19. Fondamenta
Fondamenta
N.B musicale: stavolta consiglio Dreams of William nell'ultima parte, dove Ophelia inizia a raccontare una cosa. Vi auguro una buona lettura e... ci vediamo giù! 🕊️
Prima
Il canto regalava effetti benefici.
Me ne ero accorta subito, sin da quando avevo pronunciato la mia prima parola, spinta dagli esercizi canori con cui Cordelia, in salone, allenava i suoi alunni. Dolcemente, la scia di quel fatale "Do" mi era giunta alle orecchie, e l'udito, ghiotto di suoni, l'aveva assaporato quasi avesse avuto a che fare con una cheesecake alle fragole.
Infatti, come quando addentavo una di quelle fette strabordanti sugo rossastro, pronunciarlo mi aveva fatto sorgere un gran sorriso. Avevo notato che capitava di frequente anche a mamma nel momento in cui terminava di cantare. E così i suoi alunni dopo aver articolato correttamente un vocalizzo. E così mio padre quando gli capitava di ascoltare Cordelia, appoggiato allo stipite della porta.
Quel piegamento delle labbra era quanto più si avvicinasse all'essenza di casa, alla sua realizzazione concettuale: un concentrato di serenità per aver trovato la pace con se stessi, e di trionfo, per averlo cercata nel posto giusto. E il canto, appena avevo compreso come padroneggiare le corde vocali, aveva presto assunto il significato di rifugio.
Cordelia non si limitava a usufruire delle sue eccezionali abilità canore esclusivamente per professione, ma anche per invogliare me e Olivia, da piccole, a fidarsi l'una dell'altra con dei giochi. Per esempio quello in cui io e lei, da bendate, seguivamo la sua voce.
Altre volte, invece, diventavano il palcoscenico perfetto per delle favole della buonanotte. Era un ruolo in cui si calava di rado. Non perché non le piacesse, ma perché riteneva fosse il caso di farlo in casi di estrema necessità, ad esempio quando mi ritrovavo sotto le coperte con la febbre alta. Da bambina, segretamente ed egoisticamente, speravo di ammalarmi più spesso solo per ascoltarla mentre mi cantava dei bimbi sperduti che seguivano la seconda stella a destra, di un ladro che trovava la lampada magica, di una marionetta bugiarda.
Il rituale non cambiava mai. Lei sedeva sul letto, ai miei piedi, e mi accarezzava la gamba mentre si prodigava a fare la cantastorie. Io, invece, mi imbacuccavo in un bozzolo di coperte che nascondeva i brividi e, sul comodino, una brocca d'acqua ghiacciata aveva il compito di rinfrescare il pezzo di stoffa che avevo sulla fronte. Anche in uno stato delirante riuscivo comunque a seguire quelle fiabe celebri, dove i dialoghi dei personaggi, interpretati da lei stessa, si tramutavano in versi armoniosi, come in un vero cartone Disney.
Continuava, finché non sprofondavo nel sonno.
Un pomeriggio, papà e mamma si erano assentati per delle commissioni. Avevo otto anni, ormai mi ammutolivo molto meno, ed era stato ordinato a Olivia di tenermi sotto controllo finché non sarebbero tornati. Mentre giacevo in coma con trentanove di febbre e con le candele di muco che tiravo indietro ogni volta che sfioravano le labbra, Olivia, in camera mia, faceva avanti e indietro dalla stanza.
«Ok, non sarà così difficile, no? No. Sì, volevo dire sì.» Si era fermata, aveva chiuso le mani a pugno e si era data dei colpi sulla testa. «Su, su, su.»
«Liv...» avevo mugolato, gli occhi aperti a stento. «Cosa fai?»
«Dammi un parere, sorellina.»
«Eh?»
«Girati.»
Lentamente, tutta un dolore, avevo voltato la testa. Il pezzo di stoffa umido era scivolato sulla federa. Lei, intanto, rivolta allo specchio della camera, alternava delle smorfie; una timida, un'altra felice, un'altra seria, un'altra ancora accattivante. Infine si era girata, sistemandosi i capelli di lato, e aveva continuato a pettinarseli con le dita, dividendoli in tante striscioline. Poi, dandogli un attimo di tregua, si era appoggiata all'anta dell'armadio, sfoderando un sorriso.
L'agitazione che l'aveva pervasa era scomparsa.
Respirando a fatica dalla bocca, avevo mormorato: «Cosa...?»
«Dimmisetisembrocarina.» L'aveva pronunciato senza far crollare quel sorriso a trentadue denti. «Velocechemisistannoparalizzandoleguance.»
Avevo avuto soltanto le forze per annuire.
Altri due secondi di posa, e il sorriso era sparito, lasciando il posto a un'espressione che rasentava l'angoscia. Trascinando i capelli dietro le spalle, aveva buttato fuori un sospiro e mi aveva raggiunta, sedendosi sul bordo del mio letto. «Sai che giorno è domani, no?»
«Hai...» Avevo cacciato indietro il muco. «Hai paura?»
«Abbastanza. È la prima volta che vado in copertina.»
«Come in quel... Come in...?» Stavolta avevo tossito.
«Già, come in una di quelle riviste super fighe che ho pure io. Tipo Girls' Life, Glitter. Quella per cui farò le foto è Seventeen.»
Da quando, a cinque anni, l'avevano fatta posare per Baby Guess, aveva iniziato a condurre una vita decisamente differente da qualsiasi altra ragazzina della sua età, alternando lo studio ai servizi fotografici. Il suo volto, tanto grazioso quanto perfetto per i canoni estetici, era piaciuto a tal punto che il suo nome si era inserito nei passaparola dei brand d'abbigliamento e delle riviste adolescenziali.
Olivia amava posare per quel mondo. Ad oggi lo potevo confermare con certezza. Ogni volta che in famiglia si discuteva dei suoi traguardi, una strana luce le attraversava lo sguardo, una cometa di compiacimento, di vittoria, felicità. La sua seconda casa, il suo rifugio preferito, il posto sicuro di cui non avrebbe mai fatto a meno. Aveva un livello di resistenza fuori dall'ordinario: non si preoccupava di stare ore e ore davanti alle pretese di un obiettivo, non si lasciava intimidire dalla concorrenza, non la intimoriva il jet lag appena veniva ingaggiata oltreoceano, malgrado ne soffrisse. Era probabile che il pensiero di arrivare alla vetta la portasse a sopportare.
Tuttavia, ciò aveva significato una vita sociale poco attiva.
Non ricordavo una sola volta che Olivia, alle medie, avesse invitato a dormire a casa nostra un'amica, o che parlasse di un'ipotetica "migliore amica". Non festeggiava nemmeno il compleanno. O almeno, dal primo anno di liceo in poi si era categoricamente rifiutata di organizzarli; non era mai entrata nei dettagli del perché, ma avevo intuito attraverso alcuni racconti sporadici che la popolarità tra i banchi di scuola aveva implicato l'avvicinamento di gente di cui non apprezzava il comportamento opportunista. Non era stupida: tra le righe di qualche episodio che mi aveva esposto con apparente disinteresse, avevo capito che molti lo facevano per una questione di crescita del proprio status.
"Non sono l'esponente di nessuno" aveva dichiarato una sera con freddo distacco, riferendosi al potere che quel numero trasmetteva a un altro numero. E come in quella combinazione matematica, Olivia non sopportava fungere da filtro.
Mi ero domandata, qualche anno più tardi, se non le facesse male non doversi fidare di qualcuno per timore che dietro le quinte di quelle intenzioni amichevoli si nascondesse mero egoismo. Eppure, vedendola ora, pareva che contare su un altro individuo non rientrasse fra i suoi interessi. Contava solo su se stessa, e stava bene così, asseriva.
«Che bello... Vai in una copertina.» Avevo alzato la coperta sulla bocca per attutire due colpi di tosse. «Mia sorella diventa famosa.»
Olivia aveva riso. «Non ancora.»
«Poi mi fai un auto... autogra...»
Avevo tossito ancora, e ancora, e ancora.
Mia sorella aveva sospirato, dandomi una carezza sulla pancia. «Che influenza del cavolo. Ti scaldo un bicchiere di latte col miele?»
Avevo negato con la testa.
«Allora aspettiamo che torni papà prima di prendere il Tylenol, ok?»
