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«Perché mi sono lasciata convincere?» borbottai per niente convinta di quello che stavo vedendo. Un'ora. Era passata solamente un'ora e i ragazzi avevano iniziato a ballare sui tavolini del pub che avevamo scelto per festeggiare la vittoria con la Shiratorizawa.

Mio fratello Keishin rideva e scherzava con il sensei; guance arrossate e gli occhi lucidi di chi aveva assolutamente esagerato con l'alcool.

Era troppo ubriaco per capire che i ragazzi stavano completamente perdendo le staffe sotto ai suoi occhi vigili. Si poteva dire che l'unica persona sobria ero solamente io.

Mi passai un paio nei capelli e appoggiai subito dopo il mento sul palmo aperto, oscillando con gli occhi sulle figure dei ragazzi i quali avevano dato uno sgarro alla regola per poter bere quella sera. Dopotutto, avevano vinto contro la Shiratorizawa e battuto Ushijima. Chi non avrebbe festeggiato al posto loro?

«Kaori-san vieni a ballare!», una mano calda strinse il mio polso e alzai gli occhi sulla persona che mi aveva appena rivolto la parola, dopo un'ora, scuotendo il capo.

«No grazie, Tanaka. Passo», sorrisi riconoscente per avermi tenuta in considerazione ai festeggiamenti e il ragazzo dai capelli rasati fece spallucce, decidendo di lasciarmi stare e raggiungere Nishinoya e Hinata che avevano pescato due microfoni dal piano bar.

L'aria viziata dal locale il quale era pieno di persone che festeggiavano compleanni, lauree, addii nubilati, mi fece quasi sentire inadeguata a quella situazione. Non mi erano mai piaciute le feste. Cosa abbastanza strana per un carattere esuberante ed esibizionista come il mio, ma sì, non mi piacevano affatto. Mi sentivo sempre quella che doveva tenere sotto d'occhio tutti e non mi divertivo affatto. In verità, non avevo neanche mai bevuto in tutta la mia vita.

«Oh andiamo, Kaori. Bevi con noi», a parlare fu proprio nonché il capitano dei corvi, leggermente con le gote arrossate e un sorriso stupido stampato sulle labbra. Alzai un sopracciglio.

«Poi chi vi tiene d'occhio?» chiesi con una sfumatura di ironia nella voce. «A quanto pare neanche gli adulti sono così sobri da tenervi sotta osservazione», e indicai Keishin che circondò le spalle del sensei, cantando il Kimi ga yo, l'inno nazionale del Giappone.

Avrei dovuto filmarlo per un possibile e futuro ricatto. Magari l'avrei messo su Youtube. Dove avevo messo il mio telefono?

«Coraggio...», mi intimò Daichi, circondandomi le spalle con il suo braccio muscoloso. Se fosse stato lucido e, ovviamente, sobrio, si sarebbe vergognato da morire per essersi esposto così tanto nei miei confronti. Attenzione! Non ero una persona maliziosa che pensava prontamente ad un secondo fine, anzi. Però, potevo sentirmi esperta riguardo al linguaggio del corpo. «...ti porto io a casa», proseguì e mi sentì avvampare, cercando di farmi aria.

Ma perché i maschi dovevano essere così espliciti nei miei confronti? Mi era bastato ciò che mi aveva detto Tendo quel pomeriggio.

«Okay, se non vuoi che il mio migliore amico sfiori il tuo fiorellino, che ne dici di me? Ti vado più che bene?»

«Capitano», girai la testa verso di lui, trovandomelo ad un palmo dal mio viso. «...Credo che tu abbia bevuto un po' troppo – Sugawara!» ridacchiai in imbarazzo e chiamai prontamente il ragazzo dai capelli grigi con gli occhi sbarrati. Quest'ultimo si voltò nella mia direzione, salutandomi, e notai che non era messo bene proprio come gli altri. Peggio di Daichi. «Oh Gesù...», borbottai in preda ad un crisi isterica.

