18. Senza contorni
Senza contorni
P.S musicale: l'ultima parte (la quarta), se vi va, è da leggere con Unconditional - Richard Walters. Ci vediamo giù, nightingales! 🕊️
Il signor Holmberg aveva scansato il coma per un pelo, e ventiquattro ore non erano state sufficienti affinché venisse dimesso dall'ospedale. Intossicazione da alcool, mi aveva spiegato Desmond in un momento in cui l'umore glielo aveva permesso.
L'avevo pregato di continuare a tenermi aggiornata sulle sue condizioni. Sia perché ero altrettanto preoccupata, sia perché nell'abbraccio che ci eravamo scambiati avevo percepito sulla pelle un bisogno pungente di vicinanza, di avere qualcuno con cui parlarne.
Le telefonate che si poteva permettere durante le pause di lavoro avevano contraddistinto i pomeriggi che mi avevano tenuta impegnata con i bambini; lui approfittava di quegli intervalli per rifugiarsi fuori dalla casa editrice, ricorrendo a una o a due sigarette come ulteriore sostegno morale, mentre io ricorrevo, molto banalmente, alla scusa del bagno. Ma almeno avevo la garanzia che Cindy e Leonard non ascoltassero le nostre conversazioni. Erano già abbastanza sconfortati per stare a sentire altri motivi per buttarsi giù.
Tutto sommato, Gregg si era ripreso in tempi rapidi.
Quando era stato ufficialmente dimesso, mi era stato offerto qualche giorno di riposo, gli stessi di cui si era avvalso il signor Holmberg. A detta di Desmond, però, non era soltanto per una questione di "copertura" nei confronti dei suoi nipoti, ma anche per principio, per tutto ciò che avevo dovuto sopportare. Andava ben oltre alle mansioni di una normale babysitter, aveva specificato.
Se solo sapesse quanto preferisca stare in casa loro...
Nel frattempo, agosto era volato via leggiadro come i semi di un soffione, e negli impegni che mi occupavano gli spazi liberi non avevo potuto fare a meno di notare come stessi cominciando a ridimensionare il concetto di casa, fuorviandolo dai binari del suo reale significato e facendogliene imboccare uno talmente sbiadito da renderlo inconsistente, privo di importanza, di... contorni. Spesso, osservando Cindy alle prese con i suoi attacchi d'arte, mi era venuto spontaneo associare "casa" a un disegno senza contorni: nient'altro che un accostarsi di colori, chiazze informi qua e là, vuote di significato, che eppure erano lì, ci tenevano raccontarti qualcosa, a trasmetterti qualcosa. Senza riuscirci. Casa stava diventando un posto come un altro. E pensarlo, realizzarlo, mi aveva portata a sprofondare nello sconforto più nero. C'erano pure state notti in cui, tra le lenzuola, temevo l'idea che a essere quella sbagliata, senza contorni, fossi io.
Forse stavo iniziando a capire di non meritarmi quella famiglia.
Forse ero quel colore di troppo in un disegno già completo.
Eppure, i miei genitori mi ricordavano spesso quanto fossi diventata assente; quando non ero occupata con il babysitting mi avrebbero voluto più in giro, in mezzo a loro. Allora perché continuo a sentirmi di troppo ogni volta che mi sorridono o mi abbracciano? E se mi stessero mentendo, proprio come supponeva mia sorella?
Rincorrere simili flussi di pensiero aveva fatto sì che dimenticassi l'arrivo imminente di un evento che, nel mio piccolo, avrei voluto saltasse grazie a un intervento divino: la New York Fashion Week.
Olivia voleva che la sostenessi in un giorno tanto importante per la sua carriera; sfilare durante la celebre settimana della moda, alla fine, era il perfetto trampolino di lancio per chi aspirava a una maggiore visibilità. Ero sicura che dopo un'esperienza del genere l'avrebbero cercata altre agenzie, magari più famose della Reinhard.
Glielo auguravo.
Tuttavia, le settimane precedenti alla Fashion Week si erano impregnate di tensione; l'aria che aveva infestato casa variava dall'impasto fresco dei cookies preparati da mamma, all'irritabilità di Olivia. Ovunque andasse, evocava una smania di perfezionare l'andatura, la linea, il modo di dialogare, la postura. E ora la sessione di tapis roulant sui tacchi a spillo, e poi i giri di stanza in stanza con i libri sul capo, gli innumerevoli trattamenti per la pelle, le maschere per capelli. Senza contare che al calderone si erano aggiunte l'impazienza, la yoga in camera sua, l'agitazione che camuffava attraverso degli improvvisi quanto rapidi attacchi di logorrea. Quest'ultimo, era un lato di lei che, per orgoglio, non mostrava mai a nessuno. Soltanto a me. E quando accadeva, trattenevo sempre un piccolo sorriso; era un tassello del suo carattere che le era rimasto intatto dall'adolescenza.
Infine, era giunto il tredici settembre.
A causa del nervosismo in vista dell'evento, mi ero svegliata con una feroce morsa allo stomaco che mi aveva portata a dare l'in bocca al lupo a Olivia, prima che partisse per la Grande Mela, non con l'umore più roseo. Le modelle dovevano ritrovarsi già in mattinata, sia per una questione di organizzazione, sia per i servizi fotografici a cui si dovevano sottoporre. Non le invidiavo. Tutte quelle attenzioni su di sé, tutte quelle telecamere che inseguono i tuoi movimenti sapendo che verrà registrata ogni mossa, ogni errore...
Un brivido serpeggiò lungo la schiena come un cubetto di ghiaccio. Quindi, con un battito di ciglia, dirottai l'attenzione sul presente e cercai una fonte di distrazione nell'opuscoletto che lo staff mi aveva fornito dopo avermi controllato il biglietto d'ingresso per il Prince George Ballroom, luogo prescelto per la sfilata di quell'anno.
Nemmeno ricordavo come ci fossi arrivata.
Era possibile che le due ore di viaggio sfruttate a ipotizzare quanta gente ci sarebbe stata e a rimproverarmi di essermi dimenticata l'Alprazolam nel cassetto del comodino, mi avessero impedito di far caso alle mie azioni e al mondo esterno. Cosa che trovai complessa in quel momento, seduta tra una signora con una t-shirt tappezzata di pailettes e un mio coetaneo da cui proveniva un forte sentore di tabacco. Mi rasserenò l'idea che la gente fosse troppo presa a parlare col proprio vicino o a pubblicare delle panoramiche in qualche storia su Instagram per far caso a me.
Eppure, non mi sentivo bene.
Se non fossi vincolata a una promessa, sarei tornata a casa.
Oltretutto, fingere di leggere l'opuscolo per la trentesima volta non mi aiutò, se non ad assorbire il sudore che stava segnando i palmi. Cercai comunque di alzare il viso e di guardarmi attorno con tutta la disinvoltura di cui ero capace, per quanto possibile. L'ottanta per cento dei presenti si era alzata per sgranchirsi le gambe; a seguito della sfilata che aveva visto come protagonista la collezione alla Maria Antonietta di Moschino, avevano inserito una pausa. E ora, brusii concitati inglobavano uno dei più sontuosi spazi dell'hotel.
Era uno spettacolo.
Addetti alla sicurezza e nugoli di fotografi che imbracciavano macchine fotografiche come neonati in fasce circondavano il perimetro, nascondendo buona parte degli arzigogoli architettonici scolpiti alle pareti. Però, a rendere la nuance neorinascimentale ancor più principesca, era il doppio colonnato che intervallava il cuore dell'area, suddividendola in tre sezioni: quella centrale dedicata al défilé – e su cui era stato predisposto un candido tappeto – e quelle laterali, addobbate principalmente dai posti a sedere, blocchi cubici incollati gli uni agli altri. Per questo, il contatto fisico era inevitabile e, per me, fu una ragione supplementare per avvertire l'aria mancare.
La signora accanto mi rifilò una gomitata.
