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«Sinonimo di: incassare», picchiettai la penna sulle labbra paziente, osservando attraverso il bordo del quaderno, Keishin soffiarsi energicamente il naso.
«Incassare, dici?» alzò gli occhi lucidi riflettendo sulla parola, mentre si sistemò al calduccio sotto alla coperta di lana. Il poverino, dopo il ritiro, aveva riscontrato una brutto raffreddore che si era trasformato nei giorni avvenire, un influenza. «Che ne dici di introitare?» Chiese, aspettando una mia approvazione, alla quale pensai profondamente.
«Non è meglio, percepire? È più semplice.» Corrucciai la fronte, picchiettando la penna sulla pagina scarabocchiata dai cruciverba, stringendo le gambe al petto e la schiena contro il cuscino bordeaux del divano.
«Sembra una parola troppo comune...», commentò con una smorfia, arricciando la punta del naso arrossata per il forte raffreddore.
Era grazioso in quelle condizioni, assomigliava tanto a quella renna di Babbo Natale nei cartoni natalizi, Rudolf. «Allora, che cosa ne pensi di ricevere o riscuotere?»
Lo guardai perplessa. «Vada per percepire», ribattei convinta sulla mia decisione, scrivendo velocemente la parola nei quadratini, prima che Keishin potesse auto convincermi dell'incontrario.
«Che cosa?» Mi guardò truce. «Eravamo d'accordo di farlo insieme, non puoi decidere solo tu!» A volte sembrava proprio un bambino capriccioso ed io l'adulta della situazione. E la cosa, vista da fuori, faceva abbastanza ridere.
«Su, farai la prossima», sorrisi innocentemente, divulgando la situazione con un gesto della mano.
«No, mi sono stancato di giocare», sbuffò, appoggiando la testa sul cuscino. Gli lanciai un'occhiata curiosa e scarabocchiai all'angolo della pagina un cuoricino deformato. «Il vecchio ha chiamato stamattina e mi ha chiesto quando andrai a trovarlo», se ne uscì all'improvviso, con un braccio posato sugli occhi per coprirsi dalla luce accecante del lampadario.
«Presto», risposi con un'alzata di spalla. «Sono occupata con la scuola in questo periodo, e poi domani dovrò incontrare il Dottor Yagami assieme alla coach Tamiako» Sussurrai, concentrata sul mio disegno.
Non ero mai stata brava a disegnare, ma avevo sentito da molte persone che aiutava a rilassare la mente nel tempo libero.
«La coach Tamiako?» Ripetette per essere sicuro di aver capito bene, togliendosi il braccio davanti agli occhi e mettersi seduto con una certa velocità. «Quella coach Tamiako? La tua coach?»
Perché continua a ripeterlo come se fosse una brutta parolaccia?
«Sì», sospirai, infilando il tappo alla penna. «Mi ha scritto durante il nostro soggiorno a Tokyo, ma non le ho risposto», tagliai corto, riposando il quaderno sul tavolino al centro del soggiorno, aggomitolandomi nella coperta. «L'ho chiamata direttamente, ieri.»
Keishin strinse gli occhi, guardandomi attentamente. «È quello che penso, non è così?» Chiese retorico, al che annuì piano, giocherellando con un filo scucito della coperta.
Anche se era estate, faceva abbastanza freddo quella giornata e infatti fuori dalle quattro mura, diluviava a dirotto.
Mio fratello sospirò come risposta, stringendo il fazzoletto sporco di muco nella mano. Disgustoso.«Potevi parlamene prima...»
«E cosa avresti detto a proposito?» Appoggiai un braccio sul bracciolo del divano, drizzandomi con la schiena. «Non partire?»
«No, ma...», distolse lo sguardo dal mio, portando le braccia conserte al petto ricoperto da una giacchetta grigia. «Ti avrei aiutato, in qualche modo, non lo so», alzò e abbassò le spalle. «Le Olimpiadi si terranno di nuovo in America, nel periodo del torneo primaverile, i ragazzi ci resteranno male...»
