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«Leggeresti mai ad alta voce i brani sacri di una pergamena sapendo che porteresti in vita orde di zombie?», a quella domanda risi. Il film era appena finito e stavamo raggiungendo l'uscita del cinema, commentando le azioni dei personaggi e della vicenda narrante. «Insomma, io non farei mai una cosa simile» proseguì con una smorfia di disappunto. «Non vorrei mai trovarmi nei panni di essere mangiato vivo o peggio, diventare uno zombie.»

«Sei molto suggestionabile», commentai divertita, spingendo la porta di vetro e inalare una quantità d'aria fresca, a differenza della sala cinema che si respirava solo di popcorn caramellati e detersivo per i pavimenti. Akaashi mi lanciò un'occhiataccia. «Non guardarmi in quel modo», ridacchiai e gli punzecchiai con un dito la guancia, soffermandomi a guardare il traffico di Tokyo e delle luci dei cartelloni pubblicitari, illuminare le strade.

«Scommetto che da zombie saresti molto carina», ribatté di ripicca e lo guardai male, scatenando un risolino da parte sua.

«Simpatico», mugugnai sarcastica e gli feci la linguaccia. Camminammo l'uno affianco all'altro sul marciapiede, guardando le persone passarci accanto e altre seguire la nostra stessa traiettoria con un po' più di fretta. Non avrei mai capito del perché corressero ogni volta o del fatto che non ti chiedevano scusa quando ti investivano per sbaglio, anzi, se la prendevano con te, urlando parolacce a destra e a manca, manco se avessero la ragione dalla loro parte. Le persone di città erano strane.

Improvvisamente, mi sentì circondare le spalle e venir strattonata con delicatezza contro al suo petto fasciato da una semplice t-shirt nera e abbinato con un giubbotto di jeans di color beige. Gli stava d'incanto, divinamente, e arrossì leggermente dai miei stessi pensieri. «Ti va se ci fermiamo in qualche posto a mangiare?», mi domandò soave e adocchiai l'orario sul suo orologio da polso.

Erano le dieci passate. Avrei dovuto avvisare Keishin che avrei fatto ritardo, visto che lui mi aveva informato di passare la notte in ospedale con il vecchio e così gli dissi che qualunque cosa poteva contare sul mio aiuto, mandandomi un messaggio o chiamarmi, e sarei corsa senza farmelo ripetere due volte.

Afferrai istintivamente il cellulare nella tasca dei jeans e sbloccai il display, vedendo che non c'era nessuna chiamata persa o un messaggio. Da una parte ero sollevata perché non c'erano cattive notizie, ma dall'altra ero convinta che Keishin pur di non spaventarmi, non mi avrebbe mai scritto.

«Tutto okay?» Chiese Akaashi, guardandomi con un cipiglio sulla fronte. Annuì con un sorrisetto rassicurante, portandomi una ciocca fuoriuscita dalla coda, dietro all'orecchio.

«Sì, va tutto bene. Controllavo una cosa», risposi tranquilla e scrollai le spalle, riposando il cellulare in tasca.

«Anche durante il film controllavi spesso il cellulare», mi fece notare. «C'è qualcosa che ti preoccupa?»

Lo guardai per un attimo e distolsi lo sguardo, guardando le auto in fila per il traffico. Non gliel'avevo detto ad Akaashi che avevo passato una settimana in ospedale, pregando e sperando che gli esami di mio nonno uscissero positivi.

In realtà, non l'avevo considerato una cosa di necessaria importanza da dire, soprattutto a lui.
Non perché non mi fidassi, ma avevo paura di trasmettere il mio timore e preoccupazione agli altri, che accorgendosi com'ero fatta, se la dassero a gambe levate. Però, volevo tentare.

«Sono stata in ospedale questa settimana», rivelai ma Akaashi frenò improvvisamente la sua camminata come un richiamo, trascinandomi con sé. Lo guardai confusa.

«Perché eri in ospedale? Sei stata male? È per il ginocchio», agitai nervosamente le mani sotto ai suoi occhi e il ragazzo smise di farmi domande, guardandomi sbigottito.

