1. Cheesecake alle fragole
1. Cheesecake alle fragole
Prima
Tutto ciò che osserviamo, tocchiamo o ascoltiamo, racchiude dentro di sé quello che comunemente viene chiamato "principio". Io me lo immaginavo come un cuore che pulsava. Un cuore grande, di un rosso acceso. Ma a differenza di quello che veniva illustrato nei manuali di biologia, nella mia fantasia possedeva i contorni morbidi e romantici che si vedevano incisi sui tronchi del Wissahickon Valley Park, o accanto a una dedica carina sul diario. E, per me, ogni cosa aveva il suo principio, un cuore personale, persino quegli elementi che venivano categorizzati sotto la voce di "esseri non viventi". Una matita aveva il legno, un dolce la farina, il nostro pianeta un'antica esplosione, e il mio primo avvicinamento a un mondo in cui il linguaggio abbracciava il libero arbitrio... un vocalizzo.
«Do.»
Il mio principio era stato un normale vocalizzo.
«Re, Mi, Fa...»
Avevo cinque anni, il gufo di un moderno orologio a pendolo rintoccava le cinque del pomeriggio, e Olivia mi avrebbe stanata dal nascondiglio molto presto, questione di pochi minuti, perché le tende della finestra non riuscivano a celarmi i piedi nudi. E lì, tra le pieghe di lino, usciva la mia testa, per capire da dove provenisse quel suono melodioso.
Destra, sinistra, in alto. La capigliatura bionda e arruffata della bambina che ero stata si voltava e osservava. Prima si soffermava sulle cornici che raffiguravano piccoli frammenti felici della mia nuova famiglia, poi su un paio di note riproduzioni olio su tela dei Shakamaxon, prime tribù dei nativi che un tempo occupavano Filadelfia. Ma la ricerca era stata breve; perché dal "Penn's Treaty with the Indians" color seppia, avevo indirizzato la mia sete di sapere dall'altra parte del corridoio, in fondo, dove si apriva un ampio soggiorno che comunicava sia con la cucina che con la sala da pranzo. La porta scorrevole era rimasta sbadatamente aperta a metà e lasciava uno spazio sufficiente per permettermi di spiare.
«Sol, La, Si...»
Avevo guardato le scale.
Olivia era ancora impegnata con la conta.
Così, ero uscita dal nascondiglio e avevo fatto attenzione a mettere un piede davanti l'altro, avvicinandomi all'origine della melodia. Me lo ricordavo bene: io, gracile e con una manina appiccicata alla parete del sottoscala, ero rimasta a debita distanza, per paura che provocare anche il minimo rumore avrebbe potuto significare la conclusione di quell'esercizio di vocalizzi.
Dopo un po', sempre con lo sguardo puntato a una porta da cui credevo uscissero delle magie fiabesche, avevo deciso di fermarmi. Anche se ero ancora lontana, si riusciva a intravedere il pianoforte a coda, bianchissimo, come la sabbia del paradiso. Ammesso che il paradiso avesse la sabbia. Ma a cinque anni era una convinzione.
«Do.»
Lo strumento aveva accompagnato la scala musicale. Poi si era ripetuta, ma al contrario, e si era introdotta una seconda voce più infantile che le andava appresso. «Do» dissero in coro, insegnante e studente. «Do» ripetei io, in un sussurro rivolto a me stessa, che suonava più come un giuramento. E l'avevo ribadito, diverse volte. Do, Do, Do. Il principio di una scala di note, e il principio di una scoperta che mi aveva fatto battere il cuore dalla felicità.
Do.
Il mio principio, il cuore pulsante della mia voce.
L'avevo realizzato ancor prima di rendermi conto che si trattava di una realizzazione: il mio silenzio quotidiano aveva appena subìto una specie di... riconoscimento materno, un imprinting canoro. Non avrei saputo chiamarlo diversamente, e non sapevo neanche se esistesse una definizione simile. Ma sapevo che era successo con la voce di Cordelia Stevens, colei che, una volta terminato il periodo di supervisione tramite la SWAN(1), sarebbe diventata la mia nuova madre. Ero convinta lo stesse diventando una seconda volta; perché lei e la sua persona avevano deciso di adottare la mia vita, ma la sua voce, in quel lontano weekend di primavera, aveva appena adottato la mia. E, per delle corde vocali abituate a oziare, aveva significato risvegliarsi dal torpore.
