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«Possiamo parlare?» Il countdown inciso sul grosso maxischermo del locale, stava per dare inizio ad un nuovo anno; le dita esili di Akaashi che casualmente si intrecciarono le mie, mi fecero sussultare e lo guardai con la coda dell'occhio, ripensando alla conversazione avvenuta con Fraya pochi minuti prima.

«È quasi mezzanotte...», risposi in un mormorio appena udibile, nascondendo il mio viso dai ciuffetti dei capelli raccolti. Anche se Fraya in un modo tutto suo mi aveva fatto aprire gli occhi, non era detto che avessi eseguito le sue parole alle lettera. Ero convinta che ognuno avesse i propri tempi anche se, quest'ultimi, prima o poi mi si sarebbero ritorti contro in futuro. Ormai la mia vita era un continuo di alti e bassi, provavo quasi indifferenza da ciò che mi capitava.

«"Chi litiga a Capodanno, litiga tutto l'anno", sai?», recitò con un leggero sorriso e strinse le mie dita tra le sue. «Dico davvero, Kaori. Non so che idea tu ti sia fatta riguardo a Camille, ma credimi se ti dico che è soltanto...»

«...Un'amica», feci al posto suo. Ero stanca di sentirmi ripetere sempre le stesse cose. «Lei è diversa dall'essere tua amica, Keiji. Non mentirmi», proseguì e abbassai gli occhi per sfuggire dai suoi. «Lo vedo come ti guarda... Sono una ragazza anch'io e... e quello sguardo...» è lo stesso che riservo a te. Scossi il capo. «Lascia stare.»

«È amica anche di Bokuto e della squadra, quasi mezza scuola se proprio vuoi saperlo. Perché credi che lei abbia un debole proprio con me?»

Per quanto potesse suonare strano, non lo sapevo neanch'io del mio accanimento. Forse perché, guarderei anche io con occhi diversi colui che mi tende la mano cercando di non farmi sentire sola per non escludermi dalla società. O forse perché... era molto più bella di me e più aggraziata.

Dopotutto, lei non gli aveva mica chiesto di andare a letto per puro egoismo. Lei non lo aveva fatto sentire come un oggetto. E ci stavo il doppio male.

La rivalità era sicuramente con me stessa. Io cercavo di essere migliore per quanto possibile. Io combattevo contro me stessa, non contro l'altro. Ed era anche per questo che non accusavo il cento per cento della colpa a Camille.

Diceva Pierre Choderlos de Laclos che: «O avete un rivale o non l'avete. Se l'avete dovete cercare il più possibile di piacere per essere preferito a lui, se non l'avete anche in questo caso dovete piacere per evitare di averlo. In tutte e due le situazioni dovete tenere la stessa condotta.» E chissà, con o senza Camille, con o senza una rivale, mi trovavo comunque con la merda fino al collo.

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Perché la notte dell'ultimo anno mi metteva sempre angoscia e pentimento delle mie azioni?

«Keiji... io», allentai la presa delle dita attorno alle sue e chiusi gli occhi.

«Kaori, parliamone! Dimmi tutto quello che ti senti di dire. Giuro che non me ne andrò se mi sentirò offeso...»

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Perché Capodanno mi ricordava quanto fossi sbagliata?

«Keiji lasciami!»

«Kaori!» ribatté incredulo dalle mie parole.

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Non sarebbe stato un anno nuovo se non avessi dei rimpianti.

«Devo prendere una boccata d'aria...»

«Non riuscirai ad uscire dal locale. C'è troppa gente...»

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Mi auguro soltanto di mantenere quello che ho, al nuovo anno non ho da chiedere niente di più.

«Ti ho detto di lasciarmi la mano, Keiji!»

«Sei una maledetta testarda!»

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E ora stiamo per dare il benvenuto al nuovo anno. Pieno di cose che non ci sono mai state.

