16. Terraferma - Pt. 2
Terraferma - Pt. 2
P.S musicale: in realtà questo è un capitolo da leggere con tutte le canzoni dell'angolo autrice, tuttavia quelle dove sono più necessarie sono: The Waves Have Come in questa prima parte (appena dopo Ophelia chiede del taccuino di Desmond) e You nella seconda parte (quando Ophelia scende le scale). Good reading, nightingales! 🖤
«Sì, sta andando bene.»
«Non ti sento convinta, sorellina.»
«Durante la spiegazione teorica mi è salita un po' di emicrania. Non ho con me l'aspirina, e adesso sono costretta a tenermela.» Sotto l'ombrellone, sistemai meglio un lembo del telo lilla che si spalmava sulla sdraio. Per fortuna ricordavo di conservarne uno in microfibra, sottile abbastanza da riuscire a infilarlo nello zainetto. «Tu? Sei ancora a lavoro?»
«Come te: in pausa. Ho davanti minimo altre tre ore.»
In automatico, staccai il telefono dall'orecchio e controllai l'orario. Erano le sedici. Non ce la farò mai a tornare a casa prima di lei.
«Ah, ho capito» borbottai. «Immagino sarai esausta.»
«Beh, la parte più tollerante sono le ore di trucco. La parte più seccante è cambiare posa a ogni scatto. La parte che invece odio di più è dover eseguire delle sessioni fotografiche di gruppo. Il caso di oggi. Per la copertina di Glamour dobbiamo sembrare affiatati.»
«Non ti stanno simpatici?»
«Sono frivoli. Dei leccapiedi allucinanti. Sembrano pure ritardati, non sanno stare fermi per un fottutissimo secondo. Infatti abbiamo perso un'ora solo per compiere degli scatti decenti. Capisci perché detesto i lavori di gruppo? Mi stupisco della mia agente» disse amareggiata. «Ah, forse non torno a casa, dillo a mamma e papà perché non so quando riprenderò il telefono. Adam mi ha chiesto di uscire appena finisco, dovremmo andare a bere qualcosa, tanto mi ha convinta quando ha detto che pagava lui e... Sono dei bambini?»
Non potei gioire per la notizia, che controllai.
A pochi metri di distanza dall'ombrellone, due bambini seduti sulla sabbia stavano cercando di creare dei castelli con l'aiuto di un secchiello, picchiando la superficie capovolta. Avevano emanato una risata squillante quando, tolta la copertura, il castello si era sbriciolato.
«No, no. Sono fuori dall'edificio ed è passata una famiglia.»
Dio, quanto mi vergogno a riempirla di palle.
«Mh, ok» mormorò per nulla convinta. «Senti, Ophelia.»
«Dimmi.»
«Per quell'incidente...»
«Tranquilla, è acqua passata» mentii.
«Volevo sapere se ne avevi parlato con i nostri genitori.»
Mi ammutolii, grattandomi distrattamente il ginocchio. «No.»
«Bene» rispose, e oltre al tono algido, colsi un velo di quello che parve sollievo. O forse era solo un'impressione. «Credimi, sorellina, è molto meglio così. Non sai mai come potrebbero reagire sapendo quello che sei riuscita a complottare durante la cena, contro di me.»
Deglutii. «Lo so.»
«Non ricordarglielo che potresti significare un peso.»
«Lo...» Strizzai le palpebre, forte. «Lo so.»
«Lo sai che te lo dico perché ti voglio bene, vero?»
«Sì.» Ma uscì un sussurro incerto. «Però, pensavo... magari sarebbe giusto parlargliene. Se noi glielo spiegassimo con calma e...»
«Non essere stupida, Ophelia» mi bloccò, alzando il tono. «L'ultima cosa che voglio è vedere i miei prendersela con te e, soprattutto, vederti stare male su qualcosa per cui ti ho già scusata.»
Annuii, anche se avevo la sensazione che non fosse corretto nascondere a mamma e papà un dettaglio così pesante, nonostante fosse colpa mia. Al solo ricordo continuava a gravarmi sul cuore un'incudine rovente di sbagli. All'inizio credevo fosse qualcosa di passeggero, ma col passare dei giorni aveva iniziato a schiacciare sempre di più, specie quando incrociavo gli sguardi dei miei genitori.
Mi sentivo sporca, ancor meno degna di stare in mezzo a loro.
«Liv.»
«Veloce che fra poco devo scappare.»
«Quando...» Ero indecisa se chiederglielo o meno. Da settimane mi martellava l'idea di fermarla e domandarglielo. Eppure mi sentivo infantile, e per trattenere l'impulso di spegnere la telefonata, mi morsi forte il labbro. «Quando dici che sono tua sorella, lo pensi davvero?»
Per qualche istante, l'infrangersi delle onde del mare e la musica reggaeton che proveniva dal bar distante una passeggiata da qui, accarezzarono l'udito. Strinsi il telo tra le dita, me ne pentii.
«Che domande sono? Certo che lo penso.»
Avrei dovuto sentirmi leggera, eppure... no. «Ok, perdonami. Allora buon lavoro.»
«Perché me lo chiedi?»
«No, niente, è una domanda stupida sorta quando eri venuta a cenare dagli Holmberg e avevi dato quella risposta a Cindy. Tutto qua. Probabilmente l'avevi detto senza riflettere.»
In sottofondo, sentii dei brusii animati e lei che rispondeva.
«Ok, devo andare. A stasera.»
Liquidò la chiamata senza accennare se avremmo continuato il discorso, e io rimasi col cellulare premuto all'orecchio, non sapendo che emozioni provare per quel brusco troncamento. In cuor mio mi convinsi che era meglio così: non ne capivo il motivo, ma avevo ancor più timore di una sua ribattuta. Se avesse convalidato quanto aveva dichiarato durante la cena, sarebbe stato troppo.
Andare a vivere da sola, lontana dai miei genitori, da Olivia, da quella casa, stava diventando una necessità dolorosa, giorno dopo giorno. Tuttavia, i risparmi non me lo potevano permettere, e avevo bisogno di un lavoro più redditizio che un impiego da babysitter.
Non è il momento di pensarci.
Conservai il cellulare nello zainetto accanto a me, dove giacevano delle formine a stella e le palette colorate per secchielli, e sfilai il sudoku che avevo acquistato in un'edicola, cominciando a sfogliarlo finché non arrivai a una tabella molto più complessa delle precedenti.
Avevo bisogno di occupare la mente bene.
Mentre la esaminavo e cercavo di comprendere in quale casella avrei dovuto inserire le cifre, versai su un polpastrello della crema per il viso, che cominciai a spalmare sul naso e le gote. Erano roventi, anche senza controllarmi allo specchio dovevo essere rossissima. Sperai che non fosse l'esordio di una bruciatura. Quindi incrociai le gambe a farfalla, depositandovici la rivista, e rimuginai sull'enigma picchiettando il cappuccio della biro sul labbro inferiore.
Dopo un po' sbuffai, mi tastai il collo. Bagnata. Un lago di sudore si era esteso pure sulla schiena, e quell'appiccicosa consapevolezza non mi permise di concentrarmi. Trenta gradi.
Mi sarei strappata di dosso la salopette.
Eppure, nonostante si fosse rannuvolato e gran parte delle persone si fossero ritirate presagendo l'arrivo di un temporale, non tirava aria. L'umidità era alle stelle, e farmi un bagno vestita era troppo umiliante. Mi dissi che dovevo resistere un altro po'.
Decisi di trarre un bel respiro; salsedine, crema abbronzante e la deliziosa frittura di pesce che proveniva dalle cucine di un ristorante accarezzarono le narici con la stessa delicatezza di un petalo che si separava dal bocciolo. Quel miscuglio di odori e percezioni contribuì a distendere i muscoli, ad acquietare i nervi, a scacciare il pensiero sgradevole che incombeva sulla considerazione che Olivia poteva covare nei miei confronti. Anche l'ambiente contribuì a calmarmi; la poca gente rimasta fece sì che mi sentissi meno esposta, più di quanto ci riuscisse l'ombrellone sotto cui dimoravo, coppie dall'età avanzata bighellonavano sul bagnasciuga facendo ciondolare le infradito sottomano, e mucchi di bambini non facevano che dare sfogo alla loro infantile iperattività, ricoprendosi di sabbia.
Inquadrai la figura torreggiante di Desmond coi nipoti lungo la traiettoria della nostra postazione. Almeno lui aveva avuto la brillante idea di sbarazzarsi della maglietta e, oltre ad aver fatto cambiare i ragazzi, si era sistemato appositamente per rimanere in spiaggia, indossando un paio di boxer bluastri che gli arrivavano al ginocchio.
Guardai il mio abbigliamento, e guardai Desmond.
Provai un pizzico di invidia.
Scribacchiai due cifre nella tabella e, riflettendo sulla prossima mossa, alzai nuovamente lo sguardo su di lui. I ragazzi erano a mollo tra le acque non del tutto placide; Leonard, imbacuccato di braccioli e occhialini, sguazzava cercando di evitare gli spruzzi di una pistola giocattolo che lo zio gli puntava dalla riva, Cindy, invece, spettacolarizzava le sue prodezze da nuotatrice più esperta, compiendo capriole, nuotando a dorso, o cercando di trattenere il respiro sott'acqua più a lungo possibile. A volte si immergeva per recuperare delle conchiglie.
Quanto darei per un rapidissimo bagno.
