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11. In due

In due

P.S. musicale: nella terza parte, quando viene citato Hozier, è preferibile leggere la scena con Work Song alle orecchie. Buona lettura, nightingales! 🕊️








Prima









Ascoltare musica vintage mi rallegrava, era capace di cospargermi di una nostalgia che si provava solo quando si rievocavano i "bei vecchi tempi" davanti a un aperitivo con un amico che non si incontrava da tanto.

Capitava che mi cullassi nel pieno degli anni Ottanta nelle giornate in cui il cielo piangeva una timida pioggia e la legna che scoppiettava nel camino consolava col suo calore materno. Non importava che l'artista fosse l'inimitabile Bowie, la grande Franklin, o i Duran Duran. Mi bastava la voce di un artista, una qualsiasi, roca o cristallina, era indifferente il genere, che subito la mente collegava l'atmosfera che scaturiva una determinata canzone a un giorno ben specifico della mia silenziosa infanzia.

In qualche modo, Grover Washington associava le note spensierate di Just The Two Of Us al giorno in cui avevo imparato il significato della condivisione. Ero piccola, sei anni forse, o forse appena qualche mese in meno. Fatto stava che mamma era stata subito chiara in merito: due fratelli non facevano mai niente con il numero uno.

«Condividete, ragazze, sempre. Siete in due, non in uno.»

Nessun tono che pungeva di severità, o che trasudava pretese. Lei ci insegnava con un sol sguardo, in cui la gentilezza si mimetizzava insieme al celeste che le riempiva le iridi.

All'inizio non era un concetto che comprendevo fino in fondo, al che la mia reazione era un'inarcata di sopracciglia, oltre a una lieve inclinazione della testa. Se vedevo un cioccolatino, perché avrei dovuto chiedere il consenso per poterlo mangiare? Nella casa-famiglia in cui avevo mosso i primi passi, avevo visto molti bambini adottare il sistema del "io vedo per primo, io prendo". L'avevo studiato e assimilato, e avevo creduto che era così che il mondo girasse, che fosse una legge giusta, adeguata a tutti, grandi e piccini.

Mi sbagliavo.

Eppure, mi sorprendeva che pure Olivia, seppur avesse cinque anni in più, faticasse a digerire un concetto che, a detta dei miei, avrebbe dovuto essere basilare. Qualche anno più tardi avevo capito che era un comportamento normale, specie tra i fratelli maggiori: l'arrivo di un nuovo membro era l'equivalente dell'innesco di una bomba; dopo l'esplosione lasciava disorientati, la novità faceva fischiare le orecchie, demoliva l'equilibrio a cui si era abituati, e aveva comportato venir travolta da nuove regole a cui attenersi.

Non se n'era mai lamentata, e non ricordavo una sola volta in cui le dispiacesse avermi accanto.

Tuttavia, la condivisione non era stata semplice da recepire.

Una sera mamma aveva cucinato dei deliziosi brownie. Li avevamo divorati nel giro di poco. Ne era rimasto solo uno, il pomeriggio successivo, e a Olivia era salito un forte languorino; aveva pensato di andarlo a sgraffignare dalla cucina. Tuttavia, era stata beccata da mamma e dal suo: «Due, Olivia, non uno. Lo sai

C'era stata una sfumatura di durezza in mezzo alla cortesia.

Ricordavo di aver udito quelle parole e di aver raggiunto la cucina, con la curiosità ad allargare degli occhi già grandi di loro e il peso di Mr. Carrot intrappolato sottobraccio. Poi mi ero avvinghiata alle gambe della mia nuova madre, creando un viluppo in cui ci rientrava pure il peluche. E avevo osservato, cercato di cogliere.

Due, non uno.

Avevo creduto fosse più un "Prendine pure due, non uno solo".

Invece si riferiva sempre alla regola del "Siete in due, non in uno".

Olivia, all'epoca undicenne, la mano pronta a rubare il bottino dal bancone della cucina, si era immobilizzata come avrebbe fatto un mimo per strada. Voltando la testa, aveva provocato un'oscillazione della coda alta, che ai miei occhi diventava un pendolo d'inchiostro.

Aveva puntato lo sguardo su di noi. Prima me, poi mamma. Era stato un mutamento tanto lento quanto evidente: inizialmente l'increspatura della fronte si era fatta netta, generando lievi onde, poi le sopracciglia si erano arcuate fino a sfiorarsi, la bocca si era socchiusa in una smorfia di confusione. Non era d'accordo.

«Perché?»

«Lo sai il perché, Olivia, te l'ho spiegato.» Cordelia aveva posato la mano sul mio capo. «Non sei più da sola, adesso. C'è lei, con te.»

«Ma poi li cucinerai di nuovo!»

Mamma aveva scosso la testa. «Non so quando li cucinerò di nuovo, quindi è oggi che dovresti provare a condividere. Sta a Ophelia, poi, decidere se rifiutare l'offerta che le farai. Ricordatelo.»

Olivia aveva storto il naso, guardato il brownie con un dispiacere tale che avrebbe potuto farlo piangere, e poi l'aveva preso in mano, raggiungendomi. Aveva fatto un respiro profondo e poi teso il dolce.

«Lo vuoi?»

Ne ero sicura: i suoi occhi speravano che rifiutassi.

Eppure, avevo negato. Non mi andava di mangiare.

Olivia, però, non senza emettere un sospiro sconsolato, aveva diviso il brownie in due e me l'aveva adagiato lo stesso sul palmo.

«Mangialo quando ti va, allora» aveva borbottato.

«Brava, brava.» Mamma le aveva schioccato un bacio sulla fronte, sebbene avrebbe voluto gustarsi il dolce da sola. «Cercate di condividere anche quando l'altro, magari, non vuole. Perché farlo nel presente, è un riconoscimento per il futuro. Come si suol dire oggi: abbi cura di un seme oggi, per una pianta domani.» Ci aveva fatto cenno di seguirla in salone. Io mi ero aggrappata alla mano di Olivia. Mani piccole contro mani più grandi e mingherline. Lo facevo sempre. La sua presenza era in grado di far sentire meno sola me e i miei silenzi. «Non so se papà ve l'ha mai spiegato, ma condividere non riguarda solo il proprio dolce preferito, ma anche un momento felice, un momento triste, un momento divertente, un momento che ci ha fatto paura. Ma soprattutto...» Si era fermata davanti a una borsa, e aveva tirato fuori due bende rosse. «... la fiducia, la garanzia di condividere le nostre incertezze con le certezze di qualcun altro.»





















Adesso










«Ritmo, ragazzi.»

«Leo è fuori tempo.»

«Se-sei t-tu fuori tem-tempo.»

Cindy e Leonard, che avevo costretto a sedersi vicini – e senza l'uso di una corda –, cercavano di cadenzare un ritmo lento, regolare, col palmo sopra al tavolino davanti a cui erano appostati. Io, accomodata a terra e a gambe incrociate, facevo la stessa identica cosa, però battendo le mani tra loro. In sostanza, dovevamo cercare di imitare il ritmo corretto di un brano che fluiva dal mio telefono.

«Perché lo stiamo facendo?» chiese lei, con uno sbuffo.

«Perché la musica ha sempre qualcosa da insegnarci, e da dirci. E se noi cerchiamo di seguirla, rispettandone gli spazi, potremo imparare qualcosa di nuovo.» Battei la mano. Pausa. E di nuovo. «Quindi, il primo che sbaglia dovrà rispondere a una mia domanda.»

«Pe-perché?» domandò Leonard, inclinando la testa.

«Così impariamo a conoscerci meglio. Inoltre, in questo modo concretizziamo il significato che dagli errori si può solo imparare

«Ma io conosco già tutto di Leo. È mio fratello.»

«Ah sì?»

«Sì.»

«Dimmi qual è la sua canzone preferita.»

«Beh... ehm.» Cindy si voltò verso il fratello, lui aveva abbassato il capo, quasi volesse scavarsi una buca e sparire dalla sua vista. «Vabbè, è facile. Ascolta Bruno Mars, ama quella lì, Grenade

«Sbagliato, invece a me ha detto che gli piacciono tutte, senza distinzioni.» Lei, mentre continuava a mantenere il ritmo, guardò Leonard, che annuì per confermare quanto avevo detto. «Dovresti saperlo anche tu, Cindy, proprio perché sei sua sorella e ci stai sempre insieme. Invece no, lo so io che sono una sconosciuta.»

Con la mano libera, lei gli diede uno spintone dalla spalla, le sopracciglia corrugate dall'irritazione. «Mi avevi detto che ascoltavi Bruno Mars. Me lo dici ogni volta che te lo chiedo. Sei un bugiardo.»

«No, tesoro, non te l'ha detto non perché è un bugiardo.» Sorrisi, fermando il mio, di ritmo. «Ma perché... Leonard continua tu, su.»

Lui sollevò il capo, lentamente, però senza guardare negli occhi sua sorella. Preferì concentrarsi sul tavolino che aveva davanti, interloquire con una distesa di legno inanimata, che con un essere umano. «Per-perché mi di-dici s-s-s-sempre che sono u-una...»

«Ok, ho capito, fa niente» lo bloccò, stizzita.

«Prova a fargli terminare la frase, Cindy. Stava finendo.»

Scrollò le spalle, lo sguardo lo puntò altrove. Leonard, nonostante il disinteresse della sorella, prese ugualmente coraggio e concluse quanto stava dicendo, non senza un velo di rabbia a scandire le parole. «Mi di-dici s-sempre che sono una per-perdita di te-t-tempo.»