Spinsi bruscamente Akaashi in modo tale che si scostasse e mi lasciasse respirare. Lui, preso in contropiede, vacillò di un passo all'indietro e presi l'occasione di farmi spazio in mezzo ai corpi sudaticci delle persone che urlavano a squarciagola il countdown dell'anno.

«Kaori!»

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Sarai più felice.

Allontanai i corpi che si spaparanzavano contro la mia figura, notando furtivamente la porta d'uscita. Tirai un sospiro di sollievo, fino a quando non sentì nuovamente Akaashi gridare il mio nome, chiedendomi di fermarmi, il che venne attonito dal trambusto della stanza invasa di persone.

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Non sarebbe capodanno se non avessi rimpianti.

Ignorai i suoi richiami inutili e corsi, una volta liberata, verso l'uscita. Spinsi la grossa porta di ferro in avanti e dal piccolo spazio – per una questione di tempo e di soffocamento – ci passai, correndo fuori.

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Anno. Una serie di trecentosessantacinque delusioni.

Mi scusai con un malcapitato che scontrai il quale come risposta rise e sventolò una mano per dirmi che non dovevo affatto preoccuparmi. Non ci diedi peso. Anche perché non me ne fregò minimamente se avesse accettato o meno le mie scuse.

2
Malanno.

Arrivai a mantenermi ad una ringhiera, dove affacciava sul fiume e presi una grande boccata d'aria. Scostai la frangia appiccicata sulla fronte e alzai gli occhi verso il cielo, dove lì sarebbe avvenuto il grande spettacolo dei fuori d'artificio.

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Tristezza.

Respirai dal naso, facendo dei lunghi e immensi respiri, tenendomi alla ringhiera come un appiglio per non cadere. Per non vacillare. Perché ero lì? Perché avevo accettato? Con quei pensieri, raddrizzai la schiena e mi ripulì con il dorso della mano le labbra, scacciando via il rossetto rosso che tutto ad un tratto, iniziai a contemplare quanto mi desse fastidio.

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Il tempo non poteva più fermarsi.

I fuochi d'artificio volarono in cielo come stelle cadenti che abbandonavano il loro habitat naturale. La città, all'orizzonte della prefettura, si illuminò di luci scintillanti e sensazioni nuovi. Chi era felice del nuovo anno, abbracciandosi e baciandosi, e chi come me provava un grande senso di vuoto. Chiusi gli occhi e strinsi la barriera della ringhiera di ferro tra i palmi.

Ero riuscita a far pervadere l'attacco di panico anziché farmi forza, com'era il mio solito fare, e guardare in faccia alla realtà.

In tutta la mia vita, avevo sempre odiato Capodanno. Capodanno era triste. Capodanno era una specie di cortometraggio dove vedevi passare tutti i ricordi davanti agli occhi. Capodanno era... il giorno più brutto della mia vita. Se non volevi ricordare, lui bussava alla porta chiusa a chiave della tua mente. Non ti saresti mai liberato di lui, né lontanamente.

Capodanno rendeva le persone felici. Capodanno permetteva alle persone felici di dire ciò che volevano, di comportarsi in un certo modo, e di promettersi che sarebbe stato un nuovo anno ed un nuovo inizio.

Ma non per me. Nessuno avrebbe capito il dolore che mi lacerava la pelle e il trambusto della mia mente. Nessuno avrebbe capito della mia reazione esagerata di voler sfuggire dai problemi e dall'inizio del nuovo anno. Nessuno.

E per questo che, le gambe iniziarono a tremarmi sotto al mio peso e senza che potessi controllarlo, mi presi la testa nelle mani e piansi.





Non so quanto tempo restai a guardare lo spettacolo dei fuochi d'artificio con le lacrime raggruppate agli angoli degli occhi, ma ero sicura che fosse passato un bel po' di tempo dalla mia fuga dagli altri. Le persone ridotte ad un accumulo di poltiglia sui lati della strada, mi fecero intendere che i loro festeggiamenti fossero andati a buon fine, a differenza dei miei; alcuni di loro erano semi svenuti, altri che cercavano di sorreggere l'amico ubriaco per portarlo a casa, altri ancora si baciavano negli angoli bui dove la luce soppiatta dei lampioni e della città non li sfiorava affatto.

