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10. Trappola cinese


Trappola cinese
















Fa' che il tempo si fermi.

I trenta gradi che asfissiavano quel torrido martedì di luglio li sentivo a malapena, troppo occupata ad arrovellarmi dall'ansia. Non volevo nemmeno immaginare le ripercussioni che avrebbero potuto esserci se avessi ritardato anche di un solo minuto per il giorno di prova. Avevo evinto che il signor Holmberg non fosse un tipo clemente. Come minimo in quella casa non ci sarei neanche entrata.

Avrei dovuto dare il massimo sin da subito.

Sempre che il tempo si fermi per davvero.

Peccato che avessi fatto male i conti, e la rapida visita a Judy e a Rica, la senzatetto in dolce attesa, si era protratta troppo a lungo. E io mi ero dimenticata di controllare l'orario. Quindi, approdata a Mount Airy, quartiere adiacente a Chestnut Hill, mi ero ritrovata a cercare un parcheggio decente e che fosse situato vicino alla villetta, o che perlomeno non fosse a pagamento. Purtroppo la sfortuna era dalla mia, e la ricerca si era conclusa con un posteggio troppo distante.

E così mi ero messa a correre.

Correvo come non accadeva dai tempi delle corse campestri che si organizzavano annualmente al liceo. Era da dieci minuti che tenevo la bocca aperta, con l'aria a schiaffeggiarmi le gote, il sudore che mi imperlava la spina dorsale, i polmoni che si gonfiavano, bruciavano, chiedevano pietà, e l'affanno che grattava in gola come segatura.

Un pessimo spettacolo per i passanti.

O per i cani che urinavano a zampa all'aria.

Per la corsa, una bretella della borsa a zainetto scivolò da una spalla. La sistemai senza fermarmi, ma tempo niente che cadde anche l'altra. Sistemai pure quella, ma guardandomi i piedi, capii che i lacci di una scarpa da ginnastica si erano sciolti. Roteai gli occhi al cielo. Non avevo il tempo di fermarmi. Pregai qualche divinità che non mi facesse inciampare. O almeno, di assicurarmelo per un altro isolato.

Non mi ascoltarono, in parte.

All'angolo della via, che contrassegnava un largo incrocio sulla Chew Avenue, spuntò l'alta sagoma di un ragazzo. I miei riflessi non erano pronti per un'apparizione tanto istantanea. Dal nulla, poi.

Infatti, nonostante la buona volontà, non potei evitare l'urto.

Ci fu un disordine di rumori e imprecazioni; una lattina che ruzzolava via, "Cazzo, cazzo, cazzo", un sacchetto di plastica che si stropicciava in malo modo, "Merda, un'altra volta", bottiglie di vetro che si frantumavano, "Ma Dio", un pomodoro che se la svignava, una bestemmia che sfuggiva. Per un attimo, premendo la mano sul naso, neanche capii da chi era uscito quel fiume di parole.

Se da me o da lui.

«Oddio, scusa... scusa! Andavo di fretta, non ti ho visto!»

«Sì, vallo a dire a quella stronza di mia sorella, appena vede che torno senza le uova comincia a fare l'isterica. No, anzi.» Prolungò un verso di frustrazione mentre spostava i cocci di vetro da una pozza dorata, con la suola. Dedussi fossero i resti di una birra. «Senza le uova... e la sua preziosa Bud Light. Fantastico, mi preparo a un attacco di isterismo di secondo livello. Che palle, che palle

«Scusa, davvero, mi dispiace, mi dispiace tan–»

«E i miei auricolari? Dove sono? Pure gli auricolari? No, ma dai!» Tenevo ancora la mano premuta sul naso e lo sguardo basso, sulle sue scarpe bianche e nere. Stava facendo avanti e indietro, furiosamente, borbottando maledizioni. «Ora urlo, ora giuro che...»

Ero in attesa di un insulto, stavolta riferito a me.

Non accadde nulla. Piombò il silenzio. Una bicicletta ci sorpassò con uno scampanellio, poi una coppia di vecchiette, infine una donna coi rasta. Pian piano cercai di spostare l'attenzione dai cocci e dai resti di una spesa andata in malora al volto dello sfortunato.

Gradualmente, allargai gli occhi... quanto i suoi.

«Ophelia?»

Dovetti deglutire, prima di mormorare un tremolante: «Warren?»

Forse non lo sentì, tanto la mia voce era ridotta a uno spiffero, o forse era il rimbombo del cuore ad averla soppressa. Tuttavia, in quel silenzio stampa, non potei fare a meno di guardarlo, studiare il cambiamento di un volto che non vedevo da vicino da almeno due anni. O che, perlomeno, vedevo di sfuggita, per strada, senza che lui o sua sorella si accorgessero della mia presenza. Una pioggia di lentiggini cospargeva una pelle candida, più rosea sulle gote, quasi fosse neve all'alba, due occhi sottili tanto grigi da paragonarli a un vivace rannuvolamento, e un'ordinata capigliatura bionda, di una tonalità più chiara della mia, senza ciuffi ribelli. Amava il suo pettine, tanto quanto la sua immagine. In quello non sei cambiato.

Si portò la mano alla nuca, guardandosi intorno.

«Ehm, colpa mia, scusa.»

«No, è... stata colpa mia, scusami tu.»

«Mia, ascoltavo i Green Day.»

«Mia, stavo correndo.»

E poi ci chinammo a raccogliere il macello nello stesso momento, l'uno davanti all'altra. Fu un intreccio di mani che andavano qua e là, tintinnii di vetro, borbottii, lo scalpiccio dei passanti a fianco a noi. Poi solo tanti silenzi, di chi non sapeva più che cosa dire. Per fortuna, nel contesto in cui ci trovavamo, non fu difficile riempirli.

«Lascia, dai, faccio da solo.»

«Ma no, tanto ormai sono in ritardo.»

«Ah, e dove andavi di bello?»

«A fare la babysitter. Tu?»

«Non si vede? Vengo schiavizzato da mia sorella, sai che novità. Si approfitta della mia unica pausa per farmi rifornire il frigo del nostro tugurio. Ah sì, abbiamo affittato un appartamento da un po'.»

«Bello» commentai, tendendogli gli auricolari. «Ecco, trovati.»

«Oddio, grazie, grazie, grazie! Venite qui, tornate da papà, oh sì, quanto vi amo.» Li baciò ripetutamente come fossero di diamante. Poi, mettendosi in piedi, li ripose nella tasca dei pantaloni, con l'altra mano agguantò il sacchetto della spesa. «Trenta dollari per questi affari. Il paio che avevo prima costavano anche meno, e indovina? Finiti in una caditoia, durante un assolo di Slash, renditi conto. Non ho parlato a Fannie per una settimana. Ero talmente in lutto che...»

Lui mi guardò, stavolta per davvero, e capì la situazione attuale; quindi, stropicciandosi gli occhi, frenò la lingua, forse intuendo che stava dando sfogo a un attacco di logorrea con la persona sbagliata.

Mentre continuava a strofinarsi le palpebre, aggiunse con un tono più posato: «Mamma mi ha detto che sabato eri passata da noi».

Mi aggrappai alle bretelle della borsa forte, esageratamente forte, sperando che quel nauseante senso di vergogna lo conferissi tra delle cinghie di pelle nera. Se lo sa lui, vuol dire che lo sa anche...

Avvampai, fissando il sacchetto che gli ciondolava a pochi centimetri da terra. «Mi dispiace, non volevo sembrare quella che...»

«No, aspetta, con me sta' tranquilla.» Alzai lo sguardo, in un lampo di inaspettata sorpresa. Warren mi stava rivolgendo il palmo libero. «Cioè, mamma è stata cauta, e ne ha parlato solo con me. Sai anche tu che è Fannie quella più... mh... suscettibile, fra i due.»

«È per questo che avevo scelto un giorno in cui non c'eravate.» Mi morsi la guancia, a ripetizione, finché non mi decisi a dar voce a uno dei tanti pensieri che mi affastellava da mesi. «Lei è ancora...?»

«Diciamo che non dimentica» mi interruppe. «Difficile farlo.»

Me l'aspettai. «Chiaro... certo. Lo immaginavo.»

Volli chiudere l'argomento lì.

Warren, tuttavia, non aveva finito.