«Eh, balbetti.»

«No-non è...!» Diventò paonazzo, poi si ammutolì, stringendo le labbra. Allo stesso tempo non batteva più la mano sul tavolo per una questione di esercizio, ora sembrava lo stesse proprio picchiando.

«No, Leonard, tu continua» lo incitai con un lieve cenno del capo, lui negò. «Cerca di finire la frase lo stesso. Se tua sorella prova a bloccarti, tu ricomincia. Lo fa un'altra volta? Tu non demordere. Rifallo. Rifallo sempre. È più importante quello che esce dalla tua bocca, se no Cindy non può capire cosa trattieni, non lo può sentire

Serrò le labbra, la sua mano aperta si trasformò in un pugno.

Non solo adesso picchiava il tavolo, ma ci stava anche riversando tutta la sua frustrazione. Frustrazione che lo interrompeva, lo zittiva.

«No-non...»

«Non lo voglio sapere» disse Cindy.

«No-non è c-c-c-»

«Ho detto che non lo voglio sapere.»

«No-non è...»

«Guarda che stai sbagliando il ritmo.»

Leonard lancio un grido dettato dalla collera e, alzandosi dalla seggiola, si gettò su di lei a mani tese. Stavolta aveva deciso di tirarla dalla coda di cavallo. Mi concessi un sospiro, non me ne sorprendevo neanche più: ero già psicologicamente preparata a quegli scatti d'ira.

Così, mi sollevai prontamente da terra e in due falcate afferrai Leonard dalla manica, inducendolo a mollare la presa, mentre Cindy urlava tenendo la testa piegata all'ingiù, sin dove il fratello le tirava i capelli. Quando mi accertai che si trovassero distanziati, lui non si risparmiò di lanciarle uno sguardo carico d'odio, come se, in qualche modo, desiderasse che tutto quello che si annidava dentro di sé si trasformasse in ulteriori mani, in grado di finire il suo lavoro.

«Ragazzi, calma: le mani a posto, ora risediamoci.»

Io tornai a terra, Cindy esibì una linguaccia al fratello, lui si sedette senza degnarla di uno sguardo, gli occhi lucidi. In pochi secondi tornammo a riprendere il ritmo della canzone successiva proposta dal mio Spotify, anche se l'atmosfera non era delle migliori.

«Posso farvela una domanda?» tentai, cauta.

Non risposero. Sospirai mentalmente.

«Avete mai provato a parlarvi come fanno tutti i bambini della vostra età? Certo, si litiga, normale... Ma parlarvi, parlarvi come due fratelli, anche di cose stupide, anche per chiedere aiuto per disegnare o per costruire qualcosa con i Lego.» Indicai il gioco, i mattoncini colorati erano stati raggruppati all'interno di un recipiente di plastica.

«Io mi annoio se parla Leo» scoccò Cindy.

«Io no-non pa-parlo con lei. N-non mi fa p-parlare.»

«Notato nulla nelle vostre risposte?» chiesi, con un piccolo sorriso, anche se erano troppo arrabbiati per notarlo. «Cindy, come fai ad annoiarti se non lasci mai finire di parlare Leonard? Per poterlo dire, bisognerebbe prima ascoltare cos'ha da dirti, capire il cuore delle sue parole, capire se ciò di cui vuole discutere ti piaccia, se ti interessa.» Giunsi le mani, intrecciai le dita. «Finché non gli concederai mai questa possibilità, lui, giustamente, non vorrà mai parlarti, gli passerà la voglia. E quando gli chiederai delle cose, come nel caso della musica, ti dirà delle bugie, preferirà non risponderti.»

«E quindi?»

«E quindi non c'è fiducia, perché non vi parlate, non vi conoscete abbastanza, non volete conoscervi. Tu non lo fai parlare, Cindy, e lui scappa. Capite? In questo momento c'è un muro altissimo, tra voi.»

Ripresi a ritmare il brano. Cindy, mentre picchiettava la mano sul tavolo, assunse uno sguardo sospettoso. «Tu ce l'hai un fratello?»

«Ho una sorella più grande.»

«E conosci tutto di lei?»

Sbagliai: battei le mani poco tempo dopo il ritmo della canzone. Non capii se fosse stata quella domanda a farmi mancare il tempo, o se l'intensità del suo sguardo. Era solo una bambina, ma sapeva essere intelligente, porre le domanda giusta, scavare in una persona più grande in quegli occhietti da squalo, da predatrice di curiosità.

«Certo» mormorai soltanto, ma mi diedi l'impressione di non convincere neanche le bambole di pezza che ornavano gli scaffali sopra ai letti. Non ne capii il motivo. La conoscevo. Io la conosco. «Certo che conosco tutto di lei... Siamo sempre state molto unite.»

La batteria del brano proseguì. Cindy non si mosse.

Non staccò mai gli occhi da me.

«È una bugia.»

«Cosa?» Sussultai, senza volerlo.

«Perché hai sbagliato ritmo. Fregata.» Ridacchiò, scoprendo i canini assenti. Osservai il palmo della mia mano, come se ci avessi trovato sopra delle squame. Acuta osservatrice. «Visto che hai sbagliato... posso essere io a farti una domanda? Ti prego, ti prego!»

Il senso di smarrimento aveva assunto la forma di una densa nuvola nera. In quel momento faticò a diradarsi dalla mia mente, e costringere le labbra a incresparsi in un sorriso risultò difficile, quasi ci avessero scaricato sopra quintali di macerie. «E va bene. Vai.»

«Ce l'hai un fidanzato?»

«No, non ce l'ho.»

«E prima?»

«Ah no. Un errore, una domanda. I patti erano questi.»

Batté i piedi per terra. «Per favore, dai! Non lo dirò a nessuno!»

Impegnata a esaltarsi, non aveva badato al fatto che avesse smesso di picchiettare le mani sul tavolo. Tra me e me, mi venne da ridere. «Mi dispiace, ma no, e poi hai appena sbagliato tempo pure tu.»

Si fissò il palmo, strizzando le labbra. «Stupida mano.»

«Vediamo, vediamo...» meditai, facendo saltare gli occhi da lei a suo fratello. «Perché non mi dici un tuo difetto?»

«Cos'è un difetto?»

«Qualcosa che non ti piace di te» spiegai.

Ridacchiò. «Non so... Mi piace tutto. Non ho difetti, forse.»

Inclinai la testa, una spessa ciocca di capelli scivolò oltre la spalla. Fui sorpresa da quella risposta data così alla leggera. «Davvero?»

«Certo!» Annuì con vigore. «La mamma non aveva difetti.»

Ancora la mamma...

«Ma, Cindy, la mamma è la mamma... Tu sei tu.»

«Lo so.» Si grattò la testa, dove i capelli si fondevano in un codino privo di ciuffi. «Però sono uguale a lei. Lo diceva sempre alle amiche. Diceva che era felice di avermi come figlia. Diceva che ero brava, che sapevo ubbidire, che Leonard doveva imparare da me.»

Li guardai, prima l'uno e poi l'altra. Era chiaro che la madre fosse stata una figura fondamentale per Cindy e traumatica per Leonard. La prima la osannava, dalla sua bocca usciva più la parola "mamma" che altri vocaboli, ripeteva le stesse cose che, molto probabilmente, le aveva sempre raccomandato quando ancora viveva sotto il loro tetto. Mentre il secondo preferiva non sentirla neanche nominare, e ogni volta che Cindy gli rinfacciava qualcosa, si incupiva, si chiudeva a riccio, la balbuzie peggiorava, le parole le segregava.

Sviluppo di un rapporto disarmonico.

Così l'aveva definito il signor Holmberg.

Ma di base il problema era uno: non sapevano rispettarsi.

«Va bene. Allora, senti.» Cambiai tattica, indicando suo fratello, concentrato a mantenere il ritmo a occhi stretti. «Ti fidi di lui?»

«No.»

«Leonard, ti fidi di lei?»

«No.»

«Allora vi chiedo: vi fidate di me?»

Silenzio. Smisero di battere le mani. Ripresero l'istante dopo.

Il mutismo di Leonard si sovrappose al no secco di Cindy. E dal silenzio di lui e gli occhi fissi sul tavolo dedussi che spalleggiava la sorella. Dentro di me sorrisi, sorrisi tanto. «Incredibile, cosa odono le mie orecchie? Sbaglio, o è la prima volta che vi sento... d'accordo?»

La bocca di Cindy assunse una smorfia imbronciata. «Beh, sei una sconosciuta. Zio Des e papà ci dicono sempre di non fidarsi degli sconosciuti. E poi tu non rispondi mai alle mie domande. Sei sleale.»

«E hai ragione! Però...» Alzai l'indice e glielo puntai. «... nemmeno voi, a quanto vedo, vi fidate. Eppure non dovreste considerarvi due sconosciuti. Non dovreste proprio. Non vi fa sentire tristi?» L'ombra di Olivia tornò a incombere, a impadronirsi delle mie idee. Perché? La conoscevo. Ti conosco. Tuttavia, avvertii i miei occhi disperdersi sul pavimento, allontanarsi... e allontanarsi. «Non vi fa sentire impotenti non riuscire ad avvicinarvi a una persona che vi trovate sempre vicini? Con cui condividete una casa, il DNA...»

