13. Scacco alla regina - Pt. 2
Scacco alla regina – Pt. 2
P.S. musicale: nella seconda parte, quella della cena, vi consiglio caldamente di ascoltarla con Giyo - Jupiter (An Unwelcome Guest). Credetemi, ha la tensione giusta per il tipo di scena. Good reading, ci vediamo giù! 🕊️🖤
Non ero capace di dire no.
Lo consideravo un difetto che, il più delle volte, odiavo.
«Zio Des, perché la babysitter sta girando attorno al tavolino?»
«Non lo so, tesoro. Ma sicuramente a breve scaverà un fossato.»
«Come nei castelli?»
«Proprio quelli.»
«F-fa pa-p-paura.»
«Anche a me, Leonard. Anche a me.»
Quando Desmond mi aveva chiesto di far parte di una missione che, a mio avviso, continuavo a ritenere sciocca, avevo acconsentito. E mi maledicevo, per aver ceduto. Mi sarei presa a schiaffi da sola.
Disgraziatamente mi conoscevo, e sapevo che se mi fossi rifiutata, mi sarei arrovellata nei sensi di colpa per i giorni a venire. Detestavo quella parte di me; accettare, per paura di. La mia coscienza si fondava su un limbo di infiniti paradossi, tra cui: temere i graffi dei rimorsi più di quanto doveva temere le zanne delle conseguenze.
Ed era insensato, perché un rimorso andava via, le sue unghie lasciavano dei segni temporanei; un po' di bruciore, un po' di rossore, un po' di irritazione sul tegumento del cervello, dei neuroni. Ma poi passavano, passavano sempre. Un danno dovuto a una scelta sbagliata, invece, lasciava cicatrici, richiedeva tempo per poterlo digerire. Psicologicamente era un disastro. Difatti, erano zanne che affondavano il peso della propria inettitudine, scavando ben oltre a un intrico di carne e ossa; poiché arrivavano al cuore, ai nervi, compromettendo le proprie sicurezze.
Adesso che avevo accettato la richiesta, il mio chiodo fisso era: "Quali saranno le conseguenze?" Sempre che ce ne sarebbero state. Ma non ero abbastanza ottimista per pensarlo.
Avrei dovuto pensarci meglio, avrei dovuto impuntarmi.
Ma come?
Fra le motivazioni che mi avevano trascinata a pronunciare un debole "D'accordo", era stata l'impellenza che Desmond aveva impiegato per fermarmi. Un marchio che avevo avvertito bruciare non solo nella presa inflessibile di quelle mani grandi e callose, ma anche nelle viscere del suo sguardo, che ero tanto abituata a scorgere come una distesa pianeggiante di convinzioni, una landa senza paure.
Le sue dita, per un secondo, avvinghiate attorno al polso come docili artigli, avevano tremato, la mandibola subito un guizzo, la tranquillità che avvolgeva i suoi occhi sostituita dalla disperazione più nera, distribuita come tante pietre acuminate che bucavano la retina per poter ferire l'interlocutore, affinché sentisse, capisse.
Ed era stato lì che avevo capito che non sarei mai riuscita a rifiutare. Perché il dolore che racchiudeva, quell'insopportabile mancanza di incomprensione su ciò che stava accadendo, lo capivo.
Mentalmente, mi ero dovuta preparare per dirlo a Olivia.
Quando l'avevo affrontata, era impegnata a truccarsi davanti allo specchio seguendo un tutorial sul telefono. Appena avevo evocato le parole "Holmberg" e "Cena a casa loro" non si era mossa di una virgola. Mi aveva sorpresa, poiché mi ero preparata a essere tempestata di domande, come accadeva quando annusava qualcosa di insolito. O almeno, così avrebbe dovuto suonargli alle orecchie. Invece niente; si era passata il mascara, l'aveva intinto nel tubetto, aveva cambiato strumento, passando alla matita e poi al burrocacao.
Non aveva cambiato espressione.
Nemmeno un ma, piuttosto un: "Per che ora?".
Quel giorno, sebbene fosse una domenica, un'urgenza aveva richiesto la presenza di Gregg in ospedale, per cui avevo dovuto coprire la sua assenza in casa per buona parte del pomeriggio. Quando era rincasato insieme al fratello, mi avevano chiesto di rimanere, dato che l'orario di cena non era neanche così lontano.
E adesso, mentre Gregg, di spalle, lasciava sfrigolare le costolette di maiale sulla griglia, io continuavo a sfogare i miei timori in un simpatico girotondo attorno al tavolo, cercando di prevedere come si sarebbe comportato il signor Holmberg, come si sarebbe comportata mia sorella, come fare affinché non si sentisse bersagliata. Temevo che se avesse scoperto che in realtà la sua presenza non era dettata da una gentilezza come il "Sei la sorella dei babysitter, allora sei invitata anche tu", se la sarebbe presa a morte con me.
«Rilassati, Ophelia, sta' tranquilla» mi riferì Desmond, sul divano. Sulle gambe aveva appollaiato Leonard, che sfogliava il suo blocco note. «Sarà una questione di qualche ora. Il tempo vola sempre.»
«Vola quando ti diverti, non quando muori dall'ansia.»
«Non ho mai detto che il tempo volerà anche per te.»
Smisi di girare, mi grattai furiosamente la testa e lo raggiunsi a mani giunte, mentre accarezzava i capelli a Leonard. «La prego, la prego, non le dica nulla di sconveniente, non la minacci, non...»
«Io non minaccio proprio nessuno. Io sono un signore.»
Gregg posò un canovaccio sulla spalla e scoppiò a ridere. «Se ti sentisse nostra madre direbbe la stessa cosa che penso io: un signore che invita una signorina per degli scopi non proprio ortodossi lo definirei solo un testa di cazzo.» Guardò giù, accorgendosi che Cindy era rimasta accanto a lui, a osservarlo cucinare. Adesso lo guardava con aria furba e la mano tesa. Quindi lui si tastò la tasca e gli porse un penny. «Mi auguro che te li stia conservando per l'università.»
«Certo, papà.»
«Mi raccomando, cerca di estorcerli anche dallo zio appena dice brutte parole. Ma a lui mettici pure gli interessi. Almeno due penny.»
«Certo, papà.»
«Signor Holmberg, sono seria» lo implorai, davanti a lui.
«Anche io lo sono.» Non mi guardò, continuò invece a osservare insieme al nipote il blocco note colmo di schizzi che non riuscivo a distinguere. «E ti ho chiesto di evitare il lei in contesti informali.»
«Sì, mi scusi.»
«Ah!»
«Scusa!»
«La verità è che gli pesa sentire l'arrivo dei trentasei» fece eco Gregg, intanto che ribaltava le costolette sulla griglia e spargeva una manciata di aromi. «Forza e coraggio, fratello, ti attendono ancora quattro lunghi anni prima di iniziare a deprimerti sul serio.»
«Gregg, con tutto il bene che ti voglio, va' un po' a farti f...» Cindy era già da lui, a mano tesa. Per cui, furbo, si inclinò e le scandì: «...are l'abbonamento annuale per visitare quel bellissimo posto rustico in cui ti mando spesso. Sempre tuo, firmato: Desmond.»
«Così non vale» replicò Cindy. «Volevo due penny.»
«Tranquilla che mi scapperanno in altre occasioni.»
Trassi un sospiro, strofinandomi le sopracciglia con il pollice e l'indice. «È che vorrei evitare di litigare con Olivia, capiscimi...»
«E io ti capisco. Infatti nei tuoi panni mi sentirei abbastanza a disagio.» Desmond appoggiò il gomito sul bracciolo e stese la guancia sul pugno, scrutandomi con una bizzarra luce di interesse a illuminargli lo sguardo. «Cosa ti preoccupa, Ophelia? Dimmi cosa ti turba. Hai detto con ferma convinzione che tua sorella è "pulita", che non ha fatto nulla di male, quindi sarei io l'idiota, sarei io a dover temere un riscontro aggressivo, sempre che capisca le mie intenzioni. Non tu. È con me che se la dovrebbe prendere, in caso, non con te.»
Mi morsi il labbro. «Lo so.»
«Non sei convinta.»
«Già» mormorai. «È che non mi piace trovarmi in una posizione in cui sembro contro di lei. Come se avessi stretto un qualche tipo di complotto a sua insaputa, non lo so. Mi sento la coscienza sporca.»