Premendo la biro sul labbro, l'attenzione si spostò da sola, navigando sulla mascella pronunciata dello zio, ora contratta da una sincera esplosione di risa dopo che un'onda più alta di altre aveva investito il povero Leonard, senza che potesse prepararsi. Il nipote si sfregò le palpebre sotto gli occhialini, mettendosi a ridere anche lui. Dopodiché, Desmond gli passò la pistola e si diede una rinfrescata in viso, chinandosi a raccogliere un po' d'acqua tra le mani.
Se le strofinò sugli zigomi, sul quel naso importante che manifestava una leggerissima curva appena dopo la radice, sulla fronte distesa. Senza staccarsele se le trascinò sopra le sopracciglia folte, oltre l'attaccatura dei capelli. Gli donò una piega a cui non ero abituata, visto che li aveva sempre scombinati. Tuttavia, paradossalmente, riusciva a convertire qualsiasi tipo di disordine in ordine, dimostrando così un incastro conforme alla sua fisionomia.
Inoltre, da quando aveva deciso di scoprirsi, avevo notato un dettaglio interessante, che, però, non ebbi mai modo di decifrare per paura di essere beccata a fissarlo e risultare una maniaca; sulla spalla sinistra giaceva un'arcuata scia d'inchiostro. Partiva dalla scapola sporgente e andava viaggiando verso l'alto, in cima, andando poi a ricoprire il retro di metà braccio. Meno della metà. Indossando sempre camicie o magliette a mezze maniche, non mi era mai stato possibile vederglielo prima di allora. O forse il tatuaggio è corto apposta, così che chi lo incontra l'attenzione sia su di lui e non su quel particolare.
Senza staccare gli occhi dai muscoli contratti della sua schiena, mi venne immediato tastarmi la spalla destra, coperta dalla salopette.
Poi squillò un telefono.
Capii che Immigrant Song proveniva dalla sdraio vicina, quella di Desmond. Tra le pieghe del telo, il suo cellulare vibrava. Probabilmente sentì la suoneria anche lui, perché si voltò un secondo, scambiò due parole con i nipoti e, con una corsetta, mi raggiunse.
Affondai il viso nel sudoku, fingendo naturalezza.
«Dimmi, Paul.» Si infilò gli occhiali da sole, mugugnando risposte d'assenso, e si chinò sui talloni per recuperare dal borsello una banconota. Così facendo, con la coda dell'occhio notai emergere due lievi fossette in fondo alla sua schiena, appena sopra l'elastico dei boxer. Quando si rialzò mi sbrigai a tornare sul sudoku. Ah, il cinque va qui. «Non mi è arrivato ancora niente per email. Riprova, controlla se l'indirizzo è giusto, fa' le solite cose e... Sì, ci sto già lavorando.»
Se ne andò.
Ma tornò dopo dieci minuti.
«Al volo.» Neanche il tempo di realizzare che afferrai la lattina che mi lanciò. «Non so bene cosa ti piaccia, ma la limonata di solito piace un po' a tutti. Stavolta niente fragole.»
«Ehm.» Studiai la lattina color lime. Era ghiacciata. «Perché?»
Si sedette a bordo della sua sdraio e sfoderò un pacchetto di sigarette dal borsello. Non senza lanciare dei rapidi sguardi alle mie gambe. «Sei già stata male prima, e con le temperature di oggi non ci vuole niente a prendere un colpo di calore. Ma soprattutto.» Incastrò la sigaretta tra le labbra e, mentre cercava l'accendino, aggiunse severo: «Quell'abbigliamento te l'avrei sconsigliato, oggi».
Grattai l'apertura della lattina. «Lo so anch'io.»
Smise di cercare. Anche senza alzare il viso, sapevo che mi stava osservando. Riprese la ricerca, trovando l'accendino, e chiese con fasullo disinteresse: «Se lo sai allora spiegami: per quale motivo?»
«È che... mi ci sento più a mio agio.»
Diede un lungo tiro, e si voltò verso i ragazzi. Si stavano schizzando l'acqua a vicenda. «Allora vedi di rinfrescarti con quella. Non hai una bella cera.» Fece uscire del fumo dalle narici, io feci aderire la lattina alle guance, chiudendo gli occhi dal sollievo. «Ora come stai?»
«Molto meglio.» Mi rinfrescai l'altra guancia, ripensando con lieve impaccio al malore avvenuto alla tavola calda, ai ricordi scaturiti dal microfono, alla sensazione di affogare. «E mi spiace se...»
«Non voglio che ti scusi per ciò che è successo» mi interruppe con una punta di inclemenza, io mantenni lo sguardo sulla lattina. «Non sei l'unica. Anni fa ho sofferto anche io di attacchi di panico, e so bene che, per quanto sia frustrante, non sono cose che puoi controllare.»
Mi permisi di guardarlo. Stava scrollando la cenere.
«Come mai ne soffrivi?»
Sollevò un angolo della bocca, accennando una smorfia a metà tra un ghigno e un sorriso rivolto a se stesso. «Te la riassumo così: io e l'acqua non andiamo d'accordo. Non so se l'hai notato, ma ci sto proprio alla larga. Infatti Cindy mi odia perché non mi sono unito a loro.» Avevo notato come avesse ignorato le sue suppliche. «Sono più quello a cui piace stare coi piedi per terra e la testa fra le nuvole. Ma se mi chiedi di farmi una nuotata, cazzo, ti mando a quel paese.»
Non capii il perché, ma quella confessione collaborò a farmi spuntare un sorriso. In un certo senso mi fece sentire più compresa, la mia paura meno sola. Puntellai la biro su una casella vuota, lasciandoci all'interno una costellazione di puntini. «Non l'avrei mai detto.»
«Perché?»
«Non lo so, dai più l'idea di essere un tipo che sa stare a galla in tante situazioni.» Scossi la testa. «Ora mi tocca cambiare metafora.»
«Ma no, non cambiarla.» Gli venne da ridere, ma dopo un po' la risata assunse un tono forzato, che camuffò con un'ultima tirata. «Anche Latisha mi aveva detto una cosa del genere, tempo fa.»
Diede due colpi di tosse mentre, con la pianta del piede, affondava il mozzicone sotto la sabbia, creando una tomba di granelli. Poi fissò il punto con un che di perso, un'espressione che arginava una muta disperazione. Mi fece pensare che anche lui aveva la sua isola da raggiungere, e che un po' tutti noi eravamo naufraghi con una terraferma da raggiungere. E questa, più ci vedeva in difficoltà, più ci derideva e più si divertiva a fare un passo indietro.
«Sei riuscito a scoprire qualcosa?» chiesi, col dovuto tatto.
«È un libro chiuso, non mi azzardo a farle domande, e non so quanto siano attendibili le informazioni che tua sorella mi ha riferito. Spero di non ferire i tuoi sentimenti, ma non mi fido di lei.» Si strofinò gli angoli della bocca. «Anche se ammetto che avrebbe senso.»
A disagio, inserii una cifra per tenermi impegnata.
«È pur sempre una sua ipotesi.»
«Un'ipotesi che avrebbe un alibi perfetto: i tempi in cui ha iniziato a cambiare coincidono, spiegherebbe il suo comportamento, spiegherebbe il nostro... Dio, e quella domanda bastarda.» Si coprì la bocca in un gesto riflessivo. Non aveva ancora staccato l'attenzione dalla sabbia. «Organizzare quella cena è stata un'idea del cazzo. Ma forse neanche tanto. Non mi era mai passato per la testa che Latisha potesse farmela sotto al naso, e...» Sospirò, si grattò la testa. «Non lo so, non ne sono ancora convinto, ma a questo punto mi tocca rifletterci sul serio.»
In un lampo, ripensai a quando l'avevo sorpresa piangere qualche istante dopo la discussione accesa con Desmond; se fosse vero, se l'avesse davvero tradito, quanto potevano essere reali quelle lacrime? Che senso avrebbe avuto piangere quando lui non l'aveva nemmeno vista? Ma soprattutto: che senso aveva nascondergli quelle lacrime?
«E tu?» chiese, distogliendomi da quei pensieri.
«Io cosa?»
Tamburellò l'indice sulla sua guancia. Mi toccai il punto, e il polpastrello sfiorò la crosta del graffio. «Tutto a posto, sta passando» mi affrettai a dire.
Silenzio, che occupai scrivendo altre cifre nella tabella.
«Perché te l'ha fatto?»
«Non è stata lei» risposi celere. «Sono scivolata.»
«Non giustificarla.»
«Non la sto affatto giustifican...» Mi morsi la lingua; capii tardi di essermi tradita con le mie stesse parole. Strinsi la biro, gli occhi pizzicarono. «Credevo che non ne avremmo più parlato.»
«Già, ma disubbidisco spesso. Anche a mia madre.» Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si inclinò, senza distogliere lo sguardo da me. «Prometto di non giudicare, Ophelia. Non lo dirò a nessuno.»
Volsi la testa altrove, cercando di placare il tremolio della voce.
«Non l'ha... Non l'ha fatto di proposito. Era nervosa, gesticolava.»
«Dimmi che almeno si è scusata, ti prego.»
«Sì, era molto pentita per l'accaduto.»
Mi guardò, feci finta di non notarlo; ma sentivo chiaramente i suoi occhi cercare la verità nelle mie parole. Perché, per qualche assurda ragione, non ce la trovavo nemmeno io fino in fondo.