«No, stai tranquillo. Io sto bene. Benissimo», lo rassicurai e mi morsi il labbro inferiore, abbassando gli occhi sulla poca distanza che separava i nostri corpi. «È per mio nonno...», rivelai in un sussurro appena udibile, ma il ragazzo talmente che mi stava prestando attenzione, l'avrebbe sentito anche senza che usassi la mia voce. «Ha avuto un malore la settimana scorsa e un ragazzino che frequenta la sua palestra, lo ha trovato sul pavimento», raccontai tristemente. «È stato spaventoso. La dottoressa che si occupa di lui da un paio di anni, mi ha detto che non prendeva le sue medicine da un po' e che...», presi una pausa e anche una boccata d'aria. «Sarà un miracolo vederlo ancora in azione.»

Akaashi mi guardò attentamente e notai una luce di tristezza passargli davanti agli occhi come un abbaglio, come se avesse percepito il mio stesso dolore in quella manciata di secondi.

Ma in ciò, io non volevo il dispiacere di qualcuno, la comprensione, provare lo stesso sentimento di compassione. Insomma, io non volevo tutto ciò. Non sopportavo che le persone mi guardassero in quella maniera e certamente non avrei sopportato che lui mi guardasse così.

Spesso quando uno partiva per andare lontano e poi tornava, il maggior dispiacere non lo davano le cose che erano cambiate, ma il fatto che altre erano rimaste uguali, come se uno non fosse mai andato da nessuna parte.

Ero arrivata al punto di pensare che, dopo tutti i dispiaceri della vita, i miei genitori mi vollero per consolarsi dei dispiaceri che erano stati loro negati. Il dispiacere ci rendeva di nuovo tutti bambini, distruggendo tutte le differenze e comprensioni.

Forse, mi faceva paura pensare di ritornare la vecchia me bambina. Forse, non avevo ancora messo da parte i problemi che mi perseguitavano fin da quando ero al mondo: un padre in affettivo, una madre mai conosciuta, un fratello protettivo, un nonno presente.

Forse, avevo davvero paura di abbandonare il mio habitat naturale per sistemarmi in un altro, più accogliente e meno problematico. No. . Non lo so. Non avevo idea. Non avevo più che da pensare.

Ero fottuta dalla vita ogni qualvolta che giravo l'angolo. Ogni volta che le cose andavano per il meglio, ed ero sicura che anche uno come Keiji mi avrebbe abbandonata su un dirupo, come avevano fatto tutti gli altri.

Io ero di tutti ma allo stesso tempo non ero di nessuno. Ero mia. Mia la voglia di sbandare e mia la voglia di urlare.

Ma se avessi dovuto nuovamente appigliarmi a qualcuno, un errore che non avrei mai dovuto ricommettere che però ricommettevo, diventavo vulnerabile come una piuma nell'acqua ghiacciata di un fiume: galleggiavo illesa e non affondavo. Restavo lì: giorno e notte, estate e autunno, sole e pioggia. Chi avrebbe mai raccolto una piuma in mezzo ad un fiume?

C'era una citazione di Oscar Wilde che mi aveva sempre affascinato fin da bambina: «Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esisteva, ecco tutto.»

La mattina ti svegli e ringrazi Dio per averti dato l'opportunità di aver riaperto gli occhi. La sera ti riaddormenti con le stesse intenzioni, sperando di riuscire ad arrivarci al domani.

Però... c'era sempre un però in tutto questo.

Improvvisamente, Akaashi mi strinse nelle sue braccia ed io affondai con il viso nel suo petto istintivamente, socchiudendo gli occhi e inebriandomi del suo odore.

Aveva davvero un buon odore di lavanda sui vestiti e cocco sulla pelle. Mi mordicchiai il labbro inferiore, mentre lui posò il mento sulla mia testa. Le persone passarono in secondo piano, così come i suoni dei clacson e i chiassosi rumori di sottofondo della città.

«Dire che mi dispiace, è un po' come preferire la pizza all'ananas», lo sentì sorridere e ridacchiai leggermente alla sua sdrammatizzazione. «Però...», sospirò e proseguì: «Posso capirti e posso percepire la tua paura come se fosse mia», corrucciai la fronte e mi strinsi di più a lui. Non staccarti, pregai mentalmente. Non desideravo essere da nessun'altra parte se non con lui.