«Non dovresti, invece.» Scostò Leonard, stregato dal blocco note, e si alzò, stirandosi le pieghe dei pantaloni. «Lascia fare a me, tu non dovrai dire nulla. Questa è una partita che intendo giocare da solo.»
Diede un colpo di tosse, e si allontanò per fare una telefonata.
Scuotendo la testa, mi accostai alla figura di Gregg, intento a impiattare le costolette su un vassoio ovale, aiutandosi con un paio di pinze. Dopodiché, con un movimento fluidissimo, cosparse la superficie della carne con delle pennellate di salsa barbecue piccante.
«Posso fare qualcosa di utile? Ha bisogno di una mano, o...?»
«Lo apprezzo, ma no, non si preoccupi. L'ultima cosa che voglio è affidarle del lavoro extra, già sta facendo tantissimo per i miei bambini. E poi stasera è un ospite.» Inclinò appena la testa e, senza scostare l'attenzione dall'attività di guarnizione, sillabò a voce appositamente alta: «Mica come una certa persona di mia conoscenza che sta più qui che a casa sua e che, a quanto pare, disconosce il significato dell'espressione "rendersi utile". Ma che importa, tanto qui dentro lo schiavo sono sempre io, giusto?»
«Scusa, Gregg, parlavi con me? O ti stavi allenando ad assumere comportamenti passivo-aggressivi?» chiese Desmond, sbucando alle nostre spalle con il telefono all'orecchio, la voce pregna d'ironia.
«Oh no, figurati, penso a voce alta. Mi rilassa.»
«Allora presumo ti senta meglio, adesso.»
«Meravigliosamente.» Si strofinò le mani unte nel canovaccio. «Ma lo sarei ancora di più se ti decidessi ad asciugare quelle posate.»
«Oh, andiamo... sono già impegnato a pensare a quello che dovrò fare, e richiede uno sforzo mentale mica da ridere» ribatté Desmond con una smorfia. «E poi sono pur sempre il tuo fratellino, non puoi caricarmi di lavoro, ho bisogno di cure, io, sono piccolo e indife...»
Sparì oltre la soglia che dava sul corridoio, sghignazzando, scansando per un pelo il canovaccio che Gregg aveva appallottolato e lanciato contro. Finì dritto sul frigorifero. «Modera i termini, perché indifeso non lo eri neanche quando eri nell'utero di nostra madre. Povera donna. Nove mesi d'inferno le hai fatto passare.» Posai la mano davanti alla bocca, strozzando un attacco di risa. Lui, invece, assunse un'espressione in cui trapelava una profonda rassegnazione. «Tre bambini, se lo ricordi. Non due. Tre. Sarei tentato di chiederle di occuparsi pure di lui, ma è ingestibile. Lo guardi: è evidente che sta sviluppando una crisi di mezza età molto precoce.» Alzò lo sguardo, invitandomi a fare lo stesso. Lontano, suo fratello gli stava alzando il dito medio, l'altra mano che, a pugno, dava l'idea stesse attivando il meccanismo di una manovella invisibile.
I bambini, impegnati a contendersi il blocco note sul divano, non lo calcolarono. In qualche modo, quel quadretto mi fece sorridere.
Avevano un rapporto così spontaneo e senza veli. Si respirava casa, sia dai capricci di Desmond, che dalle riprese di Gregg. E nel momento in cui avrei dovuto avvertire leggerezza, dentro di me scavò invece un vuoto squilibrante. Da quanto tempo non percepisco una complicità simile con mia sorella? A quando risale l'ultima presa in giro? Quand'è successo che la serenità che aveva mantenuto saldo il nostro rapporto da piccole, si è evoluto in qualcosa di pesante, in tensione, come un elastico tirato troppo?
«Non è l'unica a sentirsi turbata, glielo assicuro» mi ridestò Gregg, mentre recuperava da terra lo strofinaccio, chinandosi. «All'inizio volevo vietargli tutto questo, categoricamente, proprio perché volevo evitare si creassero dinamiche che avrebbero scaturito del disagio. Soprattutto per lei. Ma poi mi son detto che un piccolo aiuto era giusto concederglielo; come avrà capito, tra lui e la fidanzata c'è una tensione che si sta prolungando da parecchio. E mio fratello passa già troppe notti in bianco di per sé, questi pensieri non lo aiutano. Perciò, se posso dare una mano, lo faccio.» Si appoggiò al bancone della cucina, poi incrociò le braccia, lanciandomi un sorriso. «Non abbia paura, ok? Desmond, per quanto istintivo, sa trovare le risposte che cerca senza ricorrere alla maleducazione. Il rispetto, in famiglia, è fondamentale, la base.»
Annuii, anche se non bastò a risollevarmi.
Puntuale, trillò il campanello.
Il cuore schizzò in gola, Gregg afferrò il vassoio per portarlo al centro della tavola da pranzo, costellata da altre pietanze prelibate, i bambini si alzarono dal divano. Desmond, con studiata calma, si incamminò per il corridoio che indirizzava alla porta d'ingresso.
Si fermò, e si voltò sibilando: «Non intromettetevi».
«Aspetta, ascoltami un attimo» dissi, raggiungendolo con una corsetta. «Mi fido di te, ma non... non dire nulla che possa ferirla.»
«Non sono quel tipo di persona, Ophelia, se devo giocare rispetto le regole.» Tornò a incamminarsi per il corridoio, e senza girarsi, aggiunse: «A meno che l'altra parte mi costringe a non rispettarle. In caso, sì, mi scuso in anticipo: potrei non controllare la lingua.»
Una partita a scacchi.
Non mi venne in mente altro paragone.
Mia sorella aveva varcato la soglia in compagnia di una bottiglia di vino, un sorriso smagliante e un abito bordeaux dalle maniche merlettate, che trasudava classe e professionalità; stavolta non aveva scelto la carta dell'appariscenza, quanto più quella della compostezza. Aveva vigorosamente stretto la mano a Desmond, salutato il resto dei presenti, a me aveva rivolto un abbraccio caloroso. Troppo caloroso. Come se non ci vedessimo da una vita. Mi destabilizzò; non ricordavo nemmeno a quando risaliva l'ultima vera manifestazione d'affetto durata più di qualche secondo.
Non che mi fosse dispiaciuto, ma l'avevo trovato... forzato.
Tuttavia, notai con una certa nota di ammirazione che si era inserita in quel quadretto a lei sconosciuto come se fosse di casa, una parente stretta che tornava dopo un lungo viaggio. Non c'era imbarazzo a tradire la scioltezza del suo portamento, nessuna rigidità o traccia di rimprovero nei miei riguardi ogni qualvolta si rivolgeva a me, e questo portò a farmi tirare internamente un sospiro di sollievo.
Anche se qualche sorriso e la cortesia con cui inzuppava le parole, non bastarono a ristabilire la calma. Non ero ancora tranquilla; mi sentivo pervasa dai sensi di colpa come se, sottopelle, brulicassero colonie di tarantole, l'ansia mi aveva stretto lo stomaco provocandomi delle lievi fitte che soffocavo stringendo il tovagliolo sulle ginocchia, e le mani sudavano, tremavano, gli occhi due chiodi fissi sulla tavola o sul mio piatto. Dio, fa' che finisca tutto presto.
Ero sull'attenti, sempre concentrata sul profilo di mia sorella non appena prendeva parola, seduta accanto. Se con gli altri era più forte di me abbandonare il contatto visivo, con lei era un dovere che sentivo di dover mettere in pratica; dovevo controllare che non ci fossero maschere di gentilezza, che il suo comportamento fosse vero, genuino, che sotto sotto non avesse capito che sapevo del "piano".
E controllavo l'orologio alla parete. Ogni secondo.
Il tempo non si muoveva; il numero delle costine, però, andava via via dimezzandosi anche quando sul mio piatto ne avevo ingerite solo un paio, Cindy e Leonard si rubavano a vicenda la ciotola di tzaziki, Gregg li placava, e Desmond aveva occhi solo per Olivia. Letteralmente. Non si lasciava sfuggire nemmeno un particolare, nonostante fino a quel momento avesse soltanto tastato il terreno con banali convenevoli e, per animare la conversazione, qualche battuta. Però, quando mia sorella non se ne accorgeva, lo sorprendevo studiarla: dalla mano esile che agguantava una forchettata di peperoni grigliati, a quando si versava un mezzo bicchiere di vino.
Non voleva lasciarsi sfuggire nulla.
Olivia sembrò non notarlo.
