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CAPITOLO 9 - LA CASA DELLA SIRENA

Giugno, 703 AVC

"Avevi ragione, nonno" pensai, mentre le mie pupille si allargavano per abbracciare lo spettacolo che mi stava davanti. L'orizzonte era sconfinato e io potevo contemplarlo dalla collina di Posillipo, accarezzato dall'aria fresca della sera. Laggiù, i colori erano più belli che in qualsiasi dipinto; il verde della costa sfumava nel blu schiumoso e le imbarcazioni puntellavano un mare addormentato in cui si specchiavano centinaia di stelle.

"Chissà quanti racconti passano dalle bocche dei marinai" avvertii il cuore gonfiarsi a tal punto da farmi male "Chissà cos'hanno visto i loro occhi". D'improvviso, cominciai a riflettere sulle storie che avrei desiderato scrivere. Non lo feci di proposito – avevo giurato di non comporre più un singolo verso – era la laguna ad ammaliarmi col suo canto.

«Perché sei qui?» la voce indagatrice di Quinto Cicerone mi riportò al presente. In meno di un anno era cambiato parecchio: aveva spalle più larghe, lineamenti induriti e abiti da adulto. «Gli altri sono andati a dormire» precisò, accennando alla locanda dov'eravamo alloggiati.

Io abbozzai un sorriso. «Non avevo mai visto il mare» ammisi.

«Ogni tanto dimentico che sei un provinciale» Quinto tirò su col naso e assunse un'espressione supponente «La prima volta in cui io ho visto il mare, non sapevo nemmeno scrivere.»

Raccolsi la provocazione senza ribattere. Non era importante ricordargli che anche la sua famiglia, per quanto celebre, non apparteneva all'aristocrazia. «Presumo che tu veda il mare tutti i giorni, ora che abiti in Cilicia. È affascinante come questo?» ero sicuro che Quinto avrebbe elencato le meraviglie di quella regione. Lui, invece, strinse i pugni.

«Abbiamo donne mediocri, cibo scadente e un clima sgradevole.»

«Però, vivete insieme. Tu, i tuoi zii...»

«Mio zio viene nominato proconsole e l'intera famiglia deve trasferirsi!» sbuffò «Grazie agli Dei, ho convinto i miei genitori a trascorrere in Italia almeno l'estate.»

Mi morsi il labbro. C'era una rabbia inspiegabile nelle sue parole, quasi la usasse per coprire dei dispiaceri. «Vuoi parlare?»

Quinto mi rivolse un'occhiata truce che celò subito dietro l'abituale aria sorniona. «La notte non è fatta per le chiacchiere» esclamò «Solo sicari e amanti contrattano alla luce delle stelle e noi, fino a prova contraria, non siamo né l'uno né l'altro». Appena terminata la frase, mi diede le spalle e si diresse verso la locanda; tuttavia, a pochi passi dalla porta svoltò a destra e iniziò a camminare avanti e indietro in una piccola porzione di terreno.

"Desidera che vada a dormire" ragionai, seguendo i suoi movimenti nervosi. La mia presenza lo infastidiva, ma voleva trascorrere la notte proprio laddove mi ero fermato io. «Quali angosce ti turbano?» bisbigliai tra me, indeciso se raggiungerlo. Poi, scelsi di assecondare il suo piano, rientrai nella locanda e sbirciai da una finestra. "Era come immaginavo" sospirai, nel vedere che Quinto tornava sul promontorio e si sedeva a fissare l'orizzonte. Forse, aveva bisogno della laguna per placare il suo animo. «Che la notte ti sia lieve» bisbigliai, lasciandolo tra le braccia accoglienti del paesaggio.

I dubbi di quelle ore si assopirono con l'alba e gl'impegni innumerevoli del giorno tennero occupate le nostre menti.

«Sirone ci aspettava al sorgere del Sole» puntualizzò Marco Catone, invitando a consumare la colazione in fretta «Critichiamo i napoletani per l'inerzia e la natura mutevole e poi...»

«Ti supplico» Sabino gli passò un po' di formaggio intinto nel miele «Mangia qualcosa di dolce e ricorda che siamo qui per oziare.»

«Siamo troppo giovani per oziare!»

«Troppo giovani per oziare e troppo adulti per altri divertimenti. Una vera ingiustizia!»