Non capivo questo sentimento che contrastava la stima che provavo nei confronti di mia sorella, non capivo questo turbinio di sensazioni sgradevoli, questo disagio mai provato durante l'infanzia.

La conoscevo, sapevo chi fosse, l'avevo vista crescere insieme a me, passo dopo passo, mano nella mano. Eravamo il numero piccolo e il numero grande; due elementi che costruivano un senso soltanto se trascritti insieme. Soltanto se uniti, letti nella loro esclusività.

Eppure, pensavo agli ultimi tempi, agli ultimi anni.

«Per questo vi chiedo di dialogare, di provare a venirvi incontro, di condividere i vostri pensieri, le vostre insicurezze, di conoscervi, di fidarvi» pronunciai, sollevando uno sguardo pregno di dispiacere dal pavimento ai loro occhi. «Se non vi fidate fra di voi, che siete fratelli, con chi potrete farlo in futuro? E il mondo, ricordatevelo, fa molti dispetti. Li ha fatti anche a me, sapete? E non è stato... bello.»

«Qua-q-quali di-dispetti?» chiese Leonard.

«Mi fidavo di alcune persone a me care, poi ho scoperto che mi avevano detto delle bugie. Ma non è questo l'importante» troncai subito, battendo le mani. «La cosa più importante, adesso, siete voi. Quindi partiremo da qui, dal concetto della fiducia. E sapete come si ottiene? Con la sincerità.» Guardai Cindy, che aveva appoggiato la schiena di malavoglia sullo schienale della seggiola. «Tu hai detto di non trovare dei difetti in te stessa, allora cambiamo: cerca qualcosa che ti piace in tuo fratello. Una cosa sola, anche piccolissima.»

Cindy sollevò le sopracciglia. «Non lo so.»

«Certo che lo sai. Pensaci bene.»

«Ho detto che non lo so.»

«Sforzati, su.»

«Mi piace quando sta zitto.»

Leonard, punto sul vivo, si allungò sul suo tavolino e gli tirò ancora il codino, con un solo, vigoroso strattone, anche se con più violenza della volta precedente. «B-brutta st-strega a-an-antipatica!»

A quel punto chiusi gli occhi, reclamando tutta la pazienza del mondo, e impiegai ogni briciolo di impegno per mostrare loro un'espressione arrabbiata. Peccato che non fossi in grado. Sperai solo che non mi scoppiassero a ridere in faccia. Sarebbe stato umiliante.

«Va bene. Visto che fate come volete voi ho deciso che non vi concederò la possibilità di farmi nemmeno una domanda. Basta.»

Si fermarono. Cindy era la più scettica e, ancora intrappolata dalla presa di Leonard, non si risparmiò di dire la sua: «Tanto non risponderai lo stesso. E poi puoi dire le bugie, come tutti i grandi».

Incrociai le braccia, esibendo superiorità. O almeno, un'imitazione che ci si avvicinasse. Olivia avrebbe fatto così? Com'è che fa quando parla al telefono con le sue colleghe? Mento all'insù, narici dilatate, occhi stretti? «Questo lo dici perché, appunto, non mi conosci. Ma finché non tenti non lo saprai mai, e di conseguenza non mi conoscerai mai. Discorso che vale anche per voi due.» Quindi, seguendo il copione, mi alzai in piedi, col cellulare in mano, e raggiunsi la soglia, fingendo di comporre un numero. «Anzi, ho un'idea migliore. Chiamerò vostro zio e gli dico che avete litigato tutto il tempo. Penso che si arrabbierà. Anzi: vi metterà in punizione. Cindy senza pennarelli e Leonard senza MP3. Per un mese intero

Neanche il tempo di mettere piede fuori dalla stanza che mi trovai i piedi bloccati. Letteralmente. Abbassando il capo constatai che i due si erano tuffati a terra, le mani protese a stringermi le caviglie.

«Non farlo!» urlarono in coro.

«Invece lo faccio.» Mi obbligai a rimanere a testa alta e a mantenere un tono severo, autoritario, mentre cercavo di avanzare con quei due pesi ai piedi, finendo per farli strisciare sul pavimento come salviette. Sembrava uno di quegli allenamenti per il fitness.

«No!» urlò l'uno.

«Adesso lo chiamo.»

«Ti prego!» implorò l'altra.

«Lo sto chiamando.»

«Per favore!» Insieme.

«Sta squillando.»

«Va bene, d'accordo!» Cindy si staccò dalla caviglia per prima e, assumendo un muso indispettito, chiese: «Però non lo chiami, vero?»

Non era la prima volta, negli ultimi giorni, che nominando il caro zio Des, i bambini cercassero di apparire beneducati. Praticamente è lui la parolina magica che mi permette di averli in pugno. Non le caramelle o delle dolci promesse. Lo zio. Possibile che lo temano più del loro vero padre? Chissà che genere di educazione gli ha imposto per guadagnarsi il loro rispetto, chissà come si comporta con loro.

Abbassai il telefono, riponendolo in tasca. Adottando un sorriso sincero, posai l'altra mano all'altezza del cuore. «Hai la mia parola.»

Cindy, per la prima volta da quando la conoscevo, esibì imbarazzo, irritazione mista a incertezza. Non voleva. I suoi occhi, per quanto famelici di attenzioni, sapevano urlare anche parole diverse da "Guardami" o "Esisto solo io". Non sapevo ancora nulla di lei, ma era stato lampante che l'orgoglio fosse un tratto netto della sua personalità, una caratteristica che andava a eclissare tutte le altre.

Altre a cui non avrebbe dato spazio, di questo passo.

Socchiuse la bocca, la richiuse, e di nuovo.

Guardò Leonard, si torturò le mani dal nervoso. Probabilmente le fu chiaro che, nonostante lui si fosse accucciato nell'angolo dei suoi timori, una parte di del fratello desiderasse sentire quanto avesse da dire. Quindi, Cindy venne percossa da un lampo di suscettibilità.

«Tappati le orecchie.» Non fu gentile a chiederglielo.

«Pe-perché?»

«Io non parlo se mi ascolti.»

Lui abbassò le sopracciglia scure, in parte coperte dallo spessore degli occhiali. Poi fissò me per avere un'ulteriore conferma. Scrollai le spalle, come a voler intendere che era libero di fare come voleva.

Alla fine lo fece: poggiò i palmi alle orecchie e si allontanò in camera. Noi due rimanemmo oltre la soglia, in un corridoio sfarzoso che assorbiva la luce pomeridiana, calore che filtrava dalla finestra.

«Perché non vuoi che senta?»

«Non voglio e basta» espresse furibonda, guardandomi le scarpe, i pugni serrati lungo i fianchi. «Non dirgli che te l'ho detto, ok?»

Strinsi le palpebre, ma stetti al gioco. «Ok, promesso.»

«Se lo fai, dirò a zio Des che ti metti le dita nel naso.»

«Agli ordini, comandante» sospirai, pensando che la bambina aveva sempre la certezza che le sue bugie sarebbero state ascoltate dallo zio, a prescindere. «Quindi? Cosa ti piace di tuo fratello?»

Strinse la mia mano, inducendomi a chinarmi sui talloni. La sua espressione non rispecchiava più la rabbia, bensì l'incertezza; storceva il naso, gli occhi che vagavano qua e là a ripetizione, senza mai soffermarsi su di me, come biglie evase dallo stesso sacchetto. Poi si avvicinò al mio orecchio, sistemò i palmi attorno a esso, e ci contenne una risposta sussurrata, un segreto ben scandito: «La voce».

Beh, questa non me l'aspettavo.

«La voce?» ripetei, battendo le palpebre. «Davvero?»

Alzò le spalle. Dallo sguardo furibondo capii che si era sbottonata anche troppo, che quella confessione avrebbe preferito non farla.

«Se ti piace la sua voce, allora perché non provi a dargli una mano? Perché non provi a lasciarlo parlare, a fargli finire le frasi?»

«Perché poi si mette a balbettare. Mi fa innervosire. Lo fa apposta, lo fa per farsi volere bene da papà, e dallo zio» sputò fuori, senza mai guardarmi negli occhi. Li aveva assottigliati come fessure, saldi su una fotografia appostata sopra un mobile munito di specchio. Era la foto che ritraeva Gregg incorniciato in un momento in cui era sopraffatto dall'emozione, il sorriso luminoso, mentre cullava fra le braccia uno dei bambini ancora in fasce. Chissà se era Cindy. O forse Leonard. «Mamma non riusciva a prenderla in giro. Mamma voleva che smettesse di fare i capricci, che smettesse di parlare così male.»

«Cindy» dissi, mordendomi la guancia. «Non è colpa sua.»

«Come può non essere colpa sua, scusa? È lui che parla.»

«Perché è un problema che nasce quando si hanno tantissime insicurezze, non è una cosa che si controlla. Secondo te tuo fratello è felice di vivere così? Pensando di essere un...» "È questo che vuoi, Ophelia? Che ti sentano ancor più come un peso?"

La voce severa di Olivia grondava come una crudele pioggia di lava; eruttò dal cratere dei miei pensieri, lesionò la mia tranquillità mentale, estinse la mia, di voce, la bruciò viva. E vinse, lei, vinse in una lotta per detenere il potere supremo, assunse il titolo di regina, col suo scettro mi ordinò di allontanarmi dal tempo presente, di dedicarmi esclusivamente a lei, che il resto era di poca rilevanza. Le attenzioni, in un modo o nell'altro, le appartenevano come un vestito cucito con le sue iniziali, su misura, anche quando non era presente, in carne e ossa. Così, mi incantai sulla fila di bottoncini incastonati sulla maglietta a pois bianchi e rossi che indossava Cindy.