Dato che non potevo tornare dagli altri come niente fosse successo, poiché mi avrebbero fatto domande le quali non avrei avuto voglia di rispondere, decisi di incamminarmi verso la strada di casa, al freddo e sbracciata con un misero vestitino. Purtroppo il cappotto che avevo indosso era rimasto nel locale.

Passai davanti ai locali pieni e zeppi di persone, posti sul marciapiede in cui mi trovavo. Festeggiavano, si divertivano, mentre io provavo solo una gran voglia di infilarmi nel letto e dormire. Aver pianto mi aveva portato un sonno pazzesco.

Mentre passeggiavo con le braccia strette attorno al busto per proteggermi dal freddo, notai poco più lontano una figura che conoscevo fin troppo bene; era Mitsuki in compagnia di un ragazzo con la capigliatura rossa sparati verso l'alto.

«Mitsuki?» Fermai i miei passi, guardando con un cipiglio sulla fronte la nuca castana della ragazza mentre affiancava colui che conobbi come Tendo, il migliore amico di Ushijima.

«Kaori-san!» Esclamò quest'ultima decisamente brilla, dato dal modo vivace in cui mi aveva salutato. «Sono così felice di vederti!»

Avrei voluto rispondete un forte: «Anche io», ma i miei occhi caddero sulla figura alta e slanciata accanto a lei e improvvisamente mi morsi il labbro dal nervoso. Che ci faceva lì con lei? «Che ci fai qui?»

Il sorriso che Mitsuki aveva, man mano si spense lentamente e i miei occhi caddero -ancora- volutamente sul ragazzo dai capelli rossi che, in tutta onestà, mi serbò un'occhiata di sfida. Mitsuki blaterò qualcosa, ma ero troppo concentrata a prendere la sfida mentale di Tendo che non mi accorsi quando, il rosso, parlò: «Guarda, guarda cosa abbiamo qui... un piccolo corvo sperduto», canzonò sarcastico con un ghigno ad incorniciargli le labbra sottili. Strinsi le mani in due pugni.

«Che c'è Tendo? Ti brucia ancora la sconfitta?» Sollevai un angolo della bocca e improvvisamente la tristezza che avevo addosso si accumulò in rabbia, una forte escandescenza di adrenalina. Schioccai la lingua al palato e ondeggiai con la coda di cavallo per farla ricadere dietro alla schiena, sorridendogli -falsamente- divertita.

«Mi consolerò presto...», ribatté per niente intimidito o infastidito, stringendo il corpo di Mitsuki a sé.

Involontariamente, la mia mano afferrò il braccio di Mitsuki, cercando di tirarla a me. «Mitsuki, per favore, vieni con me», cercai di essere più convincente possibile anche se il mio tono di voce mi tradì. Non mi fidavo di Tendo, anche Ushijima mi rivelò qualcosa di scoppiettante su di lui: non era affatto una buona compagnia. «Mitsuki –»

«E che cosa vorresti fare per lei, tu

«Più di quanto...» immagineresti, lo pensai ma non lo dissi e inghiottì a vuoto.

«Kaori-san... – fece Mitsuki sorridendomi mortificata – arigato!» Mitsuki si scostò cauta dalla mia presa tenendo ancora quel sorrisetto sulle labbra, prima di fare un passo indietro e avvinghiarsi a Tendo. Strabuzzai gli occhi incredula.

«Mitsuki!» strillai.

«Bye bye, chibi-chan!» Mi salutò Tendo, oscillando le sue dita fasciate sotto ai miei occhi felini, ammiccando un ghigno. Serrai la mascella e tacqui, vedendo i due allontanarsi e proseguire dalla strada opposta.

