𝖷𝖷𝖵𝖨
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«Nice kill!»
Presi un grosso respiro, asciugandomi il sudore dalla fronte. Ritornai in posizione, gambe divaricate e le braccia larghe, guardando attentamente il ragazzo dagli occhi giallo-grigiastri leggermente stretti, tenendo d'occhio le sue mosse.
Il gemello biondo, Atsumu Miya, prese la rincorsa e saltò con la punta del piede, seguito da suo fratello Osamu Miya, eseguire la sua stessa traiettoria e movimenti per coordinarli insieme a quest'ultimo. Istintivamente, mossi un piede in avanti e corsi sotto alla rete, aggiungendomi al muro di Nezero, mandando la palla nel loro campo e segnare l'ultimo punto del terzo set.
L'arbitro fischiò, segnando fine alla partita ed esultammo, abbracciandoci e darci il cinque. Con la coda dell'occhio vidi la coach sorridermi e battermi le mani in un applauso, ricambiando quel gesto inaspettato con un timido sorriso. Le ragazze tornarono in panchina ed io, come dovere di capitano, feci dietrofront e raggiunsi Shinsuke Kita, il capitano dell'Inarizaki.
Gli porsi la mano e sorrisi. «Bella partita! Siete stati forti.» Commentai congratulandomi e il ragazzo dai capelli grigi con le punte nere, strinse la mia mano cordialmente.
«Sarà difficile accettare che delle ragazze ci hanno battuto, ma avete dato il meglio di voi stesse. Mi piacete!» Era davvero carino: all'apparenza si mostrava un tipo pieno di sé, seduto in disparte a guardare la propria squadra eseguire azioni e difese, nonostante lui non avesse giocato. In verità, ci tenevo a vedere una delle sue giocate, ma riflettei che forse, entrava nel bel mezzo della partita solo quando vedeva che la sua squadra avrebbe riscontrato una grossa difficoltà. Il fatto che non lo abbia fatto con noi, reputandoci forti -ma non abbastanza- infondo infondo, m'irritò.
Ritrassi la mano, lasciandola cadere all'altezza del fianco. «Già, siete stati ottime cavie nemiche.» Ammisi sarcastica e il suo petto vibrò in una risatina.
«Potrei dire lo stesso...», alzò un sopracciglio. «Non sarà la prima né l'ultima: ci rifaremo.»
Allargai le labbra in un sorriso. «Puoi giurarci.»
Uscimmo dalla palestra, parlando più o del meno, mentre le ragazze si congratularono tra di loro -ancora- per la partita, commentando persino del muro improvvisato da me e Nezero. Sorrisi di tanto in tanto, stringendomi il borsone in spalla e notare l'autobus privato della Toda, sostato accanto al marciapiede dell'ingresso della scuola.
La coach Tamiako mi affiancò, circondandomi il collo con il braccio. «Sei in forma, non me lo aspettavo», disse con un accenno di sorriso, mentre la squadra camminò verso il mezzo di trasporto.
«Me la cavo, tutto sommato sono stati giorni duri e pesanti. Riprendere il ritmo degli allenamenti non è di certo facile.» Dichiarai, abbassando lo sguardo sulle punte delle mie scarpe. Dovevo abituarmi nuovamente alle loro attenzioni. Non mi sentivo così in imbarazzo da parecchio tempo.
«Già, lo so», sospirò, togliendomi il braccio sulle spalle. «Come vanno le cose a casa?» Chiese subito dopo, cambiando argomento.
Alzai le spalle, disinvolta. «Il solito: nulla di più, nulla di meno.»
«E il tuo ragazzo?», chiese curiosa. «Com'è che si chiamava? Mhm... Non dirmelo! Posso arrivarci», mormorò pensierosa, strofinandosi l'indice e il pollice sotto al mento. Alzai gli occhi al cielo e risi.
«Oikawa Tooru», le risposi, ignorando il fatto che stesse spremendo le meningi inutilmente. «Ma no, non è il più mio ragazzo da un bel po', a dire il vero...», sussurrai le ultime parole con un cipiglio sulla fronte.
Passò una settimana dall'ultima volta che io e Oikawa c'eravamo visti; non mi era andata giù che suo nipote ci avesse beccati in cucina ad abbracciarci, come facevamo di solito quando stavamo ancora insieme. Non volevo dare false speranze a nessuno, nonostante sapessi del piccolo debole di suo nipote nei miei confronti.
Si sapeva che i bambini capivano cazzi per altri cazzi.
Ero imbarazzata, scombussolata e me ne pentì amaramente nello stesso momento in cui avevo deciso di sostenerlo e cadere nella sua trappola. Mi aveva sfiorata, toccata, umiliata, derisa, anche se non c'era nessuno ad assistere a quell'episodio, chi mi diceva che Oikawa non fosse un sociopatico pronto a farmela pagare, nei modi più brutali possibili, per Iwaizumi?