«...Ti riporto a casa e ti rimbocco anche le coperte», continuò e chiusi gli occhi, prendendo un grosso respiro.

«Credo che sarò proprio io ad rimboccarvi le coperte stasera», ribattei con un leggero sorriso sulle labbra. Afferrai il bicchiere di coca cola e portai la cannuccia alle labbra. Daichi continuò a tenere il braccio attorno alle mie spalle, fissandomi insistentemente il profilo del viso, mettendomi in soggezione.

«Sei davvero bella, sai? E sono felice che mia sorella abbia un'amica come te», farfugliò con gli occhi che gli brillavano di una strana luce che non seppi come decifrare e risucchiai le labbra, assieme alla cannuccia che torturai in mezzo ai denti. «...Mi chiedo come abbia fatto Oikawa a tradirti», proseguì e lo ascoltai, tenendo sotto d'occhio gli altri. Mi ero ritrovata a fare da babysitter e ascoltare un ragazzo ubriaco al mio fianco. Sicuramente nessuno avrebbe voluto averci niente a che fare con la mia posizione attuale. «...Se fossi stata la mia ragazza, avrei fatto di tutto per te e non lo dico tanto per dire...», farfugliò e mosse leggermente la mano, come se avesse voluto farmi intendere il suo discorso poco comprensibile. «Sei una tosta ed io vado pazzo per le ragazze toste», concluse con un sorriso da ebete, appoggiando la guancia sulle nocche della mano.

«Domani mattina, se tutto va bene, ti pentirai di quello che hai appena detto», proferì e mordicchiai la cannuccia nervosamente tra i denti.

«Può darsi... forse», apostrofò curioso. «Ti va di uscire fuori per una boccata d'aria?»

«Preferisco restare qui» e non c'era bisogno di spiegare il motivo dato che Hinata si stava letteralmente togliendo la maglietta facendo una specie di spogliarello davanti agli occhi sbarrati di Hitoka.

Davvero... dov'era il mio telefono quando mi serviva?

«Okay...», mormorò e per un momento credetti che avesse abbandonato le redini, seguendo gli altri. Ma quello che disse dopo mi stupì: «Posso baciarti?» Il liquido che stavo bevendo per pura noia e distrarmi dagli sguardi di Daichi, mi andò ti traversò e lo sentì addirittura uscirmi dal naso. Tossicchiai e appoggiai il bicchiere sul tavolo, portandomi un pugno alle labbra.

«Che cosa? No!» Trillai con una voce fin troppo acuta per la sorpresa. Mi schiarì la gola. «Non credo che sia la cosa giusta da fare. Sai, mi vedo con –»

«Ti ho chiesto il permesso ma non significa che non possa prenderti e farlo», mi interruppe e lo guardai allibita.

Da quando il capitano era così audace? Forse perché è così ubriaco da dire una marea di cazzate? mi ricordò la mia vocina. Già, l'alcool. Come dimenticarlo.

Mi scostai dalla sua presa e mi alzai velocemente dalla sedia, sorridendogli lievemente. «Vado un secondo in bagno» e detto ciò, mi liquidai frettolosamente prima che a Daichi gli fosse venuta la brillante idea di acciuffarmi oppure inseguirmi.

Aprí bruscamente la porta del bagno e vi entrai dentro, raggiungendo il lavandino e appoggiare le mani su di esso. Fissai le mie mani che stringevano il lavabo di ceramica, mettendoci una lieve pressione da far diventare le nocche di un color bianco latte. Sospirai profondamente e alzai gli occhi allo specchio, scorgendo il mio riflesso stanco e assonnato.

Perché tutto ad un tratto mi sentivo come se avessi tradito Akaashi? Cioè, insomma, "tradire" era un vero e proprio parolone, ma riuscì a sentirmi come se gli avessi fatto un torto accettando le avance di Daichi.

