𝖷𝖷𝖨𝖨
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«Sei davvero incredibile», commentò Akaashi, guardandomi tagliare le verdure. «Al tuo posto mi sarei tagliato un dito e lo avrei anche cucinato.» Aggiunse con una smorfia, al che scoppiai a ridere, togliendomi una ciocca di capelli davanti al mio viso, usando il dorso della mano, ma fallì nel tentativo.
Akaashi vedendomi in difficoltà, portò la mano davanti ai miei occhi e spostò la ciocca di capelli dietro all'orecchio sinistro, guardandomi in un modo così desideroso che mi fece tremare le gambe.
Potei sentire il suo fiato battermi come vento interrotto sulle labbra e inghiottì a vuoto, quando i suoi occhi blu marittimi saettarono sulla mia bocca dischiusa, ai quali distolsi lo sguardo come scottata e mi riconcentrai sul taglio delle verdure.
«Non penserai davvero che resterai lì a fissarmi senza fare nulla...», lo ripresi sarcastica, cercando di divulgare la situazione di prima del nostro contatto e il formicolio nel basso ventre. Dovetti serrare le gambe di scatto a quella sensazione fastidiosa.
«Te l'ho detto: io e la cucina non andiamo d'accordo», ripeté la stessa raccomandazioni che mi aveva fatto per telefono, allontanandosi dal mio corpo, il che mi fece respirare di nuovo regolare. «Ti sarei solo d'intralcio e poi, stai facendo un ottimo lavoro con le verdure. Sicura di non essere una chef professionale?» La semplicità nelle sue parole mi accarezzò il cuore e sorrisi genuina, mettendo le verdure nella pentola per farle bollire.
«Ho dovuto imparare a cucinare perché mio nonno e mio fratello non sono per niente dotati in questo campo», scossi il capo divertita e afferrai un mestolo nel cassetto delle posate, il quale chiusi con una fiancata. «Ancora oggi non capisco come non sia morta di fame. Non è facile vivere con due uomini, specialmente se quest'ultimi ti considerano ancora la loro bambina promettente», ridacchiai con un'alzata di occhi e Akaashi si unì alla mia risata, posando gli avambracci sul bancone.
«Siete sempre stati solo voi tre?», chiese con una nota curiosa nella voce, mentre mi occupai di girare le verdure all'interno della pentola.
Alzai e abbassai le spalle. «Sì... sempre», mormorai, girando il capo verso di lui per guardarlo. «Perché me lo chiedi?»
«Non lo so...», sorrise timidamente e scrollò le spalle. «Ero curioso, tutto qui.»
Mi voltai con il corpo, appoggiandomi al ripiano della cucina con le braccia conserte. «Capisco...», feci un mezzo sorriso e mi guardai attorno. «Sei figlio unico?» Indicai un quadro di famiglia appeso al centro della stanza dove si trovava il tavolo da pranzo, il quale ritraeva un Akaashi più basso e pienotto con due persone che collegai come i suoi genitori.
Aveva gli stessi occhi della madre, mentre la tonalità di pelle e il colore dei suoi capelli, erano quelli del padre.
«Sì», sorrise curioso. «Perché me lo chiedi?» Alzò un sopracciglio, ripetendo la mia stessa domanda e continuò: «Aspettavi che avessi un gemello o un fratello più sexy del sottoscritto?»
A quella domanda così spontanea arrossì fino alla punta delle orecchie. «Cosa? Certo che no!», esclamai.
«Scherzo, scherzo», si difese prontamente e alzò le mani. Doppio stronzo. «Sei diventata tutta rossa...», commentò sghembo, rendendomi più irrequieta del solito.
Akaashi si sollevò dal bancone della cucina, facendo dei passi verso di me, mentre indietreggiai fino a quando le mie spalle non toccarono il muro.
Non capivo la mia reazione di rifiuto, tantomeno capivo quella di Akaashi così desiderosa.
Appoggiò le mani ai lati della mia testa, guardandomi dal suo cinque o sei centimetri, sorridendomi tranquillamente, senza scovarci all'interno alcuna malizia e la cosa mi rese curiosa al punto di chiedergli: «Che... fai?»