«Ho capito», sorrisi amaramente, interrompendo il suo monologo. «Secondo te, dovrei abbandonare quest'opportunità per seguire la Karasuno al torneo primaverile?» Chiesi, senza aspettarmi una risposta in merito, visto che alludeva proprio a questo. «Sei egoista, così. Ti comporti da vero egoista, Keishin.»
«Perché pensi che ogni mia decisione, diversa dalla tua, è un invito di guerra?» Ah non so, dimmelo tu, avrei voluto rispondergli, ma tacqui. «Cerco solo di evitarti un altro trauma, Kaori», gesticolò nervosamente sotto ai miei occhi ridotti in due fessure.
«Sei fuori allenamento e la tua riabilitazione finirà tra un paio di settimane, ma questo non significa che puoi muoverti come se non avessi avuto un intervento importante e delicato alla rotula del ginocchio. Dovrai aspettare altri mesi per ritornare alla vecchia te.»
Mi bagnai le labbra secche, portando una mano nei capelli e scompigliare nervosamente la frangetta lunga. «Per questo incontrerò anche il Dottor Yagami, Keishin», ribattei. «Dovrò fare dei controlli, accertarmi che possa migliorare anziché peggiorare», spiegai. «Oltretutto, non ho ancora detto di sì, era una supposizione.»
«Una supposizione di merda, fattetelo dire», sbottò. «Sarai da sola lì, Kaori, lo sai questo?» Chiese dopo un breve silenzio.
«Lo so.» Annuì.
«E non ti fa paura?» Si sporse con il busto leggermente avanti, guardandomi dritto negli occhi. «Paura che... né io né il vecchio saremo lì per sostenerti o proteggerti?»
«Non sono più una bambina, Keishin», lo ripresi dura.
Mio fratello sorrise amaramente, ammorbidendo lo sguardo. «Lo so.» Affermò, sincero. «Ma sei mia sorella, Kaori, e qualunque cosa ti succeda...», socchiuse gli occhi per un attimo, prendendosi una pausa. «Non te l'ho mai detto, ma ho sempre una fottuta paura quando esci da quella porta», indicò la porta principale dell'ingresso, ma non mi voltai a guardarla, ingoiando a vuoto. «...perché non so mai, quando o se, farai ritorno a casa.»
Restai in silenzio. In un religioso e riflessivo silenzio. Sentivo gli occhi infuocati di mio fratello addosso, mentre strinsi il cuscino del divano al petto.
Per qualche strana ragione, provai un senso di colpa nascere all'interno di me, fino a risalirmi come un magone fastidioso in gola.
Lui mi voleva bene, lo aveva confermato e dimostrato più volte, ma perché io non volevo crederci? Perché volevo che mio fratello mi guardasse come la gente mi guardava con fermezza e freddezza? Perché desideravo essere odiata da chi amavo?
Ero diventata così succube dell'emozioni negative, che stavo diventando io stessa la definizione di "pessimismo".
La vita era strana. A volte era come se ci infliggessimo un castigo per punirci di una colpa che noi stessi facciamo fatica a identificare.
Trovai che la rabbia, la disapprovazione, il senso di colpa e la paura provocavano più problemi di qualsiasi altro sentimento.
I sensi di colpa erano come un sacco pieno di mattoni, non dovendo fare altro che scaricarli, ma al contempo, non si smetteva mai di riceverli.
Il senso di colpa era rabbia diretta verso te stesso, niente di più e niente di meno.
༄
«Va bene così Kaori, puoi rivestirti», suggerì il Dottor Yagami sorridendomi, facendomi scendere dalla bilancia.
Gli lanciai un'occhiata, mentre lui trascrisse qualcosa sulla cartellina, nel mentre ripresi i miei vestiti posati sulla sedia.
«C'era davvero bisogno che restassi nuda?» Chiesi con una nota di disappunto nella voce, infilandomi la maglietta.
