbone che ti elemosina sulla Germantown Avenue.»

Assestò un morso rabbioso, in cui impregnò una profonda frustrazione. Non era la prima volta che dava sfogo all'amarezza, alla sua condizione, al domani che vedeva sempre più sbiadito dalla paura e dai risultati di un'elemosina carente. Mi provocava una fitta al cuore, ogni volta che ne parlava. Sapeva essere la persona più ottimista, ma era chiaro che anche lei, a modo suo, soffriva nell'oblio di una matrioska, in una che non conosceva il tempo. Ma la sua era differente, più ripetitiva. Dolore dentro al dolore, dentro al dolore. Mi veniva spontaneo pensare che, nel nostro piccolo, tutti noi ne possedessimo una.

Indirizzai lo sguardo altrove, nel punto che aveva indicato.

Raggomitolata in quell'ingombrante sacco a pelo rosso, cercava di riposare una donna molto più giovane di Judy, dall'aspetto gracile. Non l'avevo mai vista prima del mese precedente, periodo a cui risalivano le mie ultime visite, né ero al corrente dei trascorsi che l'avevano trascinata qui, se non che portava avanti una gravidanza arrivata al terzo mese.

«Come sta?» chiesi, fissando il sacco a pelo contorcersi.

Judy, intanto, aveva terminato pure il secondo involtino. «La febbre sembra le sia scesa, ma ha ancora una brutta tosse. Povera donna. L'ultima cosa che serviva a quel bambino era questo

Quelle parole mi fecero contorcere lo stomaco, di nuovo.

Come avrebbe fatto? Se la sarebbe cavata?

«A proposito...» riferii flebile, mentre tiravo dalla borsa anche l'altro sacchetto di carta. «Non sarà il cibo più indicato, ma sicuramente l'aiuterà a superare la giornata.»

Mi aspettai l'ennesimo rimprovero, ma più di un'occhiata bonaria non mi rivolse. «Vedo che sei particolarmente accorta nei confronti di quella donna.»

«Già.» Tesi le labbra. «In un certo senso è così.»

Abbassai timidamente lo sguardo sui lacci semisciolti delle scarpe. Da quando l'avevo vista in compagnia di Judy, mi si era innescato un meccanismo molto simile a un impulso primitivo, che verteva sulla sua incolumità, dove "Posso immaginare le sue preoccupazioni" e "A chi sarebbe importato?" erano i turbamenti principali che mi avevano portata a immedesimarmi nella sua situazione. Non avevo saputo determinare una definizione, erano troppi, ma viaggiavano tutti su un pensiero comune: quel bambino.

Passò un lungo silenzio, interrotto dalla delicatezza di alcuni cinguettii e dal fragore di una serie di clacson. Poi, spolverandomi i jeans, decisi che era arrivato il momento di alzarmi. «Conservaglielo per quando si sveglierà e... mi sa che torno a casa. Ormai è ora.»

«Lo farò, lo farò.» Mi rivolse un sorriso dolce, che la ringiovanì a tal punto da ridurle la trascuratezza che le macchiava la pelle. «Ah, e promettimi che sarai sempre attenta, Ophelia, sempre. Non è posto adatto a te, questo. Ogni tanto gira gente con le siringhe in tasca, potrebbero avere anche delle armi, chi può saperlo... Non è detto che siano criminali, ma chi ha fame e ha bisogno di soldi, è sempre incline a fare qualcosa di spiacevole, mi hai capita?»

«Sì... starò attenta, promesso.»

«E cerca di allenarti con quei fischi.»

Risi. «Ancora? È così importante?»

«Certo. Ti ho pure dimostrato che sono un'ottima esca per gli uomini.»

«Non credo che con me possa funzionare. A malapena riesco a fischiare.»

«Mal che vada attirerai soltanto soldi.» Mi strizzò l'occhio. «O, chi lo sa, potresti fare jackpot e attirare un uomo coi soldi.»




















ANGOLO AUTRICE

Buonasera, nightingales!

In realtà avrebbe dovuto uscire un capitolo molto più breve, ma Ophelia pensa troppo e io, da contratto, sono obbligata a seguire i suoi pipponi mentali. Siamo solo al secondo capitolo... non oso immaginare quello che ci sarà nei prossimi. Mi faccio il segno della croce. 💀

Anyway, questo pippone di passaggio, purtroppo, serve. Ho sparso qua e là diverse info utili per un futuro prossimo: alcune sono evidenti, altre un po' meno. Conservate quelle che avete colto e tenetevele strette, mi raccomando. 😎

Ci sono tre fasi: la prima che è un'unica riflessione personale su ciò che è la protagonista, la seconda è un incontro - che già vi anticipo di passaggio - ma che si collega ad altri personaggi, e la terza che ha una rilevanza un tantino più profonda

Non ho domande particolari, se non: che avete pensato?

Le domande più importanti saranno nei prossimi. 👀

Per cui, a presto! 

Spero di non farvi aspettare col prossimo.🤍🤍

Playlist:

You Were Good to Me - Jeremy Zucker, Chelsea Cutler (prima parte)

https://youtu.be/ZGNt_UM5x-4

As It Is - Matilda Mann (seconda parte)

https://youtu.be/FrHRS_2nXEU

Youth - Daughter (terza parte)

https://youtu.be/VEpMj-tqixs

Instagram: The_blackcatshadow

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