Trattenni la voglia di piangere che stava implodendo in petto, secondo dopo secondo, e mi concentrai sulla luminescenza ambrata che conferivano le lampade affisse alle colonne. Poi, passai al soffitto. Pensandoci, dava l'idea di essere protetti da un tappeto di gemme, e le decorazioni mi fecero venire in mente quelle che, anni prima, avevo ammirato in una fotografia che, tutt'ora, conservavo nel cellulare. La passione per la cultura ispanica aveva portato Jay a visitare l'Alhambra di Granada; ricordavo ancora i ghirigori moreschi di quel complesso palaziale che aveva catturato con il telefono, l'entusiasmo mentre raccontava del viaggio, l'abbronzatura più evidente, il portachiavi che mi aveva regalato come souvenir.
Mi mancava da morire.
Mi mancate tutti voi...
Rimpiazzai la nostalgia – non adesso, Ophelia – con una sottile nota di stupore. Nella fila riservata ai VIP, oltre ai posti adibiti agli stilisti e agli influencer di fama mondiale, avevo scorto pure delle stelle del cinema. Tom Hanks con sua moglie, Zendaya, Kendall Jenner, Lea Michele. Se non mi facessi così tanti problemi a guardare in faccia le persone, mi sarei già alzata per chiedergli un autografo.
L'ennesima gomitata mi spronò ad alzarmi.
Anche se per motivi differenti.
Tom Ford avrebbe chiuso la serata. Mancava un'ora, e prima ci sarebbero stati un altro paio di marchi. Mi sarei assentata soltanto per respirare e racimolare le energie necessarie per sopravvivere al dopo.
Non appena mi misi in fila, però, qualcosa mi sfiorò i capelli.
«Bu.»
Sussultai.
Voltandomi con una mano sul cuore, mi si parò il sorriso scaltro di Desmond. Mi ero completamente dimenticata che, insieme a mia sorella, per lo stesso brand avrebbe sfilato anche la sua fidanzata.
«Oddio, salv– Cioè, buonase– Ciao!» Avvampai dal nervoso.
«Eravamo d'accordo che fuori non ci sarebbero state formalità.»
«Vero, devo ancora abituarmi a queste condizioni. Perdonami.»
«Vedrò di dartela buona.» I brusii sommersero la sua risata. Poi infilò una mano in tasca e inclinò la testa di lato. «Che fai, scappi?»
«Sì. No. Volevo dire...» Fissai la gente che ostacolava l'uscita, mordendomi il labbro. «È che avevo solo bisogno di un po' d'aria.»
Azzardai la mossa di guardarlo, giusto per non dare l'impressione di non essere sull'orlo di un attacco di agorafobia. Eppure, non contestò la mia uscita: storse la bocca in una smorfia obliqua che avrebbe dovuto suggerire che stesse riflettendo sulle mie parole.
Allungò il braccio alla sua sinistra, indicando il lato opposto della sala, e sospirò: «Dai, seguimi. Da me si è liberato un posto».
«Ma no, tranquillo, do una veloce boccata d'aria e...»
Delicato, collocò la mano al centro della mia schiena, in un invito ad avanzare. «Ti ho vista quando sei entrata, Ophelia: eri terrorizzata.» Quasi avesse appena formulato un incantesimo, mi trovai a mettere un piede dietro l'altro, gli occhi incollati al parquet. «E poi meglio sopportare un disagio con una faccia amica, che da soli, no?»
Non riuscii a ribattere, la vergogna per essere risultata così palese imprigionò la voce. Allora se se n'era accorto lui, figurarsi i presenti.
Dopo avermi agevolato l'impresa nel farmi largo tra le persone, il suo palmo che aderiva sempre alla schiena, ci infilammo in seconda fila, quella attaccata alla parete. Una volta accomodata, aspettai qualche secondo in più prima di girarmi nella sua direzione.
Stava sfogliando l'opuscolo, le spalle alla parete.
«Desmond.»
«Mh?» Concentrato, continuò a studiare il foglietto.
«Davvero, grazie. Là da sola stavo impazzendo.»
«E non oso immaginare quanto ti è costato venire fin qui.» Chiuse l'opuscolo e iniziò ad arrotolarlo a mo' di cannocchiale, lo sguardo che vagava davanti a sé. «Lo stai facendo per tua sorella, vero?»
«Ci teneva che venissi ad appoggiarla.»
«Allora spero che sappia quello che stai sopportando per lei.»
Immaginai volesse che il messaggio sottinteso arrivasse in tutta la sua fredda inclemenza. Dopo quella famosa, fatidica cena non riusciva nemmeno a pronunciare il nome di mia sorella. Non senza storcere il naso dallo sdegno, o a reprimere una risata sarcastica.
Per un po' non ci rivolgemmo la parola.
Appena diede un colpo di tosse, mi resi conto che, a dispetto delle occasioni meno formali, non indossava alcuna cravatta; aveva scelto un abbigliamento più semplicistico rispetto alla raffinatezza che saturava il Prince George Ballroom. Eppure, sembrava che l'eleganza non riuscisse a separarsi da lui, come un innamorato che nutre un amore morboso nei confronti della compagna, e non ci riusciva neppure ora, con i primi bottoni della camicia aperta e le maniche arrotolate accuratamente agli avambracci, lasciando scoperta una peluria che contrastava la carnagione pallida.
L'orologio al polso puntava le sette di sera.
«Mi chiedevo come stesse tuo fratello» mormorai titubante, alzando nuovamente l'attenzione su di lui. Mi stava già guardando. «È da un po' che non lo incrocio, a dir la verità, e adesso che i ragazzi inizieranno la scuola avrò ancor meno l'occasione di poterlo fare.»
Abbassò lo sguardo sul foglietto che stavo stringendo.
Un velo infelice gli appannò l'espressione serena.
«Sta meglio. Lavora come al solito e rompe le palle come al solito.» Assunse una postura ricurva, per poter appoggiare i gomiti sulle ginocchia. «Che rimanga fra noi, ragazzina, ma temo che cerchi di evitarti apposta: farsi vedere in quello stato pietoso potrebbe avergli acceso nuovi sensi di colpa... come se quelli che aveva già non bastassero» commentò amaramente, per poi fissarsi le scarpe stringate. «Immagino tu ne sia al corrente, ma di solito, chi ha una bella responsabilità sulle sorti di una persona riceve anche una preparazione psicologica per certe eventualità. Può succedere che un paziente in condizioni critiche non riesca a essere salvato. Una laurea in medicina, un dottorato di ricerca o quel cazzo che vuoi, non ti conferisce per magia dei superpoteri. Magari.»
Smorzò il discorso, ma io avevo già afferrato il seguito.
«Nancy.»
«Già.» Si massaggiò la barba rada. «Prima di lei non gli era mai capitato di buttarsi giù in un modo tanto...» Distruttivo. Ma non lo disse: preferì sorvolare. «Dai racconti saltati fuori nelle sedute di psicoterapia, le parole di quella donna avevano avuto un impatto tremendo sulla sua persona. Non era mai stata esplicita, ma sapeva bene come far passare il messaggio per farlo sentire in colpa. E tutto ciò a mia insaputa, per anni. Che schifo.»
Terminò con un sibilo frustrato, sentimento che sfogò nell'opuscolo. Immaginai che in parte fosse dovuto al non aver potuto intervenire, al non essere stato utile per prevenire una catastrofe simile.
Invece, ne era rimasto all'oscuro. E gli faceva ancora male.
«Ti prego, fammi un favore» borbottai, posando la mano sul suo polso, appena sopra l'orologio. «Riferiscigli che con me può stare tranquillo e che non ho mai, mai pensato male di lui. Non voglio che si senta peggio a causa mia, non più di quanto stia già.»
Abbozzò un sorriso e, tornando a rilassare la schiena al muro, mi diede una lenta, affettuosa carezza dietro al capo, come se fossi una specie di sorella minore. «Non darebbe retta a nessuno, Ophelia. Non capirebbe nemmeno che le sue fragilità sono legittime... Ma apprezzo ugualmente il pensiero.»
Sfilò la mano dai miei capelli per tirare fuori il cellulare. Premette sul pulsante laterale e lo schermo si accese, svelando uno sfondo che mi scaldò il cuore non appena compresi chi fossero i protagonisti: lui e Latisha, sul divano, che facevano accomodare Cindy e Leonard sulle cosce. Il momento era stato catturato nell'attimo in cui i bambini gli stavano schioccando un bacio su una guancia ciascuno. La bellezza della sua fidanzata era resa ancor più evidente da una risata genuina, a occhi strizzati e a denti scoperti. Potei persino sentire le loro risate cristalline uscire dal telefono, anche senza aver vissuto la scena in prima persona.