Non avevo mai assistito alle sue lezioni, era stata la prima volta, poiché stavo attenta a tenermi alla larga dal pianoterra quando raccomandava me e Olivia di non fare rumore. Il canto era un'arte che richiedeva silenzio e concentrazione, spiegava, e se l'udito era attirato da altro che non fosse la voce dell'insegnante o il ritmo scandito dallo strumento di accompagnamento, ne risentiva l'apprendimento dello studente.
Mi era stato chiaro sin da subito.
Nelle settimane successive avevo ufficializzato il sottoscala come nascondiglio durante le lezioni di Cordelia. Desideravo ascoltare ancora, imparare di più, assorbire a fondo quello strano ma al contempo ammaliante modo di comunicare. Così, un pomeriggio, la signora Stevens aveva approfittato dell'assenza del marito Allan e della mia sorellastra per alienarsi nella sua bolla. Nei primi mesi in cui ero sotto il loro tetto, avevo capito che per lei il canto era un'abitudine per rilassarsi non appena aveva un attimo libero; gli piaceva allenarsi ancora e ancora, diventando insegnante e studentessa insieme.
Tuttavia, non mi aveva notata. Probabilmente, anche se avesse saputo che ero solo a pochi metri da lei, non sarebbe comunque riuscita a individuarmi con la mente, concentrata com'era a perdersi in una versione tutta sua di Sleep Walk.
Ma io ero lì e non me ne sarei andata, nonostante avessi Mr. Carrot che mi pesava reggere con una mano soltanto. L'avevo osservata e avevo appreso postura, espressione, autorevolezza nel timbro. Parlava tutto, in lei. Non contava solo la voce, perché se il resto era morto, moriva anche un po' del significato che premevi di esternare. La voce non è tutto, diceva spesso Cordelia. E lei avrebbe potuto rendere importante anche un sussurro.
Il brano aveva continuato a uscire dalla sua bocca, riempiendo le orecchie della casa, carezzevole e fine come solo lei riusciva a essere. Gli occhi socchiusi che mettevano in risalto le ciglia, i capelli sistemati a chignon trasandato, tanto scuri quanto gli occhi erano chiari. Potevano essere benissimo confusi con il colore della sclera, o del pianoforte che stava usando con una fluidità disarmante.
Era bella, Cordelia.
Una volta terminato, si era sgranchita il collo e si era concessa un ultimo riscaldamento con la scala musicale.
«Do.»
L'aveva esteso per diversi secondi. Tempo di un respiro, che era successo senza che me ne fossi resa conto, mentre ero ancora dietro le tende della finestra del soggiorno, alle sue spalle.
«Do» avevo risposto, e subito mi ero tappata la bocca con entrambe le mani. Mr. Carrot era caduto a terra, e seppur il lieve tonfo, fu abbastanza perché si sentisse nella quiete.
Cordelia aveva drizzato le spalle, voltandosi a sinistra, verso l'ingresso. «Allan?» Si era alzata dal panchetto, uscendo sbrigativamente. «Ophelia?»
Ne avevo approfittato per raccogliere Mr. Carrot, facendogli segno di stare zitto, con l'indice premuto sulla bocca stilizzata.
«Mah, eppure...» avevo udito borbottare da Cordelia mentre la sentivo tornare al suo posto. Ma non l'aveva fatto. Non subito. Quindi mi ero fossilizzata pregando non mi scoprisse, con le tende spesse che mi occultavano la vista.
«Ok, quindi non c'è nessuno.»
Avevo annuito.
«Però io so che c'è qualcuno.»
Avevo spalancato la bocca, guardando Mr. Carrot.
«E se non verrà fuori... ahimè, temo che la cheesecake non potrà proprio mangiarla. Peccato, perché è venuta così buona...» Probabilmente era tornata a sedersi, perché l'avevo sentita pigiare dei tasti a caso, dai toni cupi, come se avesse voluto accentuare la gravità delle sue parole. «La migliore mai fatta. Alle fragole. Mmh, le fragole...»
Avevo sgranato gli occhi. Non poteva avermi scoperta.
«E io conosco qualcuno che ama le fragole.»