Avevo storto il naso. Detestavo l'aroma che quella brodaglia alla ciliegia lasciava nel palato.
«Comunque» aveva esordito, schiarendosi la gola. «Un po' mi dispiace non poterti essere utile in qualche modo.» Mi era risultato difficile spostare lo sguardo dal soffitto ai suoi occhi. Lei, però, non mi stava più guardando e, inoltre, aveva repentinamente cambiato tono; c'era un che di frustrante in quella dichiarazione. «Non posso neppure cantarti qualcosa per sollevarti il morale. So che ti fa stare meglio e so che mamma te lo fa spesso, ma vedi... io non ne sono capace.»
Aveva espresso l'ultima frase ridacchiando, a sguardo basso, sulle dita che torturavano un lembo della sua maglietta a righe. Ripensando a quel ricordo ancora vivido, dubitai l'avesse detto con leggerezza.
Quindi, mi era venuto naturale tirare fuori una mano dalle coperte e allungarla sulla sua, ora impegnata in quell'irrequieta lotta con la maglietta. Appena gliel'avevo posata, aveva smesso di muoverle.
«Non fa niente» avevo mormorato, con un sorriso fiacco. Lei aveva stretto la presa, ma non aveva alzato lo sguardo, quasi se ne vergognasse. «Sei mia sorella... a me va bene se rimani qui con me.»
«E mi vuoi bene lo stesso? Anche se non so cantare come voi?»
Avevo annuito, prima di venir scossa dai colpi di tosse.
Lei, però, aveva incurvato le labbra all'insù. «Mi insegnerai?»
In realtà non c'era mai stata occasione per insegnarle a cantare. Era già tanto che le giornate ci riserbassero dei piccoli frammenti da passare insieme. Ma quando me l'aveva chiesto, con quel velo di dispiacere e fiducia a impastarle la voce, avevo avvertito l'attaccamento che sentivo nei suoi confronti scavare ancor più in profondità. Prima di allora avevo creduto che, essendo la "nuova arrivata", non ci sarebbe mai stato lo spazio sufficiente anche per me, nella sua vita, che non sarei mai stata abbastanza importante. Non al pari di una vera sorella, almeno.
Ma quella piccola richiesta aveva ribaltato tutto.
Avevo capito che anche lei era una casa in cui rifugiarmi.
Adesso le cose iniziavano a farsi instabili; un sisma di dubbi aveva già fatto crollare le fondamenta della mia seconda casa, dedicata a una passione che ritenevo ormai perduta, e adesso lo stava facendo anche con quelle della prima, di mamma e papà e... Olivia. E io mi trovavo lì in mezzo, a contemplare impotente il disastro.
Avevo la sensazione che, presto, avrebbero ceduto.
Mi domandavo solo quanto tempo mancasse.
Adesso
«Sai quali paroline rivolgerei a tua sorella?»
«Judy, te l'ho detto: non è stata lei a manomettere il tacco.»
«Balle!»
«Senti...»
«Per una volta mi sento di appoggiare la saggezza di Judy.»
«Ti prego, Rica, non ti ci mettere anche tu.»
«Quella ragazza non ha ricevuto abbastanza sberle da piccola. Mia nonna la sapeva lu– Oh! Ha scalciato!» In quel riquadro silenzioso e abbandonato a se stesso, Rica, su una panchina consumata dalla ruggine e avvolta da una coperta che le avevo donato per proteggersi dalle temperature di fine ottobre, posò la mano sulla sommità del pancione. «Già, il mio bambino – o bambina – è d'accordo con me.»
Mi fiondai al suo fianco, abbandonando il posto a sedere vicino a Judy, accomodata su un cartone a contare gli spiccioli della giornata.
Mi morsi il labbro, trepidante, la mano già avanti. «Posso?»
«Non devi neanche chiederlo.» Il sorriso, però, le si accartocciò per l'arrivo di una serie di colpi di tosse che faticò a placare. Le recuperai subito dallo zaino la sua bottiglia d'acqua e la scatolina di caramelle al limone che le avevo comprato. Si accontentò della prima. «Grazie, stella, ma ho paura che non sia una tosse normale.»
«Lo so, però almeno ti addolcisci il palato.»
Sospirò, massaggiandosi la pancia. «Se sapessi da che cosa nasce, ti direi quali medicinali comprare. Magari è una broncopolmonite.»
«Allora potrei informarmi in farmacia per un antibiotico, o...»
Le sue mani caffelatte accarezzarono la mia. «Non peggioriamo la situazione. Senza saperne la causa, è meglio evitare gli esperimenti.»
Trattenni un sospiro rammaricato.
La sua salute non voleva trovare un equilibrio; aveva continui alti e bassi, momenti in cui la guardavi e pensavi fosse la persona più sana del mondo, altri in cui la tosse e la febbre altalenante la ingrigivano come l'asfalto di quel riquadro che cadeva a pezzi, che non aveva mai visto continuare dei lavori di restauro. Tra i ciuffi incolti d'erba, decine di carrelli per la spesa capovolti, frammenti di vetro verdognolo e dei sacchetti di plastica afflosciati come teste di meduse addormentate, giacevano i ruderi del vecchio minimarket che avevano demolito anni prima.
Rica, accorgendosi della mia espressione abbattuta, decise di non farmici pensare trascinandomi la mano sul contorno della pancia, per poi farla scivolare di lato. «È proprio qui. Lo senti?»
La nuvola di dispiacere, pian piano, si diradò nell'attimo in cui dei lievi ma decisi colpetti bussarono sul mio palmo. Un toc, toc che non chiedeva di uscire, ma di aggregarsi alla conversazione, che, seppur fosse ancora un feto, c'era, esisteva, ascoltava, capiva, assimilava.
Allargai le labbra in un sorriso di gioia e tracciai delle carezze sulle pieghe del cappotto, su quel punto, mormorando: «Sì, ti sento».
«Mi dispiace dover fare la guastafeste del momento, non odiatemi» esordì la voce gracchiante di Judy, posando la mano dietro la schiena per darsi una vigorosa stiracchiata, l'altro braccio teso verso il cielo. Una sferzata più gelida delle altre le fece ondeggiare il cespo rado di capelli sale e pepe, ora coperto da un berretto arancione. «Ieri ho incrociato una conoscenza che se ne sta nei pressi del Vernon Park... Il nostro sindaco ha assicurato la ripresa dei lavori lasciati in sospeso per una bella cifra. Tradotto: bisognerà levare le tende da questo posto al più presto. E tu, ragazza mia.» Indicò Rica. «Ti conviene iniziare a migrare nel rifugio più vicino e rimanerci, per il bene del tuo marmocchio – o marmocchia. Non ti puoi permettere un inverno fuori, e già non godi di ottima salute.»
«Lo so bene.» Si morse il labbro spaccato, del sangue secco glielo incrostava a chiazze. «Ma so anche che qui vicino non esistono rifugi che offrono pure un posto dove poter dormire...»
«Qui no.» Indirizzò l'indice verso la recinzione alle sue spalle. «Ma vicino a Chinatown ce n'è uno di cui mi hanno parlato molto bene. Fornisce anche della buona assistenza medica. Io andrò lì.»
«Chinatown» rifletté Rica. «Dio, Judy, è a più di venti miglia da qui, o forse anche di più... Cosa sono? Tre ore a piedi? Oppure...»
«Ma quale a piedi» intervenni. «Vi ci porto io, in macchina.»
Rica sollevò le sopracciglia dalla sorpresa, Judy le addossò uno sguardo compiaciuto, come a voler dire "Già, avevo calcolato tutto".
«Abbiamo il nostro piccolo angelo custode, Rica, non dimenticarlo» ridacchiò lei, accarezzando la livrea di un merlo che era svolazzato sulle sue gambe. Gli sbriciolò davanti delle molliche di pane che aveva racimolato in una busta di carta. «Ah, Ophelia, dicci di più.»
«Su cosa?»
«Su questo povero disgraziato che è stato mollato.»
Non erano le prime con cui ne parlavo apertamente.