«Mia madre è morta quando avevo dodici anni», strabuzzai gli occhi presa alla sprovvista e mi allontanai di poco dalle sue braccia per guardarlo in viso.

Aveva gli stessi occhi della madre, mentre la tonalità di pelle e il colore dei suoi capelli, erano quelli del padre.

«Io...», ma non riuscì a parlare perché ero sbalordita dal modo in cui si aprì apertamente con me e si fidò ciecamente di me. Non era da tutti rivelare una cosa del genere, specialmente se la questione fosse ancora una ferita aperta e bruciante. Ma Keiji sorrise. Sorrise in un modo astratto, semplice, puro, come se le mie parole non avrebbero fatto differenza. Come se la sua reazione al dolore non avrebbe fatto differenza.

Quando due persone condividevano lo stesso dolore, anche se l'altra c'era già passata, non ti mentiva e non si prendeva gioco dei tuoi sentimenti; Akaashi Keiji era così: si preoccupava di tutti anche se teneva quella piccola parte dentro di sé, non mostrando veramente cosa lo turbasse, poiché si considerava uno strato di scia superflua, la quale veniva ignorata dalle persone. Ma a lui, non gli importava.

Glielo si leggeva in faccia che desiderava solo essere capito da chi aveva o/stava passando le sue stesse pene dell'inferno. Lui era quello buono: l'eroe sconfitto dal dolore che non si arrendeva.

«Continuo a dire a tutti che è in viaggio per lavoro, anche se so che è morta e non tornerà mai più a casa», abbassò gli occhi e afferrò le mie mani, stringendole nelle sue. Restai a fissarlo interdetta. Possibile che la sua calma mi turbasse? «Insomma, in un certo senso mi alleggerisce l'animo sapendo che è da tutt'altra parte...», confidò schietto. «Ti sembro pazzo, non è così?», chiese innanzi al mio silenzio.

No, Keiji. Non sei pazzo. Sei buono. Una persona buona a cui sono capitate cose cattive. La vita non è stata cortese con te. La vita non è stata cortese neanche con il tuo essere bambino che aveva  ancora bisogno della propria madre.

Scossi il capo. «Per niente», gli sorrisi dolcemente. E non gli chiesi nulla né del perché me lo stesse raccontando né del perché avesse aspettato così tanto tempo a confidarmelo. Ad una persona come Keiji bisognava dare il proprio tempo per aprirsi, senza affaticarlo, ed io gli avrei dato tutto il tempo che gli occorreva.

Avevamo già scalato metà della vetta e bastava.

«Uh, wow...», esclamò imbarazzato, riavviandosi i capelli leggermente spettinati. «Che dici se... mangiamo qualcosa? -divulgò il discorso e decisi di assecondarlo- Lì c'è un carretto degli hot dog», indicò un carretto dall'altra parte della strada.

«Perché no», risposi e intrecciai la mia mano alla sua, avendo bisogno del suo contatto di calore. Avevamo entrambi l'animo più leggero. Lo sentivo. «Ti sembrerà assurdo, ma amo il cibo spazzatura», anche se il Dottor Yagami me lo ha severamente vietato, pensai con l'acquolina in bocca per niente in colpa.

«Credevo che fossi a dieta», alzò un sopracciglio beffardo e si permise di squadrarmi dalla testa ai piedi.

Misi su un broncio. «Vuoi farmi sentire in colpa?»

Aspettammo, sul fine del marciapiede, il semaforo che diventasse verde per attraversare. Mentre Keiji ridacchiò e scosse il capo. «Assolutamente! Non voglio mangiare cibo spazzatura da solo», ripetette le mie stesse parole e sorrisi, appoggiandomi con la testa al suo bicipite.

«Darò la colpa a te, in tal caso», Akaashi mi diede un leggero buffetto sulla guancia scherzosamente e mi strinse subito dopo a sé, depositandomi un bacio nei capelli, come se non avesse voluto perdermi nella calcagna vivace di persone mentre attraversammo la strada per raggiungere la nostra meta.

Una volta arrivati davanti al carretto, ordinammo due hot dog e dopo aver discusso su chi doveva pagare fino all'ultimo, alla fine vinsi io con un sorrisetto soddisfatto mentre pagavo sotto ai continui sbuffi di disapprovazione di Keiji.