Ero combattuta, non sapevo cosa fare, perché sarebbe stato strano. Strano e imbarazzante. Strano uscire allo scoperto, imbarazzante darle prova che l'avevo spiata tutto il tempo.
«La scelta sta a te, piccolo fantasmino.»
Aveva ripreso i suoi vocalizzi.
Io però ci tenevo alle fragole...
Intanto che suonava, avevo forzato un passo fuori dalle tende mentre riprendeva con: «Do, Re, Mi...». Un passo, un altro, e un altro ancora. Piano, calma, con un peluche a forma di carota a darmi sostegno in quella prova di coraggio. «Fa, Sol, La, Si...»
Mi fermai accanto al panchetto.
C'era stata una breve pausa, poi...
«Do.»
Avevo chiuso il cerchio io, per lei.
Le dita di Cordelia erano rimaste sospese sui tasti, senza toccarli, quasi qualcuno l'avesse messa in uno stato di stand-by con un telecomando. Il suo viso non aveva espresso alcuna emozione. Si era imbambolata. Io avevo stretto il peluche tra le mani dal nervoso, strangolandolo, rimanendo in attesa di un verdetto. O di un rimprovero. Anche se, conoscendola ora, sapevo che rimprovero e Cordelia vicini cozzavano molto.
«Cos'hai detto, tesoro?»
Non aveva ancora staccato gli occhi dai tasti.
Avevo guardato il mio peluche, stringendo le labbra. «Do.»
«Oh, mio... Gesù!» Si era girata totalmente verso di me, gli occhi sgranati e un sorriso enorme, a denti scoperti. Io avevo arretrato dallo spavento. «Ti va di... ripeterlo?»
L'avevo guardata, disorientata, e di nuovo: «Do».
«Oddio... che bello, che bello, che bello» aveva sussurrato, parandosi la bocca dall'emozione. Si era inclinata verso di me. «E ti piace quello che hai appena detto?»
Avevo abbassato lo sguardo sulla carota, annuendo.
«Vieni qui, fantasmino, ti faccio vedere una cosa.» Mi aveva teso le mani per afferrarmi dalle ascelle e farmi accomodare accanto a lei. Poi aveva pigiato su un tasto che nelle settimane precedenti avevo sentito innumerevoli volte. «Questo è il Do. Do.»
Io le ero andata dietro, ripetendolo.
«E questo è il Re. Re.»
Avevo ripetuto anche quello. Lentamente, eravamo arrivate fino alla fine della scala musicale, con lei che sorrideva a ogni nota che mi usciva dalla gola, e io che ricopiavo quel sorriso contagioso. Felicità. Si era manifestata così, a starle vicina, ad avere la consapevolezza di star varcando le porte di un mondo che aveva risvegliato qualcosa e che avevo creduto, invece, sarebbe rimasto addormentato. Non avevano creduto nemmeno i miei genitori che potesse accadere così in fretta. A detta di Allan ci voleva ancora del tempo, e con gli stimoli giusti avrei parlato senza difficoltà, senza chiudermi a riccio davanti agli sconosciuti.
Lo stimolo, a quanto pareva, era proprio il canto.
«Ora chiamiamo Allan e glielo diciamo» aveva detto entusiasta, acchiappando il telefono che aveva lasciato sul bordo del pianoforte. Aveva risposto dopo due squilli e, con il vivavoce, Cordelia aveva gridato: «Indovina cosa ti sei perso nell'ultima mezz'ora?».
«La cheesecake? Ve la siete mangiata senza di noi?»
«Se non vi sbrigate a tornare se la mangerà tutta Ophelia!»
«Ma come» avevano esclamato Allan e, in sottofondo, Olivia.
Cordelia mi aveva fatto l'occhiolino, avvicinandomi il telefono. «Vai, tesoro, di' loro cosa si sono appena persi. Diglielo chiaro e tondo.»
Avevo corrugato le sopracciglia sul cellulare, puntato contro come se fosse un microfono e, smarrita, avevo espresso un flebile: «Do».
Silenzio dall'altro capo della telefonata.
Poi solo urla da farmi tappare le orecchie.
«Oh mio... Ha detto Do? Senza di me?»
«Pazzesco! Ha detto Do senza di te!»
«Olivia, prendi anche due bibite! E una birra!»
«Ma papà, il carrello scoppia, non si muove più!»