Era passato più di un mese dalla New York Fashion Week e, a ripensarci, avvertito ancora una sensazione ingarbugliante, di vertigine inspiegabile, la stessa che avevo provato durante quella sera. I miei genitori ne erano al corrente; gli avevo narrato le vicende a grandi linee, tralasciando lo spiacevole incidente avvenuto tra Latisha e Olivia – ci aveva già pensato lei a farglielo presente, non senza lasciarsi sfuggire commenti velenosi, che mamma e papà si erano limitati ad ascoltare con disappunto. Inoltre, evitavo di parlare di Desmond e della sua ormai ex fidanzata in presenza di Olivia; nominare gli Holmberg equivaleva a farle pulsare il nervo frontale.
«Mi fa una pena... E poi sembra una persona tanto buona e paziente» aveva commentato mamma una sera, mentre si accingeva a piegare le lenzuola appena stirate. «Certo, quando si hanno degli ideali agli antipodi insistere serve a poco. Però non oso immaginare il colpo. Dev'essere durissima chiudere così tanti anni di relazione.»
«Già.» Seduta sul letto matrimoniale, avevo pescato dalla cesta per i panni una camicia azzurra di papà; mi ero alzata a recuperare dall'armadio una gruccia su cui appenderla. «Mi piacevano insieme.»
«E lui come la sta prendendo?»
«Beh...» Mi ero fermata con la gruccia in una mano e la camicia dell'altra. «Devo dire che la sta prendendo proprio con filosofia!»
Una settimana più tardi la rottura con Latisha, mi ero dovuta fronteggiare in prima persona – purtroppo – con l'essenza di quella filosofia. Infatti, un pomeriggio, qualche ora dopo aver recuperato Cindy e Leonard da scuola, avevamo udito il rimbombo di una porta che sbatteva, accompagnata dall'usuale tintinnio di chiavi.
Segno che Desmond era tornato.
«C'è zio Des!» avevano esclamato Leonard e Cindy, alzando in simultanea i visi pulsanti di entusiasmo dalle proprie attività – il primo dall'MP3, la seconda da un elaborato intreccio con le perline.
«Momento, aspettate, fermi.»
Avevo messo le mani avanti, per ostacolargli il passaggio. Interrogativi, avevano arrestato sul nascere la corsa che li avrebbe fatti piombare tra le braccia dello zio, rimasto nei pressi del salone.
Quindi, avevo giunto le mani a preghiera e, facendo ricorso a tutta la calma in corpo, li avevo supplicati: «In questi giorni vi chiedo per favore, per favore favorissimo, di non nominare vostra zia Latisha.»
«Pe-perché?» aveva domandato Leonard.
«Poi te lo spiego.»
«No, ora» si era intromessa Cindy, sospettosa.
«Dopo.»
«Ora.»
Mi ero chinata su di lei, le mani sulle cosce. «Ti aiuto con i compiti di matematica. Ti suggerisco anche le risposte.»
Ci aveva riflettuto, poi aveva sorriso. «Affare fatto.»
Avevo tirato un sospiro di sollievo, riposizionandomi eretta. Ma dentro di me avrei dovuto dare ascolto al mio sesto senso: quello che mi suggeriva di non fidarmi di una bambina tanto scaltra.
Desmond si era trascinato sulla soglia, la tempia sullo stipite.
Dalle occhiaie ero dell'idea che non dormisse da giorni.
«I miei nipoti preferiti me lo vogliono dare un abbraccio?»
Avevano eseguito all'istante, circondandogli la vita in una calorosa rappresentazione d'affetto, che lui aveva accolto stringendoli a sua volta. O almeno, finché Cindy non aveva deciso di rovinare tutto, issando il viso dalla sua pancia e stringendo gli occhi: «Quindi perché non possiamo nominare zia Latisha in tua presenza?»
Mi ero sbattuta la mano sulla fronte.
«Chi te l'ha detto?»
Insieme, Cindy e Leonard mi avevano indicata. Avevo spalancato la bocca, senza parole. «Ma che... Cindy! Non ti suggerisco più!»
«Tanto i compiti li avevo già fatti.»
Avevo balbettato qualcosa di incomprensibile, per poi giungere nuovamente le mani, stavolta dirette a Desmond. «Scusa, ti prego.»
«Una spiegazione?»
«Per paura che ti facessero domande scomode...»
«Pff, potevano farmele senza problemi. Sono immune al dolore.» Serissimo, aveva aggiunto: «Ormai sono una persona insensibile».
Era uscito di scena, e su di noi era calato un sipario di perplessità. A me aveva fatto venire i brividi. Senza contare che, poco dopo quelle parole tanto sicure quanto fredde come delle calotte polari, dal corridoio era sopraggiunto l'eco di un lungo, grottesco piagnucolio.
Ed era stato solo l'esordio.
Un pomeriggio l'avevo chiamato, per assicurarmi che Leonard si fosse ripreso dallo streptococco che stava curando già da qualche giorno. In sottofondo avevo udito un coro di malcontento da parte dei bambini, al punto che, per ascoltare Desmond, avevo continuato a strizzare gli occhi e premere un dito nell'orecchio libero.
«Desmond?»
«Tu, là dietro, prenditi cura dei miei capelli. Fammi bello.»
«Do-dove la v-vuoi la ri-r-riga?»
«Dove preferisci, amore mio.»
«An-anche i fer-fe-fermagli?»
«E i bigodini rosa.»
«Ehm, Desmond?»
«Zio Des, quando mi paghi?»
«Domani.»
«L'hai già detto ieri.»
«Le banche, quindi il mio portafoglio, non effettuano versamenti nel weekend, devi aspettare il primo giorno lavorativo. In parole povere: zitta e sgobba.»
Mi ero messa a fissare l'orologio. «Deeesmond?»
«Vabbè, ok, però voglio un aumento.»
«E io volevo un matrimonio.»
«Quindi non ti sposi più?»
«Non mi sposerò mai più. D'ora in poi vostro zio fa l'eremita. E lo smalto lo voglio rosso, non vermigl – Ah, Ophelia, sei ancora lì?»
Mi ero stretta la radice del naso. «Cosa stai combinando?»
«La manicure.»
«Eh?»
«Plus: la permanente.»
«Sicuro di star bene?»
«Dovresti provare: espelli un sacco di negat– Ho detto rosso!»
«Finché non mi paghi il lavoro uso un altro colore, tiè.»
«Brutta figlia del capitalismo che non sei altro.»
L'ultimo step era stato il delirio.
Desmond era rincasato come consuetudine, dopodiché si era seduto sul divano, esausto, e aveva iniziato a fissare la televisione spenta, inerme, senza battere palpebra. Prima che me ne andassi, io e i bambini l'avevamo sorvegliato dalle scale, dietro l'angolo del muro.
«Ci-Cindy.»
«Cosa?»
«Zio D-Des è tri-triste, vero?»
«Già.»
«Gli a-andiamo a d-dare un altro a-ab-abbraccio?»
«No, che poi si mette a frignare e mi dà fastidio.»
Dando una carezza sui capi di entrambi, mi ero allontanata di qualche passo per sfoderare il telefono dalla borsa e chiamare una persona che di recente mi aveva dato il suo numero: Ian, il migliore amico di Desmond. L'ultima volta che era venuto a visitarlo, più per cercare di distrarlo, si era accorto anche della mia presenza e, in un secondo in cui Desmond si era assentato al piano superiore, mi aveva rifilato il suo numero. "Casomai la situazione diventi troppo deprimente da gestire, dimmelo, che ci penso io a 'sto coglione".
Avevo seguito il suggerimento.
«Pronto?»
«Ehi, ciao, scusa il disturbo. Non so se ti ricordi di me.»
«Ah, la babysitter! Certo che mi ricordo di te. Dimmi tutto.»
«Proprio io.» Avevo lanciato uno sguardo furtivo ai bambini. Stavano complottando su come agire senza sembrare indelicati. «Come posso spiegartelo... La situazione è abbastanza deprimente.»
Due secondi, e aveva sospirato.
«E poi rompeva il cazzo a me quando la mia ex mi aveva mollato. "Hai trent'anni appena compiuti, mi metti in imbarazzo" e bla, bla, bla. Ah ma poi vedi come gli rinfaccio tutto appena si riprende.»
«Sai, mi spiace tanto vederlo così distrutto...»
«Nah, tranquilla che gli passa, dagli ancora dalle due alle quattro settimane e torna il solito rompicoglioni. Ma comunque.» Aveva fatto una pausa per starnutire. «Quanto è grave la situazione?»