Lei, anzi, dava l'impressione di star ricoprendo il ruolo della regina, lì, in una casa che aveva preso le sembianze di un lussuoso campo da battaglia. O, in questo caso, di una scacchiera imbandita su una tavola. Schiena dritta, una collezione di sorrisi magnetici, infinite mosse per guadagnarsi la loro adorazione, per farsi piacere. Non mi sfuggì il modo in cui osservava Desmond, dal lato opposto; alternava sguardi riempiti da pungente interesse, ad altri che trovai indecifrabili, come l'assottigliare le labbra di punto in bianco, o stringere le palpebre mentre lo seguiva in una conversazione seria.
Non sapevo se iniziarmi a preoccupare.
«Ma perché avete i capelli di colore diverso?» mi chiese Cindy, il contorno della bocca unta di salsa barbecue. «Non siete sorelle?»
«Cindy, che domande sono?» la riprese Gregg, lei alzò le spalle, poi guardò Olivia. «Scusatela. È una bambina fin troppo curiosa.»
«Ma no, stia tranquillo» la difesi, inumidendomi le labbra, prima di pronunciare candidamente: «Comunque sì, siamo sorelle, anche se...»
«No, non lo siamo.» Olivia mi interruppe con dura naturalezza. «Mi spiego meglio: lo siamo, ma non lo siamo fino in fondo. La vostra cara babysitter proviene da una cicogna diversa dalla mia. Per questo abbiamo i capelli di un colore diverso.» Ero rimasta fossilizzata sulle guance unte di Cindy, anche quando avvertii Olivia stendere un braccio e circondarmi la spalla, avvicinandomi a lei in un gesto amorevole. Ha detto no. «Potrei dire che si tratta di un piccolo angelo cascato giù da cielo. In famiglia non potevamo chiedere di meglio.»
Nessuno rispose, nemmeno Desmond, ci furono solo tintinnii.
«Una cicogna diversa?» domandò poi Cindy, confusa.
«Un padre diverso» spiegò rapidamente Gregg.
«E la mamma?»
«La mamma anche» riprese parola Olivia.
«Liv» le sussurrai, lo stomaco rivoltato. «Non è il caso, ti prego.»
«Perché? Mica ti vergognerai delle tue origini, vero?»
«No no, è che non mi... Forse è meglio evitare di...»
«Perdonatela, crede ancora che l'essere adottati sia una vergogna.» Mi regalò un sorriso di compassione, il tono non lo abbassò, neanche quando mi accarezzò la schiena, che avvertii appiccicarsi alla maglietta. D'altro canto, dall'altro capo del tavolo, Gregg rifilò un'occhiata ammonitrice a sua figlia, già pronta a chiedere ulteriori delucidazioni, casomai avesse voluto ribattere con possibili repliche. Desmond, invece, osservava e basta. «Non mangi più, sorellina?»
Contemplai il mio piatto; dimoravano due ossa spolpate e, a dare un po' di colore in quel vuoto deprimente, dei peperoni che non avevo mai terminato. Non avevo mangiato praticamente nulla. Allo stomaco sottosopra si aggiunse l'irrefrenabile desiderio di sprofondare in un posto in cui rintanarmi per sempre e sperare che nessuno mi trovasse.
«No... certo.» Avvampai, una nausea atroce mi serrò la gola. Mi costrinsi ad afferrare la forchetta. Mi stanno guardando, vedono che non ho finito, Gregg potrebbe prendersela. «Certo che mangio.»
«Se non ti piace dovresti farlo presente. Il signor Holmberg potrebbe rimanerci male. Dopotutto immagino abbia cucinato lui tutto questo ben di Dio.» Gregg provò a intervenire, che non era un problema, ma Olivia non lo ascoltò. E nemmeno io. Liv, basta, lo so, lo so già, ma basta ripetermelo, che più lo ripeti più rendi vero qualcosa che non lo è. «O forse sei solo un po' nervosa, Ophelia?»
L'ha capito? Ha visto? Ha inteso cosa sta succedendo?
«Ophelia ha già mangiato prima.»
L'apnea e la risata di mia sorella si dissolsero piano, non appena udii la voce ferma di Desmond. Armato di forchetta e coltello, stava tagliando a metà una fetta di carne, come se niente fosse. L'attenzione era puntata sul suo piatto, un'attenzione molto scrupolosa, severa. Eppure, avvertii comunque un pizzico di inclemenza nell'esprimersi.
«Già mangiato?» ripeté Olivia, assottigliando le palpebre.
«Ha capito bene. Quindi, adesso, è libera di mangiare quello che vuole e solo se se la sente.» Sollevò lo sguardo, rifilandole un sorriso che mal si abbinava con l'austerità in quelle iridi. Dentro di me, lo ringraziai di cuore. Sono talmente irrequieta da non riuscire nemmeno a rispondere a degli stupidi quesiti... È ovvio che Olivia intuirà che c'è del marcio. «Piuttosto, parlando di cose più interessanti, ho sentito dire dalla mia fidanzata che è stata presa per la Fashion Week.»
Capii che i convenevoli erano finiti.
La prima mossa: far avanzare la pedina del lavoro.
Olivia ci impiegò un po' per rispondere. Prima staccò la mano dalla mia schiena, e quando lo fece sembrò averci lasciato un'impronta rovente. Poi, esibendo disinvoltura, e senza staccare il contatto visivo con Desmond, afferrò il calice di vino rosso. «Già, una soddisfazione.»
«Sarebbe strano il contrario.» Masticando lentamente un boccone, poggiò i gomiti sul tavolo, incrociando le dita all'altezza delle labbra sottili. «Come si sente ad aver raggiunto un traguardo del genere?»
Olivia sollevò gli occhi sul lampadario pendente, riflettendoci, la mano che reggeva in calice al di sotto della coppa. «Beh, signor Holmberg, conti che sono una persona parecchio ambiziosa. Quindi a parole mi è un po' difficile descrivere la felicità che ho provato lì, sul momento. Però sappia solo che ero così contenta quando ho capito che avrei condiviso questo traguardo anche con la sua fidanzata...»
«Oh.» Sollevò le sopracciglia. «Quindi sa chi sono io.»
«Ma certo.» Rise genuina. «Quando aveva ricevuto la proposta di matrimonio non ha fatto altro che parlarne con noi colleghe. Abbiamo anche un gruppo su Telegram, sa? Ma ormai è cosa morta e sepolta.»
«Immagino siate affiatate, fra colleghe, molto unite.» Si versò del vino. «Insomma, da come ne parla sembra molto amica di Latisha.»
«Altroché, le voglio un gran bene.»
«Anche se questa felicità suonerebbe un po'... strana. Non mi fraintenda: credo nella vostra amicizia.» Bevve, assaporò, il bicchiere rimase a pochi millimetri dalle sue labbra quando continuò: «Però è pur sempre una persona con cui sta concorrendo per un sogno comune. Penso che provare del fastidio sia più che umano. O forse mi sbaglio?»
Olivia soppesò sulle sue parole, inclinando la testa.
«Beh, sì, come tutte, ma credo sia normale.» Si sporse appena in avanti, il calice a lato del viso, quasi volesse appositamente coprire il labiale a chi le stava accanto. «Tuttavia, che rimanga fra me e lei, trovo Latisha un po' troppo paranoica negli ultimi tempi. Con tutto il rispetto per la sua fidanzata, sia chiaro. Dopotutto la stimo tantissimo.»
Desmond allontanò il bicchiere. Stavolta toccò a lui inclinare la testa, ma senza mutare l'espressione statica ma cordiale. «Si spieghi.»
«Solo se promette che non gliene farà parola.»
«Questa conversazione non uscirà da questa sala. Assicurato.»
«Come dire...» Con l'unghia smaltata di nero tracciò dei cerchi sui ricami elaborati della tovaglia. «Troppo appiccicata a quello che faccio, costantemente nei dintorni quando parlo con una nostra collega, giurerei di averla sentita digrignare i denti quando ha scoperto che l'agenzia aveva scelto entrambe. Ammetto di esserci rimasta un filino male. Nonostante la concorrenza, io ero molto contenta per lei.»
Osservai mia sorella, osservai ogni variazione di sguardo, di tono. Aveva l'aria di essere davvero dispiaciuta. Eppure, quando mi aveva rivelato che ci sarebbe stata anche Latisha, non aveva fatto che sputare parole colme d'astio. Non le era mai andata giù, come persona, non c'era mai stata una volta in cui tollerasse i suoi successi. D'altronde, mi dissi, non poteva di certo fare quelle scenate di fronte al fidanzato.