«Però non ti odia, nemmeno io... nessuno di noi.» Inclinò la testa, notai un orecchino brillare dove non ci riusciva quel volto magro e spensierato, trapuntato a metà tra la pietà e l'amarezza. «Ma se ti vedesse non so davvero come reagirebbe, o cosa ti direbbe. Sempre che abbia voglia di dirti qualcosa. Sai, quella è imprevedibile.»

Mi inumidii le labbra, le orecchie assaporarono il senso di quelle parole, l'udito lo masticò quasi avesse dei denti anziché dei timpani.

Non ti odia.

Nessuno di noi.

Era una bugia. Doveva esserlo. Warren poteva mentire. Come anche Fannie, Gwenda, Jay. In fondo, avevano mentito tutti loro. Non c'era altra spiegazione, e Olivia me l'aveva confermato.

Olivia.

Ripensai allo smalto rosso, alla bugia insensata.

Olivia, perché?

«Senti, io...» dissi, guardando oltre la sua spalla. «Devo andare.»

«Già, anch'io. E visto che non ho voglia di tornare al minimarket e spendere di tasca mia, dovrò occupare il tempo che mi separa da casa per pensare a qualche palla. Tipo che mi hanno investito ma che sono magicamente rimasto illeso. Tanto come minimo augurerà al conducente di fare retromarcia, per la prossima volta.»

Ammiravo la naturalezza nell'alleggerire la tensione. In parte, anche se il contesto non era dei migliori, mi fece sorridere. Di solito erano sempre lui e Jay a fare comunella per rianimare il gruppo.

«Però mi spiace... Per la spesa, intendo.»

«Nah, non è nulla.» Recuperò dall'asfalto la confezione dalle uova distrutte e il collo frantumato della bottiglia di birra, facendo attenzione a non tagliarsi. Poi gettò tutto in un cestino lì vicino. «E poi mi piace farla incazzare. Sai che soddisfazione quando le appare quella simpaticissima rughetta tra le sopracciglia. Una goduria.»

Sorrisi, tentennai, nessuno dei due seppe come salutarsi.

Warren increspò un sorriso tirato e, guardando qua e là, borbottò un impacciato "Vabbè, allora ciao", sorpassandomi di volata. Avrei dovuto andare anche io. Ero in ritardo. Se durante il colloquio avevo scorto un luccichio di speranza sull'aver fatto una buona impressione, adesso potevo pure star tranquilla che era tutto svanito.

Mi girai. Ci ripensai, mi dissi di no, basta, che non importava più nulla, che era stato un caso e probabilmente non l'avrei più rivisto.

Smisi di pensare.

«W-Warren!»

Si voltò. Aprii bocca giusto un attimo. Ma lui capì al volo. «Te l'ho detto: con me sta' pur tranquilla, non le dirò che ti ho vista.»

Chiusi gli occhi, annuendo dal sollievo. «Grazie» sussurrai.

«Non ringraziarmi. È che... un po' mi manchi. Un po' più del po', in realtà. E anche a lei, anche se ora pronunciare il tuo nome sembra diventato un tabù.» Dovetti pensare a qualcos'altro pur di far riscendere il magone. Vi manco? Davvero? O lo dici come asserzione di circostanza? Che tanto sai pure tu che non ci rivedremo più e tanto vale dire la prima cosa carina che ti passa per la testa, giusto per avere la coscienza limpida. «Ma finché le acque non si muovono, devo fingere di essere di parte di mia sorella. Sai, devo ricoprire lo stereotipo del fratello che segue la sua twin ovunque, se no si incazza, e la convivenza già è una rottura di palle.»

Annuii. Non lo dire. Strinsi le labbra. "Ti hanno mentito".

«Anche...» esalai incerta, e incapace, e con le voci in testa, e l'immagine di Olivia che mi indirizzava nel giusto, e io che sguazzavo nelle idee sbagliate, e lei che... «Anche voi mi mancate.»

Me ne pentii. Addentai la lingua, volli farla in mille pezzi.

Warren, d'altro canto, sorrise finché non gli spuntò una fossetta.

«Allora ti aspettiamo, usignolo. Ma non fare troppo tardi.»





Con l'ultimo vigoroso slancio di gamba mi scagliai a premere il campanello, a braccio teso. Come se fossero quei centesimi di secondo in meno a insabbiare i sette minuti di ritardo. E intanto che col fiatone tenevo schiacciato il pulsante, mi chinai finché i capelli non mi coprirono i lati del volto, l'altra mano che premeva il fianco.

Fa'... che non... sia... presente.

Persino i miei pensieri erano esausti.

Fa'... che ci... chiuda almeno un... occhio.

Staccai il polpastrello, spostando i palmi sulle ginocchia. Respirai dalle narici, buttai fuori dalla bocca. Così, per almeno un milione di volte. Tempo in cui avvertii oltre la porta uno sgambettare vivace.

«Chi è?» domandò una voce acuta, sicuramente Cindy.

Non mi ero ancora messa dritta, neanche ci provai.

«Oph... Ophelia...» mormorai.

«Non sento niente.»

«Oph... Ophelia!»

«Continuo a non sentire niente.»

«Ophelia!» gracchiai, a fiato mozzo.

«Troppo veloce. Non ho capito nulla.»

«O-p-h-e-l-i-a. Ophelia. Ophelia.»

«Ok.»

«Ok» ripetei anch'io, cercando di deglutire. «Ora mi fai entrare?»

«Zio Des ha detto che devo stare attenta, puoi essere un'estranea.»

Quella situazione aveva dell'assurdo. Io che parlavo con una porta chiusa. Io, in piena crisi esistenziale, che temevo di non fare nemmeno la prova che mi spettava, stavo trattando con una bambina di otto anni. Otto anni, quasi nove. Attraverso una porta chiusa.

«Non sono un'estranea, ci siamo già viste.»

«Eh, dicono tutti così.»

«Va bene, allora...» Mi tirai su, facendo un respiro profondo. «Mettimi pure alla prova. Chiedimi qualcosa su di te, interrogami.»

La sentii ridacchiare. «Come mi chiamo?»

«Cindy. Cindy Holmberg.»

«Vabbè, questa era facile, mi conoscono tutti.» Modesta, la bambina. «Mmh... mmh... di che colore sono i miei occhi?»

«Neri.»

«Invece sono castano scuro.»

«Beh, è una sfumatura simile!»

«Però è la risposta sbagliata.»

Sbattei la testa al muro. Lo colpii una, due, tre volte. Partiamo bene. Sul marciapiede scorsi una signora anziana con gli occhiali da sole e, accanto, quello che supposi essere il nipotino. Mi avevano vista; lei gli coprì gli occhi con la mano, inducendolo ad accelerare.

«Ok, allora facciamo così.» Mi riposizionai davanti alla porta, le mani ai fianchi, esprimendo in un sol respiro: «Ti chiami Cindy Holmberg, hai un fratello minore, si chiama Leonard, lui ha gli occhiali, balbetta e tu hai otto anni, quasi nove. Hai detto che ho dei "capelli bellissimi" e vorresti colorarti i tuoi, ma tuo zio ha detto che non vuole e, ah sì, a proposito di capelli: gli hai detto che era vecchio perché gli hai visto dei capelli bianchi, ma lui si è giustificato, che era il riflesso della luce, anche se la luce era spenta e fuori c'erano le nuvole.» Ripresi fiato per quella seconda maratona. «Ora mi credi?»

Attesi qualche secondo, speranzosa.

Poi, per fortuna, il miracolo: lo scatto della porta.

Avrei voluto esultare. Avrei voluto saltare dalla gioia. Avrei voluto fare tante cose quando vidi Cindy e la sua lunga treccia. Peccato che accanto al suo sorriso entusiasta – e a cui mancavano due canini all'appello – ce n'era anche uno... meno entusiasta.

Quello dello zio Des.

Una mano la nascondeva in tasca, l'altra era sul capo di sua nipote. «Onestamente, sono un po' indeciso» espresse, stringendo gli occhi e osservando per aria in una bizzarra ricerca. «Non so se farle un complimento per il modo in cui l'ha convinta, se riprenderla per i sette minuti di ritardo, o se esprimere la mia indignazione per aver sottolineato che io abbia provato a giustificarmi per i miei capelli.»

In termini meno tecnici: sei una stronza e sei pure licenziata.

