CAPITOLO 4 - DIMMI DI PIU'
Mi svegliai prima dell'alba. Da che ero nell'Urbe, i ricordi della Tessaglia turbavano il mio sonno. C'era un solo modo per placarli.
Allungai un braccio sotto il letto e cercai a tastoni l'oppio. «Eccoti!» sorrisi, portandolo alle labbra "Il rimedio a ogni ango..." non feci in tempo a formulare quel pensiero, che un altro prese il sopravvento "Quante volte l'ho già assunto? Tre? Dieci? Venti?". Non lo sapevo. Non era un buon segno. «Cornelio disapproverebbe» mi tirai a sedere, indeciso se parlargliene. Fantasticai anche di confessare tutto a Volumnia; poi, scelsi di preparare la colazione, consapevole che nessuno avrebbe capito: io stesso diffidavo dell'uomo che stavo diventando.
«Virgilio, finirai per viziarmi!» esclamò Cornelio un'ora più tardi, quando trovò il pane caldo e la tavola apparecchiata «Il giorno in cui tornerai a Posillipo, sarò perduto.»
Rimasi in silenzio.
«Tu non vuoi che il tuo migliore amico muoia di fame, vero?»
Scossi il capo.
«Ebbene, ascolta la mia proposta: trasferisciti nell'Urbe, avviamo un'attività insieme e vediamo dove ci porta il Fato.»
"Il mio Fato conduce agli Inferi. Tra sei mesi sarà ufficiale".
«Suvvia!» mi spronò Cornelio, notando che avevo smesso di mangiare «Arte, cultura, poesia... adesso che la guerra e conclusa, immagina quante cose potremmo fare!»
Tesi le labbra in un sorriso forzato e terminai la colazione. «Vado da mia madre» la scusa perfetta, se volevo evitare domande scomode «Hanno bisogno col bambino.»
«Sei spesso da lei» Cornelio annuì compiaciuto e sorseggiò un po' di latte «Lieto di sapere che venire qui vi ha riavvicinati.»
«Già...»
Bugiardo! sibilò la mia coscienza, Non la vedi dalla nascita di quel maledetto fratellastro.
Cornelio afferrò l'ennesima fetta di pane. «Talvolta, la distanza fisica è ciò che serve per riconciliare i cuori.»
«Come sei poetico» farfugliai, prendendo il mantello. Nel sistemare la fibbia sulla spalla, quasi per caso, mi ritrovai a esaminare il mio amico. Un'anima pura, buona, quieta, ma incapace di scorgere le crepe del mondo. Ignorava quanto la Repubblica fosse sull'orlo del baratro, ignorava le occhiate astiose che gli lanciavano i patrizi e ignorava persino le mie ombre. «Torno entro il tramonto» lo salutai, diretto a Vicus Tuscus.
D'inverno, le strade erano ancora più luride e non sporcarsi era difficile.
«Ci mancava il diluvio!» sbuffai, avvolgendomi stretto nella lana. O avanzavo rasente ai muri – dove il suolo era un ammasso di fango, escrementi e scarti di cibo – o permettevo alla pioggia di entrarmi nelle ossa. Optai per un compromesso, camminando il più in fretta possibile. Per fortuna, giunto alla meta fui accolto dai vapori bollenti e dal crepitio del fuoco.
Feci un cenno ai guardiani che ormai conoscevano il mio volto, appesi il mantello, sfilai i sandali e mi avvicinai alla ciotola contenente le fave. Inchiodate alla parete, decine di maschere fissavano il vuoto. "Presto ne indosserò una anch'io" pensai, ingoiando i legumi.
«Le studi con interesse» bisbigliò un uomo alle mie spalle «Sei impaziente di diventare una larva?»
«Dovrei ambire a trasformarmi in uno spirito maligno?» replicai, senza girarmi. Larve, spettri, lemures. Tanti modi per descrivere le anime inquiete.
«Sono larve pure le future farfalle» sibilò l'uomo, accostandosi al mio orecchio «I mortali possono mutare la propria Natura, Virgilio. Basta desiderarlo» mi accarezzò la schiena e indicò le maschere «Tra qualche mese, vestirai nuove sembianze.»
«Per il momento, desidero compiere il rito che mi avete promesso». Scoprire una scheggia del Presente di Sesto e dei miei ex-compagni. Era dal convivio nella villa di Pompeo che mi esercitavo.
L'uomo annuì e mi guidò in una stanza angusta, invitandomi a bere il kykeon dal cratere posto al centro. «Di più» continuò a dire, finché non sentii la lingua intorpidita, gli occhi gonfi e uno strano formicolio nelle membra. Lui gettò a terra delle foglie, aspettò che m'inginocchiassi e richiuse la porta, lasciandomi solo nel buio.