A forza di fissarli, divenni un puntino anche io.

Mi dispersi, tra il rosso e il bianco.

Un peso. Ero un peso.

Lo so, so di esserlo. Però non me lo ripetere più, Olivia, ti prego. Adesso sto cercando di concentrarmi, che qui ci sono voci troppo velenose e parole troppo spezzate, che qui devo far capire ai bambini che sono ancora in tempo a rinsaldare un rapporto inestimabile. Fratello e sorella, capisci? Lo capisci, Olivia? Capisci il valore, ne percepisci la fortuna, senti che bel suono? Anche noi condividiamo quel legame, te lo ricordi? Ricordi quel pomeriggio, mano nella mano, a fidarci l'una dell'altra mentre mamma ci guidava? Ricordi come tu non avevi dubitato di me nemmeno per un secondo? E ho paura, sono terrorizzata all'idea di perdere te e il legame e la fiducia che riponevi in me. Non voglio perderti, non voglio più percepirti così lontana anche quando mi sei così vicina, non voglio più che tu...

«A m-me p-pi-piace co-come pa-p-parli.»

Cosa?

Fissai il dolce contorno dell'arco di Cupido che addolciva la bocca di Cindy. Una bocca piccola, adesso distorta da una smorfia di stupore. Increspai le sopracciglia, investita dallo stesso sentimento.

Ci volle un ulteriore giro delle mie rotelle per associare quella voce tentennante, e da cui le parole franavano come se cascassero giù da una montagna imperfetta, a Leonard. Ero convinta rimanesse in camera, a tenere fede alla promessa imposta dalla sorella. Invece no.

Le ha appena disubbidito... per origliare la sua risposta.

Ruotai appena il collo, e lo vidi lì, piccolo piccolo, un tutt'uno con le sue insicurezze: il bambino era avvinghiato allo stipite, le dita grassocce ci si aggrappavano, il naso lo schiacciava sul legno, le lenti circolari degli occhiali ci premevano sopra. Dava l'idea che ammettere quella dolce verità per lui fosse una scommessa rischiosa: tipo non svolgere i compiti a casa, perché magari il maestro non li avrebbe controllati. Era una confessione difficile, espressa col cuore in gola, con la paura delle conseguenze, ma con la decisione di dirla.

Mantenni il sorriso nel cuore. Non volevo mostrarlo subito.

«Spiegati, Leonard: perché?»

Cindy non si era ancora girata: gli dava le spalle, fissava me.

«Pe-p-perché... pe-p-perché...» borbottò, squadrando il pavimento. Strizzò le labbra, le contorse, inghiottì la risposta, la rimasticò aprendo e serrando la bocca. «Pe-p-perché non si f-ferma.»

Stavolta fu più forte di me: mostrai un ampio, fiero sorriso.

«Non mi fermo perché parlo bene» ribatté Cindy, però, sebbene fosse stata dura, non percepii quel velo di derisione che era solita esibire ogni qualvolta gli rispondeva. «Sai farlo anche tu, ma ti piace troppo parlare male che adesso non sai più nemmeno come si fa.»

Solo allora si girò, a braccia conserte, arrabbiata.

«N-non l-lo fa-f-faccio a-apposta.»

«Sì, invece. Non ti impegni.»

Calciò un piede a terra, dalla stizza. Leonard si staccò dallo stipite e si avvicinò a pugni serrati. «Sì! Sì c-che mi i-i-impegno!»

«Allora smettila di fare così e fallo.»

«No-non c-ci ri-riesco, io... i-io...» Prese fiato. Una, due, tre volte. A ogni tentativo di portare a termine una frase sembrava gli costasse una considerevole quantità di ossigeno, e di pazienza. Poi, però, la durezza da un volto simile a Gregg si ammorbidì, e venne sostituito da qualcosa che cosparse i lineamenti infantili, quel nasino a patata e gli occhi troppo grandi, da una tenerezza e sconforto che mi strinse il cuore. «Io vo-vorrei solo e-es-essere c-come te.»

Cindy parve colpita, parve addirittura arrossire sotto quella scorza rigida. Io, invece, ero rimasta inginocchiata a terra, impalata ad assistere a quello scambio di confessioni, un confronto che, ne ero certa, presto o tardi dovevano fare. Così, senza alzarmi, strisciai con la punta delle ginocchia finché non arrivai in mezzo a loro, rimasti a un braccio di distanza; afferrai il polso dell'una e quello dell'altro e cercai di congiungere le loro mani, affinché se le stringessero.

«Venirvi incontro, come per la trappola cinese» spiegai, avvicinando ancora di più quelle mani che non volevano toccarsi ma che in qualche modo riuscii farglielo fare. «E voi l'avete appena fatto: avete dialogato. Tu, Cindy, l'hai lasciato spiegare. Tu, Leonard, hai detto quello che pensavi senza mai fermarti. Vi siete ascoltati, e vi siete confrontati, come due fratelli. Bravi.» Sorrisi, ma loro no, sebbene ora si stessero stringendo la mano; Cindy non lo guardava, Leonard non guardava lei. «E visto che mantengo le promesse: avete diritto a farmi una domanda. Ma sceglietela bene, eh, ve ne concedo solo una» aggiunsi, per smorzare la tensione.

Cindy si illuminò subito, rompendo il legame.

È stato bello finché è durato.

«Posso fartela io? Posso? Ti prego! Voglio sapere se...!» partì in quarta, inginocchiandosi davanti a me, gli occhi che splendevano.

«Mi spiace, visto che oggi parliamo di fiducia e condivisione, dovrete decidere la domanda insieme. Non accetto comportamenti da lupo solitario. Siete in due, ricordatevelo, non in un uno

Assottigliò gli occhi, come un serpente pronto ad attaccare.

Mi puntò l'indice contro. «Prometti che dirai la verità?»

«Nient'altro che la verità.»

«Lo giuri?»

«Giuro.»

«Perché se no...»

«... dirai a zio Des che mi metto le dita nel naso.»

Leonard ridacchiò in un angolino. Fece ridere anche me.

Cindy si issò in piedi all'istante e ghermì suo fratello dal polso, trascinandoselo in fondo al corridoio, dove mensole per statuine e dei vasi di ceramica ornavano il mobilio presente. Si fermarono in un angolo a complottare a bassa voce, rifilandomi occhiate diffidenti.

Più passava il tempo, più si faceva largo in me uno strano presagio, che non si estinse nemmeno quando ebbero terminato di consultarsi. Mi raggiunsero in men che non si dica; Cindy con le mani dietro la schiena, l'aria da cui traspariva una furbizia capace di mettermi i brividi. Leonard, dietro, per quanto risultasse il più calmo, era evidente che non vedesse l'ora di stare a sentire la risposta.

«Ok, sono pronta!» dissi, posando le mani sulle cosce.

La sorella si avvicinò al mio orecchio.

Attese un secondo, e poi: «Qual è il tuo segreto?»
















Qualcun altro, al mio posto, se la sarebbe cavata con la via dei furfanti, la via che non conosceva l'impegno: la menzogna.

Mentire a un bambino era facile.

Potevo sfuggire alla domanda sorvolando, affermando di allevare un ipotetico piccione di nome Alfred, e sarebbe andato tutto bene. Ma una parte di me, quella che si sentiva tutt'ora legata al mondo dell'infanzia e dei bambini, me lo impediva, non se la sentiva. Anche io ero stata una bambina, dopotutto. Tutti lo eravamo stati. Probabilmente anche i miei genitori, quando mi avevano adottata, mi avevano mentito a proposito di sottigliezze inutili. Il problema era quando crescevi, e le sottigliezze si trasformavano in grossezze.

Anche mentire a un adulto è facile, e l'ho visto.

Quindi, se la mia permanenza in quella casa doveva durare, era necessario che fra me e i piccoli Holmberg si instaurasse un rapporto di fiducia reciproca; fra me e loro, fra loro e me, e fra di loro. Inoltre, stavamo trattando di condivisione, fedeltà. Tutto ciò sarebbe risultato insensato se, per una volta, non mi fossi sbottonata anch'io.

E poi non è che sia un segreto così eccezionale...

Ma per me lo era: tutto ciò che nascondevano le mie corde vocali lo custodivano gelosamente in uno scrigno sottochiave, nella laringe.

«Nastri rossi?» domandò Cindy, rannicchiata a terra, come me e Leonard. «Perché hai dei nastri in borsa? Ti leghi i capelli così?»

«Non sono nastri, sono due bende» mormorai, lisciandone il tessuto coi pollici, un movimento ondulato, delicato. Non me ne ero mai separata, da quando ero piccola. «Fanno parte della risposta.»

«Il tuo segreto è nascondere le bende?» Ridacchiò, tappandosi subito dopo la bocca. «Giochi a mosca cieca? Ma non è un segreto!»

Leonard, curioso, ne sfiorò una. «Pe-perché r-rosso?»

«Beh...» Mi schiarii la voce. «Il rosso è un bel colore. È il colore della forza, di chi combatte fino alla fine senza mai arrendersi, è il colore della vita, è il colore dell'amore, è il colore di...» La mente vagò, deglutii, strinsi la benda. «È il colore di tante cose a cui tengo.»