Mi sentii avvampare fin sopra i capelli, la bocca che si apriva e chiudeva. «No! Cioè, ahm, allora.» Calmiamoci. «Se dovevo farle capire che ero io, dovevo ripetere tutto quello che ho sentito ieri.»

«Quindi era un dovere.»

«Sissignore, nient'altro che un dovere.»

«Mi sa che adesso a giustificarsi è proprio lei. Ma non è importante, non si preoccupi, non sono un tipo che serba rancore.»

«Ma zio, i capelli li hai bianchi per davvero!» si interpose Cindy.

La mano che Desmond adagiava sulla sua testa sembrò premere di più in quella che supposi essere un velato impeto di stizza. Mantenne un'espressione serena mentre lo fece. Fin troppo serena, in realtà.

«Tu taci, e vai dai sopra.»

«Ma è ve...!»

«Di sopra

Cindy arricciò le labbra, brontolando. Poi sparì dalla nostra vista, con la treccia che le ondeggiava sulla schiena. Il signor Holmberg stese il braccio in direzione dell'ingresso, un chiaro invito a entrare.

Perlomeno non mi ha sbattuta fuori.

Ammutolita, lo seguii oltre l'atrio addobbato di cornici. Con spasmodica lentezza, i nostri passi risuonarono all'interno di una grande, maestosa casa vuota. Vuota solo in parte. Poiché un piccolo mondo, di battibecchi e balocchi, era concentrato in un unico punto, al piano di sopra. Era come se l'universo che rappresentava quella villetta fosse stato generato da un Creatore apatico, senza speranze, lasciando che le uniche orme di vita si trovassero su un impercettibile, solitario granello di cosmo. Infatti, guardandomi intorno, percepivo desolazione, tralasciando la presenza del signor Holmberg e il rintocco delle nostre suole. È questo che quei bambini ascoltano per la maggior parte del tempo? Sentiranno anche quanta fame ha questa casa? Come fanno a riempire il tempo, uno stomaco così vuoto? Con le briciole dei loro giochi? Coi sorsi dei loro litigi? Oppure sanno, avvertono, ma patiscono quella fame in silenzio?

«La vedo sorpresa.»

Desmond camminava guardando davanti a sé.

«No, è che...» Posai gli occhi sulle fotografie che ornavano un mobiletto, altre dietro una vetrina, a camuffarsi con la cristalleria. «Non credevo di trovarla qui... Credevo che sarei stata autonoma.»

«Oh, ma lo sarà. Farà tutto da sola, io non mi intrometterò.» Svoltammo in un altro corridoio, più angusto e adiacente al salone. «Piccolo appunto: non si abitui alla mia presenza, questa è un'eccezione particolare, e mi è anche costato un permesso dalla casa editrice in cui lavoro. Quindi, ammesso che voglia rimanere qui, sappia che io non ci sarò mai. Per cui sì: lei sarà autonoma

«Sempre?»

«Sempre.» Diede un colpo di tosse, voltandosi. «Ed è anche per questo motivo che non tollero sette minuti di ritardo. Puntualità, signorina Burns. In sette minuti potrebbe accadere di tutto a un bambino incustodito. Certo, Cindy e Leonard non hanno quattro anni, conoscono i pericoli, sanno che devono sempre stare attenti. Ma rimangono pur sempre dei bambini. Non se lo dimentichi mai

«Ha ragione, mi dispiace. È che ho avuto un contrattempo che...»

«Che genere di contrattempo?» mi interruppe.

«Ecco, io...» Mi grattai la tempia. «Correvo, mi sono scontrata con una vecchia conoscenza e c'è stato un casino di mezzo.»

«Correva.»

«Correvo.»

«Quindi era già in ritardo.»

«In pratica.»

«Postilla per il futuro: esca di casa prima.»

Ero già fuori di casa. Ma specificarlo avrebbe significato entrare nel dettaglio, e non sapevo che impatto avrebbe potuto avere su uno sconosciuto che avessi impiegato il mio tempo con dei senzatetto.

«Lo farò. Non accadrà più.»

«Me lo auguro, anche perché la sua presenza mattutina dovrà essere tempestiva. Dal momento che Gregg uscirà di casa, lei dovrà dargli il cambio. E quando finisco di lavorare io, sarò io a darle il cambio. È un lavoro di squadra quello che dovremmo instaurare.»

Annuii, senza ribattere. Dopodiché iniziò un tour generale della casa. Appresi dove fosse il bagno, le camere, lo studio di Gregg, dove conservassero il kit di pronto soccorso, mi appuntai il punto esatto di alimenti e medicinali. Non era difficile, per mia fortuna.

Poi, mi pizzicai il gomito. «Se non risulto invadente...»

«Non faccia premesse, per favore: chieda e basta. Preferisco schiarirle le idee adesso, finché posso, perché non mi piace ripetermi una seconda volta.» Mentre avanzavamo per il corridoio, acuii il pizzicore al gomito, come se quella specificazione fosse più un rimprovero che un'esortazione. Eppure, mi portò ad alzare il viso, fino a guardarlo. Aveva fatto la stessa cosa. «Troppo aggressivo?»

Subito, scappai dai suoi occhi, scivolando sul pavimento. «No no, penso... sia normale essere riluttanti con una sconosciuta. In fondo parliamo di due bambini. E poi da lei sono già stata considerata una ladra, magari a breve cambierà idea e mi considererà una terrorista. C'è sempre un margine di miglioramento sulle prime impressioni.»

Dopo qualche secondo vibrò una risata trattenuta, di petto.

«Ha un ottimismo davvero commuovente, lo sa?» In qualche modo fece sorgere un debole sorriso anche a me. Forse per il tono più disteso, forse per quel modo di allentare la tensione. «Sono drastico e non lo controllo, me ne rendo conto, però non cerchi di giustificarmi solo perché, nel nostro rapporto, ricopro una carica maggiore. Essere "maggiori" non comporta a essere intoccabili.»

"Per stasera è meglio che tu prenda un taxi."

Lo stomaco si ribaltò, la gola si inaridì in un lampo. Perché, tra tutte le cose che sono uscite di bocca a mia sorella, mi son tornate in mente proprio quelle di sabato? Proprio ora, poi. Era come se, inconsciamente, quanto appena affermato da Desmond, avesse una qualche valenza pure per Olivia. La maggiore, il numero grande, il mio sostegno, la bussola funzionante. Lo trovai insensato; anche quando mi sfiorava l'idea che sbagliasse, i suoi chiarimenti mi facevano perennemente rendere conto di quanto io fossi... un'idiota.

«Quindi? Cosa mi stava per chiedere?»

Scacciai quei pensieri inutili. Non era il momento.

«Gregg. Cioè, suo fratello.» Mi schiarii la gola. «Che orari fa? Giusto da sapere come mi dovrò organizzare, casomai io rimanga.»

«Beh, improponibili sarebbe il termine più azzeccato» gli sfuggì con un che di amaro. «Ma rispondendo alla sua domanda: purtroppo non esiste un orario preciso di inizio o di fine. Un neurochirurgo come lui, di prassi, inizierebbe molto prima di un normale impiegato, come me. Ma ci inserisca le emergenze dell'ultimo secondo, gli interventi programmati al mattino presto... Spesso può andare via anche prima delle cinque, e potrebbe non tornare prima delle dieci di sera. Nei casi più estremi, del mattino dopo. È anche per questo se nel contratto era specificato, in caso, una disponibilità per le notti.»

«Certo, capisco.»

«Lo trova impegnativo?»

«Assolutamente no. Alzarmi presto, o tornare a casa tardi non li considero dei problemi.» Mi grattai le unghie, le fissai, i polpastrelli si erano arrossati sulle punte. «Mi piace stare fuori. Lo... preferisco.»

Salimmo le scale, fianco a fianco, in silenzio.

Di sottecchi, notai chiaramente il suo volto girarsi, e fissarmi.

Mi studiò? Mi giudicò? Cercò di leggere tra le righe della mia affermazione? Non lo volli scoprire. Piuttosto, preferii fingere di non aver captato quell'occhiata indagatrice, capace di mettermi a disagio.

«Meglio così, sono più tranquillo» ammise invece, infilando le mani nelle tasche. Davanti alla porta dei due fratelli, si voltò verso di me. «E prima che mi dimentichi: se dopo oggi decidesse di rimanere, le lascerò il mio numero. Mi contatti solo ed esclusivamente per delle emergenze. Nessun "Dove sono le bustine di tè allo zenzero?", tantomeno "Non trovo il DVD di Frozen". Emergenze. Chiaro?»