Dopo qualche secondo di troppo passato a fissare quella foto, mi resi conto che Desmond non stava più guardando soltanto l'orario.
«È di due anni fa» mormorò. «Belli, vero?»
«Siete meravigliosi.» Sorrisi. «Sembrate una famiglia.»
La sua espressione assunse una sfumatura più fredda: quindi, si limitò a spegnere la schermata e a indirizzare lo sguardo davanti a sé.
Capii che la felicità di quella foto era solo un lontano ricordo.
«Sai, ho la necessità di esprimere un pensiero non proprio nobile.»
«Di che genere?»
«Uno schietto, che nasce quando sei al limite della sopportazione.»
«Va bene, ti ascolto.»
«Mi stanno cascando le palle.»
Mi sfuggì un colpo di risa talmente stridulo che dovetti coprirmi il viso con l'opuscolo, in un invano tentativo di attutire il verso. Peccato che, abbassata la copertura, una signora si fosse girata.
In imbarazzo, mossi le labbra in un muto "Mi scusi".
Tornò a darmi le spalle, scocciata, e Desmond non poté non ridere. Di riflesso, mi venne istintivo assestargli una debole gomitata, rossa fin sopra i capelli. «Dai, guarda che figure mi fai fare.»
«Mi stai dicendo che non ti stai annoiando? Sul serio?»
«Beh...» In parte era così. «Però è interessante vedere le nuove collezioni. Vero anche che molti vestiti non li indosserei mai.»
«Tipo?»
«Tipo quello.»
Passò una ragazza che indossava un abito smanicato e che le arrivava fino a mezza coscia; la gonna rigonfia, tempestata da una spruzzata di pailettes, gli donava una forma più tonda, come se al suo interno fosse alimentata da un vento che la teneva intatta.
«La meringa coi lustrini, dici?»
«Non è una meringa!»
Assottigliò gli occhi intanto che la modella passava davanti a noi. «In effetti pare abbiano plagiato la borsa per capelli che andava di moda nella Versailles del Settecento. Ha pure il fiocco.»
Mi ci volle qualche minuto per visualizzare l'immagine farsesca di un parrucchino al posto di quell'abito. Fu più forte di me soffocare in gola un'altra risata non appena realizzai che, sotto una prospettiva diversa, era un paragone azzeccato. Ed era assurdo, il paragone e la sua capacità di rialzarsi in un battito di ciglia dopo lo spaesamento mentale di cui era stato preda prima che iniziasse il turno di Carolina Herrera. Aveva una forza d'animo eccezionale. Cosa che avevo potuto apprendere sia per l'episodio che aveva colpito Cindy, sia per quello di suo fratello. Mi chiedevo spesso come ci riuscisse.
«È il tuo turno, coraggio.»
Battei le palpebre. «Per cosa?»
«Il metodo Ophelia non si attuerà da solo.» Avvolto dalla noia, diede un pigro cenno col mento alla passerella dinanzi, la testa al muro. «Osservale bene. Se dovessi rendere più stimolante quest'avanzata di zombie, non cercheresti di cambiare prospettiva?»
Ero ancora ferma al metodo Ophelia.
Non mi aspettavo desse un nome ai miei giochi.
«Mh, sì.» Guardai lui, poi le modelle. «Sì, può essere.»
«Allora stupiscimi.»
Fu sorprendente rendermi conto che, grazie al suggerimento di Desmond, eravamo riusciti a velocizzare l'andamento delle esibizioni di Herrera e Duncan. Il tempo era scorso talmente svelto che quasi mi dispiacque dover abbandonare quel tentativo di sovvertire la monotonia della sfilata in un divertimento infantile.
Però, dovetti riconoscere che servì a sopportare la consapevolezza di star soffocando in mezzo alla gente, a ignorare gli occhi che mi circondavano, a sentir meno il disagio brulicarmi sottopelle.
Per un attimo – minuscolo e insignificante – avevo osservato Desmond mentre era distratto con il cellulare. Non avevo potuto fare a meno di ipotizzare se quell'idea non gli fosse saltata fuori a causa mia e dei miei infiniti problemi che avevo con la folla.
In ogni caso, gliene ero grata.
I flash delle macchine fotografiche che scaturivano l'effetto glitter tra i presenti, e i cellulari che speravano di riprendere anche il più lieve fruscio di gonna, contribuirono a mimetizzare i nostri comportamenti; perché io e Desmond ci atteggiammo come liceali che nascondevano gli sghignazzi all'ultima fila, durante una tediosa lezione di biologia.
Nonostante, per correttezza, tenessimo dei toni bassi, le persone attorno a noi, di tanto in tanto, ci lanciavano occhiate ammonitrici. Senza successo. Tempo di ammutolirci con gli opuscoli davanti al viso, che riprendevamo a commentare gli abiti più assurdi.
Arrivò il momento di un abito rosa che arrivava fino al ginocchio della ragazza; poteva trattarsi di un vestito normale, se non fosse per le spalline circolari, ampie, esagerate, di quelle che si vedevano soltanto addosso ai vestiti delle principesse della Disney.
«Ok, un cono due gusti alla fragola.»
«O due stecche di zucchero filato.»
«È tutta qui la sua originalità, signor Holmberg?»
«L'alternativa era anatomicamente indecente, signorina Burns.»
Capii troppo tardi.
Però non diedi peso alle guance in fiamme, tantomeno a Desmond che, ridendo, mi sbatteva di continuo il foglietto sulla fronte a mo' di presa in giro. Eppure, non mi sfiorò nemmeno per un istante il bisogno di fuggire da quel luogo asfissiante. Dentro, la considerai una piccola vittoria personale. L'ultima volta che mi ero sentita così a mio agio era stato anni prima, e aggrapparmi a quella sensazione di serenità riuscì nell'intento di affondare l'imbarazzo.
«Copridivano di mia suocera.»
«Tovaglia da picnic.»
«Accappatoio.»
«Swiffer.»
I nostri commenti non trovarono una tregua, talvolta uscendo persino all'unisono, esprimendo la stessa idea. Ma poi, quando apparve l'abito che andò a concludere il défilé di Carolina Herrera, il sorriso divertito che mi tendeva le labbra, pian piano, si dissolse. Mi era impossibile criticarlo, o cercare un paragone comico.
Perché era... bellissimo.
La donna, dai tratti indonesiani e i capelli rasati a zero, marciava aggraziata. Non sembrava nemmeno che indossasse un vestito di cotone o di lino o di qualunque altro tessuto. Piuttosto, sembrava che le avessero costellato la pelle bronzea con degli spessi petali di papavero, incollandoglieli minuziosamente a mano. Petali di papavero che, ora, lambivano il fiume di latte che era quel tappeto candido, rendendo netto ma elegante il contrasto rosso su bianco.
In automatico, mi esaminai le gambe fasciate da un paio di pantaloni beige che arrivava alle caviglie, e poi le braccia, coperte dalle maniche merlettate. Abbassando l'orlo di una di esse, emerse un polso smilzo e una carnagione pallida, come quel tappeto.
Per un folle istante mi domandai se con addosso un abito simile, e con del rosso a valorizzarmi la pelle, mi sarei voluta più bene, se sarei riuscita a ignorare le attenzioni perforarmi la carne, se mi sarei sentita meno... sbagliata. Se essere consapevole di essere guardata potesse scatenarmi emozioni diverse rispetto al terrore.
Abbandonai l'ipotesi, visto che tutto ciò che risultava "appariscente" l'avevo venduto su Poshmark. Mia sorella aveva fatto bene a ricordarmi che era inutile conservare quel guardaroba; se non volevo essere guardata, non dovevo dare motivo di farlo.
«A cosa stai pensando?»
Desmond stava fissando la ragazza, come me.
Mi sbrigai a rialzare la manica, borbottando: «Nulla, scusa».
«Sicura?»
«Solo un pensiero stupido, credo.»