«Vabbè» borbottò Cindy, infilando un ciuffo scappato dal codino dietro l'orecchio. Portava un orecchino a forma di girasole. «Allora? Qual è il segreto? Guarda che me ne accorgo se ci dici una bugia.»

Da quando avevo afferrato l'idea di farlo, di provarci, che se l'avessi fatto una volta sola – una soltanto, lo giuro – non sarebbe accaduto nulla di male, le mie mani avevano iniziato a tremare. Anche adesso, con quelle flessuose strisce a lambirmi le mani, quasi avessi del sangue costruito a colare, un dissanguamento ingannevole.

«Io...» Inghiotti un grumo di saliva, paure e ricordi, attorcigliando un lembo del tessuto attorno al dito, soffermandomi sul punto in cui la pelle era stata avvitata. «Tempo fa, tanto tempo fa, io cantavo.»

«Oh» emise Leonard, sinceramente stupito.

«Ah» concluse Cindy, scontenta. «Tutto qui?»

«Già.» Annuii, stringendo più forte la benda. «È tutto qui, sì.»

«Mh...» Cindy non era ancora convinta. «Allora canta qualcosa.»

«È quello che avevo intenzione di fare, ma... vedi, a me fa paura. La mia stessa voce mi spaventa, non mi fido di lei.» Non mi fido di nessuno, in realtà. "Ti hanno mentito su una cosa che ti stava a cuore, Ophelia". «E penso non ci sia cosa più brutta: litigare con la propria voce, romperci i ponti, cancellarci un'amicizia che eri sicura ti saresti portata dietro per sempre, fino a quando non saresti morta.»

Leonard mi guardò meravigliato, dispiaciuto... strano.

Forse anche tu ti senti così, vero? Inferiore a te stesso, incapace, estraneo a un mondo in cui le corde vocali non hanno alcun genere di disfunzione. E ti guardi, ti ascolti, e cosa vedi? Un involucro che contiene l'eco di ciò che è la tua vera voce. E ti fa arrabbiare, e stringi i pugni, i denti, e piangi, e ci pensi, e ti disperi, perché non sai come gestire qualcosa che ti appartiene sin da quando sei nato, perché non lo trovi giusto, perché prima tutto funzionava così bene e poi, all'improvviso, ha cominciato a funzionare così male. E fa male.

Io lo so, Leonard, io sento quanto ti fa male.

«Pe-perché hai li-l-litigato con la t-tua vo-voce?»

«Perché forse... non l'ho mai capita, o forse lei non ha mai capito me. E quindi abbiamo basato l'amicizia su qualcosa che non esiste.»

Cindy storse le labbra verso sinistra, in una buffa smorfia di riflessione. «Beh, quindi cosa fai? Canti o no? Io voglio le prove.»

Bastava che uscisse il termine "cantare" per attivare un moto di nervosismo che equivaleva a una scossa di assestamento per l'organismo; il sudore si innescava lungo i palmi, la gola che inaridiva come fosse esposta a un sole cocente, il cuore che non mi permetteva di respirare, di dialogare con i pensieri, tranquillizzarli.

«Posso tentare solo se mi promettete che non direte nulla a vostro zio, o a vostro padre. A chiunque. Va bene? Posso fidarmi di voi?»

Annuirono in sincronia, un largo sorriso che si espandeva sui loro volti. Lei scattò in piedi, eccitata all'idea di assistere a quella prova di coraggio, di fiducia, a quella specie di... segreto? Leonard seguì a ruota la sorella, una luce di aspettative gli illuminò uno sguardo che ero tanto abituata a scorgere cupo, lontano da tutti, guardingo.

«Aspettate, prima...» Le mie paure frenarono l'entusiasmo dei due, che si immobilizzarono. Aprii la bocca, mi guardai intorno, il tremore delle mani che non si placava. Pessima idea, Ophelia, davvero una pessima idea. «Ok, momento, aspettate qui. Arrivo.»

Corsi a una velocità impressionante al piano di sotto, lasciandomi dietro lo sguardo sconcertato dei bambini. Probabilmente pensavano fossi pazza. Ma non ci diedi peso; controllai ogni stanza a cui avevo l'accesso, ogni angolo raffinato in cui aleggiava l'aroma che fluiva da un profumatore per ambienti, verificai e ispezionai, col cuore che palpitava in gola. Mi sentivo così ridicola ad accertarmi lo stesso che in quella villa non ci fosse nessun altro tranne noi, quando era ovvio.

Una piccola, irrazionale parte di me, però, quella progettata per tenermi in guardia dai potenziali pericoli del mondo esterno, preferiva che le incertezze non esistessero, specie se dovevo mettere in atto qualcosa che consideravo... vergognoso. Nessuno doveva sentire. Nessuno. Solo Cindy e Leonard. Loro, che erano bambini, e che avrebbero preso quanto avevo intenzione di fare come un gioco. Loro, che essendo bambini, potevano confermare la mia idea, senza che io me la prendessi, senza nasconderlo, senza mentire per anni.

Tornai nella cameretta, col fiatone.

«Cindy.» Non mi diedi neanche il tempo di respirare, tanta era l'urgenza di sapere, di fare il calcolo mentale. «Dimmi una cosa.»

Reclinò la testa di lato. «Cosa?»

«A che ora finisce di lavorare tuo zio? Tu lo sai, vero?»

«Ahhh...» Sollevò le sopracciglia, ci pensò su. Poi, come se nulla fosse, nascose le mani dietro la schiena e fece spallucce. «Boh.»

«Boh?»

«Alle cinque e mezza.»

«Fantastico! Quindi tornerebbe fra...»

«O forse le sei.»

«Eh?»

«Magari sta arrivando.»

«Cindy...»

«O magari non tornerà mai più.»

«Aspetta.»

«Forse è morto!»

«Cindy!» L'afferrai dalle spalle, Leonard rise. «È importante.»

«Beh, non lo so.» Ma mostrò un sorriso furbo, a denti scoperti.

Mi allontanai, incrociando le braccia al petto e, dallo sconforto, sospirai. «Immagino che ti abbia chiesto di non rivelarmelo, vero?»

«Perché i ladri non lo sanno quando torna a casa il padrone.»

Teoricamente il padrone è Gregg, ma comunque...

«Però, ehi! Non sono una ladra!»

«Ah-ha! Zio Des sapeva che l'avresti detto.»

Rise lei, rise Leonard, io no; rimasi a bocca aperta. In parte, la colpa era stata della poca importanza che, nei giorni precedenti, avevo dato all'orario in cui il signor Holmberg rincasava, dandomi il cambio. Non sempre rispettava lo stesso orario, dopotutto, a volte tornava prima, altre dopo. Insomma, non era conforme a un orario ben preciso, quasi lo facesse di proposito a confondermi le idee.

Casomai sperasse di beccarmi a rubare, suppongo.

Roteai gli occhi al solo pensiero che fosse così.

Poi afferrai il telefono dalla tasca. Lo squadrai. Non erano neanche le cinque del pomeriggio. Ma sì, Ophelia, due minuti. Smettila di pensarci troppo, smettila di sudare, smettila di dannarti, smettila di tremare, è da tempo che desideri riprovarci. Giusto per qualche secondo, giusto per tastare un terreno che adesso vedi come un campo minato. Strinsi il cellulare, guardai i bambini. Per qualche secondo, Ophelia, veloce, come quando al mare infili in acqua solo i piedi, per vedere se è ancora troppo fredda per fare il bagno.

Con una valanga di incertezze a farmi tentennare – mossa stupida, non farlo, menti, che sei ancora in tempo – mi avvicinai ai ragazzi, le bende in pugno. Mi posizionai dietro Leonard e, delicatamente, avvolsi il tessuto intorno al suo capo, occultando l'area degli occhi. «La mia mamma, tanti anni fa, aveva fatto fare un gioco a me e a mia sorella maggiore. Lei è un'insegnante di canto, sapete? Ha una voce bellissima.» Strinsi il nodo tra la cascata di riccioli bruni di Leonard, la sua bocca schiusa di meraviglia. Passai a Cindy, che fremeva. «Ci aveva bendate, come sto facendo con voi, e ci aveva detto: "Prendetevi per mano, guidatevi, fidatevi, difendete l'altra dagli ostacoli." E così avevamo fatto: lei cantava, camminava per le stanze, e noi cercavamo di seguire la sua voce, bendate ma insieme

Era un ricordo che custodivo ancora; la pioggia che ticchettava sulle finestre, un pupazzo a forma di carota sottobraccio, le labbra sporche di cioccolato, la mia mano che teneva stretta quella di Olivia.

Il calore, anche se fuori c'era freddo, la condivisione, la fiducia.

Vorrei poterli rivivere anche adesso, vorrei non sentire il freddo che mi serra le ossa ogni volta che rincaso, ogni volta che ti guardo.

Il polpastrello tremolò non appena avviò sul telefono il sottofondo musicale di un brano di Hozier, che trovai perfetto per rispettare i tempi del ritmo, i suoi silenzi. Fuori, intanto, il tempo si era ingrigito. Divampò un pigro boato, contrassegnando l'arrivo della pioggia.