«Sei incredibile», borbottò una volta ripreso a camminare per la via, lanciandomi un'occhiataccia, «Non era un problema pagarti un hot dog» proseguì e sistemò la carta che avvolgeva il panino per bene in modo che non avesse problemi a mangiarlo. Feci la stessa cosa anche io.

«Veramente l'unico problema qui, è il tuo hot dog», indicai il suo panino pieno di maionese disgustata. Akaashi incurvò un sopracciglio.

«Che c'è? È buona», esclamò divertito e io feci un'espressione poco convinta.

«Per niente. È disgustosa», scossi il capo contrariata. Akaashi ridacchiò e addentò il suo panino, guardandosi attorno. «E comunque, hai pagato i biglietti del cinema e i popcorn e anche le bibite», sentenziai a bocca piena con un'alzata di spalle. «Dovevo ripagarti in qualche modo», aggiunsi.

«Sì ma, non dovevi comunque», alzai gli occhi al cielo divertita. «Sicuramente quel signore ci avrà presi per due pazzi...», aggiunse, addentando metà del panino, mentre mi unì alla sua risata.

«Scommetto che non vedeva l'ora che ce n'è andassimo», guardai il mio panino avvolto dal ketchup, prendendo un po' di strato sull'indice e portarmelo alla bocca. «Mhmh», mugolai contenta con gli occhi chiusi. «È una goduria! Quell'idiota del mio medico mi ha proibito di mangiare questa delizia...», commentai imbronciata, esaminando il mio panino quasi finito. «Non so neanche io come ho resistito per tutte queste settimane...»

Sentì gli occhi del ragazzo al mio fianco bruciarmi addosso e girai la testa verso di lui, ripulendomi le dita sporche di ketchup in bocca. «Che c'è? Sono sporca?» Chiesi allarmata, indicando con un dito la mia faccia.

Akaashi sorrise e si bagnò le labbra, prima di posare il pollice sotto al mio labbro inferiore e ripulirlo dalla gocciolina di salsa. «Sì, giusto lì...», sussurrò rauco e tremendamente sexy, portandoci il pollice leggermente sporco dalla salsa alla bocca, succhiandolo sotto al mio sguardo acceso.

Oh, cazzo! Scherziamo?

Sorrisi imbarazzata e distolsi velocemente lo sguardo dal suo, affondando la mia voglia di saltargli addosso e baciarlo come se non ci fosse stato un domani, nel mio hot dog.

Dannati ormoni.

Passammo una bella serata insieme, conoscendoci addirittura meglio e capire cosa piaceva e cosa non all'altro. Avevo scoperto che il suo colore preferito era il bianco, aveva un debole per i cani, il suo cibo preferito era il Nanohana no Karashiae (piante di colza bollite con mostarda karashi) e gli onigiri e infine, era del segno zodiacale del Sagittario.

Mi ero divertita a stare in sua compagnia, nonostante nessuno dei due avesse punzecchiato l'altro, a parte quando mi aveva ripulito dalla salsa, ma quelli erano fruibili dettagli. I miei ormoni erano andati a K.O.

«Grazie per la bella serata», ammisi, fermandomi davanti alla porta di casa, mentre giocherellai con il portachiavi appeso al mazzo di chiavi. «Mi sono divertita un sacco».

«Anche per me la stessa cosa», rispose e notai uno strano luccichio nei suoi occhi. «Senti, Kaori... io devo confessarti una cosa», fece improvvisamente e inghiottì a vuoto preoccupata, incalzandolo a continuare. Akaashi prese un grosso respiro e si grattò la nuca. «Tu mi piaci un sacco, dico davvero. Sto bene con te», dichiarò e alzò gli occhi nei miei, guardandomi sincero. «Perciò mi chiedevo se –»

«Sì», sbottai e arrossì improvvisamente, rendendomi conto di aver parlato spudoratamente senza sapere cosa avesse voluto chiedermi. Le sopracciglia di Akaashi schizzarono verso l'alto e credendo che potessi sembrare una pazza dalla mia impulsività, lui invece rise.

«Non sai nemmeno cosa ti stavo chiedendo», disse divertito. Mi grattai una guancia imbarazzata.

«Non ridere», sibilai più rossa di un pomodoro, coprendomi il viso con i capelli.