Sorrise. «Confido che non lo fosse.»
«È che... non lo so.» I brusii tornarono a dominare la sala mentre lo staff provvedeva a cambiare i toni dell'impianto di illuminazione in vista della collezione di Tom Ford. «A volte mi capita di riflettere sulla carriera di mia sorella, le passerelle che fa, i servizi fotografici...» Mi girai gli anelli. «Mi chiedo come si senta a essere guardata così, da tutti, sapendo che quegli occhi le vogliono bene.»
«Chi ti dice che tutti le vogliano bene?»
«Nessuno le contesta il suo modo di lavorare.»
Alzò un angolo della bocca. «Gli hater ce li hanno tutti, Ophelia, anche tua sorella. Se non li vedi, non vuol dire che non esistano. E poi, per delle professioniste come loro è inevitabile averli» spiegò, continuando a squadrare la passerella. «Quando la notorietà di Latisha ha iniziato a crescere, ne era terrorizzata per i rischi che avrebbe comportato. Sai, la gente è tendenzialmente folle e il più delle volte non ha criterio, soprattutto quando vogliono affondare la popolarità – e la vita quotidiana – di una persona. Se ne sentono di ogni: stalker, account clonati, revenge porn, profili falsi che ti contattano per manifestare rabbia repressa, oppure, un classico, per dirti quanto sei di pessimo esempio per le nuove generazioni, perché dai esempi sbagliati, che sei troppo magra, troppo anoressica.»
«Latisha ha avuto a che fare con...?»
«Diciamo che non è stata molto fortunata.»
«Dio, mi dispiace.»
«Ma si è sempre rialzata.» Una luce di fierezza gli schiarì lo sguardo, insieme a un sorriso che faticò a trattenere. «Bisogna conviverci, ragazzina, non esistono altre soluzioni. Latisha convive con questi intralci già da anni, e sa benissimo che dal momento che sarà sotto ai riflettori, le vorranno bene ma le vorranno anche male.»
«E come fa quando vede, capisce, che le vogliono male?»
«Ciò che ha sempre fatto: deciderà che non le interessa. Non sarà l'opinione di gente che non conosce a impedirle di fare carriera.»
Mi fece l'occhiolino, focalizzandosi in un punto dietro di me. Quella risposta fu capace di scavarmi una voragine di vergogna nello stomaco. "Deciderà che non le interessa". Come si fa a decidere?
I rintocchi sensuali di una canzone francese ammutolirono i mormorii. Le luci calarono d'intensità, lasciando il compito a quelle che tracciavano la passerella, in modo che, agli occhi di una modella, i presenti fossero coperti da un telo di oscurità.
A distanza, le modelle procedevano a passo agguerrito. Se non si contavano le svariate carnagioni avvolte da quei capi di abbigliamento, avrei potuto confermare che i visi fossero frutto di una fotocopiatrice. Era mostruoso constatare quanto fossero identiche: nessun trucco a far distogliere l'attenzione dall'abito, nessun sorriso a snaturare l'aura intoccabile che emanavano al loro passaggio. Parata di anime eteree, mi venne da pensare, sebbene il vestiario assorbisse i colori di una notte senza luna.
«Spero non le abbiano fatto indossare la pelliccia di un grizzly. Percularla per due settimane come l'anno scorso non mi va.» Desmond appoggiò i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte davanti alle labbra. «Mi auguro che abbiano selezionato qualcosa di più...»
Allontanò la bocca dalle dita, interrompendo la frase.
Olivia stava facendo la sua comparsa.
Calpestava la passerella con un abito che le accarezzava le caviglie, riuscendo a svalorizzare il resto delle colleghe. Se le altre erano anime eteree, lei incarnava l'opposto: si abbandonava all'oscurità del vestito con la stessa naturalezza di quando si prende una boccata d'aria, come se casa, per lei, si trovasse incanalata in quel ricamo. Gli arzigogoli che le tatuavano la pelle, e che pareva volessero ricreare un antico arazzo, non furono abbastanza per nascondere; la pelle affiorava nel tessuto, un mosaico roseo che dava l'impressione facesse parte delle decorazioni. Caratteristica che mi portò ad ammirarla ancor più di quanto non stessi già facendo, era il velo di nudità che obbligava anche l'occhio meno attento a rimanere vigile; si distinguevano le forme dei capezzoli, gli slip scuri che rappresentavano gli unici rivestimenti pudichi.
Desmond, d'altro canto, fu attratto da altro: Latisha era la prossima.
Incurvò la schiena e tornò a posare le labbra davanti alle mani giunte, come se stesse assistendo a una partita di football e aveva capito che la squadra avversaria si fosse avvicinata all'area della meta.
Attendeva. Fremeva. Temeva.
Della luce fiera di prima ne era rimasta solo cenere, cenere che andò a confondersi con il nero che gli tingeva le iridi. O come tingeva l'abito della fidanzata. Tra il suo e quello di mia sorella non riuscii a capire quale fosse il più accattivante. Nonostante la somiglianza di stile, erano stati progettati per essere guardati in tutta la loro oscura seduzione. A differenza di Olivia, i movimenti di Latisha non erano dettati dalla delicatezza; si percepiva una rabbia e superbia tali da renderli fisici, ornamenti secondari che le impreziosivano l'indole.
Metteva in soggezione.
Schiusi la bocca, sussurrando: «Com'è bella».
«Sempre» rispose Desmond. «Lo è sempre.»
Ma l'incanto ebbe vita breve: appena Latisha svoltò per imboccare il secondo corridoio e tornare indietro, uno dei vertiginosi tacchi argentati si inclinò e, tempo di un altro passo, si spezzò. Fu talmente inaspettato che non ebbe neanche il tempo di rimanere in equilibrio, poiché le provocò un giramento innaturale alla caviglia.
«Merda.» Desmond scattò in piedi, come molti nelle vicinanze.
Un uomo dello staff si era fiondato da lei per soccorrerla, ma Latisha, con un ginocchio a terra e le colleghe che la sorpassavano fingendo non fosse accaduto niente, gli mostro il palmo in un invito a fermarsi, che non aveva bisogno dell'aiuto di nessuno. E infatti, con una naturalezza assurda, si issò, si sfilò le calzature e le afferrò dai lacci con due dita, lasciando che le ciondolassero lungo i fianchi.
Latisha proseguì il défilé scalza, senza peccare di stile. Dal suo viso non trapelò nulla, ma non mi sfuggì l'andatura più traballante.
Desmond tornò a sedersi, mormorando: «Si è fatta male».
Eppure, come nei suoi racconti, si era alzata anche stavolta.
«Come ti sono sembrata?»
«Perfetta.»
«Davvero?»
«Lo giuro.»
«Dio, ero così nervosa... Hai ripreso tutto?»
«Certo! Mamma e papà non vedono l'ora di vederti.»
Olivia splendeva e, grazie all'abito addobbato di lustrini dorati con cui aveva rimpiazzato il capo d'abbigliamento di Tom Ford, era l'esatta personificazione del Sole. In lei, ora, brillava tutto: gli occhi, il tono di voce, ma il sorriso mentre rivedeva il video sul mio cellulare ancora di più. Accadeva di rado che fosse davvero contenta, e le volte in cui, in famiglia, si abbandonava alle calde braccia della felicità, la percepivo... frenata.
Sapere che raggiungere un traguardo simile l'avesse sciolta, mi fece sorridere allo stesso modo. Forse anche di più.
Riponendo via il telefono e ascoltando i racconti sulle celebrità con cui aveva avuto l'onore di conversare, mi imposi di non focalizzarmi sul locale selezionato per il rinfresco. Perché, anche stavolta, la folla occupava tre quarti del posto; erano presenti ospiti d'onore, gran parte delle colleghe che avevano sfilato con mia sorella, ora sparse qua e là mentre saccheggiavano stuzzichini vegetariani dal buffet, e una sfilza di fotografi che si aggirava nei punti più strategici del Boom Boom Room, club al diciottesimo piano dell'hotel Standard.