«Limpido.» Aggrottai le sopracciglia, in un lampo di confusione. «Però da come parla sembra che dia per scontato che io rimanga.»

L'angolo della bocca subì una sottile flessione verso l'alto. Ma fu un attimo, tanto fuggevole da credere di essermelo sognato. «Mettiamola così: a differenza sua mi ritengo una persona ottimista.» Abbassò la maniglia e mi fece cenno di entrare. «Prego, sono tutti suoi.»







Non ci volle molto per intendere un concetto sostanziale, in quella stanza: Cindy e Leonard incarnavano due elementi in eterna lotta. L'una era l'essenza del rumore, l'altro la segretezza del silenzio.

Cindy Holmberg, che in quel momento era incurvata su un tavolino a disegnare con la lingua che fuoriusciva dalle labbra, si era rivelata una bambina espansiva, iperattiva; non stava ferma un secondo. Alzata e poi seduta, seduta e poi alzata. Si frenava ma riprendeva, cominciava e mai finiva. Pennarello in mano e attaccava col bozzetto di una casetta di mattoni, filo tra le dita e iniziava a intrecciare vivaci braccialetti di perline. Sapeva fare tante cose, e continuava ad ambire, a voler conoscere, a comprendere, a imparare.

Pretendeva, gioiva di mostrarsi al mondo. Volere. Il verbo che sposava il rumore, matrimonio perfetto. Perché il rumore quando voleva, otteneva. Voleva spargere confusione in una stanza? Sopprimere l'equilibrio che aveva instaurato la quiete? Lo faceva senza remore, anche con dei lievi, semplici ma cadenzati tintinnii.

Bastava poco, in fondo.

E Cindy voleva.

Desiderava la guardassi disegnare, desiderava conoscere me, desiderava che il faro delle attenzioni diventasse il suo migliore amico. Mi interpellava su questo o quello, i "perché" erano la sua ribattuta preferita, e rideva squillante, e "Questo ti piace?", ed esibiva disegni su fogli da stampante da una parte e bambole diligentemente agghindate dall'altra. La mia mano, in quella rumorosa e caotica esibizione del suo io, rimaneva uncinata alla sua.

Nemmeno me ne accorgevo.

Era incredibile, ma lo notai molto presto: i suoi occhi, grandi e scuri, rinvigoriti d'una luce birichina, racchiudevano un potere decisionale che il silenzio, al contrario, non avrebbe mai posseduto.

Perché quest'ultimo, fra i due, era l'elemento accomodante.

Leonard, infatti, era rimasto in disparte per tutto il tempo.

D'altra parte, era risaputo: il silenzio incassava, il rumore assestava. E lui aveva scelto di raccogliere la sua presenza lontano da noi, seduto a terra; posava la schiena ai piedi del suo letto, e alle orecchie, tra i riccioli bruni, indossava dei sottili auricolari. In mano, quasi custodisse un animaletto ferito, giaceva un moderno MP3.

Mi sedetti davanti a lui, a gambe incrociate.

«Cosa fai?» Lo sguardo, che ogni volta pareva ingigantivo per via della stazza degli occhiali da vista, era incollato a quel piccolo, rettangolare schermo. Dedussi che il volume era troppo alto. Così, gli pigiai delicatamente due dita sulla gamba. La ritrasse, schiacciò un pulsante sull'aggeggio, mi guardò. «Ti ho chiesto cosa fai» sorrisi.

Fece spallucce.

«Non me lo vuoi dire?»

I suoi occhi sviarono alla mia destra, dove Cindy stava disegnando. Ci rimase qualche istante, ci pensò, poi tornò su di me.

«A-as-ascolto la m-musica» borbottò, guardando l'MP3.

«E che musica ascolti?»

«Non so... Ce n'è t-ta-tanta.»

«Non hai una canzone preferita?»

Negò. «Mi pi-piac-piacciono tutte.»

«Me ne faresti ascoltare una?»

Abbozzò una smorfia di disappunto sulle labbra screpolate, le premette, gli occhi fissi sullo schermo. Parve arrossire. Riservato.

«C'è qualcos'altro che ti piace, a parte ascoltare la musica?» Stavolta si tolse gli auricolari, forse capendo che non si sarebbe liberato di me così alla svelta. Scorgendo il suo sguardo spaesato, aggiunsi: «Fai qualche sport? Guardi i cartoni animati? Leggi?»

«Mmh» mugugnò, osservandosi le dita. «Cr-credo che...»

«Non fa nient'altro, fa sempre le stesse cose» rispose sua sorella, senza voltarsi. Poi sventolò il foglio in questione, esibendolo raggiante. «Vieni a vedere quello che sto colorando. È un cane!»

«Aspetta, fammi prima parlare un po' con tuo fratello.»

«Tanto non ha mai niente da dire, e quando ci prova è lento.»

Scrutai Leonard, che aveva chinato il capo sull'MP3, poi tornai su sua sorella. «Allora cerchiamo di venirgli incontro. Aiutiamolo.»

«Mamma diceva che non serviva neanche aiutarlo. Avrebbe sprecato tempo e soldi. E se lo ha detto la mamma, allora è vero.»

«Come hai detto, scusa?» Avevo sollevato le sopracciglia tanto in alto da temere diventassero parte dell'attaccatura dei capelli. «Ma no, magari hai capito male, non credo che una persona come vostra...»

«È così ti dico. Non ti fidi di me?»

«Cosa? No! Però mi sembra impossibile che...»

«Invece sì, è possibile, mamma lo diceva sempre.»

Mi voltai verso Leonard. Non aveva ancora alzato gli occhi.

«È vero quello che dice?»

Fece spallucce, ma non rispose. Non capii se fosse un silenzio-assenso. Ad ogni modo, dalla bocca di due bambini poteva uscire di tutto: avrei fatto meglio a prendere quelle informazioni con le pinze.

«Non risponde perché se no si mette a piangere» rincarò Cindy, riprendendo a disegnare. Poi stappò un pennarello arancione e iniziò a tracciare la punta sul foglio, con una mano ferma quanto rapida.

Ma quella supposizione fece accendere una reazione piccata in Leonard, portandolo ad avere gli occhi lucidi. «Io no-non p-p-p-»

«P-p-p» lo prese in giro. «Guardatelo, adesso piange.»

Lui strinse le mani a pugni, urlandole: «S-Smettila

«Sei debole se piangi.»

«Ti ho detto di sm-smetterla, Cindy!»

«Cindy» la chiamai, pacata. «Non dovresti dire queste cose.»

«La mamma le diceva. Se poteva lei, possono anche gli altri.» Per tutto il tempo rimase incollata al disegno. «E poi lui piange sempre. La gente si stufa. Anche la mamma si era stufata di lui.»

Accadde in un magico schiocco di dita.

Leonard saltò in piedi, neanche si preoccupò di riporre via il lettore, piuttosto lasciò che cadesse sul pavimento con un tonfo metallico. Annullò le distanze con sua sorella, corse nella sua direzione, gli fu alle spalle. Poco prima di alzarmi e raggiungerlo, credetti stesse per tirarle i capelli. Invece... no, fece di peggio.

Afferrò un pennarello nero e le scarabocchiò il cane.

Cindy allargò la bocca in una O enorme, agghiacciata.

«No! Leonard! Me l'aveva disegnato zio Des!» gridò, mettendosi in piedi, sovrastandolo. Era più alta di lui, di almeno un palmo.

«Allora sme-smettila di pa-parlare di m-m-m-»

«Io parlo di chi voglio!»

«Ma-mamma era cat-ca-cattiva!»

«Sei tu cattivo! Mi hai rovinato il disegno! Rovini sempre tutto!»

Leonard trattenne un velo gonfio di lacrime, a labbra tese, bolla di cristallo pronta a esplodere schegge di frustrazione sulle gote. Eppure non pianse, perché la spintonò dal petto con entrambe le mani. Ma la spostò di poco, seppur fosse riuscito a farla barcollare all'indietro. Subito, però, fu il turno di Cindy. E continuarono, sempre più violenti, sempre con una parola che andava a screditare l'altro.

Il rumore che sopraffaceva il silenzio.

Il silenzio che tentava di ribellarsi al rumore.

A quel punto intervenni, piazzandomi nel mezzo.