Si bagnò le labbra con un gesto sensuale, guardando la distanza minima che divideva i nostri corpi. «Ti da fastidio questa vicinanza, Kaori?» Avvicinò una mano al mio viso, tracciando con il medio il contorno della mia mascella, fino ad arrivare alla guancia lievemente arrossata.
«No», ammisi schietta, guardandolo dritto negli occhi, il che rese compiaciuto il ragazzo. «Ma devo controllare le verdure, oppure salteremo il pranzo ed io sto morendo di fame» aggiunsi d'un fiato, passando sotto al suo braccio e allontanarmi velocemente da lui, avvicinandomi ai fornelli.
Akaashi restò in quella posizione per diversi secondi, rendendosi poi conto di non avermi più nella sua trappola e voltò la testa nella mia direzione frustrato. «Mi spieghi perché ora fai così?»
Non lo so.
«Così, come?» Feci finta di non capire, controllando i barattoli di spezie nell'apposito contenitore, leggendo le etichette e capire quale mi servisse.
«Prima mi chiedi di scoparti», parlò schietto alle mie spalle, facendomi irrigidire. «e scopiamo come due assatanati», non potevo vederlo ma ero sicura che stesse sorridendo, mentre io non trovavo più la differenza di colore tra il pomodoro e la mia faccia. «Poi giochiamo al gioco della bottiglia, dove avresti dovuto baciare Bokuto e invece non lo hai fatto. E dopo, cerco di avvicinarmi oppure parlarti di quello che è successo e anziché affrontarlo, scappi.»
Aveva elencato tutto ciò che volevo evitare di cui parlasse. Corrucciai la fronte e cercai di svitare il tappo al barattolo della spezia che stavo cercando, lanciandogli un'occhiata torva. «Io non scappo.»
Bugia.
«Invece sì, Kaori», sospirò. «Tu scappi appena le cose iniziano a diventare più strette, opprimendoti.»
Borbottai, a denti stretti, parolacce contro il barattolo, sbuffando sonoramente quando capì di non avere alcuna speranza nell'aprirlo e dal forte orgoglio non lo avrei chiesto ad Akaashi.
Come se mi avesse letto nel pensiero, afferrò il barattolo dalle mie mani e svitò il tappo in un solo colpo, porgendomelo sotto al naso. Roteai gli occhi e lo afferrai, borbottando un grazie masticato.
«Potresti guardarmi?» Non mi ero accorta che si fosse avvicinato così tanto da sentire il cavallo dei suoi pantaloni scontrarsi contro le mie natiche. M'irrigidì involontariamente, appoggiando le mani sul bordo del ripiano, inghiottendo a vuoto.
Le labbra di Akaashi sfiorarono alcuni fili dei miei capelli, arrivando all'orecchio e inspirare profondamente dal naso, causandomi un dolce brivido da far rizzare la pelle.
«Non lo so...», ammisi in un mormorio percettibile, guardando le mattonelle bianche della parete della cucina. «Non lo so perché mi comporto così», ripetetti e 'sta volta mi voltai con il corpo, guardandolo negli occhi.
«È strano...», mi morsi il labbro pensierosa, appoggiando ai lati dei miei fianchi, le mani sul bordo. «Quello che mi fai provare è strano, tutto quello che abbiamo fatto e facciamo è strano...», Akaashi non smise un secondo di seguire con gli occhi il movimento delle mie labbra. «Per te non lo è?»
Scosse lentamente il capo verso destra e poi sinistra. «No...», appoggiò il palmo caldo sulla mia guancia, accarezzando l'angolo del labbro con il pollice. «non lo è.»
«Non voglio illuderti.» Sussurrai ad un palmo dal suo viso, il quale si avvicinò lentamente.
«Cosa ti fa pensare che tu possa realmente farlo?» Rispose in un mormorio, sentendo la carne del suo labbro superiore accarezzare il mio inferiore.
«È complicato», ammisi amara senza distaccare gli occhi dai suoi.
Però Akaashi sorprendentemente sorrise, bloccando l'intendo di baciarmi e restò con le labbra dischiuse. «Mi piace il complicato.»