Olivia mi aveva messa al corrente che, in tarda serata, si sarebbero spostati altrove per un after party. Si trattava di una festa esclusiva ai partecipanti della sfilata, e si vociferava che sarebbero stati presenti icone note come i The Weeknd e Kim Kardashian, aveva specificato. Si era dispiaciuta per non essere riuscita a convincerli a farmi imbucare, ma ero stata brava a non lasciar trapelare l'entusiasmo; potevo tollerare una sfilata in cui i posti a sedere erano incollati, potevo tollerare un rinfresco in cui le macchine fotografiche giocavano anch'esse il ruolo da invitati. Ma un party così intimo sarebbe stato eccessivo, e non l'avrei sopportato.
Che non avessi l'Alprazolam, poi, non mi era d'aiuto.
«Ho notato che eri seduta vicina al signor Holmberg.»
Vicino all'angolo bar, Olivia se ne stava diritta, impeccabile, sorseggiando dalla cannuccia un cocktail analcolico che assumeva le tonalità di un evidenziatore azzurro; sebbene avessi notato alcune modelle concedersi di bere qualche goccia d'alcool, lei aveva stabilito che non avrebbe mandato al diavolo i duri sacrifici della dieta solo per la New York Fashion Week.
«Sì, non ricordavo che sarebbe stato presente.»
«E perché eri con lui?»
Aveva cambiato improvvisamente tono, lo sguardo tramutato in un muro di ghiaccio, ora puntato sulla platea. Mi sentii nel torto; forse per evitare casini avrei dovuto tagliare un po' l'inquadratura del video, così che non avesse potuto scorgere il profilo di Desmond.
«È stato per puro caso, non l'avevo...»
«Mi auguro sia stata davvero una casualità, sorellina. O dovrei iniziare a farmi qualche strana idea.» Finì le ultime tracce del Sex In The Driveway e, secca, posò il bicchiere sul bancone, che il barista si premurò subito di togliere. «Ti ho già detto che quell'Holmberg non mi piace. E non mi piace che tu gli stia così vicino. Ti devo ricordare come ti ha manipolata per quella cena?»
Avrei voluto dirle che non mi aveva manipolata, che avevo fatto tutto io, che ero in pieno delle mie facoltà. Ma se avessi lasciato fluire quelle confessioni, avrei temuto una reazione come... come quando ha...
Mi sfiorai la guancia. La cicatrice era sparita.
«Scusa, hai ragione. Non accadrà più.»
«Bene.»
Da quando avevamo varcato la soglia di quel club dai toni soffusi e ambrati, quasi ci trovassimo intrappolati in una bottiglia di Jack Daniel's, aveva continuato a scagliare occhiate capaci di tagliare l'aria a un punto ben preciso. E quel punto era sul lato opposto rispetto alla nostra posizione, dove le vetrate fungevano da parete e garantivano un panorama mozzafiato sulla vita notturna di New York.
Nell'angolo più remoto, accomodata sulle poltrone insieme al suo fidanzato, Latisha si tastava la caviglia che le avevano fasciato per precauzione. Qualcuno le si era avvicinato, probabilmente per esprimere la propria apprensione per l'accaduto, e lei rispondeva sempre esibendo dei tirati sorrisi di cortesia. Una busta di ghiaccio ornava il tavolino circolare. Non manifestava lo stesso entusiasmo di Olivia, ma era stata chiara sin da subito: voleva godersi il resto della serata, nonostante quel piccolo incidente di percorso.
Di tanto in tanto fissava mia sorella.
E nel suo sguardo colava la stessa freddezza.
«Sai cosa? Mi sa che andrò da lei» annunciò Olivia.
Sgranai gli occhi. «Ma cosa stai dicendo?»
«Poverina, ha bisogno di conforto.»
«Aspetta, ma...»
Non mi lasciò finire; la stava già raggiungendo, il ticchettare delle Louboutin rosse offuscato dalle note scoppiettanti di Dangerous. Nonostante le buone intenzioni di Olivia, dentro la presagii come una mossa poco intelligente. Forse era meglio non ci si avvicinasse, non quando Latisha si trovava con una distorsione alla caviglia e la frustrazione che immaginavo stesse covando in petto.
La seguii lo stesso, sostando a pochi passi da lei.
Desmond, vedendoci, lasciò trapelare lo stesso nervosismo.
«Carissima!» esclamò Olivia, abbassandosi per abbracciarla, ma dall'altra parte non venne ricambiata; Latisha la squadrò senza muovere un dito. «Dio, mi dispiace per l'incidente...»
«Sono cose che capitano.»
Latisha non distolse l'attenzione da mia sorella; nelle viscere di quelle iridi brune reprimeva qualcosa mi fece accapponare la pelle, qualcosa che prendeva la forma di un istinto feroce, di un leone costretto a non attaccare la sua preda perché incatenato alle sbarre.
Olivia storse le labbra. «Capita anche alle migliori, dai.»
«Già, sono pure questi i rischi del mestiere.»
«E la caviglia come sta?»
«Molto meglio, ti ringrazio.»
«Sicura? Dalle smorfie di prima non sembrava...»
La mano di Latisha, sul bracciolo di pelle, subì un fremito. Desmond ci adagiò la sua. Ma se la sfilò con un gesto secco, per nulla intenzionata ad accettare quel genere di conforto, e la sistemò sul ginocchio. «Beh, le smorfie potrebbero essere causate da diverse cose. Le tartine troppo salate, la presenza di certa gente ipocrita...»
«Ad ogni modo» la frenò l'altra, abbassando l'attenzione sul suo piede. «Ci toccano ancora tre tappe oltreoceano, e sarebbe un vero peccato se per colpa di un destino così infausto tu debba rinunciare a un'occasione così importante. Quindi, da amica, ti suggerisco di farti vedere.» Diede un cenno alla caviglia, le bende nascoste dalle scarpe da ginnastica. «Mi pare ti si stia gonfiando.»
Non seppi interpretare l'espressione assente della sua collega.
Olivia si sbrigò a salutarla. Tuttavia, non dovetti tirare un sospiro di sollievo così alla svelta; Desmond tentò di trattenere Latisha da un braccio, riferendole qualcosa in tono severo, ma lei si alzò lo stesso dalla poltrona, a fatica, strizzando un occhio dal dolore.
Raggiunse Olivia zoppicando, e le picchiettò un dito sulla spalla.
Lei si voltò, le sopracciglia inarcate dalla sorpresa.
«Oh, vedo con piacere che riesci a stare in...»
«Dov'eri quando stavamo cercando l'altra scarpa?»
Perplessa, le uscì una risata. «In bagno, forse?»
Tornò a darle le spalle, ma Latisha, sforzandosi di velocizzare il passo, ci si posizionò davanti. Era più alta di mia sorella di qualche centimetro, malgrado indossasse delle scarpe da ginnastica. «Mi diverte, Burns, che sei sempre in bagno quando sparisce qualcosa.»
«Stai forse insinuando che è colpa mia?» Lanciò un'occhiata compassionevole a Desmond, rimastole accanto. «Ahh, ora capisco perché siete così affiatati: vi piace giocare al poliziotto buono e al poliziotto cattivo. Questi numeri li fate anche a letto?»
Latisha avanzò, ma Desmond la trattenne. «Cercate di finirla, tutte e due. Risparmiatevi 'ste stronzate per quando siete da sole.»
«Sì, infatti: dai un po' retta al tuo fidanzato, non vorrai mica dare spettacolo proprio adesso» rincarò Olivia, con un sorriso mellifluo.
Latisha, d'altro canto, strinse le dita attorno al braccio di mia sorella e sollevò le labbra all'insù, accostandosi al suo orecchio, come se le stesse per confidare un segreto. Vicina a Olivia, riuscii a carpire ogni sussurro. «Ti avverto, ragazzina: sono nata prima di te, e da gente come te non mi faccio prendere per il culo.» Lei non mosse un muscolo; si calò, invece, una maschera stoica, priva di emozione. «Quel che è stato fatto è fatto, ma da oggi in avanti vedi di stare lontana da me, dalla mia carriera e dalla mia vita. Sei una ragazza intelligente, e non penso tu voglia vedermi incazzata per davvero.»