Infuriata e ferita, calciai bruscamente un bidone della spazzatura, gemendo frustrata. «Sta' attenta!» mi gridò contro uno sconosciuto, al che alzai il dito medio come risposta e me ne andai con un atteggiamento poco aggraziato, facendo invidia ad un camionista Ucraino.

Per tutto il tragitto verso casa, mi sentivo doppiamente frustrata. Non avevo neanche il telefono con me, visto che avevo lasciato tutto nel locale. Sbuffai e mi fermai ad un muro, appoggiandomi. Alzai il capo e incontrai quelle che dovevano essere le miliardi di stelle; avrei tanto voluto essere una di loro che guardava il mondo da una prospettiva diversa.

«Una ragazza come te non dovrebbe stare in giro da sola...», sobbalzai dallo spavento e mi misi sull'attenti, puntando lo sguardo sulla sagoma nera di fronte a me. «...a quest'ora della notte», proseguì cauto e il cuore mi martellò nel petto.

«Nani?» Corrucciai la fronte, tenendomi pronta a qualunque evenienza.

«Tranquilla, non voglio farti nulla...», disse e fece un passo in avanti, permettendomi così di vedere il suo viso.

«Tu...», sussurrai incredula. «Tu sei... quello di Tokyo...», balbettai confusa, cercando di farmi venire in mente il suo nome, cosa che mi sfuggì.

«Takahashi Hitoshi», mi ricordò e la lampadina sul mio capo si accese. Certo, come avevo fatto a dimenticarmene?

«Stammi lontano!» sibilai.

«Tranquilla... – replicò e portò le mani avanti come segno di resa – voglio solo parlarti. Non ho intenzione di farti del male o violentarti, sono qui in buona fede...», sospirò. «...e ovviamente per lavoro

«La-Lavoro? Credevo che lavorassi a Tokyo...»

«Sì beh, – ridacchiò e si grattò una tempia – è vero. Lavoro a Tokyo, ma è da un paio di mesi che mi occupo di tenerti d'occhio, sai? Dopotutto il mio lavoro prevede questo...»

Aggrottai le sopracciglia ancora più confusa. «Che significa?»

Takahashi sospirò e infilò una mano nella tasca del suo cappotto, sfilandola poi via per porgermi un bigliettino. Lo afferrai titubante, senza distaccare gli occhi dai suoi. «Sono un investigatore privato...», confidò e lessi attentamente il biglietto stretto tra le mie dita. «Un paio di mesi fa mi avevano assegnato un caso, ovvero il tuo, da una certa persona che voleva che ti tenessi d'occhio. Così –»

«...Chi è stato?» chiesi con il batticuore, senza distaccare gli occhi dal bigliettino.

«Come, scusa?»

«Ho detto chi è stato a mandarti per spiarmi?!» replicai con i nervi a fior di pelle. Takahashi sbatté le palpebre perplesso, sicuramente per la mia improvvisa reazione.

«Sono informazioni private. Ho la bocca cucita», Takahashi mi guardò a lungo ed io distolsi lo sguardo a disagio. «Perché sei in giro da sola?» chiese dopo un breve silenzio.

Sospirai. «Stavo tornando a casa... – e tesi la mano davanti, intenta a consegnarli il bigliettino – se vuoi scusarmi», ma lui sorrise a labbra strette, scuotendo il capo.

«Tienilo», suggerì. «Sarò anche un investigatore, ma se hai bisogno di parlare... puoi chiamarmi.»

«Sono minorenne», precisai scettica con un sopracciglio alzato, ma subito mi resi conto di cosa avevo detto e avvampai.

«Tranquilla», ridacchiò e alzò nuovamente le mani. «Non vado appresso alle minorenni. Preferisco le mature.» Annuì titubante e lasciai ricadere la mano lungo il fianco. «Vieni, ti accompagno a casa. Non è sicuro per una ragazza camminare da sola per strada...»