Non ero nuda letteralmente, indossavo ancora l'intimo addosso, per fortuna. Ero sicura che il Dottor Yagami si divertisse a vedermi in totale imbarazzo davanti a lui, nonostante quello era tecnicamente il suo lavoro.
«È la procedura, Kaori», si intromise la coach, messa all'angolo con le braccia conserte. «Non è la prima volta che Yagami-san ti vede in queste condizioni: ti ricordo che è stato lui ad operarti», sorrise. «... e visitarti allo stomaco ogni qualvolta che abusavi dei dolci.»
Doveva proprio ricordarmelo?
Sbuffai. «Sì, sì, va bene. Abbiamo finito?» Liquidai la situazione con un gesto della mano, abbottonando il pantalone.
«Per ora, sì» rispose il Dottor Yagami, alzando lo sguardo dal foglio per un secondo. «Vuoi che ti prescriva, di nuovo, la dieta equilibrata che eseguivi prima che stoppavi gli allenamenti?»
Avevo dimenticato il particolare inconveniente e significava soltanto...
«Sì Kaori, so a cosa stai pensando: niente dolci!»
«È una tortura...», ammisi con un colpo al cuore. «Non può farmi questo...»
Ero sicura di essere ossessionata dal dolce in sé per sé. Secondo me, avrei dovuto vedere un buon psichiatra per questa mia mania.
La coach roteò gli occhi alla mia scenata, mentre Yagami-san sorrise divertito. «Non sarà per sempre, ma è giusto che per un periodo tu smetta di ingozzarti di zuccheri...», mi porse un foglio, il quale afferrai senza esitazione, leggendo velocemente il contenuto. «Hai messo su 5 kili e per la tua tecnica e altezza, è fin troppo. Prima dell'inizio delle Olimpiadi dovrai tornare in forma e non parlo solo del ginocchio, ma anche di tutto il resto.»
Misi su una smorfia di disappunto, mentre leggevo con attenzione tutti quei numeri e la dieta prescritta in basso a destra che comprendeva: frutta, verdura e legumi. In rosso, a caratteri cubitali, c'era scritto appositamente: "Niente dolci di alcun tipo."
Qualcuno lassù, mi odiava. Ne ero sicura.
«Okay...», sbuffai e ripiegai il foglio in due parti, mettendolo in tasca. «Qualcos'altro?»
«Sì, prima che tu riprenda gli allenamenti con la squadra, dovrai iniziare con questi da sola per una settimana», trascrisse qualcos'altro su un nuovo foglio, al che alzai gli occhi al cielo senza farmi vedere. «Il tuo allenamento dovrà essere eseguito regolarmente agli orari giusti e comprende anche l'esercizio al ginocchio», mi porse il foglio e lo afferrai svogliatamente.
Finiranno mai di trascrivermi tutto su dei stupidissimi fogli, i quali si possono perdere facilmente? Nel ventunesimo secolo, mi sarei aspettata un messaggio. Un messaggio.
«D'accordo...», risposi, grattandomi una tempia. «Abbiamo finito definitivamente, ora?» Ribadì, enfatizzando la parola definitivamente.
«Se vuoi, puoi passare in palestra con me», disse la coach, ricevendo la mia totale attenzione. «Anche se dovrai aspettare per allenarti con la squadra, magari potresti dire a loro che parteciperai...»
«Non ho ancora detto di sì», la interruppi, guardandola attentamente. «E la squadra per ora, non dovrà sapere nulla. Non voglio dare false speranze», dichiarai sincera. «Forse è meglio che eleggono un nuovo capitano.»
La coach Tamiako schiuse le labbra stupita. «Kaori»
«Grazie per oggi, Dottor Yagami», forzai un sorriso all'uomo che ricambiò dispiaciuto. «Ci vediamo, coach.» Salutai anche quest'ultima, prima di lasciare lo studio e recarmi a grandi passi fuori al corridoio.