«Perché, se no che fai?» ribatté con una punta di incredulità, scostandosi dal suo viso. «Mi tirerai i capelli? Inizi a picchiarmi? Avanti, accomodati pure, le telecamere non aspettano altro e la nostra agenzia avrebbe un motivo in più per rimpiazzarti.» Girò il volto e si aggrappò al braccio di Latisha, sorridendo smagliante a una macchina fotografica che le stava inquadrando poco lontana. Da una prospettiva differente, sembravano due amiche affiatate in posa. «Prova solo a sfiorarmi, collega, e ti trascino in tribunale.»
Avvertii i primi sintomi del mal di pancia. Tutta quella loro ostinazione ad aggiudicarsi l'ultima parola non mi piaceva. Dio, Liv, perché non la lasci perdere e basta? Perché le stai dando un motivo inutile per sospettare di te quando non hai nessuna colpa?
Preferii non perdere tempo, ritenendo migliore acchiappare Olivia dal polso e costringerla ad allontanarsi, sperando capisse di non gettare altra legna al fuoco. Mi diede ascolto, e appena il fotografo venne inghiottito dalla folla cancellò quel sorriso dalle labbra.
Alle nostre spalle, però, la voce di Latisha tornò a farsi sentire.
«Ah, aspetta, un'ultima cosa, vorrei farti le mie congratula...»
Accadde l'imprevedibile.
Un secondo prima Olivia stava camminando al mio fianco, e quello seguente... era riversa a terra, i palmi schiacciati sul parquet lucido.
«Liv!» Mi ci inginocchiai. «Oh mio... Ti sei fatta male?»
«La gamba» sibilò dal dolore, gli occhi strizzati. «Dio, ahi...»
«Ma dico, sei impazzita?» tuonò Desmond, dietro di noi.
«Che cosa...» farfugliò Latisha. «Ma se le ho solo sfiorato la...»
La folla ci accerchiò in un battito di ciglia, la maggior parte coi drink arrivati a metà; si diffuse un vociare sorpreso, un uomo si avvicinò a mia sorella, ma rifiutò la mano e si tamponò un punto sul ginocchio. Strizzò gli occhi dal dolore e due lacrime le solcarono le guance.
Impotente, le accarezzai la spalla, consigliandole di fare dei respiri profondi. Le domandai anche se fosse il caso di correre al pronto soccorso, ma lei negò, anche quando vide Latisha assumere un'espressione al limite dello sdegno, sussurrando: «Non ci credo».
«Allontanatemela» singhiozzò Olivia, coprendosi il volto.
«Burns, ti ho toccato a malapena la spalla.»
«Allontanatemela» strillò tra le dita. «Vi... vi scongiuro.»
Latisha si pietrificò, divenne uno di quei manichini che i negozi di abbigliamento posteggiano in vetrina; guardandosi intorno realizzò le occhiate di biasimo che le stavano lanciando, una donna che le intimava di allontanarsi onde evitare ulteriori disastri e i fotografi che si accingevano a raccogliere ogni frammento dell'accaduto, come stormi di corvi affamati su una carcassa. Presto, con una consapevolezza tale, i suoi occhi si rivestirono d'una patina lucida.
Umiliata, le sue labbra presero a tremare, forse perché era sul punto di dire qualcosa, o forse per collera. O forse stava per scoppiare. Eppure, ebbe il coraggio di azzardare lo stesso un passo. Per un attimo ebbi paura che volesse passare pure alle mani.
Per fortuna, Desmond intervenì all'istante e se la trascinò con sé afferrandola dalle spalle, sebbene cercasse di divincolarsi in tutti i modi, senza distogliere lo sguardo da mia sorella.
«Lasciami.»
«Calmati.»
«Ti ho detto di lasciarmi.»
«Calmati» le ripeté. «Non vedi che stai facendo il suo gioco?»
Con quelle parole si spostarono in un angolino neanche tanto distante, con lei sull'orlo del pianto. Il suo gioco? Una delle colleghe di mia sorella era corsa a recuperare del ghiaccio, che lei premette subito sul ginocchio destro, le spalle scosse dai singhiozzi.
La riempirono di conforto, le domandarono come si sentisse, alcune di loro, per solidarietà, rivolsero parole poco carine nei confronti di Latisha. Un uomo liquidò la questione tranquillizzando gli spettatori, comunicando che si era trattato solo di un malinteso.
Quale gioco?
Aiutarono mia sorella a rialzarsi, il vestito che lasciava le ginocchia scoperte, sporgenti come collinette. Appena rimosse la busta di ghiaccio non emerse alcun segno o livido, soltanto il rossore dovuto all'involucro congelato. Gioco? Mi fossilizzai sul ginocchio, poi sull'espressione sofferente di Olivia mentre si sedeva sulla poltrona.
Anche se, di sottecchi, puntava lo sguardo dietro di me, su Latisha.
Intrappolata in una bolla di confusione, smisi di pensare.
Di che gioco parla? L'ha spintonata, no?
Persino la discussione esplosa tra Latisha e Desmond, per quanto accesa, mi arrivò ovattata; lui gesticolava, la mano che faceva cenno a destra, a sinistra, a se stesso, a lei e infine a noi, a Olivia. Latisha rimase zitta e assente, la mente che girovagava sicuramente altrove, lontana da lì, dal diverbio in atto, persa in chissà in quali pensieri. Non si mosse; stabilì di rimanere in posizione di difesa, rinchiusa a riccio, lo sguardo basso e le braccia conserte. Solo allora mi accorsi di quanto fossero più magre rispetto alle altre modelle.
«Dovresti smetterla.»
Furono le sue prime parole.
«Di fare cosa? Di provare a farti ragionare?» La voce di Desmond, sulle ultime battute, si inasprì. «Ti rendi conto che se avessi provato a farle qualcosa, ti avrebbero...»
«No» lo bloccò. «Dovresti smetterla di decidere per me.»
«Mi permetto di decidere per te, perché non mi lasci alternativa, che quando ti fai accecare dalla rabbia non capisci più un cazzo» specificò. «Una mossa come quella e ti avrebbero licenziata in tronco, lo sai?»
«Non m'importa.»
«Non t'importa?»
«È un problema mio, che volevo risolvere a modo mio.» Da quando avevano iniziato a discutere, ebbe il coraggio di guardarlo solo ora; scosse impercettibilmente il capo, le labbra che tremavano. «Per quanto ancora vorrai decidere per me?»
Desmond la osservò per qualche secondo di troppo. «Che cosa?»
«Ah no, certo, tu...» Alzò gli occhi al soffitto, una risata amara che credetti volesse sdrammatizzare le lacrime che stavano iniziando a scendere. «No, tu vuoi il matrimonio, la convivenza, dei bambini.»
«Latisha.»
«Ma ti sei mai chiesto cosa vorrei io? Se vorrei che... Cazzo» grugnì, strofinandosi le palpebre in un impeto furibondo, per poi sussurrare: «No, io non posso, basta».
Lui si piazzò davanti a lei – perplesso, disorientato – saldando le sue mani sulle sue spalle spigolose, scoperte dal top. «Non puoi, cosa?»
«Questo.»
«Cosa?»
Alzò la voce, accentuandone il tremore. Non si capì se dal nervoso o la rabbia. Ma Latisha riuscì unicamente a fuggire dal suo sguardo, collocandolo sulla camicia dell'altro, mentre le lacrime scendevano e si rincorrevano, decretando più di quanto avrebbe potuto confessare.
Fu solo un'impressione, ma parve desiderare di allontanarsi il più possibile dagli occhi del fidanzato, che io sapevo il motivo, e la capivo: imprimevano la sagacia di due rapaci, in grado di catturare le menzogne più velate come fossero delle prede.
Non ricevendo risposte, Desmond sciolse la presa, seppur tentennando. «Non penso di averti mai fatto pressioni.»
«Però riesci a farmi sentire in colpa» urlò, senza arrestare il pianto. Qualche individuo, lì accanto, smise di bere per poter stare a sentire. «Non sono cieca: io vedo come ti comporti con i figli di tuo fratello, vedo come li guardi, come ci giochi, come vorresti pure tu, ma...»
«Per quello c'è tempo, te l'ho già detto.»