Leonard, intanto, si era messo a giocare con il telefono di Gregg, scorrendo l'indice sullo schermo come una scheggia, Cindy lo spiava e pretendeva di usarlo. Il padre, però, sembrò non farci caso, né aveva intenzione di intervenire; era serio, preso dalla conversazione in atto.
Più volte mi lanciò sguardi apprensivi, come a chiedere se stessi bene. Io annuivo sbrigativamente col capo, sorridendo. Anche se non stavo bene, non stavo bene per niente, mi sentivo una pessima sorella.
"No, non lo siamo."
Era un'idiozia, era la verità. Non avrei dovuto darci peso. Eppure la rapidità con cui l'aveva precisato mi fece più male delle aspettative.
«Ah, ho capito, quindi dice che Latisha si è mostrata parecchio contrariata per la famosa scelta, nonostante l'amicizia.» Desmond pareva interessato da quella versione dei fatti intanto che osservava il fondo del bicchiere che reggeva in mano. Nei suoi occhi avvistai una debole luce di scherno. «C'è dell'ironia in tutto ciò: perché è proprio la stessa cosa di cui si è lamentata con me. Però a parti inverse.»
Inarcò un sopracciglio. «Ossia?»
«Mh, non saprei se riferirglielo.» Sollevò uno sguardo rammaricato, ma che non mi convinse. «Sono parole pesanti, per essere un'amica.»
«Sopravvivrò.» Sorrise appena, strinse il gambo del calice. «Noi modelle viviamo costantemente sotto processo, volano critiche in ogni dove. Qualche ripicca in più non mi cambierà l'esistenza. Prego.»
«Guardi, glielo dirò senza mezzi termini, mi ha riferito che la trova una presenza parecchio asfissiante.» Mossa avventata, in quella scacchiera rappresentò un cavallo che scavalcava i pedoni e si faceva avanti, senza paura, le proprie difese indietro. Olivia batté le palpebre, lui poggiò il braccio lungo il tavolo, a lato del piatto. «E ci tengo a sottolineare che prendo sempre con le pinze quello che mi racconta. A volte quando si è parecchio stressati si tende a sragionare.»
«Allora suppongo che la sua fidanzata sia molto, molto stressata.»
«Abbastanza.» Picchiettò i polpastrelli sulla tavola, un maledetto orologio che scandiva il tempo tra una pausa e un'altra. Nervosismo, impellenza, pazienza imposta. A ogni battito di dita percepivo un'esplosione di emozioni che Desmond non si azzardava a tradire sul volto. Aveva un autocontrollo eccezionale. «Anche se, sa, trovo un tantino esagerato "delirare" certe accuse verso una sola persona. Soprattutto se stiamo parlando di spiacevoli incidenti di percorso.»
«Oh.» Olivia soffocò un risolino. «E a quali incidenti allude?»
«Beh, per esempio un paio di anni fa c'era stata un'epidemia gastrointestinale durante un importante servizio fotografico a Parigi. Le modelle presenti, secondo quanto Latisha mi ha raccontato, non hanno potuto portare a termine nemmeno la metà degli scatti programmati.» Poggiò il mento sulle dita intrecciale, nascondendoci quello che aveva l'aria di essere un sorriso. «Guarda caso lei era l'unica che stava meglio. Però, ehi, metto le mani avanti: anche i virus, sempre che lo fosse pure quello, fanno le loro umane preferenze.»
Le uscì una risata cristallina. «Oddio, certo, capisco. Quindi, secondo Latisha, avrei complottato qualcosa contro le ragazze.» Allargò gli occhi, esibendo incredulità. «Temo che la sua cara fidanzata si sia dimenticata un piccolo particolare in questa montagna di accuse ingiustificate: anche io, quel giorno, ero stata male sul set.»
«Ovviamente, ma guarda caso dopo gli scatti che ha compiuto solo lei. Che colpo di fortuna. Vero, Gregg?» Suo fratello sorrise con impaccio, dando un sorso al bicchiere. Desmond rimase disinvolto, come se stesse parlando dell'ultima partita del Super Bowl. Olivia, invece, faticò a chiudere la bocca, rimasta socchiusa, dagli occhi era crollata tutta la pacatezza che, fino ad ora, aveva ravvivato quel verde labirintico. «Oh sì, e non dimentichiamoci di Manhattan. La sfilata al Grand Ballroom. Armani. Ero presente anche io, sa? Latisha aveva subìto un tremendo attacco di allergia che ha rischiato di mandare a monte un'occasione importante nella sua carriera. Anche se è talmente caparbia da aver sfilato lo stesso, in uno stato pietoso, guadagnandosi comunque l'ammirazione degli organizzatori» spiegò, con una naturalezza da mettere i brividi. Olivia strinse il tovagliolo. «Certo che dev'essere stato un ammiratore segreto davvero molto attento al suo stile di vita se, casualmente, ha infilato nel camerino decine e decine di narcisi. Oltretutto senza essere stato fermato dalla sicurezza.»
La sta provocando. Vuole capire se è stata lei.
La piega degli eventi mi fece pensare che la fazione di Desmond avesse appena mangiato svariate pedine dalla parte di Olivia, in una sola rapida mossa. Era come se gli stesse rompendo, pian piano, tutte le difese. E lo capii dal modo in cui lei stava affondando le unghie nella stoffa, che captai come un plausibile moto di fastidio.
In viso, tuttavia, sostava un'espressione distaccata.
«E sorvoliamo pure a quando sono state diffuse delle foto che...»
«Signor Holmberg, eviti inutili voli pindarici e mostri chiaramente le sue carte, comincio ad avvertire una certa stanchezza. Mi toccano minimo otto ore di sonno stasera, e un bagno caldo. È già tardi.» Si lisciò l'abito bordeaux, inclinandosi. «Mi ha presa per una stupida?»
«Non mi permetterei mai.»
«Allora mi dica cosa vuole sapere Latisha.»
Desmond rise, a bocca chiusa. «Mi perdoni, non capisco.»
«Lei ha capito, meglio di chiunque altro.» Si voltò verso di me, e mai in vent'anni di vita ero riuscita a scorgergli quello sguardo di pietra, appuntito, quasi volesse forare il mio senza alcuna pietà. Per la prima volta mi trovai a fuggire dai suoi occhi, da quelle ancore a cui mi aggrappavo, e a rifugiarmi sulle mie ginocchia strette. «Ha usato mia sorella per portarmi qui, sotto il suo tetto, per iniziare a interrogarmi, ad accusarmi come un patetico sbirro che vuole solo...»
«Signorina Burns, è qui che si sbaglia. Io non sto accusando, io sto riportando delle accuse. Niente di più, niente di meno. Se lei si sente accusata è un problema suo. O meglio.» Bevve un sorso, godendoselo senza alcuna fretta, e si inumidì le labbra prima di mormorare con bieca calma, a calice sollevato: «È un problema della sua coscienza».
Senza difese; Olivia doveva aver perso l'ultima pedina.
Non seppi come sentirmi, da che parte stare.
«Ah, quindi è così che stanno le cose.» Olivia alzò un angolo della bocca, impiantandosi una smorfia canzonatoria, la voce improvvisamente dolce. «Ma la sua fidanzata... lo sa che sono qui?»
«Latisha sa sempre tutto.»
«Quindi se, per ipotesi, prendessi il mio telefono.» Lo sfoderò sul serio dalla pochette che aveva appesa allo schienale della sedia. «E la telefonassi, raccontandole dove sono, con chi e per quale motivo...»
«... saprebbe già, esatto.»
Non è vero. È una bugia. Eppure sembra quasi crederci.
Senza le mura erette dei pedoni, intuii che Olivia dovette affidarsi agli attacchi diretti: torre, cavallo, alfiere e se stessa. Temevo che il re, accanto a una persona forte e indipendente come lei, nemmeno esistesse; evitava i legami, odiava dipendere, amava agire, ma da sola.
I bambini erano gli unici inconsapevoli della conversazione; si sequestravano il cellulare a vicenda. Un po' li invidiai. Se non fosse per i loro schiamazzi a vivacizzare un'atmosfera già tetra di suo, qui dentro avrei rischiato di soffocare dalla tensione. Osservai Gregg, davanti a me; era immobile, guardò prima me, poi suo fratello. Ma non si intromise. Nessuno di noi lo fece, come avevamo promesso.