«Tanto per cominciare fissa la televisione.»
«Accesa?»
«Spenta.»
«Gesù, che ridere. Sta sperando che esca fuori qualcosa? Tipo un intervento divino? Latisha?» Gli era sfuggita una grassa risata, di gola. «Dammi massimo mezz'ora e arrivo a dargli un calcio nel culo, ok?»
Non si era appellato alla delicatezza, nemmeno una volta qui.
«Des, coraggio, alzati.»
«Perché?»
«Come perché? Continui a fissare la tv spenta, cazzo.»
«Ahhh...»
«Eh, ahhh cosa?»
«Non potete capire, c'è il mio programma preferito.»
Io e Ian, allibiti, avevamo voltato la testa sullo schermo. «Quale?»
«Ma come, non lo vedete?» Aveva dato un cenno col mento al suo riflesso, il gomito sulla spalliera. «Cronache di un single che morirà single. E ci sono pure io tra le comparse. Che meraviglia, è tutto così coerente.»
Ian aveva chiuso gli occhi, la pazienza chiaramente al limite. «Ok, senti: ti do dieci secondi d'orologio per infilarti una dannata giacca e farmi compagnia al Billy Murphy. Forza.»
«Non ne ho voglia, lasciami in pace.»
«Nove.»
«Tanto non mi convinci.»
«Otto.»
«Dai, Desmond...» Mi ero seduta sul bracciolo e gli avevo posato una mano sulla spalla. «Esci, vai a berti qualcosa, ti farà solo bene.»
«Sette. Sto per diventare violento. Sei.»
«È una perdita di tempo. E poi Gregg non è ancora arrivato.»
«Cinque.»
«Rimango io coi ragazzi. Non c'è problema.»
«Quattro.»
«Tu dovresti tornare a casa, Ophelia.»
«Tre.»
Poi, d'un tratto, i suoi occhi si erano illuminati. «Anzi, sapete cosa c'è?»
Avevo sollevato le sopracciglia dall'incredulità, e pure Ian, quando l'avevamo visto alzarsi. Anche il conto alla rovescia si era arrestato. Desmond si era stiracchiato volgendo le braccia all'insù, l'orlo spiegazzato della camicia a righe aveva seguito la direzione del proprietario, e, con nonchalance, aveva tirato fuori dalla tasca il cellulare. Senza degnarci di un'occhiata ci aveva oltrepassati, fischiettando, in direzione dell'androne in cui sboccavano le scale.
«Chiamo Latisha.»
«Puoi ripetere?» Ian, intimidatorio, si era risvoltato le maniche.
Desmond aveva sollevato il pollice mentre camminava. «È tutto sotto controllo. Mi limito a comunicarle che sto benissimo e che mi hanno preso ai casting di quel programma. Tanto lo so che muore dalla voglia di chiamarmi. Le sto solo facendo un grosso favore.»
Mi ero infilata le mani tra i capelli.
Ian, calmo come poteva esserlo uno squalo che gironzola allegramente attorno alla sua preda, mi aveva scostata con un braccio. «Fatti da parte, tesoro, qui qualcuno sta per farsi del male.»
Era successo poche volte, per fortuna. E in quelle occasioni la morale della favola si concludeva con il suo migliore amico che prendeva la rincorsa, una carica a pari passo di un giocatore di rugby, e lo placcava. Finivano maldestramente a terra, il telefono spiccava il volo, Desmond gli urlava contro, Ian gli intimava di cancellare il numero di Latisha, che la vita andava avanti pure senza di lei, che non era l'unica donna, e tutta una serie di massime che gli sciorinava mentre rimaneva seduto sopra di lui e gli bloccava il braccio dietro la schiena, tipo i poliziotti.
L'aveva convinto. Anche se conosceva il numero a memoria.
Adesso, a distanza di settimane da quei picchi di afflizione, potevo confermare che la situazione si stesse già riprendendo. Prima che si ristabilizzasse ne sarebbe passato di tempo, ma il fatto che Desmond, ora, riuscisse a parlare di Latisha senza farsi prendere dall'angoscia era un gran passo avanti.
«Quanto sei brava» sussurrai, osservando il disegno che mi aveva fatto Cindy a scuola. Ritraeva me con una delle mie salopette di jeans, e per mano tenevo lei e Leonard. Tutti e tre sorridenti: la villetta sullo sfondo, e i raggi del sole che la toccavano come una promessa di speranza. Casa.
Lo sgabello girevole cigolò quando mi dovetti voltare.
Cindy e Leonard, sul letto del secondo, stavano dormendo.
Quando ero andata a recuperarli, avevo chiesto a Gregg, per telefono, se potessi assecondare il loro desiderio di trattenersi al parco giochi che costeggiava la scuola, visto che i compagni di classe si erano fermati per poter festeggiare il compleanno di uno di loro.
Aveva acconsentito di fretta, poiché la sua presenza era richiesta in sala operatoria, ma a patto che saremmo rincasati attorno alle cinque. Era bastato quel paio d'ore trascorso fuori per far sì che ai bambini si scaricassero le batterie; erano tornati esausti ma soddisfatti. Persino Cindy che, a differenza di Leonard, faticava a legare con gli altri ragazzini, si era goduta quella giornata all'aria aperta. Non che si fosse soffermata a giocare con qualcuno in particolare. Ma dalla panchina in cui avevo piazzato il mio punto di osservazione, avevo scorto molta meno indifferenza, meno orgoglio e più interesse nel momento in cui uno di loro la invitava a giocare.
Tra le righe, quando esitava dall'accettare con un'espressione austera e criticante, leggevo una sorta di vergogna nell'infrangere un suo regolamento morale. Più plausibile, quello che immaginavo la madre le avesse inculcato in testa.
Tuttavia, avevo notato che negli ultimi mesi, specie a seguito dell'incidente con il padre, erano avvenuti dei piccoli cambiamenti, in particolare nel rapporto che legava Cindy al fratello minore. Avevano cominciato a sopportarsi di più rispetto al periodo che aveva caratterizzato i miei primi giorni da babysitter, se si sfioravano non scoppiava il finimondo, Cindy interrompeva meno Leonard, Leonard ricorreva più alle parole che alle mani per difendersi, e la parola "mamma" non si trovava più nel fulcro delle loro discussioni. E in un certo senso, secondo una mia idea contorta, era come se stessero cercando di ricostruire da capo una loro casa – una casa nella casa – a partire dalle fondamenta, deteriorate per colpa di un rapporto distruttivo che si era protratto troppo a lungo e che li aveva portati ad allontanarsi. Tutto ciò stava avvenendo sotto ai miei occhi, giorno dopo giorno, senza che se lo dicessero chiaramente in faccia.
Mi spuntò un sorriso. Non potevo esserne più fiera.
Piegai il disegno, infilandolo in borsa, e controllai i bambini; quando si erano addormentati avevo sfilato gli occhiali a Leonard e, prudentemente, avevo tolto a entrambi le scarpe sporche, incorniciate di fango. Appena li avevo avvolti in una coperta di lana si erano stretti tra loro, l'una di fronte all'altro, a respirare il respiro dell'altro, con gli occhi chiusi e dei borbottii incomprensibili a fior di labbra.
Uniti. Senza che se ne rendano conto.
Il ronzio del campanello stabilì di rompere la magia.
Sgranai gli occhi. I bambini si mossero tra le coperte, mugolando infastiditi. Il rumore non si placò.
Piombai fuori dalla stanza, scesi le scale e volai a spalancare il portone senza nemmeno controllare chi fosse, tanta era l'urgenza di non far svegliare i ragazzi. Ma quando apparvero i volti umidi di pioggia di Desmond e Ian, mi obbligai a elaborare. Il primo circondava le spalle del secondo, l'espressione soddisfatta, e con l'altra mano agguantava il mento definito dell'amico, costringendolo a tenerlo girato verso la sua direzione in un costretto faccia a faccia.
«Quando convoliamo a nozze?»
Ian si scostò dalla presa e mi rivolse uno sguardo dispiaciuto, le gocce d'acqua gli imperlavano i capelli bruni. «Scusaci, Ophelia. Il fenomeno ha dimenticato le chiavi a casa e ha una copia qui, dice.»
«Dai, ti prego, mi sposi?» insistette Desmond.