Distolsi lo sguardo, cercando di non ascoltare. Sotto molti aspetti, Catone e Sabino sembravano più che semplici amici e la loro complicità m'infastidiva. "Sto mal interpretando una frase banale" provai a convincermi. Eppure, quella frase banale apriva una voragine. Non tanto per la gelosia che suscitava in me, quanto perché vi risuonavano le regole della nostra Repubblica: due uomini non giacciono insieme. Potevamo ammirare schiavi, liberti e stranieri, innamorarci di qualche puer o ballerino e, finché ragazzini, nessuno avrebbe controllato con chi passavamo il tempo. Una vera relazione tra adulti, però, era una faccenda ben diversa e includeva implicazioni delicate che, presto, avrei dovuto affrontare.

"Presto. Non oggi" decisi, mentre seguivo il resto del gruppo lungo la via Puteolana.

La scuola di Sirone si trovava ai piedi della collina, entro la seconda pietra miliare. Sembrava una tradizionale dimora di campagna con qualche piccola influenza orientale e non c'era traccia delle statue che abbellivano l'accademia di Epidio. In compenso, il cortile era curato in maniera impeccabile e si respirava un'aria spensierata che mi fece sorridere.

"Rimarrei volentieri" pensai, sfiorando il dorso della mano di Sabino. «Grazie per avermi invitato». Ci guardammo un istante, poi il maestro Sirone venne verso di noi e io sussultai.

«Non è romano» mi tranquillizzò lui «Dentro queste mura, non corriamo alcun rischio.»

Sentii il cuore battere più forte e uno strano malessere stringermi lo stomaco, così, spostai l'attenzione sul maestro. Dargli un'età era impossibile. Pareva lì da sempre, come la sua scuola, tuttavia, non potevo definirlo vecchio: aveva una postura eretta, capelli ancora scuri e un corpo vigoroso. La sua pelle olivastra era solcata da rughe sottili, i lineamenti erano allungati ma non pungenti, gli occhi vigili, austeri e al contempo buoni.

Ero talmente perso a studiarlo, che nemmeno vidi gli allievi al suo seguito finché non furono loro a porgermi la destra. Vario era più grande di tutti noi, con l'atteggiamento del filosofo e abiti greci; Tucca, invece, dimostrava al massimo quattordici anni e mi sorpresi quando non trovai la bulla intorno al suo collo. Salutati i due giovani, strinsi la mano al maestro Sirone.

«Publio Virgilio Marone» esclamò, con leggera inflessione straniera e un timbro gentile «So dal tuo rhetor che sei nipote di Magio, ma l'avrei capito pure senza spiegazioni.»

«C... come?»

«La somiglianza è incredibile.»

«Tu... lui...» balbettai, incapace di articolare una frase. Epidio aveva indicato le famiglie di ognuno, però, di certo, non si era soffermato sull'aspetto del nonno. "Sirone lo conosceva. Magari erano amici" nel viaggio non avrei solo messo alla prova il legame con Sabino. Forse, il Fato aveva scelto Napoli anche come luogo per trovare le mie radici. Quel pensiero mi seguì mentre sistemavo gli effetti personali e durante la visita della città.

Sirone ci illustrò la storia del luogo indugiando sulle leggende del porto, indicò le popinae migliori, le aree da cui tenerci alla larga e, dopo pranzo, ci condusse a un promontorio isolato. «Genti di mare e dalla natura duplice» inspirò a fondo, invitandoci a sedere intorno a lui «Gli abitanti di Napoli assomigliano alla creatura che, molti anni addietro, elesse questa costa a sua tomba.»

«La sirena Partenope?» chiese Marco Catone, estraendo una tavoletta su cui prendere appunti.

«Esatto». Il maestro ci scrutò a uno a uno, ma non come faceva Epidio: per il rhetor, lo sguardo era parte dell'oratoria, uno strumento di lavoro; Sirone, di contro, sembrava interessato a conoscerci.

«Ulisse aveva ascoltato la voce delle sirene senza restarne ammaliato» ricominciò «Ebbene, cosa restava di quelle canzoni per cui, in passato, gli uomini erano pronti a morire? Stavano diventando semplici parole?» diede tempo a ciascuno di formulare una propria risposta, quindi proseguì «Era un affronto troppo grave, un dispiacere troppo grande; perciò, le sirene si gettarono tra le correnti e Partenope venne trovata su queste coste in fin di vita. Qualcuno si spaventò, convinto di essere al cospetto di un mostro; qualcun altro tentò di soccorrerla e, malgrado lei smise presto di respirare, la sua essenza rimase qui, nei cuori di commercianti e pescatori, nelle loro melodie e in una natura mutevole non sempre compresa. Napoli, la città nuova che fu greca prima che romana, nacque anche come tomba di una sirena convinta di non avere nessuno disposto ad ascoltare il suo canto.»