«Concentrati!» ripetei nervoso «Non cerchi oracoli fumosi: quelli competono ai sacerdoti». Volevo vedere ciò che accadeva agli sconfitti della guerra civile. E volevo immagini chiare.
Invocai le divinità ctonie, spostai le foglie secondo gli insegnamenti dei miei mentori e, nel terreno, si disegnò un paesaggio via via più nitido. La spiaggia era illuminata da un freddo Sole mattutino; il mare ondeggiava, lento e regolare come il respiro di un gigante assopito, e un giovane dai capelli biondi se ne stava accovacciato a pochissima distanza dall'acqua. Bastava un minuscolo cambiamento nelle correnti affinché si bagnasse, eppure non accadeva, quasi gli abissi temessero di toccarlo. Il suo volto era nascosto in una pergamena che stringeva con entrambe le mani. Poi, d'improvviso, sollevò il capo.
«Sesto» bisbigliai, sperando di scoprire di più "Dove sei, amico mio? Che messaggio contiene quella lettera? Perché la stringi al petto sorridendo, mentre le lacrime ti rigano le guance?".
«I tempi sono maturi» dichiarò lui rivolto al cielo o, magari, allo spirito di suo padre «Avverrà nel mese di Marte. E finalmente tornerò a casa.»
Dopo, l'immagine svanì e le foglie vibrarono sotto le mie mani. «Una seconda storia» ansimai, sfregando i polpastrelli contro il fogliame «Una seconda tessera del mosaico». Affondai le unghie nella carne e lasciai che il sangue colasse a terra. "Avanti, lemures! Aiutatemi a estendere la vista nello Spazio. Non pretendo di sollevare il velo del Futuro".
Ero troppo impaziente. Portai il cratere alle labbra, bevvi il kykeon che restava e, presto, venni accecato da un intenso bagliore. Avevo davanti i giardini di una villa lussuosa. Le statue greche facevano capolino dai cespugli e il vociare dei domestici si mischiava al rumore del vento. "La domus di Cicerone" constatai, appena riconobbi Quinto, accompagnato dal celebre zio.
«Intendi davvero seguire Cesare in Oriente?!» domandò l'uomo in tono accusatorio «Non è sufficiente ciò che bisbigliano di te?»
Quinto aumentò il passo e attraversò il peristylium senza girarsi.
«Il tuo fidanzamento è saltato. Mi hai messo in imbarazzo. Alcuni dicono...»
«Sentiamo!» Quinto puntò i piedi, serrò i pugni e lanciò a Marco Tullio Cicerone un'occhiata di sfida «Cosa dicono? Che ho trattato segretamente con Cesare, mentre la nostra famiglia parteggiava per Pompeo? Che ci sono andato a letto per pararti il culo? Parlino pure: noi siamo al sicuro. E non per merito tuo, "principe del Foro"» concluse in tono tanto canzonatorio quanto carico d'odio.
Pur ignorando i dettagli, persino io sapevo che Cicerone si era schierato con Pompeo e aveva poi ottenuto il perdono di Cesare grazie a una torbida trattativa tra Quinto e l'attuale dittatore.
«Comunque» continuò il mio amico, più pacato «Sta' tranquillo. Non ci sarà alcun viaggio.»
Cicerone fece per sorridere, dopo aggrottò la fronte. «Non ci sarà alcun viaggio?» ripeté sospettoso «Cesare intende rimandare la partenza?»
«Zio, evita la farsa.»
«Per gli Dei, si può sapere di cosa mi accusi, stavolta?»
«Ipocrita» Quinto non aggiunse altro e osservò l'uomo che aveva di fronte.
L'osservai anch'io, pregando di capire. "Cesare è malato e Cicerone ne è al corrente?" ipotizzai "Qualche intralcio tratterrà il dittatore nell'Urbe?". Ero talmente lontano dalla vita politica, che ogni risposta aveva uguale valore. Soltanto Quinto e suo zio potevano darmi spiegazioni; loro, invece, cambiarono argomento.
«Tuo padre è più agitato del solito» sospirò l'uomo «Ha bisogno di te.»
«Sono qui».
Il suo sono qui racchiudeva grandi rinunce e, a differenza degli intrighi politici, ne conoscevo i retroscena: significava non trasferirsi dalla madre, ora che i suoi genitori avevano divorziato; significava restare nella casa di un individuo violento; significava sacrificare tempi e spazi nel tentativo di controllare un animo imprevedibile e pericoloso. Marco Tullio Cicerone era troppo egoista per occuparsene... meglio delegare al nipote.
«Non partirò» ribadì Quinto in tono greve «E andrò a trovare la mamma solo durante la festa di Anna Perenna. In quei giorni, mio padre starà da te, non è così?»