«Fammi vedere, dai.» Mi resi conto tardi che aveva proteso la mano fino ad arrivare a qualche centimetro dal mio viso. Di riflesso, chiusi gli occhi e mi scostai. Mi rivolse i palmi. «Ehi, non ti faccio niente. Volevo solo vedere meglio quello che ti ha lasciato addosso.»
Senza dire nulla, fissai prima i suoi grandi palmi spalancati e poi lui. Infine, seppur incerta, inclinai il viso, lasciandogli scoperta quella porzione di pelle. Piantò il pollice sopra il graffio, e con delicatezza lo tastò, lo studiò. «Dimmi» mormorò, fermando quel lento sfregare e allontanando il palmo. «Ti ha lasciata venire qui senza obiettare?»
Poco lontano, Cindy stava parlando con Leonard.
«Le ho mentito. Pensa che io sia a un corso.»
«Le hai mentito?»
Me lo chiese lasciando trapelare della palese sorpresa, il che mi fece tentennare. «Sì, so che non avrei dovuto, ma...»
«No no, per me è stata una mossa saggia. È solo che non credevo.»
«Che vuoi dire?»
Fece passare qualche secondo, poi stirò un lieve sorriso mentre frugava dentro a un borsone. «Questo è un discorso che prenderemo un'altra volta. Però sii orgogliosa di quello che hai fatto.»
Orgogliosa? Per averle detto una bugia?
Corrugai la fronte, non capendone il senso, lui sfilò il suo taccuino.
Si ricamò un'espressione severa e cominciò a tracciare rapidi schizzi, alternando la punta della matita al polpastrello, quasi fosse anch'esso uno strumento artistico. Aveva un modo di compiere quei fugaci gesti che ritenni professionale, ipnotizzante. Tuttavia, per quella risposta, la confusione mi portò a distogliere lo sguardo da qualunque cosa stesse abbozzando per mirare l'orizzonte. Oltre i bambini, oltre le boe che contrassegnavano il limite che i bagnanti potevano raggiungere per via dell'alta marea. I nuvoloni avevano inghiottito gli ultimi stralci del bel tempo, e più si allungava lo sguardo, più le scale di grigio si scurivano.
Gruppi di ragazzini e qualche famiglia continuavano a fare i bagni. Altri stavano cominciando a raccattare la propria roba per andarsene. Era probabile che, presto, avremmo seguito l'esempio.
Oltretutto, dettaglio che non potei fare a meno di cogliere, capii che Cindy e Leonard non se la stessero passando bene; nonostante la distanza, lei sembrava aver assunto un'espressione arrabbiata, faceva supporre che avesse appena detto qualcosa di spiacevole al fratello, lui doveva aver incassato il colpo, poiché si allontanò arrancando a riva.
«Prima avevi detto una cosa» intavolai, continuando a controllare i bambini. «Tutta suo zio. Riguardo alla sua passione per il disegno.»
«Già, da qualcuno doveva pur imparare.» Scrisse qualcosa in basso alla pagina, si guardò intorno, e chiuse il taccuino. «Nella casa editrice in cui lavoro sono un grafico. E questa simpatica agenda...» La sollevò. «Non c'entra assolutamente un cazzo con le commissioni.»
«Davvero? E a che serve?»
«Eh, vorresti saperlo.» Rise, tamburellando le dita sulla copertina. «Per scaramanzia preferisco tenermelo per me, ma ti basta sapere che qui dentro c'è l'ispirazione per un progetto che non vedrà mai la luce. O forse sì. Beh, non faccio programmi, per cui staremo a vedere.»
Scrutò il taccuino, ne grattò il dorso in un moto di distrazione, emersero delle rughe ai lati degli occhi. Sorrise, tutto in lui lo fece, forse nemmeno se ne accorse. E per quel motivo sorrisi pure io. Era palese che su qualsiasi cosa stesse lavorando ci fosse un valore non indifferente, e che fossi curiosa di scoprirne il contenuto l'aveva capito. Eppure, di fronte a quel chiarimento, e al perché volesse conservarlo come progetto privato, preferii non indagare e rimanermene in silenzio.
Una raffica di vento più rigida delle precedenti mi trascinò i capelli davanti alla faccia, provocandomi la pelle d'oca. Mi tastai le braccia, sollevando il viso all'insù. Il cielo, ora, si stava divertendo a giocare con delle sfumature che saltavano dall'azzurro a una cenere chiara.
Lui aprì la cerniera del borsone e ci ripose il taccuino. «Forse è il caso di iniziare a chiamare quei due. Sta cominciando a tirare una brutta aria.»
«Già, penso che a breve potrebbe...» convenni, ma abbassando lo sguardo sulle bigie e irrequiete onde del mare, le parole mi si accartocciarono sulla lingua. Le iridi vagarono impazzite a destra, a sinistra, all'orizzonte, sulla riva. Lesta, allungai la mano sul braccio di Desmond finché non arrivai a stringerglielo, continuando a controllare, a sperare di aver visto male.
«Desmond.» Un sussurro spezzato, affondato in gola.
«Cosa?»
«Cindy.» Saltai giù dalla sdraio. «Non la vedo più.»
Saltò giù anche lui, allarmato. «Impossibile, era proprio con...»
«Z-zio Des!» gridò disperato Leonard, sbracciandosi. Era rimasto sul bagnasciuga, aveva ancora in mano la pistola giocattolo. «C-Cindy!»
Con gli occhialini tirati sul capo e con ancora i braccioli, stava indicando a sinistra, la direzione che le onde avevano intrapreso per colpa del vento che aveva iniziato ad abbattersi. Proprio laggiù, a qualche metro dalle boe galleggianti, un puntino scuro lottava per rimanere a galla. Non realizzai a fondo quel pensiero che corremmo a riva. Quei pochi che erano rimasti in spiaggia, alzarono sguardi e occhiali da sole per capire meglio cosa stesse succedendo.
Leonard si gettò addosso a noi, in lacrime. Batteva i denti.
«Vai sotto l'ombrellone, copriti e non muoverti da lì, ok?» gli ordinò lo zio, con un tono che difficilmente mantenne controllato.
Il bambino, spaesato, alla fine eseguì. Dopodiché, Desmond cercò di avanzare nell'acqua, ma appena i piedi vennero travolti dal getto delle onde, si bloccò sibilando: «Merda».
Gli spettatori rimasero quel che erano: spettatori. Chi spaventato, chi in cerca d'aiuto. Nessuno mosse un dito. Palmi a nascondere lo sgomento, volti che cercavano altri volti nella speranza di un appoggio pratico. Nel panico più totale e le mani tra i capelli, girai su me stessa alla ricerca di un miracolo. Avvistai soltanto la postazione del bagnino, e imprecai tra i denti quando capii che era troppo lontana. Raggiungerla avrebbe significato perdere tempo, e perdere tempo avrebbe significato correre il rischio che Cindy non ce la facesse.
No. Terrorizzata, mi concentrai sul punto in cui le mani di Cindy arrancavano verso la superficie e, ogni tanto, la schiuma delle onde nascondeva quel tentativo urgente di rimanere a galla. No.
Non capii più nulla.
Le palpitazioni martellarono nelle orecchie, timpani come incudini, e a ogni crudele battito il mio respiro ovattò i pensieri, li imbottì di ipotesi, soluzioni, previsioni. Fu allora che le gambe si animarono da sole, trascinandomi verso il mare, verso il richiamo di quelle lingue salate che si appallottolavano. Gli occhi, però, rimasero su quella figura che il secondo prima vedevo, e quello dopo non più.
Tuttavia, Desmond mi ghermì il braccio.
«Lasciami.»
«Corro dal bagnino, tu rimani con...»
«Lasciami, ti ho detto!» gli urlai contro, l'ansia mi sopraffece, non mi permise di tenere un profilo basso, una voce effimera. «Fidati, fidati di me. Lo so fare, l'ho già fatto, ti prego.» Nel panico tentennò, quelle iridi d'inchiostro un incessante scoccare me e poi Cindy. «Hai letto il mio curriculum, sì o no?»
Aprì e chiuse le mani. Fremeva di fare, aiutare. «Ophelia...»
«Non c'è tempo!» Indietreggiai veloce, bagnando i polpacci. «Va', sbrigati!»
L'istante prima di sparire mi lanciò una rapida, ma contraddittoriamente lunga occhiata. I lineamenti rigidi vennero smussati dal terrore, da un amaro avvilimento, da una rabbia nei confronti di se stesso. Eppure, nel nucleo di quel contrasto battagliero di emozioni, ci fu spazio anche per un timido salvagente morale, gonfio di "Stai attenta, ti prego".
Annuii.
Desmond cominciò a correre e, al contempo, si portò gli indici ai lati della bocca, emanando dei sonori fischi in direzione del bagnino. Quei segnali, più le grida di aiuto dei bagnanti, mi accompagnarono mentre le acque mi si accanivano alla vita, inzuppando il jeans. Diedi sprint ai muscoli delle gambe e, unendo le braccia in alto, mi lanciai in un'immersione di testa.
Non ce la farai, Ophelia.
Una bracciata ad arco, un'altra, e un'altra, più lesta, più urgente; l'ossigeno la freccia che, avida, incoccavo frettolosamente nei polmoni, e che trattenevo, tiravo, finendo per scoccarla contro il mio volere su un bersaglio liquido, non concentrico.
Non ce la farai mai.