Il capitano dei corvi era davvero una brava persona e un bel ragazzo oltretutto, ma non mi aveva mai dato l'impressione che avesse interesse nei miei confronti. Si era sempre comportato come una persona matura, rispettosa e qualunque cosa dicesse o facesse non aveva mai un doppio fine.

Lo faceva perché ero sicura che gli ricordavo sua sorella o un'amica che aveva bisogno di conforto. Ma no, non mi aspettavo assolutamente che ci provasse con la sottoscritta, tanto da imputarsi nel volermi baciare, davanti a mio fratello e l'intera squadra. Quindi, ero così convinta di conoscere bene il restante del genere maschile?

«Che palle», sbuffai e aprì il rubinetto del lavandino, azionandolo sul bollino blu e lasciar scorrere l'acqua. Misi le mani a coppa sotto al filo d'acqua e me la spruzzai in faccia, cercando di rinfrescarmi le idee.

Afferrai una tovaglia di carta e la tamponai sul viso, asciugandomelo. Dopodiché l'appallottolai e la gettai nel cestino dell'immondizia. Camminai verso la porta e la aprì, ma sobbalzai dallo spavento quando una figura slanciata dai capelli corvini si materializzò davanti ai miei occhi. «Kageyama», sibilai e portai una mano sul cuore. «...mi hai spaventata», il mio cuore batté in modo irregolare. «Che ci fai davanti alla porta del bagno delle ragazze?»

«Ti stavo cercando», esordì. «Ho visto che sei corsa in bagno e pensavo che ti sentissi male...»

Stavo solo scappando da un possibile errore, lo pensai ma non lo esposi ad alta voce.

«Dovevo usare i sanitari», precisai e indicai con il pollice alle mie spalle. «...Ora, devo proprio tornare a casa. Credo di aver riscontrato un brutto virus intestinale», e posizionai la mano sulla pancia, sperando che se la bevesse.

Ultimamente stavo mentendo più di quanto non avessi mai fatto in quindici anni -e mezzo- di vita.

Kageyama si limitò a fissarmi e infilò le mani nella tasca della tuta. «Il brutto virus sarebbe Daichi?»

Strabuzzai gli occhi. «No!», ma ripensandoci... «Forse... credo», sorrisi a disagio e mi strinsi nelle spalle.

«Posso accompagnarti a casa?» Chiese improvvisamente facendo comparire un'espressione stupidamente sorpresa sul mio viso. Ma cosa stava prendendo a tutti?

«...Ovviamente non te l'ho chiesto per provarci o altro», si giustificò prontamente notando che fossi rimasta in silenzio a meditare. «Voglio solo accompagnarti per... ringraziarti degli allenamenti e della tua presenza in questi mesi con noi... ecco

Alzai un sopracciglio e intrecciai le braccia sotto al seno. «Tu chi sei? Che cosa hai fatto al Kageyama antipatico e odioso?» Nel dirlo strinsi gli occhi e lo guardai sospettosa, facendogli scappare un leggero sorriso.

«C'è sempre...», asserì divertito. «Ma per stasera si è preso una pausa», alzò le spalle. «Allora, posso accompagnarti?» ribadì.

Sospirai con un po' di esitazione e annuì, infine, arresa. «Okay...», sorrisi gentile. «...però come faremo con gli altri? Sono tutti ubriachi. Completamente andati», ridacchiai.

Kageyama roteò gli occhi. «Troveranno un modo. Sono grandi e vaccinati», rispose. «Andiamo!» e con un cenno di testa mi invitò a seguirlo fuori dal locale.

Ubbidì senza dire nulla e senza che informassi gli altri del mio ritorno a casa. Se ne sarebbero accorti più tardi o l'indomani da sobri. O almeno così sperai. Quando uscimmo dal locale, un leggero venticello fresco pizzicò i miei occhi velati che avevano assorbito l'aria viziata della stanza e le guance mi si tinsero di rosso per il cambiamento di temperatura.