All'improvviso, quella dichiarazione fatta su due piedi, la quale non ero mentalmente pronta, destò la mia completa attenzione nel sentire la suoneria di un cellulare. «È il mio, scusami», dichiarai, allontanandomi per la seconda volta dalla sua presa e afferrare la borsa posta sulla sedia, scavandoci dentro.
Una volta aver pescato l'aggeggio infernale, notai che fosse un numero privato, il che osservai il display con un cipiglio in faccia.
«Tutto okay?» Chiese Akaashi, notando le linee facciali del mio viso indurirsi e mi affiancò. «Numero privato?» Lesse sul display, il quale squillò senza freni nella mia mano e alternò lo sguardo su di me. «Non rispondi?»
«Sarà qualche scherzo telefonico oppure gestori che insistono a farmi cambiare la linea telefonica», risposi frettolosa, premendo sul tasto rosso e staccare la chiamata. «Sono fastidiosi», sorrisi rassicurante, riposando il telefono all'interno della borsa.
Akaashi mi guardò come se avessi detto la migliore bugia dell'anno e decisi di ignorare il suo sguardo indagatore, preoccupandomi di non bruciare il pranzo.
Magari, avrei elaborato le mie idee concentrandomi su qualcosa di diverso che non era Akaashi né lo sconosciuto della chiamata, il quale sapevo perfettamente chi fosse.
Dopotutto, avevo preso il lato di insistenza proprio da quest'ultimo e continuai a chiedermi che cosa volesse.
Non lo vedevo da ben dieci anni. Gli unici contatti che riuscì ad avere con lui furono attraverso i suoi manager o le persone che si occupavano di seguirlo in ogni tour. Non gli avevo mai risposto, in tutti questi anni, avevo sempre deciso di ignorarlo come meglio fosse, senza preoccuparmi di ferire i suoi sentimenti. Lui non poteva avere sentimenti. Nessun padre che allontanava i propri figli e li abbandonava per seguire il successo anziché la loro crescita personale, meritava di avere attenzioni e sentimenti.
Una volta che il pranzo fu pronto, aggiunsi il brodo di verdure nel riso, apparecchiando il tavolo per due. Mangiammo, e tra un boccone e un altro, parlammo in perfetta calma, come se la situazione di prima fosse passata in secondo piano.
Finito il pranzo, sparecchiai con l'aiuto di Akaashi, il quale si propose di lavare i piatti, visto che mi ero occupata a cucinare e non farci morire di fame. Mi sedetti sul ripiano della cucina, prendendo uno straccio e incalzarlo a passarmi i piatti puliti, così che li asciugassi e dopo li sistemassi negli appositi posti, grazie alle sue indicazioni.
«Saresti un ottimo marito, sai?» Scherzai, asciugando il piatto con lo straccio e posarlo sugli altri. Akaashi alzò lo sguardo dalle sue mani schiumose e mi guardò con uno sguardo che non seppi decifrare, il che mi fece rendere conto di cosa avessi appena detto. «No, cioè... voglio dire...», ero andata nel pallone. «Saresti un ottimo marito per la tua futura moglie, ecco... questo volevo intendere».
«L'ho capito», ridacchiò. «Ma sono sicuro che non mi sposerò», aggiunse, passandomi la pentola. La afferrai titubante e curiosa di chiedergli il motivo, ma come se mi avesse letto nella mente, continuò: «Non voglio sposarmi, ma ovviamente voglio avere dei bambini. Magari... un bel maschietto prima», nascosi un sorriso a quella rivelazione. «Potrei insegnargli la pallavolo, farlo appassionare, anche se so che non farò questo per sempre. Il club, dopo il liceo, si dividerà e ognuno andrà per la propria strada.»
«Lo dici come se fosse una brutta cosa...», gli feci notare, asciugando il mestolo: avevamo finito.
«Non lo è?» Sorrise amaramente e mi morsi il labbro, zittendomi.
Qualunque cosa gli passasse per la mente, in cuor mio sapevo che i club di pallavolo fossero importanti per persone come Akaashi. Mi bastò pensare ad Hinata e Kageyama e il loro spirito combattivo; Sugawara, Daichi e Asahi del loro ultimo anno alla Karasuno e potei immaginare come se si sentissero. Quest'ultimi avevano addirittura messo da parte lo studio per partecipare al torneo primaverile che si sarebbe tenuto tra un anno esatto.