Le strade di Tokyo, quella mattina, erano zeppe di persone che correvano come frastornante da un marciapiede all'altro.
Camminai in mezzo alla folla con la borsa a tracolla stretta in spalla, verso le frecce che orientavano alla stazione dei treni.
Afferrai il cellulare dalla tasca posteriore dei miei pantaloni, sbloccandolo con il codice e controllare se mi fossero arrivati messaggi durante l'assenza.
Intravidi una notifica sulle chiamate e ci cliccai sopra, il quale comparì una chiamata persa da Akaashi.
Mi morsi il labbro e sorrisi inconsciamente di essermi fermata al centro del marciapiede, ricevendo di tanto in tanto delle spallate da parte delle persone che correvano a lavoro.
Tokyo era incasinata, ma era fin troppo bella.
Dal gioco della bottiglia di quella famosa e ultima sera, Bokuto mi evitò come la peste, sapendo che ci era rimasto male per il mio rifiuto.
In realtà, non avevo mai capito se Bokuto lo facesse perché ero l'unica a non cadere ai piedi del suo fascino o perché realmente provasse qualcosa per la sottoscritta.
Però, non l'avevo mai visto così arrabbiato ed ero sicura che sospettasse qualcosa, visto che non era una persona stupida e disattenta. Fingeva di esserlo.
A lui, niente sfuggiva sotto al naso.
Poi, riguardo ad Akaashi, le cose stavano funzionando alla grande. Alla mattina della partenza, quando salutammo le altre squadra, Akaashi mi abbracciò e mi disse se potevamo sentirci, magari anche vederci per prendere un caffè insieme.
Ero così entusiasta dalla sua proposta che per tutto il tragitto verso casa non potei far altro che sognare ad occhi aperti, mentre Hinata sbavava come un Bulldog sulla mia spalla.
A mente lucida, riflettei sul fatto che Akaashi sarebbe potuto essere la svolta che tanto cercavo dopo Oikawa. Un nuovo libro da scrivere. Un nuovo inizio della mia vita.
«Mi scusi», mormorai dispiaciuta ad una signora che scontrai per distrazione, la quale mi lanciò un'occhiataccia borbottando qualcosa sui giovani d'oggi e di quanto fossero presi dalla tecnologia, ignorando il mondo che li circondava.
Decisi di ignorarla e appartarmi in un angolino della strada per richiamare Akaashi.
Premetti sul testo verde e portai l'aggeggio all'orecchio, mordicchiando un'unghia per l'agitazione.
Al primo squillo, sentì la voglia di staccare e fare finta di non aver visto la chiamata persa, ma al secondo rispose, mandando in frantumi il mayday di fuga: «Moshi-moshi?»
«Akaashi, ehi, sono Kaori», la mia voce uscì fin troppo alta e acuta.
«Ah, sei tu...», a quell'affermazione, mi offesi. Sperava che fosse qualcun altro? O qualcun'altra?
«Sto scherzando», rise, al che tirai un sospiro di sollievo. Stronzo. «Come stai? Ho provato a chiamarti prima, ma purtroppo non hai risposto».
«Già... è vero, scusami», farfugliai in una risata imbarazzata. «Ero dal dottore e non ho potuto risponderti.»
«Stai bene?» Il suo tono di voce sembrava preoccupato e mi morsi un labbro per trattenere un sorriso da ebete.
«Sì, sto bene, tranquillo. Dovevo fare alcuni controlli», risposi. «È per la Toda...» Ammisi.
«Quindi, hai deciso di tornare definitivamente in squadra?» Chiese curioso.
«Uhm, non lo so ancora, a dire il vero...», sospirai. «Ma nel frattempo mi allenerò e seguirò la dieta», raccontai. «Mi hanno proibito i dolci, ti rendi conto?» Sbottai ad un tratto, piagnucolando.
Akaashi rise. «Coraggio, non sarà mica la fine del mondo?»