Cicerone si strinse nelle spalle. «Senz'altro. Lo raggiungerò conclusa la riunione del Senato.»
Al termine della frase, quasi fosse tutto legato da un unico filo, lo scenario mutò. Vedevo sempre una domus aristocratica, ma gli abitanti erano diversi.
Il figlio di Sabino bussava a una porta chiusa. «Apri! Apri! Apri!» canticchiava «Voglio giocare con te.»
Nessuna risposta.
«Papà mi ha vietato di disturbare Porzia» si lamentò «Dice che sta male. È la verità? Perciò è tanto grassa? Scoppierà come la rana della favola?»
«È incinta» sbuffò quella che riconobbi essere la voce di Marco.
«In Cinta? Dov'è? Nella Gallia?»
«Basta, Lucio!»
Il bambino si schiacciò sulla porta. «Esci, ti prego!»
All'ennesimo richiamo, Marco uscì. Si reggeva a fatica, avvolto nei numerosi strati di stoffa. Magro, pallido, con labbra screpolate, nocche livide e unghie rotte. Pareva malato, però Lucio non ci diede importanza e tese le braccia. «Fammi volare!»
Per tutta risposta, lui gli afferrò un polso, diretto al tablinum. «Sabino?!» gridava «Vuoi badare a tuo figlio, invece di...» tacque nell'istante in cui entrò nel salone. «Che scherzo è questo?»
Sabino era seduto sul divano con una ciotola tra le mani. «Olive verdi in salamoia. Le tue preferite.»
«Cosa?»
«Ero sicuro che Lucio ti avrebbe vinto per sfinimento» sorrise al bambino e tornò a guardare Marco «Dovevo portarti fuori da quella camera. Digiuni da troppo.»
«Non ti riguarda.»
«Papà, posso andare?» s'intromise Lucio.
Lui annuì e fece segno a Marco di sedersi. «Per favore.»
«Non c'è niente da dire.»
«Allora resta zitto» Sabino posò la ciotola e gli andò incontro «Non sarà una novità: ricordi i tuoi giorni di silenzio, quando eravamo piccoli? Alle volte, ero talmente stufo che iniziavo a rispondere alle mie stesse domande. Avevo addirittura imparato a imitare la tua voce.»
«È passato tanto tempo.»
Sabino esitò un attimo, prima di condurlo sul divano e avvolgerlo in un abbraccio. «Io ricordo» bisbigliò «E ricordo che, nonostante il silenzio, riuscivo a comprenderti. Adesso sei...»
«Una causa persa» completò Marco «Fattene una ragione.»
«Hai una famiglia che ti ama, agi, una posizione sociale... me. Non conta nulla?»
Lui scosse il capo e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Piange?!» sussultai, mentre le lacrime di Marco diventavano singhiozzi disperati. Lo vidi nascondere il viso nel petto di Sabino, incapace di fermarsi.
«Tu non c'eri!» boccheggiò «Cesare... È un mostro...»
«Ti ha concesso il perdono.»
«Al prezzo di diecimila innocenti che volevano arrendersi» dichiarò Marco «Li ha uccisi tutti. Tutti!»
Sabino gli accarezzò la testa. «Non ci pensare.»
«Dovevo seguire mio padre... Non c'è esistenza possibile dopo Utica...»
«Ma sei qui.»
«No» Marco sollevò lo sguardo «Di me resta un corpo vuoto che completerà un disegno del Fato. Porzia ha capito subito che la mia anima vagherà per sempre sul campo di battaglia. Fatti un favore: smetti di cercarla.»
«Mai. Piuttosto, portami su quel campo. Ti supplico, dimmi di più.»
Fu allora che sentii una fitta nel petto e mi resi conto di aver perso il controllo sul rituale. Marco, Sabino, Quinto, Sesto... qualsiasi figura nata dalle foglie scomparve. Intanto, una parte di me si allontanava da Vicus Tuscus.
Dimmi di più.
Dimmi di più.
Non udivo altro. Ma identificai all'istante chi avevo davanti.
Il fanciullo era insieme a un uomo anziano – un senatore, forse – e si agitava nel letto, conducendo un gioco che lasciava ben poco all'immaginazione. «Racconta» sussurrò, a un soffio dalle sue labbra. Gli baciò il collo e scese adagio, un bacio alla volta. «Dimmi i nomi. I tempi. I modi. Dimostrami che sai» l'uomo gemette di piacere e lui proseguì «È sufficiente una frase. Che ti costa?» il tono sensuale si mischiava a una preghiera strozzata. Qualunque cosa il fanciullo sperasse di ottenere, poteva cambiare la sua vita. Io, però, mi soffermai sul corpo ormai nel fiore della giovinezza, sui boccoli che gl'incorniciavano il viso, sulle labbra rosee...