La pallavolo era uno sport che metteva da parte ogni problema, facendo nascere lo spirito di squadra e di competizione. La pallavolo diventava unica perché era l'unico sport dove si passava la palla non per altuismo o per convenienza, non per alleggerirsene o liberarsene, ma per natura e regolamento, per strategia e tattica, per fiducia e attenzione. Non si andava mai a pensare di essere il migliore, ma solo far parte di una squadra straordinaria.
Uno sport dove la palla bisognava passarla. Uno sport dove il campione, anche quello più forte al mondo, da solo non serviva a niente. Uno sport dove la squadra era il valore assoluto. Dove solo la squadra ti permetteva di realizzare o meno i tuoi sogni. Uno sport dove si era costretti a muoversi in uno spazio ristretto: ottantuno metri quadrati, all'interno dei quali essere nel posto giusto o in quello sbagliato era una questione di centimetri che facevano vincere o perdere una partita, un campionato del mondo, una medaglia olimpica.
Avevo otto anni e ricordo le mie prime ginocchiere regalate dal vecchio: erano vecchie, rozze e bruttissime. Erano di un colore blu sbiadito e sembravano fatte di cartone. Poi sono cresciuta e la serie B è arrivata quasi subito: avevo quattordici anni.
Fu la prima volta che vidi il nonno piangere come un bambino. Non voleva lasciarmi ma allo stesso tempo non voleva prelibarmi del successo meritato.
Ricordo perfettamente anche il periodo pesante delle medie: andavo a scuola, facevo i compiti e poi palestra fino a tardi. Mi ero ritrovata presto a fare dei sacrifici. Le gite scolastiche e le settimane bianche per me non esistevano, ma in fondo non mi pesava poi tanto poiché mi piaceva quello che facevo. Mi era sempre piaciuto rinchiudermi in palestra e allenarmi fino a tardi, mentre i miei coetanei erano occupati a divertirsi e ad innamorarsi.
Poi, l'amore arrivò anche da me, bussando alla mia porta e auto invitarsi ad entrare. Non ero schifata da quel sentimento, ma al giorno d'oggi, ero convinta di poterne fare anche a meno.
Quello che mi faceva battere il cuore, per me, era la pallavolo che trasformai in una passione. Guardare la palla tra le mie mani e sentirla mia. In campo veniva fuori il mio carattere, il mio desiderio di non voler perdere. Andavo lì per fare male, ed era un po' come scendere in battaglia, in guerra. La pallavolo era quella cosa in cui mi sentivo più me stessa e avrei continuato a sperarci e fare, fin quando mi si sarebbe retto il fisico, fin quando non mi sarei più ritrovata.
Akaashi finì di pulire le ultime cose e saltai dal ripiano, atterrando sui miei piedi. Afferrai i piatti e chiesi indicazioni al ragazzo dove andassero, il quale mi indicò un mobile marrone al mio fianco. Aprì il mobile e notai l'altra fila di piatti posta abbastanza in alto. Nonostante fossi alta per essere una ragazza, non ci arrivavo e dovetti alzarmi sulle punte per appoggiarli uno sopra all'altro.
Ad un tratto, sentì di nuovo quella sensazione di calore pervadere il mio corpo, causandomi un caldo eccessivo e fin troppo familiare nel basso centro.
Akaashi afferrò il piatto che avevo in mano, posizionandolo sopra all'altra fila. Restai immobile a fissare un punto fisso davanti a me, fin quando non sentì la sua mano sfiorarmi il fianco destro e le sue labbra premere dietro all'orecchio, depositandovi un bacio.
«Baciami...», sussurrò nel mio orecchio e chiusi gli occhi involontariamente, causandomi milioni di brividi. «...Non riesco a fingere. Non con te.»
Neanche io, avrei voluto rispondergli ma preferì farglielo capire, spezzando quella distanza creata per paura e timore che potesse svanire da un momento all'altro. Ormai, non potevo continuare a fingere che non avessi la voglia matta di baciarlo.