«Parla per te.» Sibilai in uno sbuffo, guardando un passeggino trainato da una signora di mezz'età, passarmi davanti.
«Va bene, calma tigre...», sorrisi. «Dove sei, comunque? Sento clacson e rumori di sottofondo.»
«Sono a Tokyo», risposi. «Stavo giusto per raggiungere la stazione dei treni».
Con la coda dell'occhio vidi un senzatetto seduto ai lati di un negozio alimentare, chiedendo spiccioli alle persone che gli passavano davanti con un bicchiere in mano.
Aprì la mia borsa, cercando di scovare all'interno il portafoglio e una volta trovato, vidi che avevo una sola banconota di sei mila yen, la quale mi permetteva di comprare il biglietto del treno per tornare a casa e il pranzo a sacco.
Mi avvicinai all'uomo a passi lenti, reggendo il telefono all'orecchio e con l'altra la banconota.
Mi fermai davanti a lui e gliela misi all'interno del bicchiere, sorridendogli in un modo gentile una volta che si girò a guardarmi.
Il signore, curioso di quanto gli avessi messo dentro, strabuzzò leggermente gli occhi quando osservò stranito i sei mila yen tutti per lui.
«Signorina, non può darmi tutti questi soldi...», l'uomo si sentiva colpevole anziché grato. «Mi bastano anche miseri spiccioli per comprare un pezzo di pane.»
Scossi il capo, continuando a sorridergli. «Con quei soldi può gustarsi un buon pranzo, altro che un pezzo di pane», l'uomo aveva gli occhi lucidi. «Con il restante può pagarsi una notte in un albergo e dormire su un vero letto.»
«Non so come ringraziarla, davvero...» Chinò la testa in avanti per rispetto, ma gesticolai energicamente dicendogli che non c'era bisogno di ringraziarmi, soprattutto in quel modo così formale. «Lei è un angelo, signorina...»
«Kaori», gli sorrisi. «Il mio nome è Kaori.»
L'uomo si alzò da terra e gettò il bicchiere nel contenitore dell'indifferenziata, riponendo la banconota in tasca. «Ha davvero un bel nome, signorina», sorrise gentile. «Spero tanto che gli angeli la benedicono.»
Feci per rispondergli, ma l'uomo girò i tacchi e andò via, salutandomi per un'ultima volta. Sospirai e strinsi l'aggeggio nella mano, quando udì a gran voce: «Ehi, Kaori, ci sei?», da parte di Akaashi.
Cavolo, mi ero completamente dimenticata di star parlando con Akaashi.
«Sì? Oh, scusami... mi ero distratta», farfugliai imbarazzata con un cipiglio sulla fronte. «Dicevi? Perché hai detto qualcosa, giusto?» Chiesi, titubante.
Stavo facendo la figura dell'idiota.
Akaashi ridacchiò. «Sì, prima che ti distraessi...», marcò per bene, facendomi diventare paonazza. Menomale che non poteva vedermi. «Ti ho chiesto se ti andava di venire a casa mia, magari possiamo cucinare qualcosa e pranzare insieme, che ne dici?»
Restai con la bocca mezza aperta e gli occhi incollati su un punto. Davvero mi aveva chiesto di pranzare insieme? «Da... da soli?» balbettai, al che mi schiarii la gola, tossendo.
«Sì certo, da soli. I miei non ci sono a casa e oggi non ho alcun allenamento», spiegò. «Allora, vieni?»
La proposta era allettante, visto che ero rimasta senza alcun soldo per pagare il biglietto di ritorno e non avevo niente con me da poter sgranocchiare.
Perciò, accettai. «Certo, uhm... mi mandi l'indirizzo?»
«Ovviamente...», sorrisi e feci per staccare, ma Akaashi continuò: «Kaori, ti avviso, faccio schifo a cucinare.»
Roteai gli occhi, divertita. «Tranquillo, ci sono io.»
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