I miei compagni erano attenti, ma io ero turbato. Non avevo mai pensato al Destino delle sirene di Ulisse e, mentre Sirone parlava, ricordai le emozioni provate dopo che il nonno aveva requisito il mio poema. Mi ero sentito solo, incompreso, forse persino inutile.

«Ragazzo?» il maestro si chinò verso di me e mi accorsi di essere l'unico rimasto seduto.

«S... scusami» balbettai, balzando in piedi.

«Il racconto era così noioso?»

«Oh no! Il racconto mi ha fatto... ehm... riflettere su alcune questioni personali.»

Credevo si arrabbiasse e, invece, sorrise. «Dunque, è servito a qualcosa» dichiarò compiaciuto «Il giorno in cui le storie non si specchieranno più nelle nostre vite, ahimè, sarà il giorno in cui smetteremo di raccontarle. Lieto di sapere che la leggenda di Partenope ha ancora uno scopo.»

Mi sforzai di annuire e rimasi silenzioso per il resto del pomeriggio. I miei compagni avrebbero trascorso la serata in una taverna, ma io scelsi di tornare sul promontorio. «Vuoi venire con me?» sussurrai a Sabino.

Lui fece un cenno d'assenso e, poco dopo, eravamo seduti l'uno di fianco all'altro.

«La famiglia di mia madre è originaria di queste terre» mormorai, appoggiandogli la testa sulla spalla «Chissà se l'eredità di Partenope vive in noi... In me.»

«Cosa intendi?»

«Il canto» sapevo di non dover scrivere, tuttavia, desideravo confessare del poema su Manto, del mio dono e dei sogni inspiegabili che mi visitavano fin dall'infanzia. «Sai, io vorrei...»

«Anch'io» Sabino mi spinse a terra. Adesso, l'erba umida mi bagnava la schiena, il collo e i capelli. Avvertivo il suo respiro sulle labbra, le sue mani sulle guance, il petto contro il mio. Chiusi gli occhi e, per un attimo, i nostri cuori furono talmente vicini da battere allo stesso ritmo. Non sapevo se ciò che provavo fosse felicità o paura, però inchiodava il mio corpo al suolo, quasi non mi appartenesse più, mentre un brivido improvviso mi fece battere i denti.

Smetti di tremare, comandò una voce dentro di me, sei ridicolo. Respira. Fidati.

Stavo per abbandonarmi alle carezze di Sabino, quando lo sentii slacciarmi la cintura. «Cosa fai?!» ansimai, sgranando gli occhi.

Lui mi rivolse uno sguardo perplesso e si chinò di nuovo su di me.

«Fermo!» strisciai indietro.

«Siamo qui apposta, no?» Sabino era sempre più confuso, io sempre più spaventato.

Afferrai la cintura e provai a vincere il tremore che mi scuoteva le membra. Al quinto tentativo, riuscii finalmente a riannodarla. «No...» sospirai quando ebbi terminato.

«Allora, perché hai chiesto di seguirti?»

Chinai il capo. Non lo sapevo.

«Virgilio?» Sabino mi accarezzò una coscia, ma quel tocco mi diede così fastidio che fui travolto da un senso di nausea.

«Non possiamo.»

«Certo che possiamo!» esclamò lui, mal celando la sua frustrazione.

«Siamo adulti liberi» mi aggrappai a una norma per giustificare una paura personale «Uno dei due dovrebbe...» non sapevo che parola stavo cercando, quindi elencai tutte quelle che mi vennero in mente: sminuirsi, tradire il mos maiorum, svendere il proprio corpo, umiliarsi...

«Vorresti una relazione senza sesso?» Sabino scosse la testa. «Non so cosa ti hanno insegnato al Nord, ma non esiste un Amore senza sesso.»

«Esistono tanti modi di...» balbettavo, ero arrossito e accaldato «...Darsi piacere. Non bisogna per forza...» mi fermai non appena incrociai i suoi occhi. Era deluso. Ed era colpa mia. «Mi chiedi un sacrificio, te ne rendi conto?»

«L'Amore è anche sacrificio. Altrimenti, che Amore è?»

La domanda mi colpì in pieno petto. «Non sono pronto» bisbigliai, trattenendo a stento le lacrime «Non adesso.»

Sabino serrò le labbra, spostando l'attenzione sull'orizzonte. Poi si alzò e tese una mano verso di me: «Aspetteremo» sospirò con fare comprensivo ma ancora un po' alterato «Vieni. Gli altri sono nella taverna e non ha senso restare qui.»

Io esitai. Avevo sperato di usare quei momenti per conoscerci più a fondo e sapevo che la serata alla popina avrebbe compreso donne e alcol; tuttavia, non potevo tirarmi indietro di nuovo, così, presi la sua mano e lo seguii.

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