Le onde che volevano rallentarmi, impedirmi di proseguire.
Non ce la farai.
Braccio e fiato, arco e freccia, vita o morte.
Mi fermai a respiro mozzo e con le cosce che ardevano dallo sforzo. Ero arrivata in un'area in cui riuscivo a toccare a malapena terra con le punte dei piedi. Mi guardai intorno pregando e trattenendo il respiro quando arrivava un'onda più feroce, in grado di seppellirmi.
Dove sei. Era qui, era qui, era qui. Dove sei, Cindy.
L'avvistai poco più in là, le mani stavolta immobili, come foglie d'autunno che peregrinavano pigramente sul ciglio di un lago. Affondai altre tre bracciate e la raggiunsi. Sistemai il corpo della bambina di schiena, sopra di me e il viso esposto, così che non inghiottisse ulteriore acqua.
Non ne sei capace. Allacciai un braccio attorno alla sua vita, la tenni incollata al petto, alla mia vita, e con l'altro cercai di muovermi.
Strinsi i denti - non ne sei capace - protessi la bocca socchiusa di Cindy a ogni frustata d'onda - non ne sei capace - a volte il suo corpo tentò di scivolarmi via - non ne sei capace - cercai di scacciare quelle voci mentali, suadenti sussurri di sconforto che avvolgevano quotidianamente cuore e mente come cappi letali, impedendo ai pensieri di respirare, di dare spazio alla fiducia in me stessa. Non ne sei capace, non ne sei capace, non ne sei capace. Anche adesso non facevano che ricordarmi la mia incompetenza, la valanga di "se", il turbine di "forse", gli errori che avrei potuto commettere se avessi osato, e a come Olivia spesso mi rammentasse che era meglio non buttarsi nella mischia delle situazioni più complesse, che era meglio lasciar fare il lavoro agli altri, perché io non ne sarei stata in grado. Perché troppo fragile, troppo debole, che guadagnare una posizione da fallita sarebbe stato tremendo da digerire.
Ma vedendo Cindy, le fauci dell'acqua che desideravano inghiottirla, e l'orribile eventualità che per colpa di un pensiero subdolo non avrebbe mai potuto fare ritorno da suo padre, dalla sua terraferma, mi ero concessa di spegnere il cervello, scegliendo di agire. Non sarebbe stata la scelta più ponderata e intelligente, ma non sarei rimasta a guardare una bambina annegare, non quando ero consapevole di avere delle discrete competenze per provare a salvarla.
Se dovevo fallire, volevo farlo pur sapendo di averci provato.
Quando le piante dei piedi aderirono per intero sul suolo, trascinai attentamente Cindy tenendola a pancia in su, io accanto a lei, sostenendola dalla schiena in modo che non affondasse. Non appena fui a pochi passi dalla battigia, un signore accorse svelto tra le acque e mi aiutò a trascinarla. L'afferrò dalle gambe, io dalle ascelle.
La stendemmo sulla sabbia asciutta, con cautela.
Non ebbi il tempo per esalare un solo respiro, tantomeno di togliermi i capelli appiccicati dalle guance, che mi inginocchiai vicina al suo corpo. Aveva perso i sensi; non apriva gli occhi, tra le labbra violacee rimaneva un sottile spiraglio da cui intravedevo l'assenza degli incisivi. Brusii preoccupati mi attorniarono come avvoltoi, occhi velati dall'angoscia puntavano Cindy che, inerme, non accennava a muoversi. Ti stanno guardando, non ne sei capace, assistono al tuo fallimento, non ne sei capace, sei nuda, esposta, vulnerabile, non ne sei capace. Alzai lo sguardo. Desmond, dove sei finito? Ma laggiù, oltre a una torma di persone che si era raggruppata fuori dagli ombrelloni, non c'era alcun bagnino che accorreva. Che non fosse alla sua postazione?
La gente non mi diede tempo di pensare.
Si avvicinavano. Si allontanavano. Sciami di mosche che davano solo fastidio, riempivano l'udito di "Oddio" e di "E ora?". Parole su parole, allarmismo che era un ronzio. E continuavano, continuavano.
«State lontani» gridai all'improvviso, non riuscendo a controllare quel miscuglio di terrore e ansia. «Ho bisogno di spazio. Questa bambina ha bisogno di spazio, chiaro?» Qualcuno indietreggiò. «Nessuno è un medico? Nessuno? Anche un'esperienza minima, o...»
Mi feci coraggio e, a fiato corto, alzai gli occhi su ognuno di loro; negarono con la testa, colmi di mortificazione e incertezze, lo stesso signore che mi aveva aiutata a soccorrere Cindy mi avvisò che aveva già allertato un'ambulanza. E il bagnino, in tutto ciò, non arrivava.
Non posso perdere altro tempo, dannazione.
Però arrivò Leonard, con un asciugamano sulle spalle.
Si inginocchiò di fronte a me, sua sorella tra noi. Provò a chiamarla più volte, gli occhi arrossati dalle lacrime. «È... è co-colpa m-mia» espresse, sull'orlo di un nuovo pianto. «Ci-Cindy...»
«No, tesoro, non è colpa tua. Va tutto bene.» Tastai le caviglie della bambina, le scossi. Non si mossero. «Va tutto bene.» Mi chinai finché l'orecchio non sfiorò prima le narici, e poi le labbra. Non respirava. «Va... Va tutto bene, Leonard. Tu tienila per mano, ok?»
Gliela strinse subito, cercando di placare i singhiozzi.
Come quando avevano seguito la mia voce bendati. In due.
La folla, nell'area in cui avrebbe dovuto esserci la postazione di salvataggio, finalmente la vidi animarsi, sbrigarsi, per poi sparpagliarsi. Quelli che parvero puntini indistinguibili corsero dalla nostra parte. Ma nemmeno pensai al fatto che potessero essere loro che, in attesa che arrivassero, eseguii la manovra di rianimazione imparata diversi anni prima; chiusi gli occhi e, con le ossa che tremavano, collegai la bocca a quella di Cindy, tappandole il naso. Per cinque volte le donai ossigeno, e pregai, pregai come mai prima d'ora.
Andiamo.
Rapidamente, premetti due dita sul suo collo umido, per accertarmi che ci fosse un riscontro cardiaco, ma avvertii un gelido tuffo al cuore quando non sentii niente. Il silenzio incombeva come cappe di morte, solo la musica delle onde a contrassegnarne una tetra colonna sonora.
Andiamo.
Mi obbligai a controllare le mani, a tenerle ferme, e procedetti con le compressioni toraciche, facendo aderire un palmo solo. Andiamo. Ricordavo che per i bambini era sempre meglio usarne uno anziché due, proprio perché erano più fragili di un adulto, e lo feci: quindici ritmiche compressioni da manuale, poco sotto il centro del petto, sopra il costume fucsia.
Andiamo, Cindy, andiamo.
Alternai pressioni al torace alla respirazione artificiale.
Nuota.
Leonard strinse la sua mano, le piccole dita pregarono fra le sue.
Ti prego, nuota.
Con la bocca trasmisi suppliche, sul petto premetti altre preghiere.
Nuota, Cindy... che tuo papà ti sta aspettando.
Nemmeno mi accorsi che, per l'affanno, stavo ansimando tra un cambio e l'altro, nemmeno mi resi conto del groppo di lacrime che implodeva in gola, e nemmeno mi accorsi di una mano sulla spalla, di qualcuno che mi diceva di lasciar continuare a chi di dovere.
Quando notai delle gambe abbronzate flettersi e i pantaloncini rossastri del bagnino, Cindy spalancò di colpo gli occhi e, come un fulmine, si voltò di lato per vomitare tutta l'acqua che aveva ingerito. Non riuscii a chiudere la bocca, non sapevo come si tornava a respirare.
Le tenni i capelli bruni lontani dal viso, lasciando che finisse di svuotarsi.
Accanto a Leonard, tempestivo, si gettò in ginocchio la figura di Desmond; quando Cindy finì di tossire e iniziò a rivestirsi di brividi, l'avvolse prima con un asciugamano e poi con un abbraccio, tenendola stretta al petto grondante di sudore. Mai come in quel momento l'avevo visto così vulnerabile, sul punto di rompersi come cristallo appena lavorato.
Intorno a noi tirarono dei lunghi sospiri di sollievo, altri si allontanarono, altri ancora applaudirono per l'atto di salvataggio. Ma io... non sentivo niente; vedevo le labbra di Desmond, di Leonard e del bagnino muoversi, la voce a zero. Pareva che qualcuno avesse infilato nelle mie orecchie dell'ovatta. Tantomeno riuscivo a gioire, a staccare gli occhi dal viso di Cindy; non faceva che affondare la guancia nell'incavo del collo dello zio a ogni stretta che le infliggeva, quasi temesse che scivolasse via lì, nella sabbia, o dalle sue stesse braccia.
Anche lei non sapeva come comportarsi, che emozioni trasmettere, che parole esprimere mentre batteva i denti: mostrò un completo estraniamento dalla realtà, guardava e non guardava. Assente. Non pianse, non si lamentò, non sembrò disorientata.
Qualcosa, però, riuscì a sussurrarla a stento.
«Un...» Ma le parole sembrarono scandite da un terremoto, tanto era scossa. «Un... crampo alla... Mi era venuto un crampo al...»
«Non importa» sussurrò Desmond, dandole un bacio sulla tempia. Quando gliene diede un altro, i suoi occhi, lucidi di spavento, incontrarono i miei. «Non importa.»