«Se accetti una relazione aperta ci posso riflettere.»
«Ma io sono aperto... Sono una persona apertissima.»
Continuò a guardarmi. «È stato un aperitivo molto divertente.»
Mi feci da parte, sospirando: «Fallo entrare e buttalo sul divan–»
«Invece tu? Tu non mi sposi?» Desmond mi aveva posato una mano sul capo, dandogli un paio di colpetti mentre avanzava fiacco. Sul suo volto scorsi un rossore che gli tingeva naso e gote come pozzanghere di vino, le palpebre socchiuse, appesantite dalla stanchezza. Dopodiché tolse la mano ancor prima che potessi rispondere. «Brava, non accettare, che sono una brutta persona.»
Si trascinò sul divano, dove ci si sdraiò di peso.
Ian, accanto a me, scosse la testa. «Mangia pure un cazzo, guardalo: pelle e ossa, pare un fottuto reperto archeologico.» Desmond, senza issare il viso dal cuscino, sollevò il dito medio. Ian lo ignorò e mi passò un biglietto plastificato. «Fra poco devo scappare a lavoro. Suo fratello dovrebbe arrivare a momenti, credo. Intanto ti dispiace occuparti di lui?»
«Ah, certo.» Studiai il biglietto. «Ma il tuo numero ce l'ho già.»
Lo sguardo si tramutò in uno canzonatorio. Poi ammiccò. Anche senza analizzare angolo per angolo quel volto allungato in cui una barba incolta e degli occhi decadenti facevano da scenografia, era indiscutibile che fosse un uomo attraente. «Guarda bene. Non è il mio numero.» Picchierellò l'indice sul foglietto. «Bensì il mio "biglietto da visita", il nightclub dove lavoro. E se una sera tu e le tue amiche siete in cerca di un posto dove scacciare malumori vari...»
Lasciò la parola in sospeso, con un sorriso malizioso.
Ricordai che di mestiere facesse lo spogliarellista.
«Oh. Beh, certo. Sì.» Mi sentii avvampare.
«Ian, finiscila di propagandarti» brontolò Desmond dal divano, la voce attutita dal cuscino. Pareva tanto il lamento di un moribondo.
«E se cercate un trattamento stellare: prenotate me per la sedia scottante. Vi assicuro che questi...» Mi afferrò la mano e la fece aderire sui suoi addominali, che avvertii solidi al tatto. «... sanno come farvi viaggiare.»
«Ian» grugnì Desmond, severo. «Vedi di andartene.»
Inebetita, stavo ancora contemplando quel punto a bocca spalancata. Premetti di mia volontà su quella pancia piatta. Pareva ci fosse una distesa di mattoni. Incredibile, mai sentito nulla del genere.
Ian sbuffò e mi liberò il polso, dirigendosi alla porta e sollevando indice e medio. «Vabbè, vado, che quello poi rosica. Des, magari della palestra ti toglierebbe quella pancett–»
Gli arrivò un cuscino in testa da Desmond, che urlò: «Fuori!»
L'altro, sghiagnazzando, se la diede a gambe. Appena il portone sbatté, raggiunsi Desmond mentre mi stavo ancora fissando il palmo aperto, le guance sicuramente imporporate.
«Razza di stronzo. Sei libera di denunciarlo, hai la mia benedizione» borbottò, girandosi su un fianco, un braccio sotto al cuscino e gli occhi chiusi in una smorfia sofferente. «E non è vero che ho la pancetta.»
Presi posto vicina a lui, sul bordo del divano, all'altezza della sua vita. Ma udendo uscire dalla sua bocca dei versi soffiati, di chi cerca di reprimere il freddo stringendosi su se stesso, abbandonai l'attenzione dalla mano per osservarlo. Il suo corpo stava tremando.
«Ehi» mi allarmai, posandogli la mano sul braccio, anch'esso scosso, i muscoli che si contraevano. «Che cos'hai? Che ti prende?»
«Ah, questo? Normale amministrazione: è la vecchiaia che inizia a mandarmi ultimatum.» Accennò un sorriso tirato, sempre a occhi chiusi. «Certo, con un sistema immunitario inutile e questi continui sbalzi di temperatura è ovvio che prima o poi mi...» Si abbracciò da solo, forse per scaldarsi, e gli uscì un altro verso. «Dio, le ossa...»
Constatai che aveva la fronte madida, perle di sudore brillavano all'attaccatura dei capelli come brina. Cauta, col dorso della mano gli tastai la tempia. Era bollente. Il che mi portò a sospirare. «Credimi che questa non è la vecchiaia: ti si sta solo alzando la febbre.»
Diede un colpo di tosse. «Giusto per non farci mancare niente.»
Senza aggiungere altro saltai giù dal divano e corsi a recupere un paio di coperte dal ripostiglio, che caricai sulle braccia. Coprii Desmond fino al mento, lui mi lasciò fare senza obiettare; era già impegnato a borbottare dei versi dolenti per badare a me. Dopodiché, mi fiondai in bagno a recuperare dall'anta inferiore del lavandino una brocca di plastica dalla bocca circolare e le linee sbiadite dal tempo che segnalavano i millilitri. Il getto dell'acqua ghiacciata la colmò a metà.
Ci misi a mollo un tovagliolo di lino.
Quando tornai, di lui si intravedevano solo dei ciuffi di capelli sbucare dalle coperte. Delicatamente, gli scoprii il viso, molto più arrossato di prima. Schiuse le palpebre e, notando ciò che avevo portato, li richiuse. «Non è necessario che tu lo faccia. Ora passa.»
«Non credo passi così alla svelta. Tieni la testa dritta.»
Sbuffando, seguì il consiglio, sistemandosi a pancia in sopra. Strizzai il tovagliolo sulla brocca e gliela adagiai sulla sua fronte. «Ricordami di darti un extra prima che te ne torni a casa.»
«Stai scherzando, vero?»
«No.»
«Non mi devi niente a priori, non sei un bambino.»
Ridacchiò, fiacco. «Mi sento un bambino. Non ricevevo un trattamento del genere da... Oddio, troppi anni, meglio non contarli.»
«Guarda che anche gli adulti fanno le spugnature d'acqua fredda.» Sorrisi, sistemandogli i lembi del tovagliolo più su, in modo che aderisse meglio alla pelle e non cascasse. Ma appena lo sfiorai, aprì gli occhi. Non guardò me, bensì il soffitto. «Come ti senti?»
Capì a cosa mi riferissi.
«Cerco di resistere all'impulso di cercarla. Ma ormai basta, dopo oggi mi metto l'anima in pace. Sono stanco.» Premette la mano sul tovagliolo, la voce arrochita, come un fiacco grattare di pietrisco. «E ti dirò di più: quei bicchieri che ho buttato giù non li sento nemmeno. Appena mi riprendo probabilmente lascerò una pessima recensione a quel pub, visto che avranno fatto passare per alcool, del ghiaccio.»
Fu più forte di me lasciarmi andare a una lunga risata.
«Quindi quella con Ian era tutta una messinscena?»
«Certo, così mi sbrigavo a togliermelo dalle palle.» Risi di nuovo, lui, in mezzo ai tremori, distese l'espressione accartocciata. Anche se nascosto dalla coperta di lana, credetti avesse sorriso. «E i ragazzi?»
«Di sopra, dormono. È stata una gita al parco molto intensa.»
Annuì, poi sgranò gli occhi. «Cosa, dormono?»
«Proprio così. E gli ho fatto anche una foto.»
Afferrai il mio cellulare dalla tasca posteriore, scorsi nella galleria e, entusiasta, gliela mostrai. Dovette alzare un po' la testa dal cuscino e stringere le palpebre per via della luminosità. Poi, capendo in che posizione si erano addormentati, lo sguardo si trapuntò di meraviglia, uno di quelli capaci di rendere note anche le rughe ai lati degli occhi, simili a delle sottili onde.
«Per favore, mandamela. La faccio incorniciare per Gregg.»
Premetti sul pulsante "condividi". «Appena fatto.»
La felicità sul suo volto ebbe vita breve, poiché si rifugiò sotto le coperte per dare dei secchi colpi di tosse. Quando riemerse, parecchio spazientito, chiuse gli occhi. «Tosse del cazzo» mormorò.