Le persone si potevano nascondere dietro facili sorrisi e belle parole... ma prima o poi si mostravano per quello che realmente erano. Alle volte però, non erano nemmeno le persone che cambiavano da un giorno all'altro, bensì la maschera che cadeva dalle loro facce. Non mi avevano mai sfiorato le belle parole né entusiasmato, ne avevo sentite fin troppe. Mi conquistavano i fatti, le sorprese e chi dimostrava di "esserci".
Una persona non diventava giusta solo perché tu lo desideravi.
Non si trattava di cattiveria od egoismo, ma non dovevo lasciargli così tanto agio e disponibilità nei miei confronti. Quando me ne andai da casa sua, mi promisi che quella doveva essere l'ultima volta che avevo a che fare con lui: Oikawa era un bravo manipolatore quando si metteva e lo capì troppo tardi. Forse, era stato un bene averlo scoperto con le mani nel sacco, anche se non volutamente, ma comunque scoperto e messo al tappeto.
Mi piaceva in verità, chi era semplice e sorrideva. Chi era gentile con la vita e non alzava mai la voce. Chi mi accettava com'ero, senza volermi insegnare e dimostrare nulla. Chi mi ascoltava e cercava di capirmi, senza mai giudicarmi. Non esisteva mai delusione nel rapporto con queste persone. Speciali e rare.
Distrattamente, i miei pensieri andarono ad Akaashi e un sorriso incontrollato sfiorò le mie labbra. Tentennai nell'appoggiare i polpastrelli sulle mie labbra, testando e volendo sentire ancora il suo sapore sulle mie. Mi ero svegliata di cattivo umore, pensando che la giornata si fosse concluse come il mio malumore, e invece, ero al settimo cielo.
Afferrai il labbro inferiore tra le dita, tirandolo leggermente e togliere qualche pellicina di pelle morta sulla carne della bocca. La coach Tamiako mi guardò curiosa e inclinò il capo di lato, furbamente.
«Ah, menomale! Sai, quel ragazzo non mi è mai andato a genio», commentò senza peli sulla lingua, appoggiando le mani sui fianchi. «Non ho mai capito come hai potuto starci assieme dopo tutto questo tempo.» Fece schioccare la lingua sotto al palato con una smorfia di disappunto, facendomi sorridere colpevole e stringere nelle spalle.
«Me lo chiedo anche io... ma non è più importante, fortunatamente...», sospirai sollevata. «Oikawa non fa parte più della mia quotidianità.» Gesticolai nervosamente con una mano, approfittando di portare una ciocca di capelli, caduta davanti al mio viso, dietro all'orecchio.
La coach aprì bocca per ribattere, ma la voce squillante di Fraya che ci incalzava a salire sull'autobus, fece morire quella discussione sul nascere. Sorrisi divertita in direzione della ragazza e sistemai il manico del borsone sulla spalla.
«Prendo il treno», dissi. La coach mi guardò interrogativa. «C'è un posto in più», scossi il capo, interrompendola. «Yagami-san ha detto che camminare mi fa bene, quindi, preferisco seguire le sue regole per una volta», roteai gli occhi sarcastica e sorrisi.
«Come desideri», sollevò gli occhi al cielo. «Sei la solita cocciuta», alzò le mani. «È inutile tentare di convincerti.»
«Per questo mi adori.» Ammiccai con un'occhiolino e la coach mi guardò sconfitta, facendomi il gesto -scherzosamente- di andarmene prima che non avesse alcun rimpianto di cacciarmi dalla squadra.
Ridacchiai beffarda, allontanandomi e passai davanti all'ingresso della palestra, notando che la squadra di pallavolo maschile aveva appena finito di pulire e sistemare, uscendo uno per uno con i loro borsoni in spalla e la giacchetta con il logo della loro squadra.
Mi soffermai a guardare il capitano, il quale mi fece un cenno veloce di mano e ricambiai tentennando imbarazzata. A seguirlo, i gemelli Miya che chiacchieravano tra di loro, anche se Osamu ignorava continuamente il fratello. Alzai un sopracciglio quando intravidi Atsumu rifilarmi un'occhiolino fugace, continuando a parlare e gesticolare sotto agli occhi annoiati del gemello. I restanti, uscirono senza adocchiarmi più di tanto, sicuramente infastiditi per la partita persa contro una squadra femminile.
Dentro di me, ero così entusiasta che avrei potuto appendere cartelloni con i punti della nostra vincita su tutti i muri della città, ma trattenni il desiderio e spostai i capelli dietro alla schiena con una certa noncuranza, camminando verso l'uscita del cortile del liceo Inarizaki, raggiungendo la stazione con gli auricolari nelle orecchie.
༄
Emozionata. Ero così emozionata e su di giri quella mattina che avrei potuto restare sveglia per quarantotto ore senza lamentarmi per la mancanza di sonno. La Karasuno doveva giocare contro l'Aoba Johsai, dopo aver battuto la Ohgiminami per accedere ufficialmente al torneo primaverile.
Ci trovavamo sull'autobus, mentre cantavamo a squarciagola canzoni allegre che avrebbero messo di buon umore anche due come Kageyama e Tsukishima. Ero seduta accanto ad Hinata che brontolava ogni due per tre di non sentirsi bene, ma cercai di sdrammatizzare la situazione con battutine per alleviare il suo stato di ansia.