Dentro di me trassi un respiro profondo, da cui attinsi un coraggio che mi mancava, tassello che in altre circostanze non avrei mai rischiato di raccogliere e incastrare dove avrebbe dovuto essere. Mi dissi che erano solo dei bambini, mi dissi che non potevano vedermi, mi dissi che ero da sola, che non c'era nessuno. Quindi, con un lieve cenno di assenso rivolto a me stessa, sollevai il polso e schioccai le dita, accompagnando il ritmo, come avevamo fatto poco prima.

Mentalmente bussai alla gola, chiesi il permesso di pescare un po' – soltanto un po', promesso, soltanto per qualche secondo – di voce. E schioccai le dita, a occhi chiusi, assaporando l'inizio del brano.

Uno.

Va tutto bene.

Due.

Va tutto bene, Ophelia.

Tre.

«Boys workin' on empty,

Is that the kinda way to face the burning heat?»

Risultò poco più di un sussurro.

Sembrò un lamento, mi sentii patetica, mi sforzai di proseguire.

Cindy, di sua iniziativa, allungò la sua mano verso destra, in direzione del fratello, arrancando sul braccio. Scese, finché non arrivò al polso e poi sulle dita aperte, che attendevano di aggrapparsi.

Si tennero per mano. In due, non in uno. Sorrisi mentre, pian piano, indietreggiai oltre la soglia che affacciava sul corridoio. Si mossero di conseguenza, probabilmente avvertendo la mia voce allontanarsi. Un passo, e un altro, verso l'origine del richiamo.

Quando scendemmo le scale gli rimasi accanto come fossi il loro angelo custode; Cindy si aggrappava al corrimano di legno, Leonard rimaneva avvinghiata a lei, e io, dietro, mi concessi di rimanergli vicina per poterli tenere in equilibrio dalle spalle, gradino dopo gradino. Una volta giù, tornai a essere un punto inafferrabile.

«ʻCause my baby's sweet as can be

She's give me toothaches just from kissin' me

Non ero sicura di niente. Le mani erano guanti di sudore, i muscoli grondavano di tensione, gli occhi erano sensori in continua allerta, e il cuore, piccolo muscolo delle mie più profonde preoccupazioni, correva troppo veloce, non rispettava il brano, non rispettava me e il mio respiro. Mi resi conto, non senza una punta di rammarico, che non potevo pretendere alcun tipo di egemonia, nemmeno in una posizione in cui ero io, a decidere. Come cantare, come respirare, come sentirmi. Invece no; la voce grattava, era timida e impaurita ed esposta, si sentì nuda, come nudo si sentì il cuore, e dalla paura non faceva che battere spedito. Veloce, veloce, veloce, impedendomi un'interpretazione decente, un tono delicato.

Non potevo decidere. Perché era passato troppo tempo.

E la fiducia che avevo instaurato con loro – voce, cuore, respiro – aveva fatto un passo indietro. Me lo merito, avete ragione, vi sto chiamando in un momento che avrei potuto evitare, ma capitemi.

Non ero neanche sicura di essere io, a cantare.

Sembrava, piuttosto, che la voce appartenesse a un'altra Ophelia, e io stessi cantando in playback. Da quanto tempo è che non apro questa gabbia canora? Da quanto tempo non concedo al canto un attimo di libertà? E ora che ne avevo l'opportunità, pareva che le parole non si fidassero a oltrepassare le sbarre, come se fossero intimorite dalle condizioni pietose in cui si era ridotta la gabbia; tutto arrugginito, trascurato, tutto rotto e mai aggiustato. Da quanto tempo l'usignolo, il nucleo di questo complesso di note melodiche, piangeva le sue piccole ali spezzate per gli anni trascorsi a non doverle utilizzare? Da quanto tempo ignoravo il suo dolore e repressione?

«When my time comes around

Lay me gently in the cold dark earth

No grave can hold my body down

I'll crawl home to her

Circumnavigammo l'isola della cucina, tra tavoli e mobilio, diventammo la più stravagante delle navi nel più bizzarro degli oceani; eravamo nave senza equipaggio, munita di due capitani non vedenti, e la mia voce era la corrente a cui loro si stavano affidando, il timone che li avrebbe condotti alla terraferma, un traguardo che avrebbero raggiunto solo rimanendo insieme. Fidandosi fra loro, fidandosi di me. E io, per testare il loro grado di fiducia, inserivo nel mezzo del loro percorso degli ostacoli, sedie come scogli. Cindy era la prima ad avvertire il pericolo che rischiava di farli dirottare, così tastava con la mano libera ciò che si frapponeva nel suo cammino, per poi tirarsi a sé Leonard, inducendolo silenziosamente a seguirla.

Improvvisamente non c'erano più gli Holmberg.

Ma io e Olivia, in quel lontano pomeriggio piovoso.

Il sorriso si estinse, come il sole che splendeva fino a poco prima, e la voce capì, inzuppandosi in una fonte di tristezza. Di conseguenza, il brano piovve dalla mia bocca in una versione più malinconica. Le vedevo, proprio lì davanti: due figure, una bassina e l'altra più alta. Al posto di Leonard c'ero io, nel buio di quella cecità provvisoria e un sorriso divertito sulle labbra, che stringevo la mano di Olivia, l'ancora che mi avrebbe sempre garantito certezze.

Io mi fidavo di lei, e lei di... me.

Ti fidi di me? O la mia incapacità di stare al mondo ti sta facendo allontanare? Non ti sto perdendo, vero? Dimmi di no, Liv, dimmi che siamo ancora in due, come diceva mamma.

Abbassai le palpebre, la voce sempre più fievole e stanca, in dirittura d'arrivo, e mi inginocchiai a terra, in punto lontano dai bambini. Attesi che mi raggiungessero, decidendo di rimanere a occhi serrati, l'espressione distorta da una mesta concentrazione. Non vedere, d'altronde, evitare la realtà dell'oggi, mi permetteva di non pensare al prima, all'infanzia, a quello spiraglio dai toni caldi. E pensare al prima era un'assidua e crudele coltellata al presente, ai ricordi che conservavo nel cuore, perché ora avvertivo tutto così... diverso. Persino la canzone comprese, e la sua interpretazione, di strofa in strofa, divenne più amara, un'ondata di dispiacere in quell'oceano irreale. Con o senza benda, avrei sempre perso la rotta.

Sperai di ritrovarla presto.

Udii un debole ridacchiare, dei passetti incerti, di sbuffi, io, però, mantenni gli occhi chiusi. Capii che Cindy e Leonard erano ormai vicini. All'improvviso, a decretare la fine della prova, ci fu uno sfioramento delicato e giocoso che strisciò sul mio viso, come veli di seta, polpastrelli che strofinavano la guancia, il naso, la fronte. Tracciarono una mappa sui miei lineamenti, cercarono e non scovarono forzieri. Nonostante il senso di tristezza che mi aveva avvolta, non potei non sorridere orgogliosa mentre aprivo lentamente gli occhi. Vicini, mano nella mano, con quelle libere sul mio volto.

Alla fine, un tesoro l'avete trovato eccome.

Quindi, abbassai la benda prima all'uno, poi all'altra.

Una fiducia condivisa, esclusivamente fra voi e noi tre.

Osservai Cindy, a bocca aperta, e Leonard, a bocca anch'egli spalancata. Alzarono lo sguardo oltre il mio capo. «Cosa?» chiesi.

La musica terminò, loro chiusero le labbra, insieme.

«Ragazzi?»

Si tapparono la bocca con le mani, di nuovo in sincronia.

«Ma cosa state...?»

Ancora in ginocchio, mi voltai indietro.

Guardai. Cercai. Capii. E morii.

«Non faccia caso a me, signorina Burns, continui pure. Sto solo aggiornando il suo curriculum.» Il signor Holmberg si era materializzato sul divano, il tallone appoggiato sul ginocchio, com'era solito sistemarsi, in mano reggeva un blocco per gli appunti e una biro, le sopracciglia folte abbassate. «Glielo annoto qui, così almeno sa come modificare l'area delle competenze diversamente lavorative. Canto? Abilità canore? Oppure è... Si sente bene?»

No.

Non è vero.

Scattai in piedi in una maniera tanto brusca da percepire i muscoli subire uno strappo. Non respiravo. Non respiro. Il cuore stava sventrando la gabbia toracica a forza di battere così veloce. L'eco dei palpiti sbattè violenta, imbottiva le vene, la gola, le orecchie.

«Non... Signor Holmberg.» Non è vero niente di tutto ciò che ha sentito, non rida, non aggiorni il mio curriculum, non faccia dell'ironia, non menzioni quella parola che inizia per C. «Non... Non ero io. Non stavo... Io non canto. Non... Mi creda che... Io...»

Sta per venirmi un attacco di panico, lo sento, sta arrivando, sta...

Qualcosa avvolse la mia mano sudata. «Era il suo telefono, zio Des. Era una canzone. Lei faceva finta.» Cindy. Cindy aveva parlato. Cindy mi sta coprendo? Leonard annuì vigorosamente, sistemandosi gli occhiali e aggiunse: «Non e-e-era la ba-ba-babysitter».

Unii le labbra, chiusi gli occhi, mi venne da piangere.

Respira, Ophelia, respira. Se non respiri, non pensi.

Deglutii, ma non ci riuscii. Respirai, ma avevo le vie respiratorie ostruite dal magone. Starmene a occhi chiusi fu ancor peggio, perché emergevano spietati l'incubo che mi ritraeva cadere in un dirupo di sguardi, e gli scenari, quegli scenari, che per tempo avevo faticato a respingere dalla mente. Devo andarmene. «Non cantavo. Non... non so cantare. Mi creda, mi...»