Vuoi essere l'uomo al suo fianco.
Era bello.
Vuoi toccarlo.
Bellissimo.
Vuoi che sia tuo.
Balzai in piedi e interruppi la visione. «No, no, no» scossi la testa in preda al panico. Non poteva accadere... Era sbagliato... Era disgustoso... «È colpa del kykeon» arretrai, inciampando nell'oscurità della stanza «Ho i sensi distorti». Indietreggiai fino alla porta, scansai gli iniziati che si avvicinarono e, quando fui all'aria aperta, mi accasciai senza badare al fango. Non so quanti mi videro accucciato a rimettere. Non so se farfugliai qualcosa o se maledissi gli Dei. So soltanto che al tramonto mi trascinai nell'appartamento di Cornelio, sostenni di esser stato aggredito e passai tre giorni con la febbre.
Non t'interessa il fanciullo: è stato frutto delle droghe, di un rito estremo, dell'inesperienza. Era quell'ordine a scandire le mie ore e, presto, mi convinsi di non aver mai provato attrazione per il giovane delle visioni. Rimasi concentrato sul Presente, sulle piccole cose della quotidianità e sulla festa imminente.
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La settimana successiva, Cornelio si gettò sul mio letto. «Non resta un goccio di vino!» sbuffò «Avremmo dovuto acquistarne di più.»
Posai la pergamena che stavo leggendo e mi misi a sedere. «Oppure, consumarlo con parsimonia» puntualizzai.
«Serviva a mio padre. Gliene ho ceduto almeno metà e adesso non abbiamo nulla per le celebrazioni di Anna Perenna.»
«Possiamo rinunciare ai banchetti nel bosco sacro.»
«Accontentandoci della processione con gli ancilia?!»
Il suo tono indignato conteneva già una risposta, ma non fu quello a turbarmi. "Gli ancilia sono i dodici scudi di Marte" trasalii "C'erano nella prima visione in cui è apparso il fanciullo. Magari, rappresentano un segno". Io riflettevo e Cornelio incalzava, incurante della mia aria corrucciata.
«Non riusciremo a comprarne altro; tuttavia, sono sicuro che tua madre abbia delle scorte.»
«M... mia madre?» balbettai «Suggerisci di chiedere a lei?»
«Credi che Valerio non sarebbe d'accordo?»
«No, però ci inviterebbe al suo banchetto» picchiettai le dita sul mento, in cerca di una soluzione alternativa «Quanti giorni mancano alle Idi di Marzo?»
«Due.»
NdA
Capitolo... complesso! Credevo di scriverlo in fretta, poi ho trovato mille difficoltà (e, per non farci mancare niente, il mondo ha deciso d'impazzire). Comunque, spero che "l'elefante nella stanza" sia emerso e vi ringrazio con tuuuuutto il cuore del sostegno (e della sopportazione)!! <3
E ora, un paio di considerazioni:
1) Il termine larva definiva il verme (lo so, non è un verme!! Biologi, frenate l'odio nei miei confronti), il fantasma (molto tematico, nella settimana di Halloween) e la maschera, perché tutti e tre erano dei "senza volto" in trasformazione;
2) Sesto, esule dopo aver perso la guerra contro Cesare, ha ricevuto una lettera importante... Probabilmente, qualcuno ha capito di cosa lo informa;
3) Quintino, sebbene la sua famiglia fosse alleata di Pompeo, aveva trattato in segreto con Cesare prima degli scontri decisivi, causando indignazione nello zio famoso nonché un paracadute in caso di sconfitta. Infatti, questo accordo garantirà il perdono ai Cicerone permetterà loro di vivere sereni durante il governo di Cesare;
4) Marco ha bisogno di uno psicologo per il PTSD, però evito di soffermarmi sulla sua salute mentale! Lui, da stoico, avrebbe preferito uccidersi insieme al padre. Tuttavia, una profezia e la convinzione che Roma sia nelle mani di un mostro, l'hanno riportato nell'Urbe... e ha lungamente discusso di entrambe le questioni sia con Porzia che con Bruto (ma questo, Virgilio, non lo sa);
5) La favola a cui accenna Lucio è "La rana e il bue" di Esopo: https://portalebambini.it/storie-rana-bue/
6) "Quel fanciullo mi ha rovinato" scriverà un Virgy in crisi a un caro amico. Mannaggia al fanciullo! Lo lascerà mai in pace? Di certo, confermo che pure il fanciullo sperava di ottenere risposte su QUELLA COSA che avverrà a breve.
Ma adesso basta! Il capitolo è già troppo lungo e confuso: non voglio tediarvi oltre. Ripeterò un enorme GRAZIE e... alla prossima!
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