«E se non li volessi? A te starebbe bene? Staresti bene con la consapevolezza di non essere mai pienamente felice?» Tra le righe di quel dolore che le soffocava le parole, sembrò frenata, come se si stesse obbligando a omettere dell'altro, qualcosa che aveva proprio lì, sulla punta della lingua. Ma appena osava guardare Desmond per più di un secondo, si arrendeva a lasciare perdere.
Desmond, pacato, le afferrò il mento. «Possiamo parlarne a casa?»
«No.» Abbassò le palpebre, fuggì di nuovo. «Non sono adatta a te.»
Lui aprì bocca, la richiuse, di continuo. Lei si scostò dalla presa.
«Non è vero» mormorò. «Perché continui a pensarlo?»
Ma chiederglielo equivalse a premere un interruttore che la portò a scoppiare a piangere di nuovo, stavolta a briglia sciolta, senza freni e senza nemmeno avere le forze per asciugarsi il mascara colante. «Sono una persona orribile» bisbigliò tra le lacrime, la voce ridotta a a un sibilo rotto, come cristallo infranto. «Non sono adatta.»
Lo ripeté, anche quando Desmond provò a frenarla.
Ma vedendo che non ci riusciva, per la disperazione si strofinò la faccia, per poi trarre un sospiro paziente. «Allora, ti prego, per favore, visto che ne vuoi parlare proprio adesso, sii onesta e parlami. Fingere di non notare il tuo cambiamento da più di un anno comincia a essere umiliante.»
«Ho...» Faticò a respirare. «Ho altro per la testa.»
«Hai altro per la testa, o hai un altro?»
Si ammutolì, limitandosi a fissarsi le scarpe.
Quando i secondi divennero minuti, Desmond glielo chiese con una durezza tale da costringerla a ricambiare il confronto. «Guardami, Latisha, e dimmi che non hai un altro.»
Voltò il capo da un'altra parte.
Provò a seguirla, ma lei cambiò lato.
«Non posso, non ci riesco» sussurrò invece, come se dietro alle sue parole avesse la certezza che Desmond comprendesse un altro messaggio. Ma quell'unico deludente riscontro lo condusse ad assumere un'espressione sconfortata, specie quando la osservò sfilarsi l'anello dall'anulare e piantarglielo sul palmo; la mano di Latisha rimase lì sopra, pelle contro pelle. Stavolta si premurò di guardarlo, le tracce di trucco smontato che alloggiavano sulle palpebre. Fu doloroso capire come la risolutezza che l'aveva accompagnata durante la sfilata si fosse estinta; al suo posto una presenza più fredda: la paura. «Non seguirmi, ti prego.»
Con una marea di occhi che assistette all'andamento degli eventi, si asciugò frettolosamente le guance e sfilò il telefono dalla borsa, zoppicando verso l'uscita mentre componeva un numero.
Desmond non la seguì: stava ancora fissando l'anello sul palmo aperto. Ma attese qualche secondo prima di sparire anche lui a passo svelto, oltre la porta che dava nell'atrio.
«Meglio di una telenovela.»
Il commento arrivò da mia sorella. Mi ero completamente dimenticata di essere accanto a lei; si stava ancora premendo la busta del ghiaccio.
«Come ti senti? Ti fa ancora male?»
«Sto meglio.» Si alzò, lanciando un'occhiata alla porta. «Molto meglio, ora.»
Si allontanò, tastandosi il ginocchio sinistro.
Davanti al bancone, il barista ricollocò al loro posto dei bicchieri appena lavati e mi chiese se volessi ordinare. Ma non lo capii; le labbra del ragazzo si muovevano a rallentatore, le orecchie fischiavano, la mente che riproponeva il fotogramma di Olivia che si tastava il ginocchio sinistro anziché quello destro. Era tornato tutto ovattato.
Tentennando, decisi di ordinare un calice di vino.
Fuori dal club, il corridoio dell'hotel prese le fattezze di un labirinto; mi ci perdevo apposta, imboccando sempre più corridoi, sempre più flussi di pensiero. Un gioco in cui rischiai di inciampare sui miei stessi piedi più di una volta. Tuttavia, prima di ripartire per Filadelfia avevo bisogno di procrastinare, il tempo necessario per trarre un attimo di respiro.
La parete, come all'interno del Boom Boom Room, era un'unica vetrata che si affacciava su una stretta balconata. Spinta da un impulso infantile, piantai le dita sul vetro e finsi che fossero due gambe che mi stavano accompagnando in quell'insensata passeggiata, tra degli sfarzi di una tappezzeria regale e il rimbombo della musica che proveniva dal club.
Man mano che i polpastrelli si divertivano a lasciare le impronte al loro saltellante passaggio, osservavo in trance il mio riflesso, solcato dallo sfinimento degli eventi e dallo stress generale. Le palpebre appesantite mi suggerirono che dovevo darmi una mossa a partire, o mi sarei addormentata in autostrada. A pensarci, ero una pessima contrapposizione con le luci vivide che ornavano i grattacieli là fuori, al di là della vetrata; la mia immagine assorbiva le tonalità della notte, come se la mia pelle fosse stata plasmata nel panorama vitale di New York.
Però, vista da così, ho dei contorni anch'io.
La tristezza che cinse quel pensiero si smorzò non appena, oltre al mio riflesso, si aggiunse un'altra sagoma; era ricurva sul parapetto, riccioli di fumo si libravano nell'aria serale.
Desmond.
Feci un passo, mi bloccai, ne feci uno indietro e ancora un altro avanti. Esitai all'infinito, intenzionata a non immischiarmi, ma una strana forza mi fermò di nuovo. Mi concentrai sul tappeto, poi sul calice che reggevo nell'altra mano. Un pensiero supplementare s'intromise tra quelli che già componevano il ginepraio che mi affollava in testa e mi indusse a fare il contrario di ciò che mi ero prefissata: scorrere la porta che dava all'esterno e chiudermela alle spalle.
Una raffica di vento seminò brividi sulle braccia.
Solo dopo qualche secondo trascorso a passare il peso da un piede all'altro mi decisi ad avanzare, la mano libera che strofinava il braccio. Appena mi trovai davanti al parapetto, a distanza da Desmond così da non scavalcare i suoi spazi, mi sentii una sciocca.
Cosa credevo di fare? Rivolgergli qualche parola di conforto?
Riflettei sulla possibilità di tornare indietro. In fondo, era pure probabile che non mi avesse neppure sentita.
Mi sbagliavo; Desmond, sempre trattenendo la sigaretta tra le dita, osservava l'altro mano, quella in cui aveva depositato l'anello. Diede un lungo tiro, tossì e, senza girarsi, mormorò: «Non ora, ragazzina. Ho bisogno di stare da solo».
Strinsi le labbra e, avvicinandomi, gli allungai il calice. «È per questo che non sono venuta a mani vuote.»
«Non lo bevi?»
«Ne hai più bisogno tu.»
Non rispose, ma nonostante l'umore sollevò un angolo della bocca. Solo dopo aver riposto l'anello in tasca e aver spento il mozzicone sulla ringhiera, accettò la mia offerta.
Assaporò un sorso per poi umettarsi le labbra, lo sguardo fisso sull'oscurità che avvolgeva i grattacieli. «Melville. Hai buon gusto.»
«Ha buon gusto il barista, è stato lui a scegliere per me.»
«Onesto.»
Inclinò il bicchiere verso di sé, volendone scrutare il fondo, ma il liquido scarlatto non glielo permise. Quindi, tornò a mirare lo scenario, passandosi il manico di cristallo da una mano all'altra, sebbene gli bastasse una mossa sbagliata per farlo precipitare a diciotto piani di altezza. A quanto pareva non gli importava granché di procurare dei danni.
Forse perché il peggiore che potesse capitargli gli era appena accaduto.
Stringendomi nelle spalle, lo imitai, riponendo l'attenzione sul panorama; centinaia di finestre lasciavano uscire un bagliore aureo, rendendole tante minuscole lucciole immobili, però appiccicate su degli steli di cemento.
«Mi chiedo da quanto tempo si stesse preparando il discorso.» Ruppe il silenzio con un mormorio che si trascinò via il vento. «Presto o tardi ne avremmo parlato, ma temo che l'incidente alla caviglia e il malinteso con tua sorella abbiano anticipato le cose. Per aver perso le staffe in quel modo, tutto questo, per lei, deve aver rappresentato un po' la goccia.»