Dalla voce traspariva un'immane voglia di morire.

Lo sentirà anche lui, non mi crederà mai.

Aprendo gli occhi, focalizzai l'attenzione sui bambini che mi affiancavano. Annuivano, confermavano le mie parole. Non guardai mai lui. Se l'avessi fatto, avrei nuovamente avuto quelle certezze. Non le volevo. Mi erano bastate quelle ricevute anni prima.

Cindy mi strinse la mano, di più.

Leonard fece lo stesso, ma nell'altra.

Da quanto tempo è qui? È presto, era presto. Nemmeno le cinque. In una casa editrice non si finisce più tardi, forse? Magari è arrivato pochi secondi fa, forse non mi ha nemmeno vista cantare, forse...

«Scusate, errore mio. Credevo fosse lei.» Chiuse il taccuino e lo appoggiò nel pasto accanto a sé. Mentre era distratto mi concessi di guardarlo, mantenendo il capo chino, e di controllare che non ci fossero tracce di derisione. Non vidi nulla: solo una maschera di indifferenza, la sua, anche se non mi spiegai il lieve piegamento agli angoli degli occhi. Dava l'idea che stesse reprimendo qualcosa di molto simile a un sorriso. Un sorriso negli occhi. No, è scherno, lo sta nascondendo. Scomparve non appena sollevò lo sguardo. Non mi diede il tempo di scappare. Mi intrappolò. È sempre così veloce. «Sono arrivato poco fa, ero al telefono, non ci ho badato. Ma in effetti era una voce troppo bella per essere la sua» aggiunse piatto.

Tutte bugie, tutte balle, tutte stronzate.

Smettetela di mentirmi come se fossi una bambina.

«Leonard, vatti a lavare i denti, che dobbiamo andare dal dentista» disse, liquidando la conversazione come se nulla fosse. Intanto si alzò, tirando fuori dalla tasca il foglio con la ricevuta di pagamento.

Leonard sbiancò, porgendomi la benda. «D-di già?»

«Dai, tranquillo. Te li controllerà e basta.»

Se ne andò, e no, era tutt'altro che tranquillo.

Come me; mi ero incantata a fissare le bende tra le mani.

«Io non ho voglia di venire con voi» ribatté Cindy, sbuffando. «Mi annoio ad aspettare. Non hanno nemmeno dei fogli da colorare.»

Il signor Holmberg sfilò anche i soldi, e intanto che contava, rispose: «E visto che già immaginavo questa risposta, rimarrai qui.»

«Con la babysitter?» si illuminò.

«No, la babysitter la lasciamo andare a casa, che non ha una bella cera.» Automaticamente, come per accertarmene, mi tastai il volto. Sentii le guance sudate, accalorate. Dovevo essere rossa. «Rimarrai con qualcun altro, una persona che muori dalla voglia di vedere.»

Il sorriso di Cindy crollò, come un castello di carte. «No...»

«Oh sì.» Non lo guardai in faccia nemmeno una volta. «La cara, malefica zietta

«Nooo» urlò, e continuò anche quando corse su per le scale.

Rimanemmo in due. Avevo dimenticato come si deglutisse, come si proferisse parola senza dare l'impressione di voler scappare e morire al contempo. Il signor Holmberg, tuttavia, era di tutt'altro avviso; sebbene avesse scorto il mio malessere, non accennò a pagarmi e andarsene. Mi si avvicinò molto tranquillamente, le banconote arrotolate nel palmo della sua mano. Si fermò a un passo da me. Lento, lo fa di proposito. Vuole vedere bene il mio disagio? Vuole deridermi così? Guardando quanta vergogna stia trattenendo?

«La spavento?»

Il cuore ebbe un sussulto.

Aprii bocca, non uscì nulla. Negai. Fissai le banconote. Mi paghi, si sbrighi, mi lasci andare, non lo vede che voglio scappare via? Non lo vede che vorrei solo morire, in questo momento?

«No? Eppure dà questa impressione. Però non la biasimo, mi sarei spaventato anch'io. Voglio dire, prima non c'ero e poi, puff, eccomi qui. Ma il fatto è che ho una cattiva abitudine: sono estremamente silenzioso.» Avvicinò il palmo, le mie dita toccarono la carta delle banconote, assaporarono il pensiero che presto sarebbe tutto finito. Stetti per prenderle e infilarle in tasca, ma improvvisamente non me lo permise, stringendole in una morsa decisa. Con la mano stretta alla sua, alzai lo sguardo. Mi venne spontaneo. «E ne ho un'altra ancora più brutta: divento silenzioso, quando ritengo sia il caso.»

«Ha...» Deglutii, fissai il mento. «E ha ritenuto fosse il caso?»

«Per curiosità. Altra cattiva abitudine. Sono un pessimo esempio in fatto di abitudini. E quello che ha fatto prima, vero o falso che fosse...» Mollò la presa, lasciando che afferrassi il denaro. «... lo faccia più spesso. È rarissimo vederli così vicini, mano nella mano

Il campanello trillò, lui mi superò di corsa, io mi trovai in uno stato di alienante dissociazione dalla realtà. Lo faccia più spesso.

«Sono stufa marcia. Stufa. Marcia

«Ci risiamo?»

«Se ne sorprendo un altro, te lo giuro, io ti giuro che gli prendo quella macchina fotografica e gliela ficco su per il culo, col flash.»

«Ci risiamo, sì.»

Infilai i soldi e la ricevuta in tasca. Non mi ero ancora ripresa, ma ancor prima di sbrigarmi a salire al piano di sopra e prendere la borsa, il tragitto venne bloccato dall'entrata in scena di quella che supposi essere la zia dei bambini, se non avevo capito male dallo scambio avvenuto con Cindy. Avrei preferito non fermarmi a dei convenevoli che mi avrebbero obbligata a rimanere, quando volevo soltanto essere risucchiata dalla terra stessa, seppellendomici.

Eppure, qualcosa mi frenò in mezzo alla sala.

Non tanto la valanga di imprecazioni che uscivano dalla bocca della donna come missili aerospaziali, ma la bellezza, una di quelle magnetiche, dove una carnagione bronzea e una solennità che le ricamava un'aura intimidatoria metteva a dura prova quella di mia sorella.

Era alta quasi quanto il fidanzato, in parte grazie all'aiuto dei tacchi che contribuivano a elevarla ancora di più, e un paio di occhiali da sole dall'aria costosa le adombrava l'espressione adirata. Le asticelle venivano nascoste da un fiume di capelli carbone che fluiva oltre il seno, creando una morbida onda proprio in quel punto.

Avanzò a passo svelto, ora gesticolando, senza mai barcollare sui trampoli che indossava, ora alzandosi gli occhiali sul capo, ora sviando un bacio che stava per stamparle Desmond, troppo presa a sfogarsi. Lui incassò il rifiuto mordendosi la guancia, gli occhi al cielo. Era un intruglio di nervi a fior di pelle che non guastavano l'eleganza. E i tacchi, in tutto ciò, scandivano la stessa furia con cui riversava parole indelicate nei confronti di questo o quel paparazzo.

Dietro di lei, pacato come al solito, il signor Holmberg la seguiva con le mani nelle tasche, annuendo di tanto in tanto, a occhi chiusi.

Come se ci fosse abituato.

«Dovresti cominciare a ignorarli» le suggerì.

«Secondo te non lo faccio? Quelli sfidano la mia pazienza, Des. Mettiti nei...» Le labbra di Desmond intanto, sempre a occhi chiusi, mimavano il seguito: "... miei panni ogni tanto, non capisci quanto sia frustrante essere monitorata, non capisci questo e quest'altro, non capisci che...". E la fidanzata che continuava: «... non posso mai stare tranquilla quando esco, che quelle zanzare non vedono l'ora di inquadrare frammenti della mia vita che nemmeno esistono. Vuoi sapere l'ultima che ha sfornato Life & Style? Avrei una tresca col mio migliore amico, perché ci hanno visti prendere un caffè insieme. Ah! Oh mio Dio! Un caffè ha convertito Justin in etero!»

«Latisha.»

«Sono al limite.»

«Latisha.»

«Che c'è.»

«Stai traumatizzando la babysitter.»

Solo allora mi notò, voltando il capo.

Latisha. La sorella maggiore di Gwenda. Era la prima volta che la vedevo di persona. Quindi è lei. Nonostante l'amicizia con Gwenda si fosse prolungata per alcuni anni, prima del punto di rottura coi restanti del gruppo avevo sempre e solo udito quel nome dalla sua bocca. Non avevo mai frequentato casa sua, pensandoci. Solitamente quando mi vedevo con gli altri era sempre o a casa dei gemelli, o a casa mia. Tuttavia, il pensiero che affiorò più violento fu un altro.

Era anche la collega di mia sorella.

«Oh, scusami, ragazza.» Giunse le mani, si sistemò una ciocca, il volto tornò a cospargersi di una delicatezza inenarrabile. «Diamine, quando mi arrabbio non bado mai a chi mi circonda.»

Mi riscossi, scuotendo le mani protese in avanti. «No no! Cioè, non hai nulla di cui dispiacerti... Io stavo andando di sopra, per oggi ho finito.» Dio, è la versione più adulta e senza piercing di sua sorella. «È che... conosco Gwenda, è incredibile quanto siate identiche.»

Sollevò appena le sopracciglia. «Aspetta, la conosci?»

