𝖷𝖫𝖵𝖨
🜈
Se c'era una cosa di cui non dovevo preoccuparmi era la fiducia che risedevo per la mia squadra. Le ragazze si stavano preparando per il primo torneo il quale ci avrebbe mandato direttamente in finale. Da come avevo capito, i giudici ci avevano dato la possibilità di giocare – sia a noi che alla squadra avversaria – in modo tale che le migliori quattro andassero in finale.
In quel momento, ero seduta sulla panca di legno nello spogliatoio, mentre le ragazze parlavano tra di loro su varie schiacciate, passaggi e difese; pensai che incerottarmi le dite fosse stata la cosa giusta da fare.
In uno dei tornei della Karasuno, specialmente contro la Shiratorizawa, mi venne da pensare Tendo e alle sue dita lunghe e affusolate mettersi uno o più cerotti.
All'inizio pensavo che fosse solo un modo per avere più "stile", ovvero da sociopatico qual era, ma in realtà avere le dita bloccate dava l'opportunità di non rovinarsele tantomeno spezzarsele per la pressione che si metteva nel schiacciare la palla o difenderla, mandandola nel campo avversario.
Avrei usato una buona strategia oltre a quella di non ripetere lo stesso errore dell'anno scorso.
«Ukai-kun?» Alzai lo sguardo dalle mie dita ancora particolarmente scoperte e guardai Fraya che mi sorrise. Poteva sembrare strano, ma adoravo il suffisso -kun; mi ricordava di come mio fratello aveva il rispetto che si meritava e anch'io... al maschile. «La coach vuole parlarti prima che ci chiamano.»
Aggrottai la fronte sorpresa e annuì, alzandomi dalla panca. «Okay! C'è anche il Dottor Yagami?»
«Sì, ti stanno aspettando nell'infermeria», rispose giocherellando con i pollici; lanciai un'occhiata veloce all'orologio appeso alla parete e mi bagnai le labbra.
«Mancano dieci minuti prima che tocchi a noi...», mormorai soprappensiero. «Okay, uhm- Se non dovessi tornare prima, raggiungete comunque il campo per fare riscaldamento. Vi raggiungerò subito.»
«Agli ordini, capitano!» Canzonò e sbatté un piede a terra, mimando con la mano tesa il saluto da militare. Ridacchiai, scuotendo il capo arresa dai suoi atteggiamenti strani e mi incamminai fuori dagli spogliatoi, vigile.
Tre tocchi e un passo indietro. La porta venne spalancata prontamente dal medico di fiducia, – come se stesse aspettando impaziente dietro alla porta il mio arrivo – invitandomi ad entrare con un cenno, spostandosi di lato per lasciarmi il varco libero. In religioso silenzio, ubbidì, andandomi ad accomodare su una sedia qualunque, di fronte alla coach Tamiako, mentre Yagami-san chiuse la porta.
Li guardai uno per uno. Invertendo le occhiate curiose che li rifilavo. Perché mai tutta questa urgenza prima dell'inizio del torneo? Eppure mi ero comportata bene, senza trasgredire nulla, per tutta la durata – di due mesi – dei duri allenamenti.
Sospirai e accavallai le gambe, portando le braccia conserte al petto. Sarebbero stati i dieci minuti più lunghi della mia intera esistenza. Neanche quando dovevo ascoltare le ramanzine di mio fratello mi lasciavano con un buco d'ansia nello stomaco da colmare. Cavolo!
«Cosa?» Scrollai le spalle e alzai le sopracciglia, ansiosa di sapere cosa avessero da dirmi, dato che nessuno dei due emise alcuna sillaba, verso, o respiro, se non occhiate curiose da voler dire: "glielo dico io oppure tu?"
«Kaori...», quando qualcuno ti chiamava con il tuo nome per intero, usando un tono serio e particolarmente secco, non significava niente di buono. Sentì la colazione della mattina salirmi in gola per l'agitazione; deglutì silenziosamente. «Io e il Dottor Yagami abbiamo parlato e crediamo che... – inarcai un sopracciglio e oscillai con gli occhi limpidi sulle loro figure frastornate; la coach e Yagami-san emisero un sospiro amaro e quasi colpevole – Forse è meglio che tu non gioca oggi, ma direttamente alla finale.»