«Ok, basta così, ehi! Ehi!» Sebbene il mio corpo gracile tentasse di fungere da separatore delle due linee nemiche, i due cercarono comunque di graffiarsi la faccia e acchiapparsi dalle maniche come meglio potevano, arrancando le braccia ai lati della mia vita. E io non faceva che spostarmi ora a destra, ora a sinistra, per sviarglieli. Quindi, al volo, afferrai con una mano il braccio di Leonard, diretto a voler acciuffare i capelli della sorella, con l'altra il polso mingherlino di Cindy, tenendoli a debita distanza. Guardai prima lei, poi lui. «Regola numero uno: due fratelli non si alzano mai le mani.»

«Ha in-iniziato le-lei.»

«Lui! Ha iniziato lui!»

«N-non è v-v-»

«Sei lento, poi mi addormento!» cantilenò.

Sfilarono le mani dalla mia presa e ricominciarono ad azzuffarsi.

Li scrutai, prima l'una poi l'altro. Sospirai, chiudendo gli occhi.

«È passata solo un'ora, non può già sospirare, signorina Burns.» Quella voce baritonale, che traballava d'ironia nonostante volesse rimanere seria, fu abbastanza perché mi facesse riaprire gli occhi. Lo vidi: Desmond era appoggiato allo stipite con una spalla, le pieghe della camicia che aderivano alle braccia conserte. «Cosa fa, molla?»

Premetti le labbra tra loro, afferrando nuovamente le braccia dei due litiganti mentre si agitavano, e mi sforzai di guardarlo. «No.»

«Perfetto.» Fletté la bocca verso l'alto, disegnando un ghigno che non aveva nulla di divertente, bensì di severo. «Allora li divida

Quell'apparizione fu la prima di una lunga serie.

In un secondo momento capii che non era un'intrusione qualsiasi, ma una segnalazione. La segnalazione che era già passata un'ora, che le lancette giravano, l'orologio mi fissava, pressava sulle mie azioni come antiche macerie. Di conseguenza, a ogni sua comparsa avrei dovuto calcolare il tempo che mi separava dall'arrivo di Gregg.

Dunque, era sua intenzione mettermi sotto pressione.

L'ora seguente non fu tanto differente: i bambini si rincorrevano in tondo minacciando di uccidersi, creando un vortice di urla, e nell'occhio del ciclone ci stavo io, seduta a terra, le dita alle tempie.

«La vedo in difficoltà, sbaglio?»

«Sto riflettendo.»

«Dice?»

«Dico.»

«Quindi molla?»

«No.»

E nemmeno quella dopo ancora, con Cindy che mi tirava dalla manica perché voleva mostrarmi questo, e Leonard che mi tirava dal polso perché voleva mostrarmi quest'altro. Invece Desmond, sulla soglia, roteava flemmaticamente un bastoncino di plastica su una tazzina da caffè, come se la cosa non lo toccasse. Come se non stesse assistendo a un tentato squartamento delle mie povere braccia.

«Un caffè? Un tè? Una camomilla, magari?»

«Sto alla grande. Non ne ho bisogno.»

«La camomilla aiuterebbe.»

«Sono molto paziente.»

«Quindi molla?»

«Ho detto no.»

Purtroppo, tornò anche l'ora dopo.

E quella dopo. E quella dopo ancora.

«Un giorno un vecchio guru disse...»

«Le ho già detto che non mollo.»

«Mi lasci finire almeno, altrimenti non c'è soddisfazione.»

«Il vecchio guru decise di mollare alla fine, vero?»

«Oh, ma allora è davvero in grado di praticare chiaroveggenza.»

Le ore si evolvevano, il tempo era mio nemico, la domanda era sempre la stessa. Supposi che il signor Holmberg ogni volta fremesse di presentarsi alla soglia con la fatidica domanda. "Molla?". Quasi desiderasse che rispondessi sì, per dimostrarmi che le sue convinzioni fossero vere. E io ricordavo le parole del giorno prima: aveva sfacciatamente espresso di non saper indossare gli errori.

Eppure – alquanto strano – fu proprio quel comportamento a incentivarmi a non mollare. Non che l'avrei fatto. Ma in tal modo rafforzava il mio volere. Perché io pretendevo di rimanere là dentro.

Così, quando esplose un nuovo litigio, anziché fossilizzarmi a studiare l'atteggiamento dei bambini e basta, cominciai a fare avanti e indietro su quei metri quadri di camera da letto. Se dovevo riflettere, dovevo anche far ruotare i meccanismi del mio cervello, e, quindi, far carburare le gambe. Il movimento era un ottimo oliatore.

Portai le dita al labbro inferiore, stringendolo a pesce.

Osservai quelle specie di fiere infernali: l'uno tirava le gambe di un supereroe, l'altra aveva afferrato la testolina, tirandola a sua volta. Continuavano così, come nel gioco del tiro alla fune. Silenzio tirava, voleva vincere, avere uno spazio per sé. Rumore lo imitava, voleva dominare, regnare anche nel suo spazio. Ma nessuno dei due trionfò.

Mi concentrai sul supereroe, la vittima dello scontro.

Increspai le sopracciglia, gli ingranaggi ruotarono.

E una lampadina, all'improvviso, si accese.

«Bambini.»

Si bloccarono, senza sciogliere la presa, voltandosi.

«Vado un attimo giù, torno subito, ok?»

La risposta fu quella di tornare a tirarsi il supereroe.

Quindi, svelta, imboccai il corridoio e scesi i gradini a due a due, silenziosa come il più temerario dei gatti, aggrappandomi al corrimano. Una volta giù, sviai per il corridoio che conduceva nel salone. Come immaginavo, Desmond era proprio lì, seduto all'isola della cucina, su uno sgabello; pugno che aderiva allo zigomo, l'altra mano che ghermiva una matita, la cui punta picchiettava continuamente sulle labbra dischiuse. La luce che trapelava dalla finestra lambì un'espressione concentrata, un groviglio di lineamenti contratti che rasentava una fredda afflizione, e a quanto pareva l'arguto compito di assorbirgliela era destinato a un blocco note.

Senza accennare a un singolo movimento, bloccò il tamburellare della matita, soffermandola sul labbro, e poi sollevò lo sguardo. Celere, preciso, spietato. Bastò quello per farmi retrocedere, quasi mi avesse appena scoccato una freccia immaginaria in mezzo agli occhi.

Come se nulla fosse, tornò ad abbozzare qualcosa sul foglio. Fruscio lento, che lasciava pensare a una carezza. «Sono i primi segni di cedimento, quelli che vedo? O è qui per annunciare la resa?»

«Non proprio.» Allungai le maniche finché non arrivarono a avvolgere metà dita. «In realtà sono qui per una... richiesta.»

«Ossia?»

«Avrei bisogno di materiale, se è possibile.»

«Mi pare di averle già fatto vedere dove teniamo...»

«Intendo dire...» lo bloccai. «... dell'altro tipo di materiale.»

La matita la posò a lato del blocco note. Ora l'attenzione ce l'aveva solo per me. E io non potei che fuggire, da quell'attenzione.

«Sono tutto orecchie.»

«Nastro, o dei cartoncini colorati, poi dello scotch, un bastoncino di plastica e... una corda.»

Sollevò entrambe le sopracciglia, scettico. «Una corda.»

«Sì, corda.»

«E a cosa le servirebbe una corda con due bambini?»

«Ecco, a...» esalai, inumidendomi le labbra. «No, anzi, non glielo posso dire. Era lei ad aver precisato che non si doveva intromettere.»

«Certo, ma mi ha appena chiesto di fornirle del materiale per Ted Bundy... Una spiegazione mi farebbe comodo per capire, sa.»

Mi morsi l'interno guancia. «Le chiedo solo di fidarsi di me. Sarà un esperimento divertente, e prometto che nessun bambino verrà mai maltrattato. Lo giuro.» Alzai indice e medio, intrecciandoli.

Gesto infantile, ma che lui, dopo qualche istante di riflessione, accolse con una scrollata di spalle. Seppur interrogativo, recuperò quanto avevo richiesto: una corda che usavano per il campeggio, due cartoncini, l'uno rosso e l'altro azzurro, e un bastoncino dello spessore ideale.

Nuovamente alla porta dei ragazzi, oltrepassai la soglia. I due si erano isolati agli angoli della stanza. Vedendomi, si illuminarono di curiosità. Ma subito l'attenzione venne calamitata dalla presenza che avevo accanto, rimanendoci. Quindi, mi voltai in direzione di Desmond. Stava attendendo la mia prossima mossa, le mani in tasca.

«Se non le dispiace, adesso ci penso da sola» gli feci presente.

Lui rimase inflessibile. «A dire il vero sono curioso di assistere.»

«Mmh... temo non sia il caso.»

«Ah no?» Che suonò come un "Come se lo decidesse lei".

Indicai i bambini. Lo stavano ancora fissando. «Pendono dalle sue labbra, signor Holmberg, attendono che sia lei a dirgli cosa fare, o come comportarsi. È una fonte di distrazione, e potrebbe influenzare l'esito dell'esperimento che avevo in mente.» Avvertii le orecchie avvampare quando intercettai il suo sguardo allargarsi appena, in un baluginio di stupore. Ogni volta che davo una spiegazione per un lasso di tempo superiore ai cinque secondi a una persona che sapevo stesse fissando, e bevendo le mie parole, mi sentivo pervadere da una stretta asfissiante. Come se gli occhi si trasformassero in un gancio di ferro attorno alla gola, e quanto usciva di bocca era l'esca sciagurata. «Però» rimediai. «Potrebbe rimanere per fare una dimostrazione.»

«Ora?»

Aveva già fatto un passo in avanti.

«No.» Ma io gli andai incontro, costringendolo a fare un passo indietro. Sembrò non capire le mie intenzioni. Così, poco prima di chiudere la porta, gli rivolsi un'espressione colma di scuse. «Dopo».

Appena la porta schioccò sull'uscio, mi affrettai a raggiungere il centro della stanza e a sedermici, sistemando attorno a me il materiale. Quindi afferrai le forbici, chiedendo: «Allora, siete in grado di farmi una treccia?»

Cindy, elettrizzata, era saltata in piedi per acconsentire alla mia richiesta. Subito, si era armata di elastici colorati per capelli e una spazzola che solitamente utilizzava per pettinare le bambole. Al che, avendo previsto che Leonard si sarebbe rintanato nel suo angolino, avevo chiesto che venisse pure lui a improvvisarsi mio parrucchiere.

«Ma lui è un maschio» mi aveva contraddetta Cindy, dietro di me, giocherellando con le ciocche. «E poi non è capace di fare le trecce.»

«Finché non glielo insegni non sarà mai capace» avevo risposto tranquillamente, mentre, in ginocchio, tagliavo i cartoncini in due strisce della stessa lunghezza. «E poi non è un lavoro esclusivo alle donne. Esistono tanti parrucchieri maschi, ne conosco uno che è bravissimo.»

«Chi?»

«Non te lo dico.»

«Perché?»

«Perché prima voglio che insegni a tuo fratello come si fa una treccia.» Anche senza voltarmi, avevo intuito che l'idea non gli andasse a genio. «Secondo me saresti un'ottima insegnante.»

«Ma voglio fartela io!»

«No, me la farete insieme» evidenziai, sollevando le strisce all'altezza degli occhi, valutando se era il caso di tagliare ancora. «Voglio che condividiate i miei capelli. Collaborate e aiutatevi.»

Avevo sentito Leonard avvicinarsi a passo cauto, lei aveva sbuffato. «Ma tanto non gli piace, non è capace. Preferisce l'MP3.»

«Leonard» lo interpellai. «Ti piacerebbe provare?»

«Uhm, v-va bene.»

«Visto?» dissi, in riferimento a Cindy, che emise uno verso scocciato. «Forza: datti da fare. Voglio due bellissime trecce. E non voglio che litighiate, se no non vi svelo cosa sto preparando.»

In realtà, nel mio immaginario, non ero tanto convinta che funzionasse, nemmeno che filasse tutto liscio. Anche perché l'idea era frutto di un... azzardo. Ma, alla fine dei fatti, si erano costretti a sopportarsi. Più per la curiosità di scoprire cosa stessi architettando, piuttosto che per un reale interesse di supporto reciproco; Cindy non aveva sprizzato di gioia, men che meno Leonard, e i miei capelli erano diventati una vittima a rischio, che assorbiva i loro dispetti.

Lei gli porgeva le ciocche, lui provava a metterci mano, lei si irritava se non sapeva eseguire, lui le urlava. Destra, sinistra, destra, sinistra. La mia testa seguiva quella danza, quasi fossi il tappo di una bottiglia di vino, strattonata per essere svitata. Capii, con un certo dispiacere, che la collaborazione per due bambini come loro era ancora un sogno lontano, invisibile persino da un cannocchiale.

Ad ogni modo, ci volle un po' prima che terminassi l'opera.

E alla conclusione di ciò, mi ritrovai una trappola elasticizzata, situata sul palmo della mano. Una trappola che prendeva le sembianze di un lombrico dalla pelle eterocroma, rossa e azzurra.

Inoltre, tastandomi i capelli, compresi che anche il loro lavoro era stato ultimato. Raccolsi le due lunghe trecce che mi sfioravano il seno. In poche parole: ingarbugliate, reduci di un'infinita rotolata giù da un colle, o di un'azzuffata con un gatto. Erano nient'altro che intrecci intrisi di rabbia, quella riversata da Cindy e Leonard, dove una moltitudine di ciocche bionde sgusciavano da ogni avvitamento di esse, apparendo come un'esplosione di stelle filanti, di quelle che venivano calpestate sull'asfalto dopo una parata di Carnevale.

«Che cos'è quel coso?» chiese Cindy, affacciandosi oltre la mia spalla, ma subito glielo tolsi dalla vista. «Ehi!»

«Eh no. Prima dovete fare un'ultima cosa.»







«Com'è che aveva detto? Me lo ricordi.»

«Che nessun bambino verrà mai maltrattato?»

«Già.»

«Ma non li ho maltrattati!»

«Mh-mh.»

«Ed erano consenzienti.»

«Certo.»

«Ok, ammetto di averli un filino ingannati.»

«Avevo intuito.»

«Zio Des, ci liberi?» si lamentò Cindy, seduta sul pavimento, schiena contro schiena con suo fratello. La corda che avevo richiesto era un serpente che si attorcigliava attorno ai loro corpi. «Ti prego! La babysitter è cattiva, aveva detto che giocavamo agli indiani!»

«Agli indiani» ripeté teatralmente Desmond, con una lentezza che aveva dell'esilarante, per poi rivolgersi a me. Io strinsi le labbra, in un lampo di nervosismo che portò le mani a sudare. «Sicuramente è riuscita a... fermarli.» Fissò i nipoti, impegnati a scuotersi pur di trovare una scappatoia. «Ma non so quanto essere d'accordo. Costringere due bambini a starsene fermi con un criterio simile è...»

«... molto discutibile e apparentemente diseducativo, lo so.» Giunsi le mani, a mo' di imploro. «Però, prima di giudicare, mi ascolti: finché non si concedono né una tregua, né un attimo di silenzio per ascoltarmi, e ascoltarsi, non potrò mai riuscire a comunicarci per come si deve. Se da una parte Cindy continuasse a provocare Leonard, e dall'altra Leonard a rispondere alle sue provocazioni, si creerebbe un circolo vizioso infinito, una sorta di...» Li guardai, cercando di afferrare le parole giuste. «Una trappola, ecco, che scatta non appena l'uno comincia a danneggiare l'altro. E da quel momento in poi, dal momento che la trappola scatta, e iniziano a rincorrersi, a urlarsi, e a picchiarsi, le parole di una sconosciuta servono a poco, diventa aria inutile. Per cui ho ritenuto più vantaggioso questo: prevenire, impedire lo scatto, ma tutto ciò in una posizione in cui sono costretti a rimanere vicini.»

Avevo la gola improvvisamente secca, il cuore che palpitava anche lì, tra le corde vocali, con la stessa celere alternanza di una pallina del flipper, come se avesse collaborato anche lui in quella lunga spiegazione.

Desmond, accanto a me, si era appoggiato alla scrivania, le dita aggrappate al bordo. Tamburellava, scandiva, rifletteva. Eppure, mi preoccupò; il suo era un silenzio che si stava protraendo troppo a lungo.