La chiamata aveva continuato così: con mamma, papà e la mia sorellastra che urlavano. Io, perplessa, avevo fissato Cordelia che gesticolava, poi la carota tra le mie braccia con il suo sorriso finto e uno sguardo inebetito, che si avvicinava tanto a un "Non chiedermelo, non lo so, sono più confuso di te".
Poi, quando avevano finito, mia madre mi aveva domandato pacatamente: «Ti piacerebbe rifarlo, ma usando parole diverse?»
Non avevo pensato: avevo annuito e basta.
«Ti piacerebbe imparare per bene?»
Avevo annuito di nuovo, con più vigore.
«Ti piacerebbe saper fare...» E aveva sollevato il mento in una posa solenne, aperto la bocca ed emanato un soprano eccezionale, pulito, degno della parte di Violetta nell'opera de "La Traviata".
Rapita, non ero neanche riuscita ad annuire, solo a spalancare la bocca.
Lei era scoppiata a ridere e mi aveva schioccato un bacio sulla testa.
«Lo prendo per un sì.»
Adesso
«Sleep walk, every night, I just sleep walk...»
Il cucchiaino di una signora con un fazzoletto intorno al collo tintinnò sul piatto in cui le avevo servito una fetta di cheesecake alle fragole. Si pulì gli angoli della bocca con un tovagliolo e continuò a colloquiare con quella che aveva l'aria di essere un'amica che non vedeva da tempo. In generale, il locale era vuoto, e aleggiavano pettegolezzi a mezza voce, che si alternavano a risate trattenute dietro a labbra tinte di rosso. Le pale dei due ventilatori al soffitto creavano lenti mulinelli e si univano alla conversazione provocando un rilassante fruscio. Ma a rendere più omogeneo il clima tipico del sabato, di quelli che non chiedevano sovraffollamenti di brusii o frequenti scampanellii alla porta da parte della clientela, erano le casse, intente a trasmettere la calma vintage di Sleep Walk.
D'altronde, il quartiere verde di Chestnut Hill era conosciuto anche per questo: eleganza nei gesti, tranquillità che scorreva tra i viali, tatto persino nel fare rumore.
Appoggiata al bancone della cassa, mi massaggiavo le mani fra loro, intrecciavo le dita, le stringevo, le chiudevo e aprivo. Senza motivo. Quando mi distraevo a osservare persone e particolari, il mio corpo assimilava le informazioni così. E ora era il turno dell'anello al pollice, che giravo e giravo, come il proiettore cinematografico che, in quel momento, era diventata la mia mente.
Lisciai l'accessorio con il polpastrello, con un sorriso.
Era bastato che la stazione radio trasmettesse quella canzone che la mia presenza diventasse assenza; non ero più al Cake O'Clock, uno dei bar pasticceria più frequentati di Chestnut Hill, ma a casa. Non avevo più vent'anni, ma cinque. E il dolce profumo dell'impasto era stato sostituito dal desiderio delle fragole di una cheesecake, come rappresentazione simbolica del mio primo passo avanti. Tanto tempo fa, e sembra solo ieri.
Scorsi la signora raggiungermi.
La guardai, lei guardò me, di conseguenza abbassai lo sguardo sulla cassa.
«Due cheesecake, giusto?»
«E un caffè macchiato.»
Afferrai la banconota da dieci dollari che mi tese, picchiettando sulla cassa alla velocità della luce. Preferivo tenere i miei occhi occupati anziché preoccuparmi dei suoi, che fissavano per l'attesa. Come qualsiasi altro normale cliente. Ma era uno dei motivi per cui mi imponevo di imparare ogni mansione nel minor tempo possibile. E meno tempo avrei perso, meno attenzioni avrei ricevuto su ciò che facevo. E più facevo caso a quella sgradevole sensazione, più era probabile che mi distraessi e sbagliassi. Esperimento già testato, tutto calcolato.
Accennai un sorriso.
Ma allo scontrino che le passai.
«Che fulmine, ragazza, mai vista una rapidità simile da una cassiera» ridacchiò la signora, mentre lo custodiva nella borsetta. «Immagino che usare i telefonini abbia la sua utilità, oggigiorno.»
«Qualcosa del genere.»