Mi voltai di scatto e appoggiai le mie labbra sulle sue. Akaashi senza farselo ripetere due volte, ricambiò e infilò la lingua nella mia bocca, alla quale intrecciai focosamente con la mia, attorcigliando le braccia attorno al suo collo e sollevarmi di poco con le punte. Il ragazzo notò il problemino e ridacchiò sulle mie labbra, il quale afferrò le mie cosce e mi alzò, portandomi di nuovo sul ripiano della cucina e divaricarmi le gambe per mettersi nel mezzo, senza interrompere le nostre lingue danzanti e una voglia matta di esplorare la bocca dell'altro.
Le mani del ragazzo si posizionarono sui miei fianchi, alzando di poco l'orlo della maglietta per infilarle dentro e stringere la mia carne nei suoi palmi callosi e rugosi. Morsi il suo labbro inferiore e si lasciò scappare un ansimo di approvazione per il mio gesto, ricambiando con una pressione di dita nei fianchi.
«Ti desidero», sussurrò tra un bacio e un altro, alzandomi la maglietta fino al seno e scoprirlo, rivelando il reggiseno turchese che indossavo. Il formicolio nel basso ventre divenne insostenibile e gettai la testa all'indietro, lasciando che le labbra di Akaashi leccassero e mordessero la parte morbida dei miei seni, tirando giù le coppe e continuare la tortura sui capezzoli, succhiandoli avidamente.
Gemetti acutamente, infilando una mano nei suoi capelli spettinati e l'altra per reggermi al bordo del ripiano, prevedendo un possibile mancamento. Adoravo come la sua bocca combaciasse bene con ogni pezzo della mia pelle. Sembrava fatta a posta per baciarmi e mangiarmi fin quando non fosse sazio.
Scese con le labbra fino ad arrivare all'ombelico e depositarci un bacio umido, continuando la discesa fino al basso ventre e scontrarsi con il tessuto dei pantaloni. Alzò gli occhi puntandoli nei miei, i quali mi chiedevano silenziosamente il permesso di continuare e annuì con l'eccitazione stampata in faccia.
Sbottonò i pantaloni e li tirò giù fino ai miei piedi, gettandoli in un angolino della stanza. Le mie mutandine erano fradice dei miei umori e divaricai di più le gambe e inarcai la schiena, il che evidenziò maggiormente la rotondità dei miei seni.
Posò le mani sulle mie cosce e si inginocchiò ai miei piedi, alzandomi una gamba e portarsela in spalla, mentre l'altra la allargò semplicemente, avendo tutta la mia virilità sotto ai suoi occhi lussuriosi e peccaminosi.
Lo sguardo di Akaashi era così penetrante che sarei venuta anche solo a guardarlo. Quel ragazzo cambiava le proprie espressioni in un modo così impressionante che non ero convinta della sua umanità.
Avvicinò la sua bocca umida al centro del mio sesso, ricoperto ancora dal tessuto striminzito delle mutandine, baciandolo al di sopra. Mi morsi il labbro, reprimendo sospiri di piacere ogni qualvolta che le sue labbra sfioravano il clitoride pulsante e infiammato. Stava facendo un gioco pericoloso ed era quello di sdoppiare la mia pazienza.
«Akaashi...», sibilai come rimprovero, contraendo la mia faccia in un'espressione eccitata e furiosa. «Smettila di giocare, cazzo.»
Il ragazzo mi guardò con un ghigno e ritornò alzato, afferrando i lati dello slip e abbassarlo lentamente fino alla cosce. «Quanto sei impaziente...», sussurrò provocatorio. «Questa è perché non volevi che ti toccassi...», scimmiottò, sventolando davanti ai miei occhi le mutandine sfilate e completamente fradice.
«Stronzo.» Ringhiai, afferrandole bruscamente dalla sua mano e appallottolarle nel mio pugno.
Lui continuò a guardarmi con quel ghigno stampato sulle labbra umide, abbassandosi e inspirare dal naso contro la mia intimità, causandomi un tremolio.
Le sue labbra sfiorarono il mio clitoride gonfio e prima che la sua bocca affondasse nel mio sesso che richiedeva attenzione dalla sua bocca esperta, il
campanello suonò accompagnato da ticchettii rumorosi alla porta, tradotti come pugni.
«Hey, Hey, Hey, Akaashi! Sono io, aprimi!»
Merda.
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