Desmond spense il quadro della macchina.
A differenza della partenza, durante il viaggio di ritorno avevo sentito piombarmi addosso quelle tre lunghe ore, poiché un silenzio opprimente aveva deciso di assumere il ruolo del quinto passeggero; gli unici rumori erano scanditi dal respiro di Cindy che si era assopita nei sedili posteriori e dalle frecce che lo zio attivava per svoltare.
Persino la radio era rimasta spenta, come spente erano le nostre voci.
Ed era meglio così: parlare sarebbe stato inutile.
Non che io ci sarei riuscita. Non ora, almeno, non dopo ciò a cui avevo assistito. A pensarci mi si riproponevano quelle immagini orribili, così preferii guardare oltre il parabrezza provato dalla pioggia che aveva colpito Ocean City, il cui vetro era sfigurato al pari di una trasparente superficie lunare, tracciato dalle forme circolari delle gocce, come se fossero i crateri.
Con la coda dell'occhio, capii che Desmond stava seguendo il mio esempio: fossilizzarsi sul viale dinanzi baciato dai colori incandescenti del tramonto. Qualche passante anziano girava pigramente con le mani dietro la schiena, dei bambini si rincorrevano con un pallone da calcio.
Ad un certo punto, neanche a farlo apposta, ci muovemmo all'unisono: io accavallai le gambe, lui appoggiò il gomito sulla sporgenza del finestrino, strofinandosi la bocca, i polpastrelli dell'altra mano li batté sul volante. Probabilmente, come me, non aveva ancora realizzato cosa fosse successo e cosa sarebbe potuto succedere. Tutt'ora avevo impresso a fuoco il corpo di Cindy che tentava di rimanere a galla, per poi sparire sotto quella letale coperta marina.
Dopo essersi ripresa, era arrivata l'ambulanza.
Era rimasta sotto osservazione per un po'; un'équipe di paramedici le aveva controllato la respirazione, la frequenza cardiaca, le aveva posto delle domande, giusto per scongiurare che non avesse riscosso traumi a livello cerebrale. Ad ogni modo, lo shock le aveva permesso di rispondere soltanto a rapidi monosillabi, e dopo essersi accertati che la bambina fosse davvero tornata in sé, l'avevano lasciata libera. Uno di loro gli aveva persino regalato una caramella all'anguria, che Cindy aveva infilato in tasca senza esprimere né felicità, né gratitudine.
Alzai lo sguardo sullo specchietto retrovisore.
Mi chiedo cosa le stia frullando per la testa. Leonard aveva un'espressione funerea, e per tutto il viaggio, mentre lei dormiva con il capo sulla sua spalla, l'aveva tenuta per mano. Ancora.
Leonard...
«È distrutta» appurò Desmond, sottovoce. «Tu rimani qui?»
Non mi voltai, anche se lui l'aveva fatto, poi mi limitai ad annuire.
Attese altri secondi, secondi in cui attese una risposta verbale che non arrivò, poi aprì lo sportello. Subito dopo spalancò quello del sedile posteriore, sussurrando: «Ehi, dai che siamo arrivati».
Udii un mugolio. Lo specchietto catturò Cindy mentre arricciava la bocca, assumendo una smorfia ferita. Non voleva aprire gli occhi. Così, dopo varie sollecitazioni dello zio, decise di assecondare quel capriccio caricandosela in braccio; lei ci si aggrappò al collo e alla vita, come un koala che cercava conforto nel suo tronco preferito.
Leonard, però, non sembrò felice di essere a casa.
Continuava a mostrare la stessa espressione satura di colpe, e poco prima che scendesse intercettai un vago tentennamento dietro le quinte di quegli occhiali massicci. Desmond, intanto, aveva recuperato uno dei borsoni da spiaggia, non senza riscontrare delle difficoltà per il peso assopito che reggeva con l'altro braccio.
Tormentandomi una salopette che sapeva di sale, lo osservai bene; scuro nel volto arrossato, la faccia scavata dalla stanchezza, e per un brevissimo lasso di tempo, quello che antecedette lo scatto del portabagagli, rifilò un'intensa occhiata al mio posto, con una mano ancora aggrappata all'apertura rimasta sollevata. Non sapeva - e non poteva sapere - che lo stavo guardando con la medesima espressione.
Quando si allontanò, mi feci coraggio a scendere.
«Aspetta.»
Era arrivato a metà tragitto, Leonard al suo fianco. Si girarono.
A distanza da loro, fissai Cindy avvinghiata allo zio, poi il nipote.
«Vorrei parlare un secondo con Leonard.»
Lui, preso in causa, trasalì. Desmond, invece, lo guardò a lungo e diede un cenno d'assenso con la testa, senza dire una parola. Varcata la soglia della villetta, attesi fuori dalla camera dei ragazzi; lo zio coricò a letto Cindy, nonostante fosse ancora vestita, ma aveva preferito non svegliarla finché non fosse arrivato suo padre. Anche a porta socchiusa, udii comunque dei mormorii gentili, tra i quali riconobbi quelli tentennanti del nipote.
Desmond uscì, ed io arretrai.
Di nuovo, mi lanciò un'occhiata di difficile interpretazione, ma in cui si mescolavano emozioni troppo burrascose perché una faccia comune potesse farli emergere con naturalezza. Un po' come il cambiamento che aveva subìto il mare quel giorno: da calmo a scosso.
Poi, silente come solo lui sapeva essere, si dileguò per le scale.
Nella stanza, la tapparella abbassata a metà lasciava emigrare lame arancioni che andavano monopolizzare in un caldo abbraccio le pareti, la figura raggomitolata di Cindy sotto le coperte, gli scaffali e mezzo viso di Leonard, rimasto accanto alla sorella. Un piccolo grande guardiano che voleva vegliare su di lei, la mano aggrappata alla sua.
Fratello minore che volle essere maggiore.
Parve non accorgersi della mia presenza, neppure quando presi posto dietro di lui, tanto era concentrato a controllare sua sorella. Concentrato e tormentato. Inevitabilmente, mi balenò un momento della mia vita che avevo già vissuto, anche se in contesti differenti.
Solo che al posto di Cindy c'ero io.
Sorrisi. «Fai l'angelo custode?»
Non si mosse. Anzi, strinse ancora di più la presa. Lo sentii tirare su col naso, che si strofinò subito dopo, ed io gli posai una mano sulla schiena, accarezzandogliela.
«Leonard.»
«È co-colpa mia.» Si asciugò le guance. «N-non d-d-dovevo farlo.»
«Fare cosa?»
«C-Cindy mi ha...» Cacciò ancora il muco alle narici. «Ci-Cindy, al m-mare, mi ha de-detto c-che...» Ogni parola consisteva in una guerra contro se stesso, da ogni lettera sanguinava una fatica immensa.
Gli strinsi la spalla. «Piano, prenditi il tempo che ti serve.»
«Mi ha de-detto c-che è c-colpa m-mia se ma-mamma e papà non sta-stanno più i-in-insieme, e che...» Si sfregò gli occhi, stavolta con il braccio. «E che se no-non na-nascevo, ad-adesso ma-m-mamma sa-sarebbe ancora qui, i-insieme a noi, e sa-sarebbe v-venuta al suo c-co-compleanno.»
Ebbi un tremendo tuffo al cuore. Un peso.
Fu un impulso naturale stendere un braccio sulle sue spalle e avvicinarlo a me. «Non lo sei, Leonard, e mai lo sarai. Hai una famiglia che ti vuole tanto bene: tuo papà, tuo zio, Cindy, anche se fa fatica a dimostrarlo... Solo che oggi era molto triste e arrabbiata. E quando si è molto tristi e arrabbiati ci escono di bocca parole che non pensiamo sul serio». Continuò a togliersi le lacrime, ma non sciolse quell'aggancio che aveva instaurato con la sorella, quasi avesse il terrore irrazionale che smettendo di farlo si interrompesse un immaginario ciclo vitale che funzionava solo tra fratelli. Conoscevo quella sensazione, quella dove si pensava che la vicinanza fosse una dimostrazione solida affinché le strade non si dividessero, che seguissero un tragitto parallelo, fianco a fianco, senza separarsi mai. «E poi? Dopo che ti ha detto quelle cose cos'hai fatto?»
«Mi so-sono ar-arrabbiato e m-me ne s-sono a-andato.»
«E pensi che tutto questo sia successo perché non sei stato con lei?»
Annuì piano e si ammutolì per un po', finché...
«F-forse so-sono davvero. A-anche m-mamma me lo di-d-diceva qu-quando no-non p-parlavo be-bene.»
Un impeto di rabbia che non mi apparteneva andò a rimuovere la confusione che, durante la permanenza dagli Holmberg, riservavo nei confronti della madre. A quel punto pensai un po' egoisticamente che non era degna di chiamarsi come tale, per nessuna ragione; quale genitore al mondo considerava le difficoltà di un figlio come portatrici di danni? Come si poteva addossare una colpa simile a un bambino?
I miei genitori adottivi non avevano mai fatto mai nulla del genere, né mi avevano rinfacciato del mio problema nei momenti in cui l'umore non era dei migliori; mi avevano scelta anche perché soffrivo di mutismo, ed era stata una loro decisione avermi con loro, farmi affrontare quella silenziosa guerra insieme, con le armi giuste, gli incoraggiamenti giusti, farmi conoscere l'altra dolce metà del silenzio.