«Eravamo amiche.»

«Amiche.» Assottigliò le palpebre, le ciglia talmente lunghe da sembrare finte. «Mi ricordi il tuo nome? Ho la memoria corta.»

«Burns. Ophelia.» Umettai le labbra. «Ma non è importante, è...»

«Burns» masticò, guardando per aria. «Burns... Burns...»

Il signor Holmberg sgranò gli occhi e si batté il palmo sulla fronte. Le fu subito a fianco, sistemandole i capelli, massaggiandole le spalle, lei che ancora rifletteva sul mio cognome e lui che diceva: «No, che dici, hai capito male, ha sbagliato pronuncia, è straniera.»

«Burns.» Latisha lo ripeteva sorridendo, ridendo.

«Brown. Brown. Ha detto Brown.»

«Burns.» Si scrocchiò le nocche e mi guardò. «Tu.»

Mi indicai. «Io?»

Non capivo cosa stesse succedendo.

«Tu.» In un attimo si liberò dai tentativi di rilassamento che gli stava procurando Desmond per potersi avvicinare, minacciosa, l'indice puntato. «Tu sei la sorellina di quella piccola presuntuosa puttana che mi sta col fiato sul collo.» Il suo fidanzato l'afferrò dalle spalle, io indietreggiai, basita dai termini poco carini che sparava contro mia sorella. «Des, licenziala. Licenziala subito. È tutto un piano di quella stronza. È furba, te lo dico io. Se non è un caso che lavori proprio qui da Gregg, allora non so proprio cosa sia!»

«Adesso esageri.»

«Io non esagero. Io cerco di preservare la mia carriera.»

«Vedi di darti una calmata» l'ammonì, spingendola via dalle spalle mentre cercava di separarsi da lui, e riferì, stavolta diretto a me: «Dimentichi l'accaduto, sono mortificato. È libera di andare, ma le consiglio di muoversi. Morde. E abbiamo finito lo Xanax.»

«Vaffanculo!»

Me ne andai davvero, lasciandomi dietro il teatrino di lei che cercava di allontanarsi fra grugniti e insulti al suo fidanzato, e lui a cui veniva da ridere mentre la spingeva verso il divano.

Ero accaduto tutto così in fretta. Ed ero talmente frastornata che, per un fuggevole attimo, la questione del canto era passata in secondo piano. Ma bastò salire le scale per darmi il tempo di ripensarci, di tornare a scavarmi mentalmente la fossa della vergogna. Di sopra, recuperai la borsa, controllando di avere tutto.

Salutai Cindy e Leonard; la prima disegnava, l'altro temeva il dentista sul letto. Erano tornati separati, agli angoli della stanza.

Mi hanno difesa.

Sorrisi.

Imboccando il corridoio, udii un mormorio di voci dal piano di sotto. Sistemandomi i capelli davanti a uno specchio, fu più forte di me tendere l'orecchio e buttare l'occhio oltre il corrimano, da dove si riusciva comunque a scorgere uno spicchio della sala. Divano incluso. Dove si erano accomodati i due. Il signor Holmberg, rilassato sullo schienale, teneva un braccio disteso sul bracciolo e sulle gambe sosteneva Latisha, che a sua volta posava la schiena sul suo petto. Non aveva ancora riacquisito la calma. A parte il nervosismo che faceva a pugni coi lineamenti dolci, riuscii a intravedere altro, sebbene la lontananza. C'era anche fastidio.

O qualcosa di molto simile.

Non capii se per l'antipatia che provava nei confronti di mia sorella, o se per i gesti di Desmond. Gli riferiva parole all'orecchio, le labbra che giocavano col contorno. Eppure, piano, lei allontanava il viso dalla sua portata, facendola sembrare un'azione casuale. Oppure quando la mano di lui si aggrappava alla sua coscia, a cui infliggeva carezze circolari col pollice. Lei, puntualmente, trovava la scusa per accavallare le gambe e porre subito fine al contatto.

«Hai intenzione di fare l'incazzata ancora per molto?»

«Sì, perché non mi credi, pensi che sia pazza.»

«Non l'ho mai detto.»

«Lo dimostri.» Lei chiuse gli occhi, tracce di rammarico distorsero l'incurvatura delle sopracciglia. «È che sono stanca. Il lavoro mi mette costantemente sotto stress, e non devo mai mostrarlo appena sono sotto i riflettori. Non ho un attimo di respiro. Finisco una sfilata, che già ne ho un'altra, e i voli, e il jet lag, e le ore di trucco, l'agenzia, le foto, i paparazzi, la notorietà, la vita. Devo...» Sembrò impercettibile, ma a me arrivò: il fiato corto, la paura che si districava fra le lettere, lo sguardo vuoto dalla tristezza e pieno di qualcosa a cui non seppi dare un nome. «Devo stare attenta a ogni piccolo dettaglio alla mia vita privata. Giuro che... a volte mollerei tutto. Anche se sfilare è sempre stato il mio sogno, anche se non...»

«Latisha, ehi.» Le diede un fievole bacio sul collo, sussurrandole: «Parlami».

«Ti sto parlando.» Ma tenne la testa voltata in un'altra direzione.

«No, tu stai tergiversando.» Tentò di guardarla, ma lei si alzò, scappò, andando a recuperare il telefono dalla borsa. «Sono giorni che ti chiedo se c'è qualcosa che non va. Giorni, settimane. Ma tu...»

«Non ho niente, Desmond!» Alzò la voce, una stoccata perentoria che fece eco.

Si guardarono, per un lungo, infinito istante.

«Niente.» Si strofinò la mano sulla bocca, reprimendo un sorriso pregno di amarezza. «Quando avrai intenzione di smettere di fare la codarda, sai dove trovarmi per parlare di questo niente. Sempre che tu abbia voglia di venirmi a trovare. Ultimamente sembra ti faccia schifo persino condividere la mia stessa aria. Leonard

Si alzò, richiamando rabbiosamente il nipote. Gli scappò un colpo di tosse secca, poi uscì dal mio campo visivo. Rimase solo Latisha.

Latisha, e un alone di rimorso che la portò a mordersi il labbro.

In due, non in uno.

Non valeva solo per un rapporto fraterno. All'inizio mi avevano dato l'idea che seguissero la regola; avevo avvertito complicità, bisticci innocui misti a tenerezza. Anche mamma e papà erano così. Ma forse, per loro, era diverso. Se no non mi sarei mai spiegata Latisha che si girava per togliersi sbrigativamente una lacrima che le era sfuggita.

In due, non in uno.

Eppure, in quel rapporto a due, lei dava l'idea di essere da sola.











ANGOLO AUTRICE

Buonaseeera, nottambuli nightingales! 🕊️🖤

Sono tornata, sono viva, non sono morta and... vi ho fatto attendere perché, ahimè, è uscito un capitolo più lungo delle aspettative. Sebbene non abbia una valenza fondamentale, questo è un capitolo altrettanto importante: andiamo a scavare, come sempre, nell'infanzia di Ophelia, nella sua psiche, andiamo a costruire un legame fra lei e i bambini. 

La scena di lei con Leonard e CIndy bendati l'avevo in testa da tantissimo tempo, non avete idea. Penso sia l'unica scena che mi soddisfi nell'intero complesso. E se lo dico io, è già tanto. Spero che sia arrivato a voi, anche in minima parte. Ci tento tantissimo. 🕊️🖤

Dopodiché, AH! Desmond pare - oppure no? - aver sorpreso Ophelia sperimentare qualcosa che si era privata per anni: il canto. Come avrete intuito, e da quello che afferma tra le righe, il motivo per cui lo fa è semplicemente per farsi sentire più vicina a loro, per una questione di fiducia, poiché sa che in quella casa ci starà per molto, molto tempo. Oltretutto, ma questo è facilmente intuibile, lei si sente in qualche modo vicina al rapporto disarmonico fra i ragazzi.

Chissà perché. 👀

Infine, finalmente, incontriamo la bella, svampita fidanzata di Desmond: Latisha, sorella maggiore di una delle vecchie amicizie di Ophelia, ma anche rivale di Olivia.

I popcorn li avete? Bene, conservateveli per il prossimo capitolo, che io FREMO di scrivere. 💀





Questions:

▪️ Che ne pensate del concetto della condivisione? Siete persone che condividete o vi guardate bene dal farlo? Avete fratelli o siete figli unici? Secondo voi, Cindy e Leonard ce la faranno a rinsaldare (in minima parte) il loro rapporto? Secondo voi, quello fra Ophelia e Olivia è perso per sempre?

▪️ Ve l'aspettavate che Ophelia cantasse già qui? Vi aspettavate che i bambini non facessero gli spioni?

▪️ Impressioni su Latisha? Che cosa avete avvertito fra lei e Desmond? Teorie?

Noi ci vediamo al prossimo capitolo. Tremo. E voi? 

A presto! 🖤







Playlist:

Just The Two Of Us - Grover Washington (prima parte)

https://youtu.be/PJ0u5c9EF1E

Say It Ain't So - Weezer (seconda parte)

https://youtu.be/zo-x4PU8S6g

Work Song - Hozier (terza parte - quando inizia a cantare finché non finisce)

https://youtu.be/nH7bjV0Q_44

How You Like Me Now - The Heavy (terza parte - da quando viene sorpresa da Desmond in poi)

https://youtu.be/PgeluJltn8w

Instagram: The_blackcatshadow

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