Corrucciai la fronte e mi mordicchiai il labbro. «Hai





«Quindi, sei scappata via da una festa perché stavi avendo un attacco di panico?» Stavamo camminando uno affianco all'altro verso casa mia, anche se, cercavo di tenermi un po' distante da lui. Non avevo molta fiducia nei suoi confronti e qualcosa mi diceva che non mi avrebbe fatto piacere scoprire chi mi stava tenendo d'occhio.

«Mi stavi spiando?» risposi con un'altra domanda, notando le sue sopracciglia guizzare verso l'alto e sorridere.

«Perspicace...», disse e alzai gli occhi al cielo. Non ero così perspicace se una persona ammetteva su due piedi che ti stava tenendo d'occhio. «Comunque, sì e no. Ero in compagnia con una ragazza prima che ti perdessi d'occhio», rivelò e mi strinsi nelle spalle per il leggero venticello. «Hai freddo?»

«Ho dimenticato il mio cappotto nel locale...» sfregai le mani contro le braccia, causandomi la pelle d'oca. Takahashi si fermò sui suoi passi e si sfilò dalle braccia il cappotto che teneva addosso, sotto al mio sguardo incredulo: «No, no, davvero... non ce n'è bisogno. Casa mia è a pochi passi –»

«So dove abiti, – m'interruppe – ma sei rimasta quasi tutta la serata al freddo e non vorrei che prendessi un malanno. – mi porse il cappotto con un sorriso gentile – Accettalo, anche se immagino che tu sia piuttosto orgogliosa...», sbuffai e afferrai il suo cappotto, mettendomelo sulle spalle. Lui ridacchiò. «Mi rimangio quello che ho appena detto.»

Sospirai mentalmente sollevata quando percepì il tempore caldo dell'indumento e chiusi gli occhi per un secondo prima di aprirli e chiedergli: «Proseguiamo?», ricevendo un cenno positivo da parte sua.

«Allora, vuoi dirmi perché sei scappata?»

«L'hai detto stesso tu: un attacco di panico», ribattei.

«Odi gli spazi chiusi?» chiese, lanciandomi un'occhiata.

«Cos'è, un interrogatorio?» alzai un sopracciglio.

Fece spallucce. «Lo prendo come un sì...», sorrise.

Scossi il capo e sospirai. «No. No, non è dovuto a questo...», mormorai soprappensiero. «È solo che, – chiusi gli occhi e li riaprì – non ho idea. Mi sento solo frustrata, tutto qui.»

«Ci siamo passati tutti, sai. Un giorno ti senti impotente e un altro giorno ti senti una nullità. Può capitare. – mi guardò – Sei giusta. Non c'è nulla che non vada in te.»

«Facile a dirlo se sei un adulto...», ridacchiai. «Però sì, mi sento così.»

«Sono stato ragazzino anch'io, Kaori. È normale. L'importante è che tu ti rialzi ogni volta che la vita ti da una batosta», disse. «Oppure, se tentennerai, nessuno riuscirà a tenderti la mano... Perché, esplicitamente, non esisti più.»

Abbassai gli occhi sui miei piedi. «Non è facile. A volte mi sento come se la vita ce l'avesse con me eppure, non dovrei affatto lamentarmi per quello che ho...»

«Si vede che ti accontenti, – spiegò con ovvietà – nessuno di noi dovrebbe mai accontentarsi. Che sia la famiglia o meno. Che sia la cosa che ci fa stare bene oppure no. Vedi, sono passato attraverso momenti davvero terribili nella mia vita, alcuni dei quali sono realmente accaduti. Ma è così... – alzò le spalle – È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche. A volte credi d'aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno. Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano mai», lo ascoltai attentamente e notai con quanta dotazione stesse mettendo nelle sue parole. «Viviamo tutti con l'obiettivo di essere felici; le nostre vite sono diverse, eppure uguali. – girò la testa verso la mia direzione – Non trovi?»

Non avevo molto da dire. Tantomeno cosa rispondergli, perché aveva ragione. Credetti di aver imparato molto poco in tutti questi anni: avevo imparato che ci sono molte cose sconsiderate che potevi fare. E tra quei milioni una che era ancora più sconsiderata delle altre. E di solito facevi quella.