Loro mi avevano voluta, concepita dal seme di una convinzione. E mi chiesi, non senza provare una fitta di dolore, se pure la madre di Cindy e Leonard li avesse voluti davvero, fino in fondo, per sempre.
Finalmente si voltò, piano, rivelando un naso da cui colava il moccio e gli occhi rossastri, dove due aureole celesti ne contornavano le iridi. Sembrava di ammirare il mare al tramonto.
«E se i-in-inizia a p-pensarlo a-anche pa-papà? E se s-se ne va?»
«Non lo farà mai, perché tiene a te, farebbe i salti mortali per essere qui con voi, adesso.» Gli accarezzai i riccioli rinsecchiti dal sole, sistemandogliene uno più ribelle degli altri. «E poi lui non è tua mamma, sono diversi, ma soprattutto: lui è rimasto, e ti vuole bene così tanto da volerti aiutare. Infatti vai da un logopedista apposta.»
Avvistai una luce ottimista estendersi in quegli occhi circondati dalle lacrime. Speranza, sollievo, confusione. O forse tutto insieme. Tuttavia, bastò per fargli spuntare un sorriso.
Uscii dalla stanza con il cuore ancor più pesante di prima, ma alleggerito dall'immagine nitida di Leonard che continuava a controllare sua sorella. Mano nella mano. Sperai di vederglielo fare più spesso, anche in circostanze più quotidiane e meno accorate.
Non lasciargliela mai, Leo, neanche quando litigate.
Scendendo le scale avvertii i muscoli delle gambe indolenziti, e il mio primo pensiero consolatorio cadde sul fatto che quella giornata fosse terminata. Ma il secondo, terminata la rampa, virò su Desmond; affacciandomi oltre il muro mi si aprì la visione della sala da pranzo, dove una luce ambrata, soffusa, ne accarezzava lo scheletro di ante e seggiole. Capii presto che no: la giornata non si era ancora conclusa.
Sul fornello della cucina bolliva un pentolino.
Lui era lì; dalle pieghe della maglietta intuii che avesse teso i muscoli della schiena, ogni tanto ruotava il collo, le scapole, movimento che gli permetteva di emergere oltre il tessuto. Ciò che mi rattristò, però, fu la postura del suo corpo, poiché aveva assunto una strana inclinazione che lo rendeva meno alto. Assomigliava a un decadente albero secolare, stanco di elevarsi, di incombere tra tutti gli altri, stanco di possedere un titolo di supremazia, eppure ostinato a non lasciarsi abbattere neanche dall'ascia di terrore che era calata su di lui.
Con una mano si reggeva sul piano da lavoro e l'altra si divertiva ad abbassare e a rialzare la fiammella; giocava con la manopola come un bambino che non capiva a cosa servisse quel congegno. Il tutto mentre lo sguardo giocava sugli utensili appesi alla parete piastrellata.
Venni pizzicata dall'idea di andarmene così, senza dire niente.
Ma quando gli voltai le spalle, la sua voce me lo impedì.
«La tisana la vuoi con un goccio di miele o senza?»
Freddo, roco, paziente.
Assottigliai le labbra, chiudendo gli occhi. Lo sapevo. Lentamente tornai indietro e, con un certo timore sulla pelle, mi sedetti al tavolo.
«Senza.»
Smise di importunare la manopola, ma si tenne comunque di schiena. Lo so, so di cosa vuoi parlare, so perché sei così arrabbiato.
Starnutii.
«Se hai bisogno di asciugarti i capelli e quei vestiti, puoi farlo al bagno di sopra. Se vuoi mentire a tua sorella fino alla fine, fallo bene.» Annuii, anche se non poteva vederlo. Poi, continuando a rimanere voltato, passò una mano sul piano da lavoro, togliendo della polvere invisibile. «Perché mi hai chiesto di voler parlare con Leonard?»
Fissai le mie unghie rovinate, mangiate dal nervoso.
«Accertamenti.»
«Accertamenti su cosa?»
«Su varie cose che ho notato durante la mia esperienza qui.» Intrecciai le dita, inglobando un tremore instabile. «Per come la vedo io, quella bambina non ha avuto soltanto un crampo al piede.»
Desmond drizzò la schiena. Tornò eretto, attento, alto.
«Spiega.»
«È solo una sensazione, non lo so con certezza.» Spense il fornello e fece fluire l'infuso in due tazze di ceramica. «Temo che parte dell'accaduto sia dovuto al fatto che Gregg non fosse con lei, oggi.»
«Non ha neanche telefonato, pensa.» Sbuffò dell'amaro sarcasmo. «E ancora non sa cos'è successo. Oh, aspetta che lo venga a sapere.»
Imprecò piano, le tazze tintinnarono quando entrarono in contatto con i cucchiaini, che sistemò all'interno di quelle bocche tondeggianti.
«Desmond.»
«Sono un uomo morto, lo so.»
«Leonard mi ha riferito quello che Cindy gli ha detto al mare. E sai cosa? Che è colpa sua se i suoi genitori non stanno più insieme. Gli ha ribadito che è un peso, che se non fosse mai nato almeno la mamma sarebbe qui a festeggiare con lei. E sai cosa mi ha fatto accapponare di più la pelle? Il pensiero che fosse stata proprio la madre ad averle piantato una simile convinzione.» Smise di guarnire le bevande. «Non sarà il momento migliore, ma ho bisogno che mi parli di lei.»
Ci impiegò un po' prima di afferrare le tazze dal manico e posarle sull'isola. Prese posto sullo sgabello di fronte, l'aria offuscata da una nebbia di tensione che immaginavo volesse placare con la tisana.
Continuò a fissare il bicchiere, i palmi alle estremità del bicchiere e una lingua di fumo che risaliva fino al mento. «Penso tu non ne abbia bisogno. Hai già capito tutto.»
«Ne ho bisogno, non era una domanda» sottolineai ancora, determinata e ferita, e per una volta sperai, desiderai che mi guardasse, affinché ne afferrasse l'importanza. «Leonard, di sopra, piange, si dà continuamente delle colpe che non ha e che non dovrebbe avere... È da quando sono qui che fra lui e Cindy salta fuori questo discorso.»
«E ti fa male?»
«Mi fa molto male.» Strinsi la tazza, sopportandone il calore rovente. «Chiunque fosse questa donna, come avete fatto a non capire in tempo che comportava una pessima educazione per i ragazzi?»
Finalmente alzò lo sguardo, ma senza mutare espressione.
«Cosa ti fa pensare, Ophelia, che quella persona fosse così palese agli occhi degli altri?» replicò con sottile astio. «Secondo te, se me ne fossi accorto prima, non pensi che avrei avvisato mio fratello?»
«Non capisco, lui non aveva mai notato che...?»
Troncò la mia domanda con un'incisiva, crudele risata a bocca chiusa. Mi lasciò perplessa, lui prese tempo passandosi una mano sul viso, massaggiandolo lentamente. Forse era dovuto al sole che aveva preso, o forse all'accaduto, ma in quel momento sembrava tanto di avere davanti un uomo più vecchio della giovane età che dimostrava.
«Gregg, Gregg, Gregg. Le vittime, se così vogliamo chiamarle, non erano solo quei bambini, sai?» dichiarò in un mormorio, passando a massaggiarsi le palpebre. Io non risposi, non riuscii a comprendere, e lui tornò ad aggrapparsi alla tazza, mescolando l'infuso dorato con il cucchiaino. «Il Gregg che vedi adesso non è lo stesso di un tempo.»
«Che vuoi dire?»
«È fragile. E lo sa nascondere molto bene.» Un velo di tristezza smussò il tono inizialmente distaccato. «Tutti noi lo siamo a modo nostro, ma Gregg, prima che questa donna entrasse a far parte della sua vita, sapeva affrontare questo lato di sé a testa alta, rialzandosi. Poi qualcosa è cambiato, e il minimo fallimento implicava una tragedia, una crisi a livello psicologico» spiegò, lo sguardo vacuo e il cucchiaino che roteava, come se sperasse che i suoi pensieri venissero risucchiati dal mulinello che creava. «Per le responsabilità che comporta un mestiere da neurochirurgo non può permettersi di essere fragile nell'ambiente di lavoro, in sala operatoria, con una vita tra le mani, e per le responsabilità che ha a casa non può permettersi di esserlo davanti ai figli, davanti ad altre vite che dipendono da lui.»
Lavoro o famiglia, ha pur sempre delle vite a cui badare.
Incerta, borbottai: «E tutto questo a causa di... lei?»
«Nancy. Chiamala pure così.» Emise un sospiro sommesso, posò il cucchiaino su un tovagliolo e bevve un sorso. Fece cenno alla mia bevanda col mento. «Assaggia. È tisana alla camomilla egiziana, una novità. Dopo quello che abbiamo affrontato oggi e dopo questa simpatica chiacchierata, ti servirà per rilassarti e dormire meglio.»
Osservai la brodaglia da cui proveniva un delicato aroma floreale. Lo stomaco non collaborò con quella richiesta; era ancora chiuso. Desmond parve non farci caso.