Sbattei le palpebre incredula ma non trattenni la voglia di scoppiare a ridere per la tensione accumulata. «È uno scherzo?» li indicai entrambi, ridacchiando nervosamente. Sperai tanto che mi rispondessero con un "no" secco, ma ciò non avvenne e il sorriso mi morì lentamente sulle labbra. «Non posso crederci...»
«Lo so, lo so! Ma aspetta un secondo, non partire già prevenuta», mi interruppe frettolosamente la coach, prima che potessi continuare. «Yagami-san crede che tu possa avere un mancamento, dato che i tuoi ultimi esami sono usciti la maggior parte sballati. La scorsa volta, quando hai sbattuto la testa dopo l'urto, è stato anche per carenza di vitamina B12...»
Assurdo. «Che cosa?!» sbottai, alzandomi di scatto; la coach sospirò affranta, come se fosse stata pronta alle mie scenate, seguita da Yagami-san. «Non ho nessuna carenza di vitamina e tantomeno farò un altro stupido errore come l'ultima volta. Sono venuta qui perché voglio giocare, vincere per la mia squadra e voi pensate che mettermi in panchina sia la scelta giusta da fare?!» senza aspettare che mi rispondessero, proseguì: «Io... ho seguito tutto alla lettera di ciò che mi diceva il Dottor Yagami e non ho trasgredito solo una volta i medicinali e il mangiare sano... – abbassai gli occhi sulle mie dita fasciate – Non ero pronta ieri, né l'altro ieri, né un mese fa... perché d'altro canto, chi lo è? Nessuno lo è!» Ricalcai stizzita, allargando le braccia.
«Kaori...», sussurrò la coach guardandomi dispiaciuta. Strinsi i denti.
«Sono il loro capitano, coach... non può...» farlo.
Più che dispiaciuta della situazione ero davvero arrabbiata. Era l'ultima opportunità che ci rimaneva per giocarci il titolo, dato che le ragazze avrebbero intrapreso strade diverse alla mia, seguendo i loro sogni per un lavoro più adeguato, lo studio universitario e chi pensava di ricominciare un'altra vita all'estero; lo sapevo, e la cosa mi rendeva irrequieta ma felice allo stesso tempo. Eravamo una famiglia e sicuro non ci saremmo perse di vista. Quindi, perché gli adulti non riuscivano a darmi la loro più totale fiducia?
Eppure, mi ero impegnata duramente. Al massimo delle mie aspettative. Nonostante le ricadute fisiche e psiche, non mollai un singolo giorno né mi arresi.
«Kaori», fece Yagami-san. «Sei un'ottima giocatrice, un bravo capitano che è altruista verso la sua squadra e una ragazza intelligente da capire che puoi metterti in gioco la prossima volta...», ingoiai il magone opprimente bloccato in gola; non avevo bisogno di sentirmi dire chi ero ma ciò che potevo dimostrare agli altri. Non li capivo. Non sarei mai riuscita a capirli a dire il vero: gli adulti erano così pessimisti e strani. «Le ragazze ti apprezzeranno anche in panchina, lo sai questo, vero?»
Spostai lo sguardo tra Yagami-san e la coach. «Vuole davvero questo?» Domandai sul punto di scoppiare in lacrime da un momento all'altro. Ma stranamente la mia forza di volontà era raddoppiata.
La donna mi sorrise debolmente e socchiuse gli occhi; era un sì. Abbassai il capo e presi un grosso respiro. Mancavano pochi minuti al torneo e sicuramente la mia squadra avrebbe dato il massimo anche senza di me in campo.
Eppure...
«Kaori-»
«Raggiungo le altre», e uscì frettolosamente dall'infermeria, senza aspettarmi nient'altro né una parola in più né una di meno, chiudendomi la porta alle spalle.
༄
Terzo set. Il fischio dell'arbitro. Le urla del pubblico. Le ragazze che correvano, difendevano, schiacciavano, stridulavano con le loro scarpe contro il pavimento di legno lucido. Chiusi gli occhi e appoggiai l'avambraccio sulla coscia scoperta dal pantaloncino sportivo, sistemandomi l'asciugamano umido sulla testa.
Anche se non potevo vederla dato il tessuto coprente dell'asciugamano, percepivo gli occhi della coach trafiggermi come due lame infuocate. Per tutto il tempo, dall'inizio fino alla fine, mi ero coperta il viso per non essere vista o ripresa dalle telecamere. Mi sentivo come se avessi preso in giro tutti; mentre loro aspettavano che scendessi in campo e giocassi, in realtà ero in panchina a reprimere la mia vergogna.