Desmond era sicuro di ciò che diceva, niente lo tradiva.
«Ottimo, allora provvediamo ad avvisarla. Meglio tenerla aggiornata sul fatto che il suo fidanzato abbia cercato di intimidirmi con delle accuse che poteva rivolgermi lei stessa, invece che appellarsi alla vigliaccheria.» Olivia si portò il cellulare all'orecchio con nonchalance, un sorriso dolce a incorniciare i secondi che passavano. Attese, si fissò le lunghe unghie, fissò Desmond. Buttò giù dopo un minuto, scrutando la schermata e mormorando: «Irraggiungibile. Lei è un uomo fortunato, signor Holmberg. In tutti i sensi. Anche se mi sento di provare un po' di pena. Insomma, racconta tutto alla sua futura moglie, ma è evidente che Latisha non sappia fare altrettanto.»
Silenzio, mentre lei riponeva via il telefono nella pochette.
Lui, invece, assottigliò lo sguardo. «Come ha detto, scusi?»
«Nulla, mi perdoni, dimentichi ciò che ho detto. Mi è sfuggito.»
«No no, continui pure. Non ho afferrato l'ultima parte.»
«Ah, non so quanto mi conviene farlo... Si tratta pur sempre di privacy.» Olivia si sistemò i capelli su una spalla, lisciandoseli. Poi sospirò, dispiaciuta. «Vede... negli ultimi tempi, quando ci capita di essere ingaggiate insieme, si isola, sta al telefono per un bel po', intrattiene conversazioni sospette. Ah già, a volte viene a trovarla qualcuno che, credo, non sia lei, dal momento che, mi pare, durante la settimana lavora in una casa editrice. Sbaglio? Ad ogni modo, questa persona non si fa mai vedere: rimane in auto, e Latisha, a fine sessione fotografica, la raggiunge. È molto veloce quando esce. Molto, molto veloce. Chissà, forse perché ha paura di essere paparazzata.»
Lui fissò le posate, le sistemò, le drizzò affinché risultassero simmetriche. Quindi annuì piano, un dondolio meccanico, incerto.
«Continui.»
Gregg gli posò una mano sul braccio. «Desmond.»
Si divincolò dalla presa, calmo. «Continui, ho detto.»
Mia sorella riprese parola, le parole che inzuppava in un bagno di amarezza. «Fino all'anno scorso era irriconoscibile. Dopo ogni telefonata si rinchiudeva in camerino, o in bagno, e piangeva, piangeva. Io e le mie colleghe la sentivamo spesso. Era la quotidianità. E mi preoccupavo per lei, sa? A dispetto di Latisha, che a quanto pare soffre di paranoia e gravi manie di persecuzione, io cercavo di venirle incontro, di farle capire che su di me poteva contare per qualsiasi problema trattenesse dentro. Che se aveva bisogno di una mano, io c'ero. Purtroppo non si è mai aperta con nessuno di noi. È sempre stata una persona chiusa al dialogo.» Socchiusi le labbra, il cuore pesante, l'attenzione si posò su Desmond. Ogni severità era crollata, al suo posto una profonda inquietudine. «Temo che continuare a infilare il piede in due scarpe la stia portando alla rovina. Mi sembra una donna troppo buona e onesta per continuare una farsa del genere.»
Desmond si voltò dall'altra parte, sbuffando.
Notai un certo disagio, anche nel mantenere indifferenza. Stava tentennando. Lui. Che anche le tue pedine siano appena crollate?
«Non le credo.»
«Ah no? Perché?»
«Sta dicendo una marea di balle. Da quando è entrata.»
Difensiva; cavallo che arretrava, togliendosi dal raggio d'azione di un pericoloso alfiere portatore di verità che non voleva stare a sentire.
Lei lo guardò con fredda compassione. «Allora le chiedo una cosa, signor Holmberg: da quanto tempo è che non si fa una scopata?»
Scacchi o non scacchi, in simultanea a Gregg tappammo le orecchie ai bambini: io a Cindy, lui a Leonard, entrambi impegnati a giocare a Subway Surfers. Il secondo non si accorse di nulla, troppo concentrato con la partita. Cindy, invece, carpì qualcosa e aggrottò le sopracciglia spesse dalla confusione. «Ma cosa significa che...?»
«La scopa per le pulizie di primavera!» esclamai, nel panico.
«Zio Des non ha pulito casa sua?»
Gregg era più paonazzo di me. «No. No, al contrario! È proprio un casalingo nato.» Rise per non morire, e afferrò in men che non si dica la bottiglia di vino. «Che sete. Che sete. Mamma mia. Ophelia?»
Gli allungai il bicchiere, rossa in viso. «Fino all'orlo.»
Desmond non mosse un muscolo, gli occhi artigliati a quelli di mia sorella. «Le faccio notare che ha appena posto una domanda indecente a una persona che nemmeno conosce, e in presenza di due bambini.»
«Lo so.» Olivia, però, non si scompose. «Ma il danno è fatto, ora mi risponda. Senza mezzi termini, come ha detto lei fino a poco fa.»
Cavallo mangiato. E pure l'altro. Il re era sempre più nudo.
«Mi rifiuto di risponderle.» Abbassò lo sguardo sulle posate, strofinò la forchetta col pollice, un livore che iniettò non solo nei gesti, ma anche nelle parole, mormorando: «Si dovrebbe solo vergognare».
«Oh, oh, capisco.» Olivia schioccò la lingua e accompagnò una ciocca ribelle dietro l'orecchio, manifestando un forte dispiacere: «Immagino di aver appena toccato un nervo scoperto. Le mie scuse.»
Guardai Desmond. Non c'era più. Braccio disteso, polpastrello sul manico della posata, occhi assenti. Non più rapaci predatori. Ma prede. Come prede erano diventati i pezzi della sua scacchiera. Mi inumidii le labbra, scossa da un nervosismo a cui si aggiunse un cuore pesante.
Tentai di posare la mano sulla gamba di Olivia.
«Liv, basta così, per favore...» bisbigliai.
Accavallò la gamba in risposta, spezzò quel contatto, e mi rifilò un'occhiata strana, immersa nel ghiaccio più artico. Mi sentii di arretrare. Come se mi avesse appena lanciato un velato avvertimento.
La partita non era ancora finita, per lei.
E infatti, in assenza di una ribattuta del suo nemico, aggiunse addolorata, accarezzando il tovagliolo a lato del piatto. «È un vero peccato, e mi dispiace l'abbia dovuto scoprire in questo modo, vi trovo una così splendida coppia... Tuttavia, non vorrei essere troppo realista, ma quando l'attrazione finisce, finisce anche l'intimità, e quando l'intimità sparisce, beh, una delle due parti, di solito, cerca qualcosa di più soddisfacente altrove. Senza sminuirla, sia chiaro.»
Probabilmente fece fuori anche una delle torri.
Desmond era in un altro mondo, non stava neanche giocando. Gregg rimase imparziale, come me. O almeno, lui tentò di esserlo, perché ero sicura che non vedesse l'ora di chiudere quella cena.
Notando l'umore nero che aleggiava intorno all'aura di suo fratello, si impensierì, quindi si armò di coraggio e prese lui le redini della conversazione. «Alleggeriamo un po' gli animi, che ne dite?» Posò una mano sul ginocchio, l'altra sulla spalla di Desmond, sebbene sembrò che toccasse un manichino. Sorrise, gli occhi azzurri accesi dalla gioia. «Olivia, posso darti del tu? Troppe formalità in una cena mi danno alla testa. Già in ospedale mi tocca esserlo coi pazienti.»
Bevve. «Si figuri, non è un problema.»
«Hai una sorella meravigliosa. Anche se immagino tu lo sappia già.» Mi indicò con un cenno del capo. Mi sentii arrossire per quel complimento. «Sta svolgendo un ottimo lavoro con i miei figli. E sono due teste calde, uno più difficile dell'altro, ci vuole una pazienza...» Diede un buffetto sul capo di Leonard. «Sai che gioco ha inventato quando è venuta qui per fare la prova? Nemmeno sapevo che esistesse.»
«Sì, Ophelia ha una grande fantasia.» Posò il bicchiere. «Piuttosto, che aromi ha messo in queste costine? Sono la fine del mondo!»
«Aspetta, prima vorrei che Ophelia ne parlasse.»
Risi, mascherando il rossore dietro un sorso di vino. «Non è stato nulla. Abbiamo un papà che fa costantemente dei giochi logopedici e non. Ho imparato molti trucchi grazie a lui. Anche quello del...»