«Nancy è... quel tipo di donna per cui perderesti la testa: attraente, intelligente, ambiziosa, indipendente. All'inizio della loro relazione, quando Gregg non faceva che descrivermela, ero anche rimasto un po' scettico. Solo dopo averla conosciuta di persona mi son dovuto ricredere. Combaciava tutto quanto: il fascino, la mentalità aperta, il carattere forte. Peccato che io sia pure un grafico, e una lezione importante che il campo dell'editoria mi ha dato è che più la copertina attira, più si impennano le probabilità che si accorgano di quel romanzo, più la domanda cresce. E si deduce anche che le copertine più belle ed elaborate, a volte, nascondono una trama che non le eguaglia, non proprio così belle.» Il pollice accarezzò il bordo. «I difetti li aveva eccome, solo che mio fratello era troppo assoggettato a lei per potersene accorgere. E sai quando ho iniziato a notarli? Anni dopo. Anni in cui, pian piano, ho assistito al cambiamento di Gregg.»
«Cambiamento di che genere?»
Non ero certa di volerglielo chiedere, ma fu istintivo.
«Più spento, più smemorato, insicuro, trascurato. Io non ho mai voluto chiedergli nulla, credevo che negli ultimi tempi l'ospedale lo stesse mettendo sotto pressione. Tra pazienti con aneurismi ed emorragie cerebrali, era un periodo decisamente forte. Invece no. Un giorno mi prese da parte e si confidò con me: voleva dare le dimissioni.» Bloccò quelle carezze a vuoto, gli occhi sulla bevanda, come se sperasse di vederci una versione differente del racconto, una realtà parallela alla realtà. «Non capivo. Non capivo come mai volesse buttare nel cesso anni di sacrifici. La neurochirurgia è sempre stata la sua vocazione, non ha mai voluto fare altro da quando, da piccolo, il Parkinson si era preso nostro nonno... Infatti gli avevo fatto presente le mie perplessità, dicendogli che sarebbe stata una cazzata. E Gregg? Ci aveva riso, aveva alleggerito la cosa facendo riferimento alla sua vita privata, che forse avrebbe potuto colmare le assenze se avesse svolto un lavoro meno stressante.»
A disagio, chinai lo sguardo sul contenuto della tazza.
Come lui: occhi in una tisana, e i pensieri che ci navigavano sopra.
«Noto che stai facendo due più due.»
Mi venne da scuotere la testa, ma bloccai il movimento a metà. «Non capisco» proferii. «È il lavoro della sua vita. Perché avrebbe dovuto dare retta ai "consigli" che...?»
«Beata ingenuità» mi interruppe lento, tranquillo, troppo tranquillo. «Tu credi davvero che glielo abbia chiesto esplicitamente, vero? Gregg è fragile, non stupido.» Serrai la bocca, lui invece manifestò la tipica espressione compassionevole di un genitore davanti al figlio che esprimeva assurdità. «Questa gente è scaltra, Ophelia, è un parassita, ti si attacca, ti prosciuga, e per togliertela di dosso sei obbligato a togliere anche una parte di te stesso. E sai come gioca? Accusandoti senza accusare, facendoti sentire in colpa senza esprimerlo a chiare lettere, rimproverandoti ma con falso e studiato dispiacere, come se ogni cosa che ti sta facendo notare gli costasse un sacrificio immenso, come se facesse più male a loro che a te. Come se tenessero davvero a te. Ed è una ruota che gira e rigira, gira e rigira.» Roteò l'indice, ancora e ancora, e io lo seguii, anche quando lo fermò. «Finché non arrivi a dubitare di te stesso, dei tuoi pensieri, delle tue capacità, di chi ti circonda. Realtà distorta. Penso che ai tempi lo psicoterapeuta gli avesse affibbiato un nome simile.»
Realtà distorta.
Sentii le gambe molli senza motivo, dentro di me si creò un vuoto terrificante, che andò a colmarsi di quelle spiegazioni che volevano acquisire un senso tra la confusione che alloggiava in testa. Per la stanchezza, riuscii a far quadrare poco di ciò che stava spiegando. Però, tra il cumulo di parole che trafficavano e si accalcavano, solo una trovò il coraggio di venire alla luce.
«Perché?»
«Non lo so.» Mostrò un sorriso rassegnato. «Non so quali fossero le ragioni che l'avessero spinta ad avvicinarsi a Gregg e a cominciare a demolirlo. Conto in banca? Cattiveria per il genere umano? Qualche strano disturbo mentale? Credimi, sto ancora cercando una risposta.»
«E lui...» Strinsi il bicchiere, dispiaciuta. «Lui ora come sta?»
«Meglio, i crolli emotivi non gli mancano, ma ha imparato a conviverci.» Si strofinò la bocca, sospirando. «Ma quei bambini...»
Con uno scatto delle ginocchia, si alzò dalla sedia molto rapidamente e in poche falcate arrivò davanti alla rampa di scale. Controllò, poi arretrò, alzando gli occhi sul corrimano che scorreva al piano superiore. La porta dei ragazzi era ancora chiusa.
Tornò a sedersi e abbassò la voce, riducendola a un sussurro arrochito. «Non sono così sicuro che Nancy li volesse tanto quanto li voleva Gregg.»
Una coltellata.
Avrei voluto che quel pensiero, quando avevo parlato con Leonard, fosse nato per un semplice impulso d'ira, e che morisse così com'era sbocciato. Fece più male del previsto rendermi conto che i miei sospetti non erano poi così infondati.
«Stai scherzando?» Fu un bisbiglio rotto.
«Vorrei» ammise, con una tristezza che gli alterò la voce, rendendola meno ferma. «Ho cominciato a sospettare che fosse una presenza poco affidabile quando Gregg aveva cominciato a riferirmi di come Nancy lo stressasse sempre più di frequente per avere un bambino. Sai quando? Dopo che la sua cerchia di amiche era entrata in maternità. Quasi si sentisse indietro.» Lo sdegno e un colpo di tosse lo obbligarono a voltarsi di lato. «Li voleva. Oh, certo. Li voleva a tal punto che dopo il divorzio si è completamente dimenticata della loro esistenza. E sorvoliamo sul fatto che non si sia nemmeno battuta per la custodia. Mai una volta che abbia dato un colpo di telefono, mai una volta che abbia chiesto di loro, o se potessero andarla a trovare. Mai.»
«Non so nemmeno cosa dire» mormorai. «E loro non...?»
Bevve l'ultimo sorso. «Leonard preferisce sentire il suo nome il meno possibile, per lui equivale a ricordare una presenza traumatica. È Cindy quella a interessarsi, a volerla rivedere, quella che aveva giocato il ruolo della "prediletta", tra i due. Siamo ricorsi alla scusa che lavora troppo, ma è una bambina intelligente... Presto capirà che le stiamo dicendo delle cazzate.»
Posando i gomiti sul tavolo, sostenni il viso tra le mani in un gesto spossato, coprendolo, e accolsi quella valanga di notizie in uno spazio del mio cervello che ritenevo troppo piccolo e delicato per contenerla.
Solo dopo un po' trovai il coraggio di scoprirmi.
«Posso chiederti perché... sei entrato nel dettaglio?» chiesi, fissando il tavolo. «So di avertelo chiesto io, ma non era mia intenzione sapere pezzi così intimi della vita di Gregg e dei bambini.»
Non rispose subito, ma poggiò la guancia su un pugno.
Dovetti alzare lo sguardo, incontrando il suo più serio, pensieroso.
«Perché mi fido, e se dovevi sapere quanto grave fosse la situazione non potevo tralasciare nessun dettaglio, ma soprattutto...» Si alzò, inclinandosi in avanti per recuperare la mia tazza, senza distogliere l'attenzione dai miei occhi. Una luce infelice bagnò l'inchiostro custodito in quelle iridi. «Perché a volte mi ricordi proprio Gregg.»
Raggiunse il lavabo, lo scroscio dell'acqua l'unico rumore.
Non mi fece riflettere su quell'ultima affermazione, che gradualmente, cambiando tono in uno più gelido, aggiunse: «E come faceva lui durante quel periodo... anche tu mi hai mentito».
Aprii bocca, pronta a ribattere, a scusarmi, a giustificarmi, ma mi arresi a chiuderla.
Aveva tutte le ragioni per essere arrabbiato.
«Desmond, ascolta...»
«Certificazione sul primo soccorso, certificazione sulla rianimazione cardiopolmonare, sull'utilizzo di un defibrillatore automatico esterno» elencò, ribaltando i bicchieri sotto il getto. Procrastinò il seguito del discorso, e in quella pacatezza fasulla, colsi anche sfumature di un risentimento in grado di pungermi. «Ho ricontrollato: non hai nessuna certificazione che attesti il soccorso in acqua. Strano, dal momento che eri così sicura di te quando, qualche ora fa, mi avevi assicurato che l'avevi già fatto, e che lo riportava pure il curriculum.»
Chiuse il rubinetto, le mani umide sull'acquaio.
Rimase voltato, ma notai bene la sua schiena tendersi ancora.
Esaminai le mie dita intrecciate, e per nessuna ragione alzai lo sguardo. «Avevo seguito dei corsi, avevo visto gli istruttori come agivano in casi come quelli, ma non l'ho mai terminato e non mi è mai stata rilasciata alcuna attestazione... Se ti avessi detto la verità non me l'avresti lasciato fare.»
Passarono due secondi. Si girò, poi, e fece aderire i palmi sull'isola di marmo, immaginandolo con un'espressione accesa di rimprovero.
«E ti rendi conto del rischio che hai corso?»
«Lo so.»