Avevo sentito addirittura qualcuno del pubblico fischiarmi contro il fallimento dell'anno scorso. Me lo aspettavo. Ero preparata ad ogni evenienza.
«Nasconderti agli occhi degli altri non è una buona cosa», mormorò la coach. «Non devi...»
«Parla facile, coach«, sibilai. «Mettere il capitano della squadra in panchina nonché l'asso principiale, non è stata una buona mossa, sa?» Alzai di poco l'orlo del panno umido per vedere l'espressione sul suo volto: fraintesa, dispiaciuta, incompresa.
«Lui... c'è?» Chiesi con una punta di preoccupazione. La coach si guardò attorno, mentre la sirena che richiamava l'ultimo time out – da parte dell'altra squadra – risuonò fastidiosamente nelle orecchie.
«Sì. È in prima fila, come promesso», disse prima che arrivassero le ragazze per riposarsi e bere un goccio d'acqua; Lara, colei che si occupava delle borracce, sospirò affranta alle mie spalle. Deve aver ascoltato la nostra conversazione.
Sospirai e lasciai scivolare l'asciugamano dal capo, scoprendomi. Guardai attentamente le ragazze fare lunghi sorsi d'acqua e chi invece si preoccupò di asciugarsi le fronti imperlate di sudore. Ero fiera di loro, ma non mi sentivo di aver fatto abbastanza.
«Coach-»
«Mettetecela tutta, okay? E cercate di risparmiare le forze per gli ultimi punti. Ci troviamo in parità e ne mancano solo tre da completare.»
Tamiako ignorò il mio richiamo, concentrandosi a dare le giuste direttive alla squadra.
Mi sentì... inutile.
«...Voi due, vi voglio ben concentrate. Fate un bel gioco pulito. Non vogliamo sospensioni.»
«Sì, coach!»
Mi infilai una mano nei capelli terribilmente frustata e chiusi gli occhi. La coach mi avrebbe ignorato fino a quando la partita non si sarebbe conclusa, dato che il mio stato emotivo la stava mettendo a dura prova. Come biasimarla, oltretutto? Era preoccupata per me e non volevo incolparla per questo, ma cavolo... ero ancora il capitano.
«Kaori-chan...», sussurrò dolcemente e preoccupata Lara alle mie spalle, sfiorandomi tintinnante la spalla. M'irrigidì a spalle tese.
Mio padre mi starà guardando? pensai infreddolita al solo pensiero di alzare gli occhi e cercarlo tra i posti in prima fila.
«Oh no, per favore! Non insista!» La vocina ansiosa di Lara mi destò dai miei pensieri di preoccupazione e guardai con la coda dell'occhio uno dei cameraman affiancati ai soliti giornalisti, cercar di allungare il microfono verso la mia direzione.
«Ukai Kaori per favore, potresti rispondere alle domande che vorremmo farti?» Mi infastidì. Non tanto per la domanda, ma il suo accento marcato da finto giapponese. Mi bagnai le labbra nervosamente e prestai attenzione al campo vuoto: mancavano due minuti alla fine del time out e mi sarei liberata dai giornalisti ficcanaso.
Tuttavia, averlo ignorato non bastò. E non bastò nemmeno le suppliche di Lara, chiedendogli di smetterla, dato che avevo l'umore a terra. La coach Tamiako sembrò accorgersene di quest'ultimo e si alzò dalla panca di legno, intromettendosi: «Per favore, lasci in pace una delle giocatrici. Non vuole rispondere a nessuna delle vostre domande!»
Quando voleva sapeva farsi rispettare, ma i giornalisti erano pur sempre giornalisti e il loro lavoro – oltre a portare notizie – era quello di infastidire le persone.
«Coach Tamiako, sto solo facendo il mio lavoro. Posso farle a lei le domande?» Insistette così tanto che sentì le dita sudaticce formicolarmi dal nervoso.
Non ne avevano abbastanza di notizie? Come per esempio, il capitano della Toda in panchina per evitare un altro problema e giocarci la finale?
«No! Ve lo ripeto, smettetela o mi toccherà chiamare la sicurezza...»
«Perché ha messo Ukai Kaori, capitano della squadra, in panchina? È per evitare l'incidente di distrazione dell'anno scorso che ha portato via l'opportunità alla squadra di vincere come principianti il primo loro anno alle Olimpiadi?» Serrai le mani in due pugni e il giornalista avvicinò il microfono alla bocca della coach che interdetta e presa alla sprovvista, sbarrò gli occhi.