«Ti preparo qualcosa? Latte col miele, limone caldo...?»
«Preferisco non rigettare quel poco che ho mangiato... Ma se conosci dei metodi alternativi per alleviare il dolore, ti sto a sentire.»
Meditai un attimo, osservando le plafoniere al soffitto. Poi mi sfuggì un sorriso. «Senti questo aneddoto: la mia mamma adottiva, quando ero piccola e stavo così male, mi cantava delle storie. Non so come ci riuscisse, a dir la verità, ma era in grado di farmi pensare meno al naso chiuso e al fatto che avessi il pigiama sudatissimo. Non lo so... un secondo prima ero sveglia, quello dopo dormivo. Puf.»
Troppo presa a inseguire la scia felice di quel ricordo e a rivedere, quasi ce l'avessi di fronte, la proiezione di Cordelia che mi solleticava il nasino ogni volta che ridacchiavo, mi accorsi tardi che Desmond mi stava fissando. Il sorriso sparì. Nonostante la febbre gli appannasse lo sguardo, apparve più vigile. Fu una premessa più che sufficiente per distogliere l'attenzione sulla brocca.
«Ti stai proponendo di cantarmi qualcosa?»
Misi subito le mani avanti, scuotendole. «No, no! Era solo un...»
«Va bene, ci sto, cantami qualcosa. Sono tutto orecchie.»
«No, era un... Cioè era un ricordo di quando...»
«Coraggio, non sto scherzando.»
«Desmond, io...»
«Canta.»
Bastò quello perché voce e mente entrassero in una condizione di apnea. I pensieri si arrestarono nello stesso momento; nessun viaggio di informazioni da un neurone all'altro, nessun grumo di lettere da rigettare per controbattere. Niente da fare; incatenata a una parola da cui non trapelava alcuna presa in giro, trovai una certa difficoltà anche per deglutire. Capii di aver commesso un errore madornale: parlare di un qualcosa che non mi apparteneva più. Una seconda casa da cui avevo deciso di sfrattarmi. Una vita che avevo generato e poi ripudiato, disprezzato, abbandonato in un vicolo buio, lasciato a marcire nelle corde vocali.
L'istinto mi punse l'inconscio, permettendomi di svegliarmi e di continuare a salvaguardarmi nell'unico modo che avevo imparato.
Scappando.
Saltai in piedi, intenzionata a rifugiarmi al piano di sopra. Ma Desmond, che probabilmente l'aveva previsto, mi ghermì il polso.
«Eh no, mi dispiace.» Con uno strattone, mi fece risedere. «Abbiamo rimandato questa conversazione anche troppo a lungo.»
Non abbandonò la presa, nemmeno quando la mia mano subì un tremolio. Dall'ansia, dalla paura, dalla nausea. «Ti prego» mormorai a fatica, chiudendo gli occhi e aggrappandomi alla stramba idea che quel momentaneo istante di cecità bastasse per eclissarmi dal salone, dal presente, da ciò che si nascondeva dietro a quella... richiesta.
«Ophelia, ehi.» Gentile, misurato, come se avesse a che fare con una creatura troppo fragile, e lui avesse le mani pesanti, modellate nel piombo. «Parlarne potrebbe solo aiutarti, lo sai?»
Mi morsi il labbro, sussurrando: «Non ci riesco».
«Prova.»
«Non puoi capire, Desmond.»
«Aiutami a farlo, allora.»
Repressi un sorriso amaro. «Lo riterresti così stupido che...»
«Sono abbastanza sicuro che se lo fosse non ti verrebbero degli attacchi di panico per colpa di un microfono.» La stretta al polso si ammorbidì, il pollice, ruvido, lo accarezzò avanti e indietro, come le onde sul bagnasciuga. «E poi, se dobbiamo davvero prendere questo argomento, non lo faremo paragonandoci ai problemi degli altri. Ora stiamo parlando di te, di Ophelia Burns.»
Mi costrinsi ad aprire gli occhi, fissandoli sulla brocca. Provare a parlarne. E se invece di migliorare, peggiorassi la situazione? E se scoperchiare questo dannoso vaso di ricordi mi portasse a regredire ancora, magari fino a che la voce non si estingua del tutto?
Qualcosa mi solleticò la gola.
Schiudendo la bocca, ci vollero alcuni secondi perché mi accorgessi di ciò che stava compiendo Desmond: stava bussando dolcemente sulla valle con indice e medio uniti, due rapidi colpetti, proprio come mio padre mi aveva sempre insegnato. Proprio come avevo mostrato a Desmond la sera della sfilata, davanti alle luci notturne di New York. «Quel bel discorso che mi hai fatto al Boom Boom Room» disse, la voce roca. «Perché non lo applichi anche su te stessa? Bussa qui, ogni tanto, non scappare ancor prima che aprano.»
Preda della vergogna, non riuscii a rispondere.
Le dita di Desmond approfittarono del silenzio danzando sulla mia gola, ancora e ancora, ticchettando come un orologio che segnava sempre la stessa ora. Lo presi come un non voler chiudere la conversazione, non subito almeno. Raccolsi un po' di coraggio e saldai lo sguardo sulla radice del suo naso. Lui strinse le palpebre, mormorando: «Perché hai smesso di cantare?»
Le sue dita scivolarono sotto le coperte.
L'altra mano decise di rimanere sopra la mia, a infondere carezze che erano un po' un sostegno morale, una sorta di "Inizia, che sono pronto". Ma a cosa serve parlarne, Desmond, se tanto il problema rimane anche dopo, anche se avessi un peso in meno da reggere? Parlarne non risolverà proprio niente, non è una bacchetta magica che annulla ciò che è stato, tantomeno disperderà la vergogna che mi annebbia il cuore. Niente potrà ricostruire quella seconda casa.
Mi dissi che provare a parlarne con una persona di cui mi fidavo, d'altra parte, non poteva essere un'idea tanto orribile. In fin dei conti, non avevo mai approfondito la questione nemmeno coi miei genitori. Per cui, mi trovai a riflettere per un po', e poi, con un sospiro, proferii: «Allora mi prometti che...» Esitante, non osai abbandonare l'attenzione dal mio piede che, fremente di farmi correre, aveva preso a picchiare sul pavimento. «Mi prometti che non riderai?»
Ci impiegò qualche istante per rispondere.
«Promesso.» E il suo pollice si fermò, rimanendo piazzato lì.
Il cuore, turbato dalla piega che stavano prendendo gli eventi, martellò fino ad avvertirne l'eco nei timpani, e un bozzolo di parole rimase invischiato in gola. Aprire e chiudere la bocca, per qualche secondo, fu il massimo che riuscii a fare, accompagnato da dei sorrisi colmi di disagio.
«Scusa.» Mi inumidii in fretta le labbra, le lacrime che stavano già salendo, così, all'improvviso, senza aver detto nulla. «Un attimo.»
«Non mi muovo da qui.» Diede un cenno al suo corpo tremante, sommerso dalle coperte. «Per la cronaca: non ci riuscirei neanche.»
Riuscì a farmi sorridere.
Ma per istinto, o per necessità, mi aggrappai alla sua mano, che aveva trovato dimora sulla mia. Le fissai mentre si trovavano così: sovrapposte, unite. «Avevo... questo gruppo di amici, una volta, che per me era un po' una seconda famiglia. Non dico che andavamo d'accordo su qualsiasi cosa, nemmeno che eravamo la tipica banda che si muoveva in branco. C'erano parecchie divergenze, ma sapevamo sempre come ristabilire un buon equilibrio. E quando accadeva diventava tutto così bello da far sembrare i problemi quotidiani insignificanti.» Uno alla volta, mi materializzarono i loro volti: quello beffardo e lentigginoso di Warren, quello supponente e affascinante di Fannie, quello austero e impassibile di Gwenda e quello ammiccante e dolce di Jay. In ordine, per come li avevo conosciuti. «Una volta cantavano.» E quel vocabolo pesò sulla lingua, come se ci avessero depositato del catrame. «E io con loro.»
«Eravate un gruppo?»
«Un gruppo a cappella. Nato così, perché un bel giorno mi era saltato in testa di farli incontrare e di sperimentare questa unione di voci e...» Mi interruppi. «Mi chiedo se ora non se ne siano pentiti.»