Akaashi smise subito, ma continuò a sorridere e posò una mano sulla mia guancia, accarezzandola. Restai a fissarlo timidamente e lui fece un passo avanti, spezzando la distanza che ci separava. Appoggiò anche l'altra mano sulla mia guancia e il mio cuore palpitò così velocemente che mi sentì di soffrire le vertigini. «Mi piaci un sacco...», soffiò sulle mie labbra, accarezzandole e desiderandole con gli occhi.

«Lo hai già detto...», sussurrai con un sorriso, reggendomi ai suoi polsi. Keiji sorrise.

«Te lo ripeterò continuamente, perché è la verità», posò la fronte contro la mia e chiuse gli occhi.

«Cosa mi stavi per chiedere prima che ti interrompessi?» Domandai retorica, sfiorando la punta del suo naso con la mia.

«Semplicemente di provarci», rispose tranquillamente e alzò e abbassò le spalle con nonchalance. Per poco non mi affogai con la mia stessa saliva. «Lo so, siamo usciti solamente una volta...», proseguì, «ma sono sicuro che se ci provassimo –»

«Sì!» lo interruppi nuovamente, decisa.

«Non mi lascerai mai finire una frase, non è vero?» Ridacchiò.

«No», risposi divertita e arricciai il naso, mentre le sue mani si insinuarono nella mia coda e sfilò via l'elastico, facendoli cadere lunghi dietro alla schiena. Si mise l'elastico attorno al polso e con un gesto rapido e gentile, affondò con le labbra sulle mie in un bacio a stampo e percepibile da far accalappiare la pelle. Ricambiai ad occhi chiusi, intrecciando le braccia intorno al suo collo e sollevarmi di poco con le punte.

«Come i classici film di Sandra Bullock...», sussurrai sulle sue labbra una volta staccata da lui e sollevò un angolo della bocca, il quale rapidamente, mi prese come un sacco di patate sulla spalla e squittì sorpresa, reggendomi all'orlo del suo giubbotto con i capelli che mi svolazzarono in faccia.

«Keiji, mettimi giù!» Starnazzai incredula, anche se la vista del suo fondoschiena ad un palmo dal mio viso non mi dispiaceva affatto. Lui in risposta continuò a ridere e camminò verso la veranda. «Ma che fai? Mollami!» Agitai le gambe, sperando che si decidesse di posarmi a terra, ma lui mi destò con una sonora sculacciata alla natica destra. Spalancai la bocca sbigottita. «Stronzo!» Strillai.

«Il bacio non mi è bastato», rivelò, fermandosi davanti alla porta principale. Mi morsi il labbro e sorrisi come una cretina.

«E che cosa vorresti? Sentiamo», lo punzecchiai, cercando di sollevarmi con la schiena per guardarlo in viso.

«Baciarti tutta la notte fin quando non ne avrò abbastanza», alzò e abbassò le spalle con ovvietà, sfilandomi le chiavi di casa dalla mano facilmente. «Ed io non sono una persona che ne ha abbastanza. Quindi...», aprì la porta e la spinse con il piede, facendo in modo di reggermi le cosce con entrambe le mani. Sorrisi felice e portai le mani al viso, nascondendolo imbarazzata e divertita.

Improvvisamente, si abbassò e mi rimise a terra, notando che fossimo già dentro casa e la porta era già stata chiusa. Il buio del corridoio invase le nostre figure, ma percepì il suo respiro irregolare farsi spazio nel mio e cercai il suo sguardo, nonostante non riuscissi a vedere nulla. Ad un tratto, la sua mano accarezzò il mio collo scoperto e i palmi iniziarono a sudarmi flebilmente per l'eccitazione.

«Ti voglio per tutta la notte», baciò un punto del mio collo e rabbrividì. «E anche domani», baciò ancora, salendo fino alla mascella. «E dopodomani», arrivò al mio mento e lo mordicchiò, il che ansimai sorpresa. «Mi piaci senza veli, senza maschere, perché quando sei con me, riesco a vedere la vera te...» soffiò sulle mie labbra, sfiorandole con le sue. «Non ne avrò mai abbastanza», e senza alcun preavviso, affondò la sua bocca avida e carnosa nella mia.

Non avevo voglia di innamorarmi e di perdermi...
avevo solo voglia di te.

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