«E il signor Cole oggi c'è? Dovevo scambiare due chiacchiere con quella vecchia canaglia, sa, a quanto pare gli piace farsi i suoi comodi quando si parla di "debiti". Mi deve minimo venti dollari.»
Trattenni una risata, ma dovetti rivolgerle uno sguardo rammaricato. «Purtroppo oggi non c'è. A quanto mi è stato riferito si è dato malato da ieri.» Il signor Cole era un po' il motore principale di quella piccola attività che andava avanti da qualche anno e, nonostante i sostituti, non eravamo stati all'altezza della calca che era solita frequentare il bar, senza di lui. Per la fretta, un paio di bicchieri si erano infranti sul pavimento, il bilancio di fine giornata non quadrava, e in cucina avevano dovuto preparare da capo una dozzina di cupcake.
Alzai gli occhi sulla montatura degli occhiali circolari della signora.
Ma non gli occhi.
Mai gli occhi.
«Probabilmente aveva capito che venivo a fare la rompipalle. Peccato, sarà per la prossima volta.» Si allontanò con una scrollata di spalle, alzando la mano in cenno di saluto.
Ricambiai con un sorriso mentre usciva dalla porta. Ma neanche ebbi il tempo di tornare tranquilla, che un secondo scampanellio mi avvertì dell'arrivo di un altro cliente.
Guardando meglio capii che non lo era.
La lunga treccia ramata mi suggerì che era solo la mia collega, Bethany, tornata dalla pausa sigaretta. Si era allontanata da quando, mentre serviva un gruppo di ragazzi, aveva ricevuto una telefonata che l'aveva allarmata. Non mi aveva dato il tempo di accertarmi se stesse bene che era piombata fuori all'istante, rimanendoci almeno un quarto d'ora e lasciandomi provvisoriamente i suoi compiti.
L'espressione, però, era rimasta tale e quale.
«Certo... Sì, immagino. Dev'essere stato tremendo... Noi, sì, ce la siamo cavata.» Avanzava lentamente, l'attenzione rivolta al pavimento. Poi alzò lo sguardo, in risposta corrugai le sopracciglia, lei mi rivolse un'occhiata dispiaciuta a cui non seppi dare un'interpretazione. «Non ti preoccupare per tutte le pratiche burocratiche, ci si pensa in un secondo momento... Pensa a tua madre, adesso, cercate di...»
Misi in ordine alcuni post-it colorati, rimanendo a orecchio teso.
«Dave, ascolta, non... Per ora fai ciò che... Sì, meglio, ci sentiamo dopo. Per qualsiasi cosa sono qui, ok? Ti amo. Ciao. Sì, ciao.»
Posò il telefono accanto alla cassa e, appoggiandosi al bancone, si massaggiò la faccia. «Che casino. Dio, che cazzo di casino» sussurrò.
«Cos'è successo?» chiesi preoccupata.
«Il signor Cole, Ophelia» sospirò, togliendosi le mani da un viso distorto dall'amarezza. «Ieri ha avuto un attacco ischemico, il secondo in un anno, te l'avevo raccontato. Ma stavolta... beh, la cosa è andata avanti per le lunghe e... niente. Stamattina gli è venuto un ictus, per cui...»
Schiusi la bocca. «Non...?»
«Già.»
«Cavolo, Beth... mi dispiace tantissimo, le mie condoglianze» soffiai, carezzandole la schiena. Oltre a essere il suo capo, per lei aveva coperto il ruolo di un futuro suocero. Un suocero che dava tanto l'impressione di un nonno. Accadeva di frequente che li vedessi parlare fra loro, e l'affetto che li aveva legati era sempre stato lampante, ai miei occhi. «Se vuoi che...»
«No, ti ringrazio, preferisco non parlarne. Dovrò farlo appena vedrò il mio fidanzato, quindi voglio rimanere lucida.» Si drizzò, risoluta, e la treccia le scivolò sulla schiena. «E, guarda, mi spiace doverti dare anche quest'altra pessima notizia proprio ora, ma...»
Si strofinò la fronte, io mi preoccupai. Ho dato un resto sbagliato? Dei clienti si sono lamentati? Sarò licenziata per questo?
Probabilmente riuscì a leggermi i pensieri senza vederli davvero, perché le uscì un fievole risata. «No, Ophelia, tu hai svolto un lavoro grandioso, meglio di qualunque altra cassiera ci sia stata prima.»