Per questo, azzardai uno sguardo. Tanto rapido da risultare invisibile. Fu lì, tra i lineamenti marcati del suo volto, che vidi sporgere un sorriso. Un sorriso lievissimo, pianeggiante, ma che per me fu talmente importante da farmelo sembrare in rilievo.

«Ha una bella dialettica.»

Ruotai gli anelli del mignolo, poi toccò all'anulare. «Diciamo che avere un papà logopedista aiuta... Imparo molto da lui.»

«Si vede.» Si strofinò il mento, e così facendo, era come se avesse strofinato via anche quel sorriso. «Che cosa aveva in mente di fare?»

«Parlarci.» Mi schiarii la gola, e mi rivolsi a loro: «Ragazzi».

Smisero di agitarsi e girarono le teste, in sincronia.

«Come vi sentite?»

«Male» rispose subito Cindy, increspando le sopracciglia in un'espressione furiosa. «E sono stanca di stare legata.»

«Ok, stanchezza, poi?»

«Vo-vo-voglio uscire» protestò Leonard.

«Rabbia, dunque.»

«Leonard continua a darmi delle testate! Mi fa male!»

«E dolore.» Mostrai tre dita, indicandogliele. «Stanchezza, rabbia e dolore. Tre sentimenti che, provati insieme, ci fanno stare male. E, vi chiedo, quando litigate non provate un po' la stessa cosa?»

Probabilmente ci pensarono su. Ma nessuno replicò.

«Rispondo io: . E provarli è giusto, ne avete tutto il diritto.» Osservai ciò che avevo intrecciato, rimasto tra le mie mani. «Ma quando siete voi stessi a scatenarli apposta, perché credete sia la soluzione per poter stare insieme, per sopportarsi, allora non...»

«Io non voglio stare insieme a Leo» espresse Cindy.

Mi avvicinai a lei, inginocchiandomici davanti. «Perché?»

Non mi guardò. Alzò le spalle, piuttosto. «Mi fa innervosire.»

«Spiegati: perché ti fa innervosire?»

«Perché faceva innervosire anche la mamma.»

«Tua madre non è più qui, Cindy, smettila di...» Desmond frenò la lingua non appena vide che gli stavo silenziosamente chiedendo di non parlare. «Giusto, giusto. Non mi devo intromettere. Prego.»

«Cindy, ascolta» borbottai, azzardando a prenderle le mani. Fu una sorpresa quando la vidi non obiettare. «Prima hai detto una cosa che mi ha colpita, una cosa molto forte, su tuo fratello. Una cosa che, hai detto, pensava tua madre. Perché dovresti pensarlo anche tu?»

«Perché è mia mamma.»

«Era cat-cattiva» aggiunse Leonard, rifilandole una testata.

«Le mamme non sono cattive» gli rispose, imitandolo. «Hanno sempre ragione. E a te non andava bene perché ero la sua preferita.»

Leonard, dietro di lei, si fermò, e si ammutolì.

«Ammesso che sia vero» ripresi.

«È vero.»

«Però lei non è te. Tu hai una tua testa. Tu ti chiami Cindy. E i pensieri sono tuoi, non degli altri, non di tua madre.» Sorrisi, anche se lei non lo fece. Anzi, continuò a scrutarmi come se avessi appena pronunciato qualcosa fuori dal comune. «Quindi te lo ripeto: perché Leonard ti fa innervosire? Perché non ti piace starci insieme?»

A quel punto, saldò i suoi occhi nei miei. Non li scostò, non batté ciglio, non mosse un muscolo. Eppure, in quel silenzio, lessi molto più di quanto avrebbe potuto esprimere; fu un trapianto di informazioni che mi era impossibile leggere, ma ero sicura che in quello stesso momento stesse cercando di trasmettermele. Tuttavia, finché non avrebbe tentato di spiegarsi, non sarei riuscite a coglierle.

Smarrita era, smarrita rimase.

Non si sa rispondere nemmeno lei, pensai.

«Ehi, Leonard» lo chiamai, senza distogliere lo sguardo. «A te piacerebbe non litigare più con tua sorella?»

«No.»

«No?»

«Li-li-litighiamo se-sempre...»

«Però vorresti provare ad andarci d'accordo?»

Alzò le spalle. Mi chiesi se quando faceva così fosse un consenso.

«E tu, Cindy?»

«Io non voglio. È inutile.»

Corrucciò i lineamenti, fu inflessibile. «Allora, per favore, dammi una spiegazione. Una sola. E prometto che non te lo chiederò più.»

«Perché...» Si guardò le ginocchia. «Perché balbetta, ci fa perdere tempo, e non si sforza di parlare bene, come tutti gli altri. Per questo la mamma si arrabbiava. Con me non lo faceva, perché non ero un problema.»

Un problema.

Socchiusi le labbra. Girai il capo verso Desmond. Lui – e me ne meravigliai – non mi stava considerando. Rivolgeva un'attenzione contrita al pavimento, le dita che ancora strofinavano il mento, quasi stesse trasferendo quanto gli premeva da dire in quell'intrico di gesti nervosi. Non potendo parlare, lasciava che parlassero le sue azioni.

Tornai su Cindy.

«Allora, senti... proviamo a guardare questa cosa da un altro punto di vista.» Le strinsi delicatamente le mani caffelatte, soffici come tele di borotalco. «Avevo un amico, tempo fa, e aveva le stesse difficoltà di tuo fratello: balbettava. Mi raccontava che in classe non era benvoluto, e questa esclusione non faceva che peggiorargli il problema» le spiegai con calma. «Capisci cosa ti voglio dire?»

Lei mi osservò per un po', poi fece lo stesso con suo zio.

Non ricevendo alcuna risposta, negò con la testa.

«Significa che creare un'atmosfera in cui si fa sentire a disagio quel tipo di persona, non aiuta. Non aiuta lui, in questo caso Leonard, e non aiuta il problema ad allontanarsi, a sparire. Anzi, si accentua, si fa più forte.» Sciolsi la presa dalla sua mano e le mostrai il giochino che avevo realizzato. «In ogni cosa che facciamo, nel momento in cui c'è qualcosa che ci dà fastidio o che non ci piace, prima si deve sempre provare a comprendere, e a venirsi incontro. E dopo, credimi, ti innervosisci molto meno, convivi meglio con quel "problema".»

Cindy, forse, provò a elaborare la mia spiegazione, ma probabilmente non capì il nocciolo di quanto desideravo farle capire. Più che altro, si lasciò ipnotizzare dal gioco colorato, gli occhi che si stringevano, che studiavano. «Ok, e quello a cosa serve?»

«A dimostrarti che è vero ciò che ti ho detto.»

Mi alzai in piedi e mi posizionai in un punto in cui entrambi, voltando il capo, potessero vedermi. Nonostante mi vergognassi di far partecipare pure Desmond, mi costrinsi a fare cenno di avvicinarsi. Lui titubò un attimo prima di raggiungermi.

«È arrivato il mio momento?»

«Esatto.» Gli tesi l'estremità del gioco, quel cilindro avviluppato rigidamente in una treccia di nastri rossi e azzurri. Flessibile fuori, ma letale dentro. Lui non afferrò cosa dovesse fare, quindi glielo avvicinai un altro po'. «Ecco... deve inserire un dito proprio lì.»

Inarcò un sopracciglio. «Lì dentro?»

«Sì, lì dentro.»

«Uhm, non so se fidarmi.»

«Giuro che è innocuo, non morde.»

Alla fine, non prima di scoccarmi un'occhiata sospettosa, eseguì. A quel punto, feci la stessa cosa, ma dalla mia estremità. Il mio e il suo indice vennero inghiottiti dalle fauci di quella trappola colorata.

«Ok» sussurrai esitante, più a me stessa che a lui, poi mi voltai verso i ragazzi. «Si chiama trappola cinese. È un gioco molto antico, spesso usato come scherzo, perché una volta che infili le dita dentro sei in trappola, non riesci più a toglierle... a meno che non usi il metodo giusto.» Alzai lo sguardo su Desmond, mi fissai sul solco che scavava tra le sopracciglia, ora a una distanza ravvicinata. «Va bene, adesso provi a sfilarlo, signor Holmberg. Anche più volte.»

Ci provò, ma non ci riuscì.

Ritentò, ma nulla da fare.

Gli venne da ridere. «Ok, bambini, è vero: mi ha incastrato

I due ci fissarono a bocca socchiusa, trepidanti di scoprire.