Percepivo il viso pizzicare; anche senza esserne certa, capii che Desmond mi stava guardando attentamente. Per ciò che avrei dovuto raccontare, mi obbligai a tenermi impegnata con dell'altro. Di conseguenza, sfilai la mano dalla sua presa per rimuovergli il tovagliolo umido dalla fronte. Era talmente bollente che era riuscito a riscaldare quel pezzo di stoffa in relativamente poco tempo. Quindi, lo immersi nell'acqua ghiacciata, strizzai più volte per procrastinare, ma Desmond attendeva. Non ci pensò due volte per ricordarmelo.
«E poi?»
Smisi di suppliziare il tovagliolo e, adagio, lo posizionai di nuovo sulla sua fronte, ora aggrottata. Mi soffermai a sistemarglielo più del dovuto prima di continuare con un flebile: «Poi ho rovinato tutto».
«Come?»
«Con questa.»
Tamburellai le dita sulla mia gola. Lui, lento, abbassò gli occhi su di essa. Lo sguardo assorbì una luce più cupa, tagliente. Anche se stava male, mi colpì quel suo voler stare a sentire a tutti i costi questa storia, specie in un momento simile. Tuttavia, stavolta non disse nulla. Aspettò paziente che fossi proprio io a riprendere il discorso.
«Avevamo aperto un canale YouTube dove ci esibivamo.»
Accennò un sorriso genuino. «Davvero?»
«Già. Nulla di eccezionale, in realtà, ma era carino avere della gente che ci seguiva con interesse, che apprezzava il nostro modo di interpretare la vita, in tutte le sue sfumature.» Mi scoprii a sorridere, rimembrando le clip in cui riproducevamo dei brani celebri. L'eco dei cori che si armonizzavano davanti alla telecamera a buon mercato di Warren, delle risate che ne contornavano le gaffe quando l'uno non rispettava i tempi dell'altra e l'entusiasmo che sgorgava dai commenti di quegli utenti che volevano ascoltare sempre di più. Poi, però, un mulinello inghiottì ogni scenario, ogni volto, ogni commento, ogni sensazione. Così come il mio sorriso. «Era stata la spinta giusta che ci aveva portati a trasferire la nostra passione davanti a un pubblico... uno vero.»
Premetti le mani sulle cosce, quasi fossero due stampini.
Quella grande di Desmond andò in loro aiuto, coprendole.
«Ci eravamo uniti a una raccolta di beneficienza. Ci piaceva l'idea di dare un piccolo contributo a un rifugio malmesso per senzatetto, e intendevamo farlo racimolando qualcosa col canto» mormorai, la voce che indugiava, chiedeva basta. «Non vedevo l'ora di farlo...»
Il magone mi obbligò a prendere una pausa; si accavallarono le sensazioni pre-esibizione, il momento in cui avevamo riprodotto la base di Imagine con il solo supporto delle nostre voci.
«Andava tutto così bene.»
Il silenzio calato fra gli spettatori che avevano seguito l'esibizione in piedi, sul prato tempestato di soffioni, col caldo che faceva appiccicare i vestiti e gli smoothie in mano ai più piccoli.
«Era tutto così perfetto.»
Viavai di famiglie, coetanei che, spinti dalla curiosità, si erano avvicinati, qualcuno che aveva fatto la sua donazione al banco, e i miei genitori che, orgogliosi, avevano seguito lo spettacolo distanti.
«E poi un rumore.»
Uno diverso, uno che ti costringe a stare sull'attenti. Uno che non apparteneva ai cinguettii che infestavano l'aria tersa o allo zampillare delle fontane poco distanti da lì. Perché quello era stato uno sbuffo di chi trattiene tra le labbra un'imprecazione, o in alternativa, una risata.
«Leggero, ma l'avevo sentito.»
Dal palchetto che avevano acconsentito di allestire alla bell'e meglio in quel frammento del Fairmount Park, avevo abbassato lo sguardo durante l'assolo che riprendeva il ritornello del brano di John Lennon. A pochi passi, una ragazza seduta sul prato, a gambe incrociate, aveva guardato me e poi si era inclinata a mormorare qualcosa alle sue amiche, per poi guardare di nuovo me.
«Ce n'era stato un altro, poco più in là.»
Avevo ignorato.
«E un altro.»
Avevo ignorato anche quello.
«E un altro.»
Continuando a fingere di ignorare, il cuore si era tramutato in un blocco di pietra. Era diventato così pesante e i battiti così incontenibili da aver temuto che avessero soppresso il tono di voce, che alle orecchie degli altri risultasse a malapena un sussurro. Così, ogni strofa si era fatta più difficile da gestire, da portare avanti, da tirare fuori; mentre cantavo avevo lanciato occhiate preoccupate ai miei amici, non capendo cosa stesse accadendo. Intuendo a cosa mi riferissi, mi avevano tacitamente risposto con degli sguardi altrettanto perplessi.
«Non ne capivo il motivo.»
Avevo cercato di non farci caso, che magari era frutto della mia immaginazione. Poi, però, ai versi trattenuti, si erano aggiunti gli sguardi eloquenti dei ragazzi che avevo avvistato comportarsi in quel modo inspiegabile. A differenza di chi stava osservando per curiosità o per il semplice gusto di intrattenersi a fare qualcosa in quel pomeriggio assolato, quelli non erano occhi che cercavano di capire, di assistere. Quelli erano occhi che trattenevano derisione, risate di scherno. E le si percepivano sulla pelle, più di quanto si potessero percepire quelle che uscivano da una bocca. Ci era voluto poco che delle risate vere sfuggissero da una manciata di individui, seppur avessero cercato di arginarle parandosi la mano davanti alle labbra.
«I commenti.»
"Ma non sa cantare, cazzo."
«Quei commenti... Io non me li aspettavo.»
"Non potrebbero chiuderle quella bocca?"
"Che aborto."
"Non si può sentire."
Sembrava fatto di proposito che si fossero piazzati proprio lì vicino, in modo che chiunque si fosse trovato sul palco avesse avuto modo di udire e assorbire ogni parola. Nonostante qualche individuo, nelle vicinanze, avesse provato a riprenderli sul fatto che non fosse educato esprimere certi commenti a voce alta, io mi ero sentita persa.
Mi ero sentita persa e spaventata e con delle fondamenta all'improvviso meno stabili di prima, con delle certezze meno certe.
«Avevo abbandonato il palco.»
Desmond, intanto, aveva ripreso le carezze sul dorso della mia mano. Forse per elaborare il racconto, ci impiegò un po' prima di chiedere con tono basso: «La cosa si era fermata lì?»
«No.» E la prima lacrima scivolò via. «Non si era fermata lì.»
«Cos'è successo?»
«Il canale, tutto il nostro duro lavoro ha iniziato a essere macchiato da...» Scese pure la seconda e la terza lacrima, ma lo sguardo non lo distolsi dalla brocca, quasi stessi rivivendo tutto proprio lì, al suo interno. «Da quella prima esperienza sul palco, sotto ai nostri video avevano iniziato ad accumularsi dei commenti di utenti mai visti, decine e decine e decine, e... Aspetta.»
Dovetti voltarmi dall'altra parte per asciugarmi le guance.
La voce cedette, fondamenta che si rifiutavano di farsi aggiustare, che tanto era tutto distrutto e irreparabile e inservibile. E io, stringendo i pugni come ulteriore sfogo, non facevo che trarre dei respiri, le forze necessarie che mi permettessero di continuare un racconto che avevo sempre represso nei cunicoli più inesplorati del cuore. La lingua, schiacciata dalla gravità delle parole che attendevano di essere gettate fuori, volle frenarmi, che al solo dover pronunciare la natura di alcuni commenti mi faceva ancora rivoltare lo stomaco, mi faceva venir voglia di dileguarmi nel posto più isolato del mondo e rinchiudermi in una grotta a scontare la mia vergogna.
«Commenti più pesanti?»
Qualche istante, e annuii.
«Dimmeli.»
«Non farmelo fare, ti prego...»
«Più accumuli tutto questo, più ti spaventerà ogni volta che vorrai parlarne con qualcuno. Non farlo per me, fallo per te stessa: sputalo fuori.» Tossì e, con un brivido che gli si inerpicò lungo il braccio, si avvicinò le coperte alle gote arrossate. «Voglio solo cercare di darti una mano.»