Camminammo sul marciapiede deserto, trovandoci a poca distanza dal negozio di famiglia. La prefettura di Miyagi era davvero piccola, un buco, a differenza delle altre. Le persone potevano visitarla da cima a fondo in una sola giornata. Tutto si trovava vicino. Tutto era la disponibilità di tutti. I negozi, i ristoranti, le scuole, i parchi pubblici e privati... in poche parole, qualunque necessità di cui si aveva bisogno. A volte la preferivo dal centro di Tokyo che era chiassoso e trafficato anche a piedi. Avevo un bisogno necessario di tranquillità e ciò concordava anche l'ambiente in cui stavo.

«Il coach Ukai ci ha detto che sei ritornata a giocare...», spezzò il silenzio che si era creato, camminando al mio stesso passo: lento e senza alcuna fretta.

«Sì, da qualche mese», risposi restando sul valgo e gli regalai un sorriso, portandomi una ciocca fuoriuscita dalla coda disordinata, dietro all'orecchio.

«E sei... felice?» Chiesi dubbioso, assottigliando il taglio d'occhi a mandorla. Alzai e abbassai le spalle.

«Credo che si tratti della stessa felicità in cui tu ci metti d'impegno giocando», spiegai brevemente, fissando la strada offuscata dalle luce dei lampioni. «Descriverei la mia felicità... così», e allargai le braccia, facendole poi ricadere morte ai fianchi.

«Touché», ridacchiò e abbassò gli occhi sulle sue scarpe. Gli lanciai un'occhiata e scossi il capo divertita. «Abbiamo iniziato con il piede sbagliato all'inizio, però sono felice che siamo riusciti ad...», aggrottò la sopracciglia pensieroso. «...intenderci, sì. Credo che sia il termine corretto», aggiunse.

Improvvisamente, il pensiero di dover partire l'anno successivo, dopo dicembre, mi fece irrigidire i muscoli rendendoli tesi. Mi morsi il labbro inferiore e stirai un sorriso. «Già...»

Avrei dovuto parlargliene? Dirgli che sarei partita e che forse, mi sarei fermata per un anno in un altro posto?

«Kageyama», lo richiamai con fin troppa esaltazione, vedendo il corvino guardarmi confuso per il mio tono improvvisamente cambiato. Presi un grosso respiro. «...se me ne andassi, che cosa faresti?» e invece, ero diventata codarda al punto di volermi sentir dire che cosa avrebbe fatto uno come lui durante la mia assenza e permanenza in America.

Perché tutto ad un tratto, mi importò sapere se io, Ukai Kaori, avessi fatto la differenza per qualcuno che non era mio fratello e mio nonno. Volevo sapere se fossi così importante come persona da sentirne la mancanza, quasi il bisogno d'ossigeno.

«È una domanda a trabocchetto?» ridacchiò. Mi aggiunsi alla sua risata, ovviamente fittizia, perché ero davvero nervosa e su di giri. Più delle altre volte. «Mh... credo che ti verrei a cercare. Ovviamente se parti all'improvviso, dalla sera alla mattina, senza avvisare nessuno...», spiegò sarcastico. Alzai gli occhi al cielo e il ragazzo sorrise, scuotendo il capo: «In verità... non lo so», alzò le spalle diventando improvvisamente serio. «...però sono sicuro che ti chiederei di restare. Egoisticamente parlando», precisò alzando un dito. «Ma sono anche sicuro che ti spronerei a fare le prime valigie per inseguire i tuoi sogni», aggiunse tranquillo. «Prima o poi tutti noi andremo via di qui; chi resterà e condurrà una vita tranquilla con un lavoro agevolato; chi sposerà la donna più bella dell'intero Giappone; chi conserverà i suoi sogni e farà qualcos'altro...»

Ascoltai il suo discorso attentamente con le orecchie attizzate e un gran senso di nervosismo. Poteva non aver alcun senso, ma sapevo che leggendo tra le righe, Kageyama stesse dicendo qualcos'altro.

«Ma nei prossimi anni, quando ci rincontreremo, ognuno con una vita diversa e impegni diversi... continueremo a condividere tutti quanti la stessa passione», proseguì. «La pallavolo è uno sport che lega le persone, rendendole complete e coordinate ad ogni movimento.»

«E qual è il tuo sogno?» Era una domanda stupida perché sapevo perfettamente la risposta. Però, volevo che fosse lui a dirmelo. Volevo che fosse lui, Kageyama Tobio, a parlarmene.

A Kageyama gli brillarono gli occhi. «Voglio giocare in una squadra professionista di pallavolo e... desiderio diventare qualcuno di importante», rispose senza esitazione. «E poi sì, voglio sposarmi e crearmi una famiglia. Questo è sottinteso...» E storse le labbra in una smorfia.

Ridacchiai. «Te lo auguro», sorrisi dolcemente e il ragazzo arrossì leggermente, distogliendo lo sguardo di scatto dal mio. «Siamo arrivati», esclamò, fermandosi davanti alla mia abitazione.

«Grazie per avermi accompagnata», sorrisi riconoscente.

«Figurati. È stato un piacere», alzò e abbassò le spalle, infilando le mani in tasca. «Ci vediamo domani?»

Annuì. «Certo! Buonanotte», gli feci un cenno con la mano e gli diedi le spalle, ma la sua voce mi fece bloccare sui miei passi.

«Aspetta – posso farti una domanda?» Mi voltai a metà busto e annuì con le sopracciglia che mi schizzarono verso l'altro.

Kageyama allargò le sue labbra sottili. «Mi spieghi come hai fatto a stare con uno come Oikawa-san?» Chiese sarcastico, il che mi fece scoppiare a ridere, buttando la testa all'indietro.

«È questo che vuoi sapere? Credevo che saresti tornado indietro per dirmi che ero la più bella del locale», ribattei ironica e intrecciando le braccia al petto. «Vediamo...», alzai gli occhi al cielo riflettendo sulla risposta da dargli e finì per scrollare le spalle. «Semplicemente lo amavo. Nulla di più.»

Kageyama annuì comprensivo e non rispose. «Lo eri...», sussurrò ad un certo punto.

«Cosa?» Aggrottai la fronte e sorrisi confusa.

Lui strabuzzò gli occhi e si grattò la nuca a disagio, come se quello che avevo appena detto lo avesse colto con le mani nel sacco. «Dai! Cosa?», incalzai divertita.

«Lo eri», ribadì deciso. «...la più bella del locale.»

Le mie guance si arrossarono e aprì bocca per rispondergli, ma la richiusi essendo stata presa alla sprovvista. «Buonanotte, -senpai», mi salutò con due dita messe dritte e allungate sulla fronte, mimando un saluto militare. Si voltò e camminò nel buio soppiatto dei lampioni.

Restai a guardarlo lì, sulla soglia del marciapiede, fino a quando la sua sagoma non sparì all'angolo della strada.

Mi chiesi se il barista del pub avesse messo qualche sostanza stupefacente all'interno dei loro drink. Erano diventati improvvisamente tutti pazzi e fin troppo sinceri da vomitare.

«Cazzo», imprecai guardando il cielo e raggiunsi poi, con sonori sbuffi, la porta principale dell'ingresso.

Improvvisamente, trovandomi all'impiedi sulla veranda intenta a cercare le chiavi di casa, adocchiai in penombra una figura slanciata e incappucciata uscire da dietro ad un albero, poco più distante da dove mi trovassi, camminando poi nella direzione opposta con le mani infilate in tasca.

Sbarrai gli occhi e corrucciai la fronte confusa. Chi era quella persona? E perché si stava nascondendo fuori casa mia? Con quelle domande bizzarre, riuscì a trovare velocemente le chiavi di casa e senza farmelo ripetere due volte, infilai le chiavi nella toppa e girai, entrandovi dentro e sbattere la porta alle mie spalle con veemenza.

Che stava succedendo?

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