«E se dovessi sbagliare?» Domandò per la millesima volta Hinata, mentre ondeggiavo la testa a destra a sinistra ritmicamente. Amavo gli Imagine Dragons.
«Non sbaglierai.» Risposi con la testa tra le nuvole.
«E se dovesse succedere?» Ribadì.
«Non succederà.» Risposi paziente, chiudendo gli occhi e canticchiare sottovoce.
«E se Kageyama dovesse sbagliare l'alzata ed io lo seguissi a ruota, sbagliando l'alzata veloce, significherebbe che ci troveremo in svantaggio e Daichi si arrabbierà, così come il coach Ukai e per non parlare di Takeda-sensei», parlò tutto d'un fiato, facendomi avere la sensazione di aver trattenuto io il respiro, a differenza sua.
Girai la testa lentamente verso di lui con uno sguardo perplesso e sorpreso. Come diamine faceva a pronunciare milioni e milioni di parole diverse con un groppo in gola, pronto a rimetterlo se soltanto avesse voluto, ogni qualvolta che evidenziava la sua preoccupazione? Hinata alle volte, faceva davvero paura.
«...Sarei una delusione. Deluderei tutti. Sicuramente Kageyama ha ragione quando dice che sono soltanto un'esca inutile», proseguì nervosamente, il che mi stava letteralmente stancando. Ne avevo le orecchie piene dei suoi continui lamenti, soprattutto per il mio -povero- occhio destro che iniziò ad avere il suo solito tic nervoso.
Lo afferrai per il colletto della sua maglietta di cotone, scuotendolo violentemente per farlo smettere, prima che le mie orecchie perdessero sangue. «Smettila di autocommiserarti in questa maniera!» sbottai, smuovendolo a bacchetta. «Mi stai facendo venire il voltastomaco, Hinata, sei fastidioso! Fastidioso! Fastidioso!» canzonai, mentre lui si lasciò maltrattare dalla sottoscritta, ormai perso e privo di lucidità.
In realtà, non sapevo neanche io perché stavo reagendo in quella maniera, ma ero sicura, quanto era vero che mi chiamassi Ukai Kaori, di avere tutte le buone intenzioni di spronarlo a dare il meglio di sé. Però, nessuno, ripeto, nessuno mi aveva detto che ciò giocasse contro la mia vita e reputazione.
Sugawara che stava canticchiando insieme agli altri una canzone degli Imagine Dragons, puntò lo sguardo di scatto verso di me e mi guardò allarmato. «Kaori-chan non scuotere Hinata in quella», alzai un sopracciglio confuso nella sua direzione, smettendolo di scuoterlo violentemente per un attimo, ma il ragazzo dai capelli arancioni si tappò la bocca con la mano e curvò il busto in avanti, ai miei piedi, rimettendo la cena della sera prima.
Sbiancai. La canzone degli Imagine Dragons si stoppò, Sugawara ingrandì i suoi occhioni a mandorla, Daichi spalancò la bocca, Asahi mise in scena uno svenimento teatrale e il restante dei ragazzi sbiancarono: pallidi in viso, tremanti e la bocca semi aperta che non emetteva alcun suono.
Un altro sforzo di vomito. Sulle mie gambe. Con la coda dell'occhio vidi il muso di Hinata appoggiarsi senza fiato sulle mie cosce, chiudendo gli occhi e respirare piano. Non se n'era accorto. Stava così male che non si era reso conto che mi aveva letteralmente vomitato addosso, sulle gambe e sui piedi.
Portai l'indice e il pollice al naso, tappandomelo, visto che la puzza si propagò nell'intero autobus. Volevo gridare. È un pezzo di carne quello? pensai e distolsi lo sguardo velocemente, sentendo la sensazione di vomitare bloccarmi in gola.
«Ka-Kaori...», tentennò Sugawara, sorridendomi come il suo solito rassicurante. Ma non c'era niente di rassicurante in quel momento.
Volevo sprofondare. Morire. Gettarmi sotto ad un treno in picchiata. Qualunque cosa. Qualunque.
Pur di scomparire dalla faccia della Terra e rinascere in un'altra vita, la quale mangiavo senza ingrassare, dormivo senza preoccupazioni e mandavo a fanculo senza rimpianti.
Coraggio Kaori, un bel prato verde, dolciumi al posto dei fiori, zucchero filato al posto dei cespugli, tavolette di cioccolato a uso barca. Forza, pensa al miglior posto della tua vita e dove vorresti realmente...
«FERMATE IMMEDIATAMENTE QUESTO CAZZO DI AUTOBUS!» Strillai nel panico e l'autobus frenò di colpo, stridulando le ruote sull'asfalto.
...stare.
L'unica cosa che mi allontanò dai miei pensieri buonisti, fu la galera. Trent'anni di galera per omicidio di primo grado. Trent'anni di godimento. Trent'anni per una buona causa.
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