Avevo imparato che il blu e il nero insieme erano un cazzotto in un occhio. Avevo imparato che certi odori si fissavano nella memoria, e quando li risenti era come se tutti quegli anni non fossero mai passati.

Avevo imparato che il sabato era meglio della domenica. Avevo capito che chiunque aveva qualcosa da raccontare, ma soprattutto avevo capito anche che l'odio per certe persone ti aiutava a vivere meglio. Avevo imparato che certe mattine saresti disposto a dare via un braccio pur di dormire altri cinque minuti. Avevo constatato che alcune città erano capaci di farti scordare anche come ti chiamavi.

Avevo imparato che c'erano persone così esteticamente stupefacenti che emanavano addirittura luce propria. Sembravano, tipo... fosforescenti. Avevo capito che non c'era da preoccuparsi se a sedici anni non sapevi che fare della tua vita, se avevi ancora una gran voglia di giocare.

Avevo imparato che se ripetevi una parola tante volte, all'improvviso perdeva di significato.
Avevo imparato che a volte avresti talmente tanta voglia di fare l'amore con una determinata persona che glielo avresti chiesto in ginocchio.

Avevo imparato che una sigaretta, specie se sei a terra, poteva addirittura salvarti la vita. Avevo scoperto che esistevano persone talmente scassapalle da rappresentare un vero e proprio ornamento alle ovaie.

Avevo imparato che non c'era cosa più inebriante che impuntarti sulla propria scelta. E poi sbagliare. Avevo imparato che il conforto degli amici a volte poteva essere crudele.

Avevo imparato che la voce di Frank Sinatra era uno dei motivi per stare al mondo. Avevo imparato che il sale si metteva prima che l'acqua cominci a bollire.

Avevo capito che certe regole erano fatte per andarci contro. Mi ero accorta che non c'era cosa più divertente che dare ragione a un idiota. E dentro ridere.

Avevo scoperto che con gli anni i tuoi errori e i tuoi rimpianti imparavi ad amarli come i nemici.
Avevo imparato che la nostalgia aveva lo stesso sapore della cioccolata bollente. Avevo imparato che i film di Ingmar Bergman non erano solo capolavori: erano lezioni di vita.

Avevo capito che niente era più bello che alzarsi la notte mentre tutti gli altri dormivano e girovagare in solitudine come un cane tra i rifiuti, alla ricerca di una qualsiasi sensazione appagante.

Avevo imparato che se ti chiedevano di fare cinque cose e all'ultimo momento ne aggiungevano due, tu inevitabilmente dimenticavi le prime tre. Avevo imparato che certa gente aveva la testa solo per separare le orecchie.

Avevo imparato che la tua maglietta preferita attirava il sugo in modo micidiale. Avevo imparato che non c'era cosa più bella che svegliarsi una mattina senza sapere che ore erano, senza riconoscere la stanza e soprattutto senza ricordare come c'eri arrivata.

Ma soprattutto avevo imparato che i giorni veramente importanti nella vita di una persona erano cinque o sei in tutto. Tutti gli altri facevano solo volume. Colore.

Così fra sessant'anni non ti ricorderai il giorno della tua laurea, o quello in cui hai vinto un campionato.
Ti ricorderai quella sera in cui tu e i tuoi amici, quelli veri, avete riso allo sfinimento e ubriachi persi avete cantato per strada a squarciagola fradici di pioggia.

Quelli erano i momenti in cui la vita davvero batteva più forte. Dove il cuore batteva ad un ritmo smisurato. Dove la felicità non si spiegava a parole.

«Kaori

I miei pensieri vennero eclissati da una voce rauca e quando alzai gli occhi, notando che mi trovassi di fronte alla mia abitazione, due occhi dal color del cioccolato mi fissarono increduli.

Trentenni il respiro come se fossi stata in apnea. In fondo all'oceano.

«Tooru

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