Ok, nessun casino, sono ancora assunta.
«Il fatto è che sorge un problema con te e l'altro tirocinante. Anzi, che dico, il problema è di tutti noi... e non so neanche come cazzo funzioni.» Schioccò la lingua, batté il piede a terra dal nervoso, e lo disse con un sospiro: «Il problema, a detta di Dave, è che saremo costretti a chiudere l'attività. Non so quando, non so come, non so per quanto tempo, ma per legge a quanto pare è così. Il signor Cole non ha eredi competenti che possano sostituirlo, senza contare che era l'unico ad aver messo su questa baracca e... Capisci il casino?»
Alla fine sono licenziata comunque.
«Quindi...» Mi morsi il labbro. «Cosa devo fare?»
«Tu? Tu niente, finiamo il turno e da lunedì puoi pure rimanere a casa. Ti verrà versata la liquidazione sul conto e ti toccherà parlare con l'ufficio di collocamento per comunicare tutto. Probabilmente ti faranno firmare qualche carta qua e là e... basta, credo. Al resto ci pensiamo noi.»
Lo stomaco mi si strinse in una morsa feroce. Non seppi come sentirmi, era come se fosse appena piombato un turbine di vuoto a inghiottirmi. Rimarrò a casa. Rimarrò a casa. Rimarrò a... casa.
Impallidii.
«Non ti preoccupare, tesoro, una come te troverà dell'altro senza neanche accorgersene. Sei in gamba. Hai già tanta esperienza alle spalle per la tua età.» Passeggiò davanti alla vetrina dei dolci, mentre io calcolavo mentalmente cosa avrebbe comportato quella notizia infausta. A casa. «Ti va un dolcetto? Non si potrebbe, in realtà, ma visto come andranno le cose... E poi oggi è una giornata di merda, quindi ce lo meritiamo entrambe.»
Stavo sudando. «Vole... Volentieri, sì.»
«Velvet? Brownie?» Si chinò. «Cheesecake?»
«La cheesecake andrà benissimo.»
«Con le fragole?»
«Tante fragole.»
ANGOLO AUTRICE
Hola, nightingales!
Dovevo pubblicare alle sei... ma l'ansia mi ha obbligata a rileggere il capitolo. Perché la prudenza non è mai troppa. Spero solo ne sia valsa la pena. 😅
Alura, vi avverto sin da subito: la storia sarà un continuo avanti e indietro nel tempo. Quindi flashback di piccoli frammenti di vita dell'Ophelia da bambina-adolescente, e poi il tempo presente. Ma non vi preoccupate, capirete quando faremo i salti temporali perché inserirò la dicitura "Prima" per il passato, e "Oggi" per il presente. ✨
Siamo solo all'inizio, ma intanto mi piacerebbe tantissimo sapere se avete sentito anche voi il profumino di fragole che sente Ophelia. Già, per lei quel ricordo equivale alla sua prima vittoria personale, al suo primo passo avanti. Da come si deduce, da quando viene adottata, ha sempre avuto questa difficoltà a parlare con gli sconosciuti, e Allan e Cordelia non sono stati un eccezione. Per lei ci voleva, come per molti altri casi esistenti, lo stimolo giusto.
In questo caso il canto.
Col tempo, come avrete notato nel tempo presente, ha superato la paura, poiché riesce a parlare normalmente. Tuttavia, ha sviluppato... altre paure. Quali? Alcuni piccoli lampanti indizi ci sono già. Per scoprire i prossimi, vi basterà continuare ad accompagnarmi in questa nuova avventura.🖤
E voi? Amate o no le cheesecake alle fragole? Le vostre vittorie... di cosa profumano?
Fun fact: mai assaggiata una cheesecake. 🍓
Alla prossima! 🕊️🕊️🕊️
Curiosità:
(1) SWAN = agenzia di adozioni di Filadelfia.
▪️Penn's Treaty with the Indians:
(ma loro ce l'hanno color seppia lol)
Playlist:
Sleep Walk - Betsy Brye (prima parte)
https://youtu.be/0pCUR0gMXDc
Sleep Walk - Santo & Johnny (seconda parte)
https://youtu.be/co0qrS8wUaQ
Instagram: The_blackcatshadow
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro