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«Kaori-chan sono mortificato, scusami, devi credermi», ripetette Hinata, chinando il capo violentemente in avanti, mentre io cercai di trovarvi un cambio nel borsone dell'emergenze dentro il portabagagli dell'autobus.

«Smettila di scusarti Hinata, ti ho già perdonato», sbuffai, rovistando nel borsone. C'era di tutto a partire da un bagnoschiuma a finire ad una piastra per capelli.

Ma che diamine ci faceva tutta quella roba lì dentro? Ero appena stata buttata fuori di casa e non lo sapevo? Quando cercavo la cosa più essenziale, quest'ultima si eclissava come un fantasma. Incredibile!

«Certo che ci sei andato giù pesante», rise Tanaka, rivolgendosi ad Hinata che si trovava al mio fianco con la faccia da cane bastonato. «L'ultima volta che hai vomitato, avevo la puzza del tuo vomito addosso e sotto al naso per tutta la durata della partita», proseguì disgustato. Non capivo se Tanaka lo avesse detto per aiutare a sdrammatizzare la situazione oppure innervosirmi più di quanto non lo fossi già.

Mi avevano appena vomitato letteralmente addosso, per lo più sui miei pantaloncini preferiti e infine, non avevo un cambio a portata di mano con me. Assurdo come la vita si prendesse gioco di me e delle mie disgrazie. Ma chi ero diventata, la versione più sfigata e femminile di Jim Carrey?

«Tanaka così non aiuti a tranquillizzarlo», si intromise Daichi. «Guardalo, sembra che voglia scoppiare a piangere da un momento all'altro», con la coda dell'occhio guardai il dispiacere di Hinata attraversargli davanti agli occhi, il che mi rese fin troppo emotiva.

Se Hinata si fosse colpevolizzato ancora per molto, ero sicura che avrebbe creato problemi alla squadra. Tutti quanti loro contavano sul suo prezioso aiuto. Mi doleva ammetterlo, ma quel ragazzino mi faceva uno strano effetto, come se fosse stato un fratello più piccolo da tenere d'occhio e sotta continua osservazione. Ormai il danno era fatto, perché mandarlo sotto alla ghigliottina per una reazione dovuta dal nervoso e ansia del pre-partita? Capitava a tutti, anche se la sfigata di turno a cui succedeva la peggior situazione, era sempre la sottoscritta.

«Andiamo ragazzi, lasciatelo in pace oppure si agiterà ancor di più», disse Sugawara con tono paterno. Menomale che c'era lui a tenerli sotto tiro. Specialmente Tanaka che non capiva quando smettere e quando continuare.

Nel frattempo, ero ancora indaffarata a rovistare all'interno del borsone, come se poi il cambio di riserva si fosse materializzato all'improvviso, in una magia. Decisi di arrendermi alla ricerca e chiusi il borsone con la lampo, voltandomi verso i ragazzi che mi avevano accerchiato.

«Non ho nessun cambio con me», dichiarai imbronciata e strinsi le braccia conserte sotto al seno, guardandoli uno per uno. «Qualcuno di voi ha dei pantaloncini in più da prestarmi? Prometto che ve li restituirò domani.»

«Io ne dovrei avere un paio di riserva», alzò la mano Hinata, sorridendomi nel suo modo elettrizzato, il quale scacciò velocemente via l'aura di tristezza che lo avvolgeva. Strano come cambiasse umore da un momento all'altro.

«Apprezzo davvero tanto il tuo gesto Hinata, ma non credo che mi entrerebbero i tuoi pantaloncini», storsi la bocca in una smorfia dispiaciuta e mi morsi il labbro. «Abbiamo taglie differenti, soprattutto di altezza.» Il ragazzo restò con la bocca semi aperta e annuì titubante. Non gli era piaciuto il modo in cui avevo sottolineato la nostra differenza di altezza. Ma cavolo, dovevo pur farglielo capire in un modo o nell'altro. «Davvero ragazzi, nessuno di voi ha un cambio? Insomma, dovreste essere felici che una ragazza indossi i vostri vestiti.» Proseguì stizzita, appoggiando le mani sui fianchi.

Neanche Kyoko e Hitoka potevano aiutarmi. Erano manager e venivano direttamente in tuta, facendo attenzione appunto dove sedersi sull'autobus -avrei dovuto fare anche io la stessa cosa-. Quindi, non avevano alcun borsone né un cambio da prestarmi. Ero completamente andata. Mi sarei dovuta godere la partita con il vomito addosso e le gambe appiccicose. Almeno, sperai che le persone non avessero da ridire sulla puzza. Anche se ne dubitavo fortemente.

«Keishin! Aiutami almeno tu!» Strillai contro mio fratello, sventolando un braccio in aria e saltellare sul posto, facendogli capire che esistevo ed ero in piena crisi. In una forte crisi.

Mio fratello che stava parlando con il sensei, mi guardò attratto dal mio braccio a penzoloni, sollevando un sopracciglio. «Mi serve un cambio», ripetetti disperata, ma lui sorrise divertito e mi diede le spalle, dicendo che ci avrebbe aspettato dentro.

La mia bocca si spalancò incredula. Sbaglio o mi aveva ignorato come un maledetto- «Stronzo, questa me la segno. Te la farò pagare», ringhiai fulminandogli la nuca bionda, sperando che prendesse improvvisamente fuoco.

«Io ho un cambio, se accetti i miei.»

Oddio, chi ha parlato? Girai la testa nella direzione della voce, notando Kageyama porgermi i suoi pantaloncini neri. «Dici sul serio?» Chiesi sbigottita.

Il corvino annuì e fece un cenno di prenderli. Li afferrai con un sorrisetto grato e li strinsi al petto. «Grazie Kageyama, ti devo un favore.»



«Sorellona Saeko!» Salutai calorosamente la sorella maggiore di Tanaka, la quale si slanciò su di me, avvolgendomi in un abbraccio caloroso. Ricambiai sorpresa, dandole piccole pacche sulla schiena.

«Ciao Kaori!» squittì. «Che bello rivederti, ti trovo bene. Ciao anche a voi, io sono la sorella maggiore di Ryunosuke Tanaka», si presentò agli amici di mio fratello, i quali erano seduti al mio fianco.

«In effetti vi somigliate», commentò Yusuke sorridendole. «Io sono Yusuke Takinoue e lui», indicò l'occhialuto. «Makoto Shimada.»

Makoto la salutò calorosamente con una mano e dopo aver finito le presentazioni, ci accomodammo sulle poltroncine della tribuna, aspettando che l'arbitro desse il via alla partita.

Ero molto agitata. Continuavo a torturarmi le dita e mangiucchiarmi le unghie, togliendo residui di smalto rosa. Guardai mio fratello che restò all'impiedi a braccia conserte, mentre i ragazzi si stavano esercitando con una schiacciata, grazie alle alzate di Kageyama. Appoggiai le mani sulle cosce e strinsi il tessuto dei pantaloncini neri -evidentemente grandi- tra le dita, cercando di alleviare quella tensione.

L'Aoba Johsai era molto forte, non bisognava sottovalutarla e lo sapevano persino i ragazzi della Karasuno. Ma ero positiva. I corvi avrebbero vinto e sarebbero andati al torneo primaverile. Si erano allenati duramente con molta determinazione e sacrificio, mettendo in secondo piano gli studi. Non avrei accettato una sconfitta da parte loro.

«Sono molto emozionata», disse Saeko guardando con un luccichio negli occhi il campo. «È la prima volta che vengo a vedere una partita importante come questa. Sono sicura che ce la faranno».

Le sorrisi dolcemente, prima di riportare l'attenzione sulle due squadre. Improvvisamente la palla che Kageyama aveva alzato, finì nel campo avversario e quest'ultimo cercò di riprendersela, ma Oikawa come una mosca fastidiosa, si mise in mezzo e cercò di strappargliela via dalle mani. Le mie sopracciglia schizzarono verso l'alto, guardando in veste infantili il mio ex ragazzo. Si poteva essere più stupidi di così?

«Certo che l'Aoba Johsai ha davvero una vasta tifoseria», commentò Yusuke. «Anche se ci sono più ragazze che ragazzi.»

«Non credere che quelle ragazze vengano a vedere una partita della loro squadra scolastica senza motivazione», ribattei sarcastica, notando tre ragazze mettere in scena un balletto per Oikawa, chiamandolo a gran voce. «Sono qui solo per il loro capitano.»

«Quel tipo non mi piace», si intromise Saeko riferendosi ad Oikawa. «È davvero presuntuoso.»

Beh, in effetti lo era. Mi strinsi di più nelle spalle e rilassai i muscoli, portando le braccia conserte sotto al seno.

«Kaori non è il tuo ragazzo Oikawa Tooru?» Mi domandò Makoto e lo guardai accigliata. Era stato zitto per tutto il tempo, non poteva continuare al gioco del silenzio? Ecco perché gli amici di mio fratello erano gli amici di mio fratello: invadenti, curiosi e logorroici.

«Che cosa?» Spalancò la bocca Saeko. «Scusami Kaori, non volevo dire», scossi il capo velocemente e bloccai le sue scuse sul nascere.

«No, stai tranquilla: io e Oikawa non stiamo più insieme», ricalcai l'ultima parola lanciando un'occhiataccia a Makoto. «Puoi dire tutto quello che pensi, non è un problema», le rivolsi di nuovo la mia attenzione con un sorrisetto rassicurante.

Saeko tirò un sospiro di sollievo.

«Menomale che non ci stai più assieme», ricalcò la dose Yusuke. Alzai gli occhi al cielo. «È uno stronzo. Non mi è mai stato simpatico».

«Che ne sai? Non lo hai mai conosciuto», risposi.

Yusuke girò la testa verso di me, sorridendomi enigmatico. «Ho i miei segreti per questo, piccola Kaori

Assottigliai lo sguardo a quel nomignolo che tanto odiavo. «E sarebbero?»

«Se te lo dicessi non sarebbero più segreti», ribatté con ovvietà.

Sbuffai. Ero sicura che di mezzo c'era lo zampino di mio fratello. «Tieniti i tuoi segreti per te, Yusuke», gli feci una linguaccia e lui rise.

La conversazione finì lì con molti dubbi e perplessità. L'arbitro fece il suo ingresso, posizionandosi nella sua solita postazione e portò il fischietto alle labbra; allargò poi le braccia e chiamò entrambi i capitani delle due squadra, in modo tale che si dessero la stretta di mano prima dell'inizio. Una volta aver concluso l'imbocca al lupo, l'arbitro fischiò e diede così inizio alla grande partita finale.

Intrecciai le dita per scaramanzia e pregai che tutto andasse per il meglio. Forza, ragazzi.

Non so quante ore passarono dall'inizio della partita, ma entrambe le squadre avevano raggiunto il terzo set. La palla rimbalzava da una mano all'altra, le schiacciate diventavano sempre più insostenibili per la stanchezza e nessuno di loro voleva cedere per giocarsi la vittoria.

Mi alzavo ogni qualvolta che la palla veniva spedita nel campo della Karasuno, camminando avanti e indietro per sbollire la tensione accumulata. Avevo la gola secca per tutte le volte che urlavo, facendo il tifo per i ragazzi.

Le occhiatacce che mi riserbò Oikawa erano intimidatorie, ma gli alzai un bel dito medio e continuai a fare il tifo per i corvi. Neanche Iwaizumi se la stava passando bene, ma poco me ne importò. Si notava che tra lui e Oikawa girasse una brutta aria.

Mancavano davvero pochi punti per vincere da entrambe le squadre. L'ansia mi stava mangiando viva, aggrovigliando le mie budella e far sudare i miei palmi. Non avevo mai provata quella tensione nervosa tutta insieme. Insomma, neanche quando mi trovavo io in mezzo al campo, ero così agitata o ansiosa.

«Sei un fascio di nervi. Hai appena fatto un buco al pavimento», disse Yusuke prendendosi gioco di me.

Gli rifilai un'occhiataccia e misi in scena una risata divertita. «Ah! Ah! Ah! Simpatico per la tua età, ma sei troppo vecchio per permetterti tale privilegio.»

«Hey», mi puntò il dito contro scherzosamente. «Bada a come parli: non sono così vecchio.»

Roteai gli occhi e lo ignorai, affacciandomi alla ringhiera della tribuna. Coraggio, ragazzi.


Erano in parità. Gli ultimi punti per aggiudicarsi la vittoria. Tenni gli occhi puntati sulla palla, sulle mani e sulle alzate, stringendo nervosamente la ringhiera tra i palmi. Mi mordicchiai il labbro inferiore a sangue.

La palla andò a finire nel campo avversario e feci per esultare, ma riuscirono a difenderla e sollevarla in aria. Però, la palla andò a finire fuori campo, ancora fluttuante. Improvvisamente Oikawa corse fuori dalla linea del campo e fece un salto lungo e veloce, alzandola ad Iwaizumi che era pronto a riceverla e a schiacciarla.

I miei occhi si spalancarono increduli e guardai quella scena a rallentatore con la bocca semi aperta. Era stata la migliore alzata di tutta la partita e la schiacciata colpita dal corvino, mi lasciò spiazzata.

«Papà vuoi giocare con me a pallavolo?» Avevo sei anni all'epoca. Mio padre stava girando per casa come un barbone e una barba di tre giorni, rovistando nei suoi scatoloni zeppi di robaccia inutile.

«Non ora, ho da fare. Chiedi a tuo fratello.» Rispose secco ed io strinsi la palla al petto, abbassando lo sguardo tristemente.

Era strano che ad un tratto mi venne in mente quel ricordo della mia infanzia. Mio padre aspirava a diventare il gran cantante di cui parlava tanto e il nonno n'era così entusiasta e felice per suo figlio, ma al contempo lui viveva continuamente per la sua musica, ignorandoci.

Restava ore e ore in camera a suonare e comporre bozze dei suoi testi. Non aveva mai trovato il tempo per giocare, né per cenare insieme, né per prepararci la colazione.

A scuola, i pochi amici che avevo, mi raccontavano di quanto erano grandiosi i loro papà: preparavano la colazione, li rimboccavano le coperte prima di andare a dormire, passavano il loro tempo a giocare con loro.

E poi, quando mi fecero la stessa domanda, di cosa facesse il mio papà, risposi: «È impegnato», subendomi le loro risate sguaiate e cattiverie.

Forse, era per colpa dell'assenza genitoriale che nel corso degli anni divenni una totale stronza. Forse, era per colpa di mio padre e del suo comportamento distaccato da rendermi insicura. Forse, ero colpevole della morte di mia madre, la quale non avevo mai conosciuto. Forse, avevo solo colpa e basta.

Ad un tratto, il cellulare nella mia tasca vibrò e curiosa di chi fosse lo afferrai, leggendo una chiamata in arrivo dall'ospedale di Tokyo. Corrucciai la fronte e premetti sul tasto verde, portando il telefono all'orecchio e otturare l'altro per ovattare le grida delle tifoserie. «Pronto?»

«Salve, parlo con la signorina Ukai Kaori?» Chiese con un tono formale la voce femminile dall'altra parte.

«Sì, chi parla?» Domandai con una brutta sensazione addosso. Avevo il cuore in gola.

«La chiamo dall'ospedale Aiiku di Tokyo, sono la dottoressa Kishinora e mi occupo da un paio di anni dello stato salute di suo nonno.»

Trattenni il respiro e mi guardai attorno, cercando di trovarvi un posto più appartato e meno chiassoso. «Aspetti solo un secondo...», sussurrai e mi incamminai verso le scale, salendole velocemente e appartarmi in un angolino silenzioso. «Mi dica, è successo qualcosa?»

La dottoressa sospirò profondamente. «Signorina Ukai, suo nonno è stato trovato stamattina da uno sei suoi allievi, svenuto e privo di coscienza, sul pavimento della cucina», sgranai gli occhi e portai una mano alla bocca. «Per fortuna la madre del bambino non era andata via, così hanno chiamato urgentemente i soccorsi. Ho provato a rintracciare suo fratello, visto che si occupa lui di accompagnarlo quotidianamente ai controlli ogni sei mesi, ma il suo telefono risulta irraggiungibile.»

Chiusi gli occhi e allontanai il telefono dall'orecchio, ingoiando il magone in gola, ma cercai di restare calma. «Do-Dottoressa Kishinora, adesso come sta? Che cosa ha avuto?»

«Per ora è stabile. Stiamo provvedendo a trasferirlo in una stanza privata, ma ho bisogno di uno di voi per una firma», rispose tranquillamente. «Signorina Ukai...» improvvisamente divenne fin troppo seria. «Suo nonno ha avuto un terzo infarto nel giro di metà anno, sa cosa significa vero?»

Scossi il capo e strinsi l'aggeggio telefonico nel palmo della mano fortemente. «Sta prendendo le sue medicine...», bofonchiai.

«Lo so, proprio per questo vogliamo accertaci che lui sia sotto sorveglianza per qualche giorno, fin quando non sapremo a cosa è realmente dovuto il suo sforzo fisico», spiegò. «Non si sta sforzando, vero?»

«Io... non lo vedo da un po' a dire il vero», e sentì il senso di colpa mangiarmi dentro. «Senta, non mi trovo molto lontana dal centro di Tokyo, può ripetermi il nome dell'ospedale?»

«È l'Aiiku, accanto alla stazione dei treni. Non può sbagliare».

«La ringrazio, ci vediamo tra poco», allontanai il telefono e staccai la chiamata con il batticuore.

Fissai con occhi vuoti e persi lo schermo del telefono divenuto nero. Ad un certo punto, tutte le mie paure ritornarono a galla, mischiandosi e confondendosi l'una con l'altra. Noi non apprezzavamo il valore di ciò che avevamo; ma quando ci mancava o lo avevamo perduto, allora capivamo il valore. Non esisteva scelta che non comportava una perdita. Mentre ci fermavamo a pensare, spesso perdevamo la nostra opportunità. C'era una cosa più triste che perdere la vita, era perdere la ragione di vivere, più triste che perdere i propri beni, era perdere la speranza.

«Nonno un giorno io e te continueremo a stare insieme?» Il cielo stellato fuori alla veranda, dopo esserci riempiti di vaschette alla vaniglia e cioccolato, era una pillola dolce da inghiottire. Il nonno mi raccontava sempre storie, le quali prendevano vita e una stella cadeva. Come se il cielo piangesse ad ogni suo finale.

«Piccola, un giorno tu guarderai il cielo, proprio qui dove siamo seduti e visto che io abiterò in una di quelle stelle, visto che io riderò in una di esse, allora vivrò per sempre per te, con te e dentro di te. Così nessuna stella piangerà, ma rideranno tutte insieme.»

«Ma nonno... io non voglio che tu vai a vivere in una stella», piagnucolai. «Io voglio che tu resti qui con me.»

Lui sorrise, evidenziando le sue rughe piene di storia e passato. «Ascoltami, piccolina...», prese le mie manine e le strinse nelle sue molto più grandi. «Se un giorno non mi vedessi più varcare la soglia della porta come sono solito fare, alza gli occhi al cielo e cercami fra le stelle che accendono la luce della volta celeste fra le odorose ginestre gialle che incorniciano le nostre colline. Cercami negli occhi di chi ami. Cercami nel silenzio del tuo cuore. Io starò lì. Per sempre.»

Sbattei piano le palpebre e riposai il telefono nella tasca dei pantaloncini. Una sensazione calda e liquida accarezzò le mie guance e le toccai, sentendo i polpastrelli inumidirsi. Non mi ero neanche accorta di star piangendo...

«La Karasuno vince il terzo set contro L'Aoba Johsai e accederà al torneo primaverile.»

E mi sentì così vuota.

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