«Ma farà sempre male.» Tirai su col naso, la voce che si incrinava di nuovo. «Farà sempre male dover ricordare quei "Perché non sterilizzavano sua madre? Almeno ci risparmiavamo questo strazio", "Per cantare in questo modo avrà per forza la mamma puttana".» Con il palmo libero, ebbi il bisogno di coprirmi in una benda in cui nessuno avrebbe potuto leggere quanta mortificazione contenessi. «La mia mamma... Per colpa mia se la sono presi pure con lei. Ma che colpa ne ha? Che senso ha tutto quello che hanno... tutto quello che hanno detto? Perché non hanno continuato a offendere me? Perché? Che non la conoscono nemmeno.» Trattenni i singhiozzi a stento, a bocca chiusa. «Che... che non la conosco nemmeno io.»
All'epoca, preda di un attacco di panico e con Gwenda che cercava di farmi trarre dei respiri profondi, massaggiandomi la schiena, avevo supplicato Warren di disattivare la funzione dei commenti, e poi di chiudere il canale, che io non sapevo come si facesse, che più il tempo passava più sbocciavano nuove frasi, nuove cattiverie. Ogni volta che rivedevo quegli scenari, non riuscivo a non pensare di aver non solo affossato di vergogna me stessa, ma anche la mia vera madre, una persona di cui non conservavo nemmeno una foto, ma che non meritava un trattamento tanto vile, ingiusto, sporco.
Mamma, scusami tanto, ti prego...
Come la medesima delicatezza di una piuma che lambisce il ciglio di un lago, la mano rovente di Desmond mi costrinse, molto placidamente, ad abbassare quella disperata protezione in pelle e ossa, afferrandola dal polso. Ancora scossa da dei singhiozzi muti, dove era il petto a parlare, a sfogarne i sussulti, preferii rimanere a occhi chiusi, a pretendere ancora un po' di intimità con me stessa.
Lui, però, mormorò con un tono sì severo, ma che tratteneva anche un lieve stupore: «È a causa di questo che non l'hai più fatto?»
Mi sfregai le guance, celere. «È stato uno dei motivi... Non avrei sopportato che qualcun altro la offendesse così, non di nuovo, basta.»
Costringendomi ad abbassare lo sguardo, vidi Desmond, che a malapena teneva le palpebre alzate, abbassare le sopracciglia. Parve voler cercare una spiegazione sul polso che stava stringendo. Lo fissò con preoccupante insistenza. Ma alla fine stabilì di lasciarlo andare e rifugiare anche quel braccio sotto le coperte, chiudendo gli occhi.
Ci volle qualche secondo prima che parlasse.
«Me lo faresti un favore?»
Non capendo, attesi e basta.
«Risparmia quelle lacrime per una verità che fa male, non per questo.»
Schiusi le labbra. «Cosa?»
«Qualsiasi cosa ci sia stato di mezzo, Ophelia, non credo sia stato per colpa tua, o per qualche ipotetica stonatura.» Una serie di brividi lo fece raggomitolare ancor più a riccio. «Prendi Cindy e Leonard, esempio idiota, loro hanno amato il tuo modo di cantare, quella volta. Me l'hanno raccontato.»
Mi guardai gli anelli alle dita, che cominciai a torturare.
«Sono dei bambini, Desmond.»
«Sbaglio, o eri proprio tu a dire che i bambini sanno sempre essere onesti? Che se hanno qualcosa da contestare te lo dicono in faccia?»
Aprii la bocca, ma la richiusi.
«Già» continuò, facendo sbucare un mezzo sorriso. «Hai qualcosa di bello lì, dove ogni tanto ti dimentichi di bussare e aspettare, hai qualcosa che ti permette di stare bene, e si vede, si vede che hai rinunciato a un aspetto indispensabile della tua vita. E non importa quanto tu adesso lo veda come un qualcosa di troppo rotto, perché è una cosa tua. Tu la rompi e tu la aggiusti.»
Mi inumidii le labbra, scuotendo la testa.
«Temo di non essere più in grado di farlo.» Asciugandomi gli angoli umidi degli occhi, ripensai con un certo disagio ai commenti, a mia madre, a quello che potrebbe dirmi se fosse qui, agli sguardi addosso. «E anche se ci provassi, non ti nego che mi farebbe paura.»
Desmond, sul punto di piombare nel sonno, borbottò, la voce arrochita: «Farebbe paura a tutti». L'istante prima di avvertire un rumore di chiavi dall'ingresso, aggiunse più sommesso: «Riflettici. Magari con l'aiuto giusto potrebbe farti un po' meno paura.»
ANGOLO AUTRICE
Buooooongiorno, nightingales!
Dai, che ce l'ho fatta ad aggiornare in tempi - spero - più decenti.
Sappiate che questo rientra tra i miei capitoli preferiti in assoluto, non vedevo l'ora di scriverlo. Non avete idea della fatica. 🥲 Perlomeno tutta la parte leggera è stata un gioco da ragazzi, circa. E' la parte finale che mi ha fatta sudare. Oltretutto, finalmente sbuca fuori qualcosa di più concreto sulla paura che perseguita Ophelia. Direi che era ora che ne parlasse, voi che ne dite?
Questions:
▪️ Non dimentichiamoci dei flashback, questo era uno dei più importanti. Considerazioni sul rapporto Ophelia-Olivia ieri e oggi? 👀
▪️ Povero, povero Desmond 😂 è praticamente me quando finisco di vedere la mia serie tv preferita e cerco di metabolizzare. (Segretamente si rifugiava a mangiarsi anche il gelato). Dite che si riprenderà in tempi lunghi? Oppure può sorprenderci?
▪️ Un piccolo spazietto a Judy e a Rica ci tenevo a riservarglielo, anche perché la tematica dei senzatetto, seppur secondaria, è molto molto importante. Ci tengo che non vi scordiate di loro, specie di Rica. Cosa pensate di loro?
▪️ Torna una comparsa che, purtroppo, rimase pur sempre comparsa: Ian, il nostro spogliarellista. Lo adoro, senza se e senza ma. E no, non è l'ultima volta che lo vedremo. 😎
▪️ Ophelia e Des: allora, chi già mi conosce sa che AMO i "cliché" in cui uno dei due protagonisti fa la crocerossina della situazione. Quindi doveva esserci perché sì. In realtà, a parte per un capriccio personale, aveva pure la sua importanza, ma non mi dilungo. Btw. Approfittando della bolla di pace che si crea fra i due ogni volta che parlano, Desmond incoraggia Ophelia a tirare fuori ciò che ha sempre represso dentro di sé: il motivo per cui teme di cantare, di dar voce - appunto - alla sua voce. Vi aspettavate che ne parlasse adesso? Credevate di aspettare eoni? 🌚 Inoltre: che pensate di questi due? Avete apprezzato la loro scena?
▪️ Questo aspetto importantissimo di Ophelia, ossia il "trauma" che l'ha segnata, doveva essere rivelato in questo momento narrativo, proprio per il percorso che ne seguirà da adesso in avanti. E non vedo l'ora di scriverlo, onestamente. Spero abbiate compreso che, a parte l'aspetto di cui non ha parlato, sempre inerente alla paura di cantare (e che ne parleremo più avanti), questo timore viscerale nasce anche da tutta quella serie di commenti, gran parte magari insensati ma altrettanto cattivi, che erano stati rivolti alla sua madre biologica. 💔 Per Ophelia è un po' il suo punto debole, ed è bastato per farla smettere. Vi aspettavate anche questa spiegazione?
And, noi ci vediamo prossimamente! Sappiate che anche il prossimo si classifica come uno dei miei prefe. Curiosi? 🖤
Playlist:
Alone Again (Naturally) - Gilbert O'Sullivan (prima parte)
https://youtu.be/7Z2hmz2NlYQ
Alright - Supergrass (seconda parte - fino a quando Ophelia osserva il disegno di Cindy)
https://youtu.be/Bzsa8aktlcM
Crystalised - The XX (seconda parte - da lì fino a che Ophelia non inizia a raccontare)
https://youtu.be/-Jp2wNF1rkM
Dreams Of William - Daughter (seconda parte - da lì fino alla fine)
https://youtu.be/AJqMxGQ8r-o
Instagram: The_blackcatshadow
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