Olivia studiò l'etichetta del vino, assottigliando gli occhi. «Ah, e spero che il vino l'abbiate gradito. È stata una scelta ardua.»
Frenai l'entusiasmo, chiudendo la bocca, piano.
Bevvi, mascherando la delusione dietro al bicchiere.
Gregg se ne accorse. «Sì, un'ottima annata!» Ma continuò a guardare me, io sviai l'attenzione sul piatto, a disagio. «Ma tornando a noi... Ophelia aveva escogitato quel gioco lì, come si chiama...»
«Trappola cinese» borbottai, sperando che il tono non mostrasse il cruccio in cui si era rifugiato. «L'avevo imparato alle elementari e...»
Olivia mi bloccò, ridacchiando. «Oh, mi stavo quasi dimenticando. Questa l'ho sentita ieri, notizia da prima pagina. Non trova che...?»
«La lasci finire.»
Silenzio, solo il ticchettare dell'orologio.
Allargai gli occhi, li alzai, cercai. Non era stato Gregg.
Desmond si era risvegliato, ma non si era mosso.
«Prego?» domandò Olivia, disorientata.
«Ho detto.» Sollevò lo sguardo su di lei. «Di lasciarla finire.»
Mia sorella posò la mano tra i miei capelli, appena sopra la nuca, e mi accarezzò il capo, candidamente. «Signor Holmberg, non capisco cosa dovrei lasciare finire. Io sono ben consapevole che mia sorella è brava in quello che fa. Non ho bisogno di sentire ulteriori conferme.»
«Non ne ha bisogno, o le danno fastidio?» Trattenni un sussulto quando la mano di Olivia si aggrappò a una ciocca per stringerla forte, anziché accarezzarla. Desmond le sorrise. «E la correggo: Ophelia non è brava. Lei è magistrale. Utilizziamo i termini adeguati, per cortesia.»
Mia sorella sfilò la mano, si tenne a schiena dritta.
Eppure, nel suo sguardo, qualcosa era mutato.
La partita aveva ripreso.
«Vedo che ha un'alta considerazione della mia sorellina.»
«Ce l'ho sempre verso chi mostra umiltà» rispose secco, incrociando le braccia sopra il tavolo, le maniche della camicia arrotolate all'avambraccio. «E aggiungo, casomai fosse troppo impegnata a non rispettare la privacy altrui, che sua sorella, a differenza sua, è una persona educata, gentile, umana, e soprattutto le vuole bene. Un sentimento in cui, a quanto vedo, non c'è reciprocità.»
Cosa stai dicendo...
Però, in un colpo, Desmond fece fuori altri pezzi dalla parte di Olivia. Forse una torre, forse un alfiere, forse entrambi. Perché, inaspettatamente, distorse i lineamenti di lei dal risentimento, come se non gli andasse giù che gli avesse mangiato gli alleati migliori.
«Non le permetto di parlarmi in questo modo. Lei non sa niente di me, e non sa niente di mia sorella, di quello che siamo e rappresentiamo.» Di nuovo, la mano tornò tra i miei capelli. «Io voglio bene a Ophelia, tengo a lei, come se fosse una sorella di sangue.»
Dentro di me, fu un sollievo sentirglielo dire.
«Ah, ma davvero? Sentito, Gregg? Tiene a lei.» Fece eco una lunga, forzata, pungente, risata amara. Si sporse oltre il bordo del tavolo. «Quindi, ricapitoliamo: ci tiene a tal punto che, al Down Nightclub, ha avuto la brillante idea di lasciare che sua sorella prendesse un taxi da sola, in uno stato di shock emotivo, alle due di notte, e appena dopo aver rischiato di essere drogata. Ho fatto una sinossi abbastanza esplicativa? Sono emersi bene i punti chiave?»
Il cuore si fermò. Sebbene le dolci carezze di Olivia, avvertii un'ondata di nausea al ricordo di quella sera. Mi pizzicarono gli occhi, rivolti al piatto. Stavolta fui io, con calma, a scostarmi da lei.
Olivia sembrò non aspettarsi quelle parole.
«Mia sorella è...»
«Ma non si vergogna? Non si sente una merda?»
«Desmond» tentò di acquietarlo Gregg, ma lui gli rivolse il palmo per zittirlo, concentrato a trasmettere un rancore mai visto prima.
Se Olivia sembrava ferita, non lo dimostrò. «Si calmi. Perché avverto un certo risentimento. La verità ha per caso risvegliato della rabbia repressa? Forse dovrebbe sfogarla sulla sua fidanzata.»
Lui, allora, sembrò rilassarsi di colpo. Corpo, viso, l'odio che sputava di frase in frase. Si appoggiò allo schienale della sedia, continuando a guardarla con un velo di disgusto. Scosse la testa, piano.
«Sa perché non mi calmo, signorina Burns? Perché ci casco sempre, perché ne ho incontrata di gente come lei, vi conosco. Ne ho incontrata e siete tutti uguali, cazzo. Volete l'attenzione solo per voi, non lasciate finire di parlare, non lasciate respirare chi avete vicino, non li rispettate, li demolite, li sfibrate. Perché pretendete e volete, volete e pretendete. E non siete mai contenti, mai.» Per la prima volta da quando era iniziata la cena, la sua attenzione si incollò su di me; c'era una rassegnazione che faceva a pugni con l'espressione rigida. «Sarò uno stronzo, ma a questo punto me ne sbatto altamente dell'educazione: perché sua sorella, quella carissima persona a cui sta accarezzando i capelli di continuo come se rappresentasse una sua proprietà, è solo fortunata a non condividere il suo stesso DNA.»
L'ilarità dal volto di Olivia sparì molto gradualmente, negli occhi di Gregg si trapuntò un'espressione colpevole, vi balenò l'ombra di qualcosa che non mi seppi spiegare. Alla mia vicina tremò il labbro.
«Come ha detto?»
«Ha capito bene.» Guardò Cindy, poi Leonard, di nuovo me, infine il suo piatto. Poi, con voce fievole, fece la sua ultima mossa. «Ed è per gente come lei se mio nipote non ha ricevuto l'infanzia che meritava.»
Piombò il silenzio.
Gregg si sfregò il viso, ringhiando: «Desmond, porca puttana».
«Non dirmelo, Gregg, non dirmelo.» Si pulì le mani e lo sbattè sul tavolo, alzandosi bruscamente. «So andarci da solo in punizione.»
Se ne andò davvero.
Solo quando udimmo la porta d'ingresso sbattere, mi permisi di osservare mia sorella. Era una maschera che faticava a rimanere intatta. Le labbra tremavano da una rabbia indescrivibile, la mano stringeva e allentava il tovagliolo, le nocche impallidite dal vigore.
«Sono mortificato per...»
«Dov'è il bagno?» Olivia non staccò gli occhi dal suo bicchiere.
«Sì, in fondo al corridoio, poi a destra.»
«La ringrazio.»
Si alzò senza aggiungere altro. Gregg la osservò allontanarsi con un certo rammarico, poi passò su di me. «Mi dispiace tanto, Ophelia.»
Negai con la testa, incapace di proferire parola. Era tutto invischiato in gola, come se la consistenza di quelle parole che si erano tirati entrambi si fosse appiccicato negli organi, come fosse fiele rovente.
L'esito di quella partita fu difficile da digerire.
Perché la regina era caduta, e il re anche.
Non seppi neanche grazie a quale forza mi ero alzata per raggiungere mia sorella. Gregg era stato di poche parole, l'imbarazzo per ciò che suo fratello aveva sputato contro Olivia l'aveva affranto nel profondo, non aveva fatto che mostrarsi mortificato per l'accaduto.
Ma il fatto era che Desmond si era difeso, ed era legittimo, lo stesso Olivia. Entrambi avevamo risposto reciprocamente a delle pungenti provocazioni, provocazioni pesanti, incudini che avevano un certo peso nei loro animi di ferro, animi orgogliosi, animi che volevano uscirne vittoriosi. Che fosse vero o meno, Desmond aveva fatto luce sul mistero di Latisha attraverso le parole dirette di mia sorella, e da come aveva reagito ero sicura che non avrebbe voluto scoprirlo.
Non in quella maniera, almeno.