«Lo sai?» Alzò la voce, manifestando una triste collera che accompagnò con una sonora manata sul tavolo. In risposta strinsi le labbra ancora di più, placando l'ingorgo di parole che chiedeva urgentemente di uscire. «E sai anche come sarebbe potuta andare a finire? Sai anche che le vittime potevano diventare due? E sai anche che... Dio.» Si costrinse ad allontanarsi, a calmarsi; si riavvicinò, imprecò, imprecò un'altra volta, chiuse gli occhi, si passò una mano tra i capelli, e tornò. «Sai che ho visto quando hai deciso di raggiungere Cindy? Ho visto quel mio vecchio compagno di corso che era andato a soccorrere un ragazzino, tanti anni fa, alle spiagge di Asbury Park. Perché non provi a indovinare che fine ha fatto l'eroe?»
«Lo so.»
«Ophelia.»
«Ho detto che lo so!» Nemmeno mi resi conto averlo gridato, la voce tremula, tanto non era abituata a raggiungere toni così elevati. Tantomeno mi resi conto di essermi alzata dallo sgabello e di aver sollevato il viso, di aver stretto i pugni, ignorando le guance che si bagnavano, soffrivano. «Lo so, so benissimo quello che avrei potuto rischiare, so di essere stata un'incosciente. Ma in quel momento non ho avuto tempo di pensare a me e alla mia vita... Se mi fossi fermata a farlo, a quest'ora quella bambina non sarebbe neanche qui e...» Repentina, soffocai un singulto e gli mostrai le spalle per cacciare quelle lacrime rabbiose, che non volevo crollare, non ancora, non quando avevo resistito finora. «Il mare non era così agitato, e io sapevo di potercela fare. E sono stanca, stanca di passare per quella troppo fragile e incompetente, stanca di sentirmi così inutile... C'è già mia sorella che me lo ricorda, ti prego di non ricordarmelo anche tu.»
Feci un respiro profondo, e trattenni, trattenni più che potei quel dannato crollo che incombeva, che voleva reclamare avidamente la sua libertà. Udii dei passi. Desmond si era fermato davanti a me.
«Non ho mai detto che non mi fido delle tue capacità.»
Tenni lo sguardo sulle pieghe della sua maglietta.
«Lo stai dimostrando, proprio come lei.»
«Perché mi sono spaventato a morte» tuonò. «Io. Io avrei dovuto farlo, non tu. La responsabilità era mia, non tua. Il rischio avrei dovuto correrlo io, non tu. Cazzo.» Si allontanò, voltandosi, ma tornò indietro, e non potei che guardarlo, affrontarlo, assistere a un crollo diverso da quello che reprimevo in petto. «Vuoi sapere come mi sono sentito sapendo che non ho potuto fare niente e che tu stavi andando a rischiare la vita al posto mio? Impotente, una merda, perché per colpa della paura che mi porto dietro non ho mai imparato a nuotare.»
«Non è colpa tua» esalai, notando i suoi occhi lucidi.
«Perché» disse invece, ignorandomi. «Dimmi solo il perché.»
«Perché... Cindy doveva tornare da suo padre.» Ma dirlo significò crollare definitivamente, buttare fuori ciò che avevo trattenuto nelle ultime ore; nascosi il viso tra le mani, e con me nascosi anche le lacrime, che tornarono a scendere più agguerrite di prima, più cattive. Non si placarono nemmeno quando, tra i singhiozzi e gli occhi protetti, provai a proseguire: «Ho... Per tutto il tempo, mentre nuotavo e cercavo di rianimarla, ho continuato a pensare alla possibilità che non potesse fare ritorno da suo padre, e... e ho pensato a Gregg che non vedeva l'ora di tornare a casa per rivederla, e che... Scusa».
Il filo del discorso si spezzò, le parole sprofondarono nell'oblio di quel pianto trattenuto troppo a lungo. Le motivazioni si sovrapposero a delle scuse che non mi seppi spiegare neanche io, eppure uscirono. Uscì tutto quanto, e tra le righe di quegli "Scusa" sofferti, uscì anche la paura di non farcela, la paura che mia sorella avesse ragione, la paura che aveva distinto ogni respiro trattenuto sotto quelle acque fredde, e ogni respiro donato ai polmoni assenti di Cindy.
E a raccogliere quel disastro di voci soffocate ci furono le braccia di Desmond; accolse quel crollo anche se era crollato anche lui, eppure lo accolse con una delicatezza che mi portò a piangere ancora più forte.
«Dovresti iniziare a smettere di scusarti, e dovresti iniziare a dare meno retta a quello che ti dice tua sorella. Dio, hai salvato mia nipote... Io ti devo la vita, ragazzina» mormorò, mentre la sua mano, gentile, accarezzava la schiena. «Avresti dovuto dirmelo lo stesso.»
Non mi mossi, non risposi. Piansi e basta contro il suo petto.
L'altra mano si fece spazio tra i miei capelli e si fermò proprio lì, sopra la nuca, come se stesse cullando un neonato. Nel silenzio che occupò i secondi a seguire, senza mai scostare i palmi dal mio viso, avvertii un sentimento che andava a braccetto col sollievo, quello che chiunque avrebbe provato una volta a galla dopo un'apnea prolungata.
Il ronzio del frigorifero, per un attimo, fu l'unico spettatore.
«Hai una bella voce, Ophelia» disse piano. «Usala.»
E fu strano e bello e destabilizzante arrivare a una realizzazione: la terraferma che negli ultimi anni mi accingevo a raggiungere, dopo quelle parole, ai miei occhi apparve un po' meno lontana di prima.
ANGOLO AUTRICE
Buonasera a tutti, sono morta. 💀🖤
Non so neppure con quali forze sto scrivendo l'angolo autrice. Ma comunque: partendo dalla prima parte, abbiamo una rapida telefonata con Olivia (che ansia), dopodiché uno scambio tra Desmond e Ophelia, in cui si conoscono un filo di più e paiono trovarsi a loro agio, nonostante tutto. Come avevo detto nello scorso: adoro scrivere dei loro dialoghi. 🤧
Oltretutto si nota proprio che lui sia parecchio accorto nei suoi confronti, tra le domande sul graffio e la limonata anti "colpo di calore" (anche se a me è venuto lo stesso scrivendo quando Ophelia ha cominciato a fissare attentamente il caro Desdy a petto scoperto💀)
Ma veniamo alla parte più importante (e dannosa). Ve lo anticipo, accade tutto per una ragione che verrà spiegata molto più avanti da Cindy. Vi basta pensare che, a livello psicologico, quella famiglia ne ha passate tante, e i bambini sono creature più... vulnerabili e facilmente influenzabili accanto a certe persone tossiche. Tossiche quanto influenti.
La scena del salvataggio è stata la mia morte. Spero davvero che vi ci siate immersi anche voi, e che sia risultato credibile, oltre che vivido. Avevo fatto un sacco di ricerche in merito, sigh. Vi aspettavate che Ophelia si lanciasse a salvarla? E che ce la facesse, soprattutto?
Infine... il ritorno a casa.
Altra (lunga) scena che mi ha tolto le forze. 🥲
Abbiamo un dibattito fondamentale, ricordatevelo. Era da tempo che non vedevo l'ora di scrivere queste delucidazioni in più sulla figura materna - alias Nancy - di Cindy e Leonard. Ebbene, anche Gregg ha sofferto molto questa vicinanza. E ovviamente per Ophelia risulta inspiegabile, fuori dal comune. Chissà se questa piccola spiegazione contribuirà a farla ragionare un pochino...
E vista la gran quantità di mainagioia - e la paura più che legittima che Desmond ha riversato a Ophelia - ho deciso di concedergli un abbraccio restauratore.🥲💔
(Ne vorrei uno anche io adesso... più della Nutella, grazie).
Questions:
▪️ Forza, buttatele qui le vostre considerazioni: secondo voi si nasconde qualcosa dietro all'annegamento? Oppure è stato un puro e semplice incidente?
▪️ Leonard e Cindy riusciranno a rinsaldare il loro rapporto, a rimanere mano nella mano?
▪️ Considerazioni sulla madre (Nancy)? Vi aspettavate una spiegazione del genere?
▪️ Queste informazioni riusciranno a far riflettere Ophelia?
▪️ Avremo modo di vedere più da vicino i residui di questa "fragilità" di Gregg?
▪️ Cosa ne pensate della scena finale? Un po' mi son commossa😭
Ok, il prossimo sarà altrettanto tosto... e richiederà del tempo. Ma intanto spero che abbiate apprezzato questo capitolo e che qualcosina ina ina vi sia arrivato.
Non esitate a dirmi che ne pensate.🖤🤧
See ya soon, nightingales!
Playlist:
Watermelon Sugar - TENDER (prima parte - dopo la telefonata con Olivia)
https://youtu.be/KlDsoVLd814
Berlin - RY X (prima parte - da quando Desmond si siede alla sdraio finché non parlano del taccuino)
https://youtu.be/wAi63aG88BQ
The Waves Have Come - Chelsea Wolfe (prima parte - da quando Ophelia nota il cambiamento di tempo, fino alla fine del capitolo)
https://youtu.be/9QxDAXaNc1g
When It's Real - Michael Suby (seconda parte - fino a quando Ophelia termina di parlare con Leonard)
https://youtu.be/n7FtNwTrg3c
You - Keaton Henson (seconda parte - dalla discussione fino alla fine)
https://youtu.be/dPJLu_wcTKc
Instagram: The_blackcatshadow
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