Appoggiai le braccia sul parapetto, il mento sopra di esse, rimanendo in ascolto.
Con la coda dell'occhio, lo vidi dare un ultimo, rapido sorso. «C'è dell'altro che non mi vuole dire, che io lo so, me lo sento, ma a questo punto chissà se ne potremmo mai parlare.»
«Desmond.»
Tenne lo sguardo incatenato alla città, e non rispose. Anche se dalle parole traspariva fermezza, dalla voce, invece, si sentiva che ci aveva perso le speranze. Ma gli occhi lucidi parlarono più del resto.
«Tornerà.»
Non poté vederlo, ma gli rivolsi un sorriso incoraggiante.
«No, Ophelia.» Posò il bicchiere sul parapetto. «Non tornerà.»
«Fidati di me.»
«Non la conosci.» Scosse la testa, amaramente. «Diversi anni fa c'era stata pure una pausa di riflessione, credevo che riprovarci fosse stata una scelta giusta. Insomma, per un po' di tempo si era ristabilito anche un certo equilibrio» spiegò, sostenendosi sulla ringhiera d'acciaio. «Ma sono arrivato alla conclusione che le pause, in una relazione, siano di un'insensatezza unica: sanno solo rimandare qualcosa di inevitabile.»
Mi morsi la guancia dal dispiacere, osservando le sue dita; se le stava torturando in una strana danza, come capitava a me quando ero nervosa.
«La ami?»
«Già.»
«Girati.»
Forse non si aspettava una richiesta simile, non da me, perché tentennò prima di farlo. Ma appena ebbi la sua completa attenzione, non senza una certa esitazione, sollevai la mano e posizionai indice e medio uniti sul suo pomo d'Adamo. Guardandomi, abbassò le sopracciglia.
Ricambiai il contatto visivo, con un tenue sorriso.
«Se la ami, sii paziente.» Picchiettai le dita sulla sua gola. Il pomo d'Adamo guizzò sotto al mio tocco. «Un insegnamento che non dimenticherò mai di mio padre quando soffrivo di mutismo selettivo è proprio questo: non forzare una porta che preferisce rimanere chiusa. Lo farà da sola, quando sarà il momento.» Fissai la sua gola, bussandoci ancora. «Forse Latisha è solo spaventata e ha bisogno di mettere in ordine le idee prima di parlartene. Dalle tempo, ok?»
Desmond continuò a guardarmi anche quando allontanai le dita. Stavolta, però, una luce diversa, di fiducia, gli rianimò l'espressione funerea. Con una lieve flessione delle labbra verso l'alto, posò la mano sulla mia nuca e mi lasciò un bacio sul capo, mormorando roco: «Grazie».
Si avviò verso l'uscita, la mano in tasca. Mi sentii una stupida ad arrossire per un semplice gesto d'affetto.
«Ragazzina» mi richiamò. «Formalità o non formalità, dammi sempre del tu, ti prego. In teoria non lo sono neanche, un Holmberg.»
Mi venne da ridere. «Quindi, fammi capire: per tutto questo tempo ti sei approfittato del cognome di tuo fratello? A che pro?»
«Sentirmi importante?»
«Che persona orribile.»
Rise, anche se dentro era un po' rotto e non lo dava a vedere. Anche se pure lui, in quel momento, si sentiva senza certezze, un disegno vuoto, riempito dai soli colori della confusione.
Attraversammo il corridoio e procedemmo con l'ascensore. Prima di varcare l'uscita dell'hotel, però, venni ostacolata dalla sua mano tesa. Aggrottando la fronte, mi dovetti fermare.
«Desmond Hawkins.»
Rimasi spiazzata dalla rivelazione. Eppure, dentro di me, si fece largo un sentimento di gioia, di speranza; lo considerai come un velato incoraggiamento a voler ricostruire da capo, a partire dalla propria vera identità. Che in fondo, con la vicinanza delle persone giuste, non era mai troppo tardi per ritrovare il proprio contorno, la certezza che il proprio posto nel mondo esisteva.
Con rammarico, mi domandai se quella possibilità non mi fosse stata strappata. O se invece, a dispetto delle premesse, facessi ancora in tempo ad afferrarla.
Preferii non pensarci e ricambiare la stretta di mano, quella promessa, con un sorriso dolce. «Ophelia Graham.»
ANGOLO AUTRICE
Come si suol dire: fine prima parte.
Ragazzi, non so il motivo (anche perché è un capitolo tendenzialmente più breve rispetto ai miei soliti capitoloni), ma sono distrutta. Forse sto avvertendo il peso degli ultimi avvenimenti solo adesso, e il mio inconscio comincia a stancarsi. (?)
BTW, non voglio dire nulla perché sono a corto di parole, però ho le forze necessarie per chiedervi un po' di cose, come al solito.
Questions:
▪️ Vi aspettavate questo risvolto? La colpa sarà davvero di Olivia o è stata solo colpa di un “destino infausto”?
▪️ Non è tanto una domanda, ma vorrei sapere se l'ambientazione di dove ha luogo la sfilata siate riusciti a immaginarla! (sotto vi mostro alcune immagini del Prince George Ballroom e del Boom Boom Room).
▪️ Latisha; il fulcro di tutto, il tasto dolente, l'interrogativo per eccellenza. Vi aspettavate che lo lasciasse così, scoppiando in quel modo? Vi aspettavate che la discussione vertesse a ciò? Secondo voi il motivo di tutto questo è dovuto alla semplice (e delicata) questione del non volere dei bambini plus un ipotetico amante? O c'è dell'altro?
▪️ Desmond & Ophelia; come sempre, vi chiedo cosa state pensando di loro e della costruzione del loro rapporto. Io continuo a trovarli carinissimi, mi sciolgo sempre quando devo descrivere le loro scenette. 🥲 Cosa vi sta piacendo, in particolare, di loro?
▪️ Con le premesse finali, come vi aspettate che si aprirà la... seconda parte di storia? 🙂 (faccina dal sorriso sadico non a caso).
Spero che qualcosina vi sia arrivata; non esitate a dirmi ciò che pensate. ❤️Detto questo, ho bisogno di ritirarmi nella mia tana per... un po'. Devo riprendermi dagli ultimi capitoli, ho bisogno di metabolizzare. 🙃
Intanto, grazie di cuore per essere arrivati a questa prima metà, davvero. Siete preziosissimi.
A presto, nightingales!
E ricordate: questo è solo l'inizio.
▪️Curiosità:
Prince George Ballroom
Sapete, avevo scelto la location tirando i dadi (ci sono una marea di scelte per la Fashion Week, e vanno cambiando di anno in anno). Tuttavia, mi sono stupita quando ho letto l'angolo storico della sala perché... beh, ci rientrano anche i senzatetto. Insomma, scelta più azzeccata non poteva esserci, visto che in questa storia c'è questa tematica. ❤️
Vi lascio il pezzettino che lo spiega:
“Con l'aumento dei senzatetto negli anni '80, gli hotel privati, tra cui The Prince George, iniziarono ad accettare contratti da New York per ospitare famiglie di senzatetto. Durante questo periodo, 1600 donne e bambini occuparono il Prince George, in condizioni che degenerarono in squallore e pericolo. Nel 1989, dopo anni di caos, le famiglie vengono trasferite per ordine del tribunale e l'albergo viene chiuso, rimanendo vacante per nove anni.”
Playlist:
Vogue - Madonna (prima parte fino a quando Desmond non parla di Gregg)
Close To You - BLOW (da lì fino alla fine della prima parte)
Well Bell (Fire Walk With Me) - Pegase (seconda parte - fino a quando finiscono di parlare Desmond e Ophelia)
Écoute Chérie - Vendredi sur Mer (da quando arrivano le modelle di Tom Ford fino alla fine)
Dangerous (feat. Joywave) - Big Data (terza parte - fino a quando Desmond e Latisha non iniziano a litigare)
Ghosts - BANNERS (Da lì fino alla fine)
Unconditional - Richard Walters (quarta parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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