Ripresi parola. «Lo vedete anche voi, no? Questo è un bel problema, e più ci arrabbiamo, più vorremmo scappare da lui, e più ci stancheremo, non vorremo nemmeno provare a capirlo. E cosa si risolve così? Niente, si rimane in trappola per sempre.» Spinsi il polpastrello all'interno, di più, con estremo tatto, i nastri frusciarono sulla pelle finché non fasciarono l'intero dito. «Ma se invece ci si viene incontro insieme, cercando di comprendere come uscirne...»

Umettai le labbra svariate volte, percepii una distesa di calore spargersi sulle gote e oltre non appena Desmond, capendo le mie intenzioni, mi imitò, andandomi incontro. Serpeggiò nel tunnel di carta a destra e a sinistra, finché la punta del polpastrello sfiorò la mia, determinando un contatto tenue, sottile, una collisione fra petali. Fu per istinto, non trovai altra spiegazione, ma quel contatto mi portò a guardarlo. Durò pochissimo, ma in quei secondi centellinati colsi un riverbero di curiosità assottigliare uno sguardo d'inchiostro.

Dopodiché, con la mano libera, mi affrettai a tenere saldo il nostro punto d'incontro. Deglutendo, mormorai: «Sfili pure».

E ci liberammo, con reciproca lentezza.

«Wow» espressero Cindy e Leonard, in un coro di meraviglia.

Porsi la trappola a Desmond, lui se la rigirò di mano in mano, sorpreso quanto un bambino che vedeva i doni sotto l'albero per la prima volta. Io mi voltai verso i bambini. «Avete visto? Questa è la prova che potete andare d'accordo anche voi. Basta collaborare.»

«E co-come?» chiese Leonard.

«In questo modo: tu dovrai dire una cosa che ti piace di tua sorella, almeno una, e tua sorella dovrà, invece, chiederti scusa.»

«No» proruppero insieme, riprendendo ad agitarsi.

«Allora rimarrete legati. Vero, signor... Ehm, signor Holmberg?»

Si era incastrato le dita alle estremità del gioco; non faceva che tirare e spingere, tirare e spingere, a sopracciglia abbassate tanto era concentrato a capirne il meccanismo. «Assurdo, ma dimmi te se...» borbottò assorto, ma percependo di essere interpellato, sollevò gli occhi su di noi e smise subito. «Sì, ha ragione, fate come ha detto.»

E riprese subito dopo.

Mi lasciò perplessa.

Cindy, intanto, brontolò uno "Scusa" svogliato, non senza assestare una testata all'indietro, a Leonard. Leonard fece lo stesso, con un grugnito di rabbia, ma poi, con le dovute pause, le disse che gli piaceva il modo in cui disegnava. Non dissero altro, rimasero a muso duro.

Ero certa non lo pensassero davvero, ma farglielo uscire di bocca fu già un inizio di cui andai molto fiera.

«Bene.» Sciolsi il nodo che li teneva legati, in due rapide mosse. «E visto che avete cercato di venirvi incontro, posso dire che siete liber...»

Tempo nulla che l'una scappò fuori dalla stanza, sbattendo la porta, l'altro andò a recuperare l'MP3, rifugiandosi nel punto in cui si era seduto prima.

Rimasi così, allibita, con la corda che mi penzolava dalle mani.

Un po' mi dispiacque. Si vede che nel loro caso i giochi servono a poco.

Alle spalle sentii dei passi avvicinarsi, più un colpo di tosse. «Glielo chiedo un'ultima volta.» Ma stavolta udii delle sfumature leggere, nel tono. Oltre a una mano tesa. «Molla?»

Sorse un sorriso e, con impaccio, gliela strinsi. «No

«Allora il posto è suo» dichiarò, poi inclinò la testa da un lato. «Anche se mi pare di vederla abbastanza... disturbata, sbaglio?»

«Un po', lo ammetto.» Mi sciolsi le due trecce, permettendo ai capelli di tornare a coprirmi la schiena. «È che mi ha colpita soprattutto Cindy, quello che ha detto a Leonard... quello che ha detto in generale.»

«Sa, prima le avevo detto una cosa, se ricorda: coprire una carica "maggiore" non comporta essere intoccabili.» Dalla tasca sfilò delle banconote, le contò, e me le porse sul palmo della mano. «È più vero di quanto possa credere: una madre non sempre si comporta come tale. La ricevuta di pagamento la trova in cucina.»

Si congedò senza aggiungere altro.

E io osservai quel mucchio di banconote, come fosse carta straccia a cui dare fuoco.

Per qualche motivo, le sue parole fluttuarono nei miei pensieri come spettri dispettosi, si aggrapparono a dei ricordi spiacevoli, si incollarono a un volto ben preciso. Non seppi perché, ma ora, al posto della faccia di Alexander Hamilton, vedevo solo quello di mia sorella.












ANGOLO AUTRICE

Buonasera, nightingales! 🕊️

In teoria: doveva essere un capitolo breve. BREVISSIMO. 
In pratica: è uscito lungo quanto la Salve Regina.

Lo so, LO SO, avete ragione: ci ho impiegato un'eternità. Ma non in fin dei conti queste ottomila parole e passa non si fanno in un giorno. Specie se siete dei pignoli come me, che controllate e ricontrollate ogni santa parola dall'inizio ogni volta che riprendete in mano il documento.

Povera me.

Bando alle ciance: prima di parlare del giorno di prova, parliamo del minuscolo incontro-scontro che la protagonista fa con una delle sue vecchie conoscenze: Warren, uno dei gemelli. Ve l'aspettavate di incontrare uno di loro così presto? No? Beh, potrei già anticiparvi che, fra qualche altro capitolo, ci sarà un altro incontro apparentemente randomico. Ricordate: tutto ciò che inserisco, o è una base per ciò che sarà, o è un promemoria per ciò che dovrà avvenire. 🤡

Dopodiché, abbiamo Ophelia alle prese con il compito arduo di fare babysitting.

E pensare che non avevo premeditato la trappola cinese, giuro che è stata tutta improvvisazione! ✨ Ma ci stava dannatamente bene con la metafora di fondo che non ho potuto non dedicarle il cuore del capitolo: l'andarsi incontro per uscire dal problema insieme. In questo caso, da una convivenza problematica, che due fratelli non dovrebbero vivere.

Ophelia, nonostante ciò, dimostra di avere un bel potenziale: coi bambini ci sa fare (e qua si era constatato dalle recensioni positive - ricordiamolo a Desmond, che ancora dubitava di lei), ma anche con le parole, fondamentali per lei. Ringraziamo il suo paparino per averle insegnato bene sia come argomentare, sia come esprimersi. ❤️

Alla fine di tutto abbiamo un piccolo passo avanti, ma non del tutto: sembra proprio che i due bambini fatichino proprio a capirsi, ma soprattutto a volersi capire. E ancora una volta, spicca la madre dei due, specie dalla bocca di Cindy. Uhm...

Eppure, in qualche modo, le parole di Desmond riescono a imprimersi bene nella mente di Ophelia, al punto da farla costantemente riflettere sulla figura di sua sorella.

Dai, dai... che prima o poi ne verremo a capo. 💀

Questions:

▪️ Quale sarà la prossima prova che Ophelia sottoporrà ai bambini?

▪️ Scopriremo di più sul vissuto di questa famiglia?

▪️  Avete mai provato la trappola cinese? Io sono tentata di acquistarla, o di farla in casa ahahaha

▪️ State cogliendo i parallelismi tra "famiglia di Ophelia" e "Famiglia dei bambini"? 😉

Alla prossima! Se vi va, ditemi che cosa avete pensato! (Anche se non lo dico sempre a voce, sappiate che vi ringrazio sempre e silenziosamente per il supporto continuo, vi si adora❤️)

E il prossimo sarà alquanto... particolare. Anche perché, preparatevi, avremo un incontro ravvicinato con un'altra personcina già... citata. 💀💀💀 




Playlist:

Cake By The Ocean - DNCE (prima parte)

https://youtu.be/vWaRiD5ym74

D.A.N.C.E - Justice (seconda parte)

https://youtu.be/tCnBrrnOefs

Left Hand Free - Alt-J (terza parte)

https://youtu.be/NRWUoDpo2fo

Where Is My Mind? - Pixies (quarta parte)

https://youtu.be/49FB9hhoO6c

Instagram: The_blackcatshadow

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