Olivia, invece... Mi morsi il labbro, ripensando alla sua puntualizzazione sul nostro legame, sulla mia adozione, a come aveva espresso certi discorsi in presenza dei bambini. Per un momento, breve quanto inesistente, mi parve una sconosciuta. Come per l'episodio che incorniciava il pub. Il pub. "Ma non si vergogna? Non si sente una merda?" Lo sprezzo di Desmond, quegli occhi che avevano deciso di rimpiazzare la calma con un disdegno che ancora adesso, a ripensarci, mi faceva accapponare la pelle. Non sapevo più a cosa pensare, ero esausta, mi doleva la pancia, i muscoli delle gambe erano ancora tesi.
Sostai davanti alla porta chiusa del bagno, a braccia incrociate, in un vano tentativo di scaldarmi dopo la freddezza che si era gettata in quello scontro, in un ring dove i pezzi erano crollati a ritmi alterni, determinando una fine reciproca. Una fine che era stata una pugnalata.
Persino per i partecipanti.
Tuttavia, il mio cuore tremava, aveva paura.
Olivia aveva capito tutto. Ai suoi occhi ero sicuramente diventata una sorta di complice, quando non era così, non lo sarebbe mai stato; avevo fatto tutto in funzione di una richiesta d'aiuto, in funzione di una preoccupazione più che lecita, di un timore che capivo quasi fosse mio. Abbassai le palpebre. Le sorelle non si comportano in questo modo, non avrei dovuto farlo, scusami... Strinsi i pugni, mi imposi di calmarmi, e bussai un paio di volte. Ti prego, perdonami.
«Liv, sono io. Sto entrando, ok?»
Sebbene le dita tremolassero, abbassai la maniglia e trattenni il respiro, aspettandomi una sfuriata. Invece, quello che ottenni appena ebbi una visuale silenziosa e ampia di un bagno che custodiva un acre profumo alla lavanda e una grande vasca angolare, fu la figura di mia sorella. Mia sorella in una posizione ricurva, come un fusto di bambù in procinto di spezzarsi ma che, paradossalmente, non si spezzava mai.
Appoggiava le mani ai bordi di uno dei due lavandini, scavati all'interno del mobile che occupava l'intera parete, così come lo specchio. Fra le mille cianfrusaglie, nel vetro lucido era riflessa anche la sua immagine. I lunghi boccoli d'inchiostro le coprivano il viso, scivolavano oltre le spalle, penzolando sopra la conca del lavandino.
Le dita, impreziosite dagli anelli, erano un continuo fremere.
Dalle sue narici potei sentire diversi respiri profondi, vibranti.
Vedendola in uno stato palesemente turbato, ebbi ancora più paura di aprire bocca. Era cucita, attaccata. Rabbia? Afflizione? Fastidio? Non riuscii nemmeno a identificare cosa stesse provando, cosa quel tendere perenne dei muscoli della schiena significasse. Non l'avevo mai vista così... così vulnerabile. A volte credevo che si imponesse di non esserlo persino in famiglia, persino con me. Un po' mi rattristava.
Perché con lei mi ero sempre permessa di esserlo.
«Liv, ascolta...» mormorai, a sguardo chino, su un tappetto nero che occupava mezzo bagno. Avanzai di qualche passo, finché non le fui vicina. Le sue dita si aprivano e chiudevano. «Mi dispiace che...»
Quella frase non arrivò mai alla fine.
Perché, con la stessa rapidità con cui Desmond era uscito di casa, il palmo di una mano si scontrò violento sulla guancia; l'impatto fu così brutale da farmi barcollare all'indietro, portandomi a oscillare contro il bordo della vasca, e, nello stesso momento, a voltare la testa. Sgranai gli occhi, il fiato mi si incastrò in gola. Realizzare che Olivia, lei, mi avesse appena tirato una sberla richiese tempo, secondi in più in cui premetti tremante sul punto dove, adesso, la sua impronta bruciava.
«Cazzo» imprecò, in un sibilo. «Guarda cosa mi fai fare.»
Non alzai mai lo sguardo, lo mantenni sul tappeto, mi ci aggrappai con una forza che non avevo mentre una schiera di lacrime combatté per uscire, scivolare via. E pizzicava, graffiava, e mi trattenni, mi morsi la guancia. Non piangere. È colpa tua, non devi piangere.
Olivia fece avanti e indietro svariate volte, i tacchi che echeggiavano come tuoni, come se presagissero l'arrivo di una tempesta. E smollava le mani su e giù, le chiudeva e le apriva, le nocche che sbiancavano, i respiri profondi che si imponeva dal naso e dalla bocca, il tutto intrecciato a dei borbottii colmi d'astio che non colsi mai a pieno. Poi smise quel rituale per posizionarsi davanti a me.
Si inclinò verso di me, le mani sulle ginocchia. Il suo viso, ora, era a un sospiro dal mio. Non potei che chinare il mio ancora di più, desiderando che non vedesse me, i miei occhi, quegli specchi di lacrime che riflettevano un oceano di colpe in cui non riuscivo a stare a galla. Scusa, Liv... Potei ancora avvertire il modo in cui inspirava ed espirava dal naso; aggressivo, troppo veloce, senza una tregua.
«Ti ho fatto male?»
Non c'era gentilezza, in quel sussurro. Non c'era niente.
Immobile, la mano sulla guancia, evitai di rispondere per paura di crollare davvero. Se l'avessi fatto, le lacrime sarebbero uscite.
«Rispondimi, Ophelia. Ti ho fatto male?»
Scusa...
«Gradirei una risposta.»
Scusami, ti prego...
La mandibola prese a tremare convulsamente.
Liv, perdonami...
«Rispondo al posto tuo: sì che ha fatto male.» Si era avvicinata ancora, il suo naso sfiorava le ciocche di capelli che mi coprivano. «E la sai una cosa? Questo non è niente in confronto a come mi sento io.»
Scusami...
«Umiliata. Mi sento umiliata, e tradita, dalla mia stessa sorella.» Il suo fiato vibrava di una rabbia che innescò in me il terribile bisogno di grattarmi, nel vano tentativo di espellere quei sentimenti che mi stava attaccando con una colla letale. «Organizzare tutta questa pagliacciata, per cosa? Per farmi sentire colpevole in qualcosa di cui non avevo colpe. Cazzo, da te non me lo sarei mai aspettata, Ophelia, mai.»
«Mi...» esalai, la voce rotta, rovinata. «Mi...»
«Non dirmi che ti dispiace, non dirmi altre cazzate. Non dirmi niente. Da te non voglio più sentire niente. Con me hai chiuso, chiaro?» Non ce la feci più, e una lacrima si lanciò nel vuoto, fino al mento, il palmo che premeva e nascondeva. «E vedi di darti una sistemata, non farti vedere in questo stato dal signor Holmberg.»
Liv... mi dispiace...
Uscì dal bagno, sbattendola, senza aggiungere altro.
Tornò a incombere il silenzio, prepotente quanto un secondo schiaffo. Ne passò di tempo prima che mi decidessi a muovere un passo davanti al lavandino. Mi sentii gli occhi pesanti, colmi di errori. Oltre la porta, arrivarono dei brusii che non avevano nulla a che vedere con la furia che si era scatenata fino a pochi istanti prima; Olivia che salutava in maniera piuttosto allegra e sbrigativa, Gregg che esprimeva il suo rammarico, lei che lo rassicurava, gli schiamazzi rabbiosi dei bambini che si rincorrevano, una porta che si chiudeva. Era andata via.
Mi dispiace... Mi dispiace tanto...
Davanti allo specchio, mi guardai e sprofondai nella vergogna più disgustosa. Quegli occhi stretti, lucidi e arrossati che imprigionavano urla e pianti disperati, le labbra premute che cercavano di trattenerlo.
Con estrema calma, tolsi la mano dalla gota; fu una coltellata nella carne quando mi resi conto che stava assumendo una terribile sfumatura bordeaux, come l'abito che indossava Olivia, un segno distintivo che ritraeva il suo nome, che era stata lei a farmi ricordare che non avrei dovuto farlo, che ero una stupida, una pessima sorella.
Mi dispiace...
Emersero anche tre segni, fini linee rossastre. Le sue unghie.
Mi dispiace così tanto...
Mentre cercavo di tamponare delicatamente il punto con dell'acqua ghiacciata e un po' di carta igienica, continuai a crollare, le lacrime scesero e disinfettarono, bagnarono i pezzi di carta che, ogni volta, entravano in contatto con la guancia. Tirai su col naso. Serrai le palpebre. Mi dispiace. E strofinavo il punto. Mi dispiace tanto.
È la prima volta che mi alza le mani.
Fu una consapevolezza che mi portò a coprirmi la faccia con i palmi, nel tentativo di nascondere un pianto che non voleva arrestarsi.
Con la vista appannata, avevo sistemato i capelli affinché non si vedessero i segni o il rossore sulla guancia, dilagato come una macchia d'acquerello. Dopodiché avevo recuperato la borsa, salutando Gregg a capo abbassato, nonostante avesse voluto trattenermi. Poi ero uscita.
Quel giorno avevo preso un pullman, per timore che la macchina mi lasciasse in mezzo alla strada, visto che non avevo badato alla benzina scarseggiante. Ero andata dagli Holmberg coperta dalle rassicurazioni di papà, che ci avrebbe pensato lui a pensare al pieno.
Speravo, non sapevo bene in quale angolo delle sicurezze, che Olivia mi stesse aspettando nella sua auto. Mi avrebbe riaccompagnata, così eravamo rimaste quando l'avevo invitata a cena.
Ti prego, non abbandonarmi così.
Fuori dal portone una scia di fumo penetrò nelle narici.
Capii, anche senza voltarmi e accertarmene, che Desmond era rimasto lì per tutto il tempo, appoggiato al muro, tra le aiuole. Ragion per cui mi sbrigai nella stradina che mi distanziava dal marciapiede.
«Ophelia.»
Non lo ascoltai; velocizzai, divorai quel percorso di cemento come fossi un corridore che non vedeva l'ora di scorgere il traguardo all'orizzonte. Eppure, non ebbi modo di avvicinarmi al marciapiede.
Una mano mi aveva artigliato la spalla.
«Aspetta. Fammi spiegare.»
«Mi lasci.»
«Come?»
Strinsi le labbra tremolanti, chiusi gli occhi, il tono che non riuscii a stabilizzare. «Le ho chiesto... di lasciarmi andare.» Ogni parola pioveva panico, stanchezza, voglia di crollare ancora, e ogni pausa rappresentava una conca che raccoglieva tutto quanto, goccia dopo goccia. «Voglio... Mi faccia tornare a casa, per favore... per favore.»
Fu allora che sciolse la presa dalla spalla. Sperai mi lasciasse andare sul serio. Invece si frappose in mezzo al cammino, stagliandosi di fronte a me, un'ombra che un lampione, poco distante, ne rendeva netti i contorni. Poi, tenni lo sguardo ancorato a terra.
Azzardai la mossa di sviarlo, passandogli a lato.
Ma il suo corpo mi copiò, me lo impedì.
La sua mano, quella che teneva incastrata la sigaretta tra le dita, si allungò molto pacatamente sul mio mento. Non guardare. Lo sollevò col dorso, mantenendo un tatto dietro al quale percepii traboccare apprensione, quasi avesse paura di azzardare un contatto con me. Di riflesso strizzai gli occhi, non volevo vedere che stava vedendo. Non guardare. Scostò appena una ciocca di capelli. Non guardare, ti prego.
«Te l'ha fatto lei?» Fu piatto, all'apparenza, roco.
«Non guardi» mormorai, la voce rotta. «La prego.»
«Dimmelo, Ophelia: te l'ha fatto lei?»
«No.» E piansi, di nuovo, le lacrime scorsero dritte dritte sulle sue dita rimaste sulla guancia, appena sotto i graffi. «Non mi ha... Non guardi, la prego, per favore...» A occhi chiusi, che se non guardavo, sarebbe stato meglio: meno colpe da leggere negli sguardi altrui, meno possibilità di scorgere una vergogna che mi imbrattava i lineamenti, persino le lacrime, persino la mia stessa esistenza. «Non mi metta... Non mi metta più in mezzo a questo... a questo genere di cose.»
Attese per una manciata di secondi che a me parvero distorcersi all'infinito. Poi tolse la mano e il contatto se lo trascinò via il vento notturno. Non disse nulla, nemmeno seppi che espressione si fosse trapuntata addosso. Ma forse capì che, ora, era meglio non dire nulla.
Lo sorpassai, asciugandomi in fretta le gote. Pessima sorella. Imboccai il marciapiede, stringendomi le braccia al petto. Sei un peso.
E continuai, finché non lo sentii dire a voce alta: «Se n'è andata».
Arrestai la corsa, quella patetica fuga. Liv... Ti prego...
«Prendo... Allora prendo un...»
«Di' la parola taxi e ti licenzio.» Udii i suoi passi avvicinarsi per poi arrestarsi. Subito dopo uno scatto acuto, quello che solitamente si attribuiva allo sblocco delle portiere di una macchina. «Sali, forza.»
Mi voltai lentamente, studiando dapprima una Mercedes nera, poi la portiera spalancata dalla parte del passeggero. Desmond ci aveva appoggiato i gomiti sopra, facendomi cenno con la testa di entrare.
Non dissi nulla, non ci riuscii.
Eseguii e basta.
ANGOLO AUTRICE
Buonasera, nightingales (again)! 🕊️
Adesso sapete perché ho preferito dividere in due il capitolo: la prima parte doveva anticipare la "strage" e doveva, teoricamente, essere leggero, una corsetta tra la natura, come quella che fa Ophelia. Mentre la seconda doveva essere necessariamente una cosa a sé stante e, per quanto lunga, deve essere digerita così, in tutta la sua essenza. 🔥
Partiamo dall'alto: Gregg appoggia suo fratello nel piano e, sebbene insieme ai bambini e alla stessa Ophelia rimane in disparte per l'intera cena, è quello che cerca di acquietare Desmond. Ma serve a qualcosa? Ovvio che no, perché lui quando parte... parte. La pazienza ce l'ha, rimane un signore per gran parte del tempo, ma alla fine perde le staffe per... beh, ovvi motivi. Sia perché, a quanto pare, ha scoperto ciò che voleva sapere su Latisha, sia per l'essere irrispettosa di Olivia nei confronti di Ophelia.
E ricordate, ve lo ribadisco: state attenti ai dettagli, anche quelli che sembrano insignificanti, perché servono. Non metto mai nulla al caso, ormai dovreste conoscermi.
Tra re e regine di una scacchiera imbandita su una tavola da pranzo, Desmond attacca e viene attaccato, come la sua rivale: Olivia. Lei gli tiene testa fino alla fine, e nonostante si renda conto di aver "perso", non lo vuole mai mostrare, né ammettere. L'orgoglio è un tratto caratteriale duro a morire. Non che Desmond non ne abbia, ma fino a un certo punto.
Si evincono tante, troppe cose importanti, nei loro scambi colmi di veleno.
Cosa sarà vero? Cosa non lo è? O forse sì: c'è stata solo verità nelle loro mosse? 👀
Infine, una scena che, a me personalmente, ha stretto il cuore dal dolore: il "colpo di grazia" che Olivia infligge a Ophelia, poiché si è sentita, a detta sua, tradita dalla sua stessa sorella. Ha avuto una reazione molto violenta, molto brusca, molto istintiva... molto sbagliata. Ve lo ricordate, no? Mai alzare le mani al proprio fratello/sorella.
Ma di nuovo: sono tutte cose che hanno un loro perché.
Questions:
▪️ Secondo voi, Olivia ha detto cose vere o cose false, su Latisha?
▪️ Come vi è sembrata la cena? Mi piacerebbe tanto sapere le vostre considerazioni. Probabilmente è l'unica scena che mi soddisfa a pieno, ci ho proprio concentrato tutte le mie energie. Ce l'avevo in testa da TROPPO tempo.❤️🤧
▪️ Adesso, state calmi, ma voglio sapere le vostre considerazioni pure su Olivia. Specie per l'ultima parte.
▪️ Desmond, occhio d'aquila, ha scoperto il segno sulla guancia di Ophelia. Secondo voi riprenderanno il discorso, prima o poi?
▪️ E adesso... Olivia come si comporterà d'ora in poi con Ophelia? Dopo ciò che è successo aprirà gli occhi una buona volta? O ci vorrà ancora un po'?
Noi ci vediamo, as always, al più presto. Anche perché il prossimo capitolo sarà breve. 🦅
Spero che questo, per quanto “forte”, l'abbiate apprezzato. ❤️
See ya soon!
Playlist:
Zen - X Ambassadoes, K. Flay, Grandson (prima parte)
Jupiter / An Unwelcome Guest - Giyo (seconda parte)
Easier - Mansionair (terza e quarta parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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