Già, coach... perché non dire la verità?
«È soltanto una precauzione che abbiamo preso per quest'anno. Ora, basta! Ha avuto la risposta che cercava per il suo servizio. Se ne vada prima che chiami la sicurezza. E smetta di infastidire le mie giocatrici!» Sbottò furiosa, ritornando inaspettatamente in sé; sorrisi amaramente e afferrai il panno umido accanto alla mia gamba, sistemandomelo nuovamente sul capo.
Non volevo più sentire nulla. Né voler intravedere gli occhi delusi di mio padre, il quale avrebbero potuto esultare urlando che ero sua figlia quella che stava in campo. Né guardare la telecamera e preoccuparmi se il nonno, Keishin, i ragazzi della Karasuno, Keiji, Mitsuki e Boruto mi stavano guardando amareggiati e delusi dalle loro aspettative nei miei confronti.
«Kaori-chan...», fu l'unica cosa che sentì, il mio nome sussurrato debolmente dalla vocina timida di Lara, estraniandomi dalle squadra, dal pubblico, dal mondo.
༄
Odiavo percepire la vibrazione del telefono quando squillava in modalità silenzioso. Era la quarta volta che sentivo quella irritante vibrazione sul mio letto. Affondai con la faccia nel cuscino con la fodera bianca – il classico degli alberghi – e sbuffai spazientita.
Dopo la partita – e la vincita palese della Toda – ero corsa fuori per raggiungere frettolosamente l'albergo. Non volevo essere fermata da mio padre, sapevo già cosa poteva dirmi: «Sei una fallita», o almeno era quello che la mia mente continuava a formulare come un mantra.
«Cazzo, cazzo, cazzo...», imprecai a denti stretti e ogni volta spingevo la faccia nella piega del cuscino per soffocarmi. Sarebbe stata una morte lenta e appagabile.
Afferrai la cieca il telefono e lo avvicinai al volto goffamente, notando le chiamate perse da parte di mio fratello e Keiji. Strizzai gli occhi in un mugolio di disapprovazione, sapendo che prima o poi, avrei dovuto chiamarli.
Mi sollevai su con i gomiti impacciata e sistemai i capelli arruffati, mettendomi seduta con le scapole contro la tastiera del letto. Tentennai con il dito sulle due notifiche, una su Keishin e l'altra su Keiji, indecisa su chi chiamare per primo.
Bloccai lo schermo e portai il telefono alla fronte, picchiettandolo pensierosa. Che cosa avrei dovuto dire? E loro cosa avrebbero dovuto rispondermi? Sospirai per la millesima volta e mi alzai dal letto, – cercando anche di cadere sui miei stessi passi per quanto fossi distratta e impacciata, avendo la testa tra le nuvole – avvicinandomi alla scrivania dove c'era il mio laptop.
Pigiai un pulsante della tastiera e lo schermo del laptop si illuminò; scorsi con la freccia sull'icona verde di FaceTime e lessi attentamente i nomi utenti salvati nella mia rubrica telefonica, cliccando coraggiosa sul nickname che avevo affibbiato alla prima persona con cui volevo avere un confronto.
Shin.
Mi mossi nervosamente con il sedere sulla sedia trovandola improvvisamente scomoda e aspettai che la videochiamata venisse accettata dall'altra parte, guardandomi attraverso lo schermo con un'espressione corrucciata e preoccupata.
Mio fratello mi avrebbe presa in giro dandomi della fallita anche lui.
Ne ero certa.
Ad un tratto, la mia icona divenne piccola e il faccione di mio fratello comparì sotto ai miei occhi cupi. Lui mi osservò attentamente con un'espressione seria e torva in volto e non riuscì a controllare le mie emozioni: gli occhi divennero improvvisamente lucidi, colmandosi di lacrime e il labbro inferiore mi tremò al punto di non riuscire a dire una parola.
«Ori...»
Mi bastò sentire la sua voce calda, i suoi sentimenti frustrati quanto i miei e il risentimento che provava come se fosse stato lui messo in panchina al posto mio. Non eravamo gemelli. C'erano così tanti anni di età a separarci... Eppure, non l'avevo mai sentito così vicino ai miei ideali e sentimenti come in quel momento.
«Piccola...»
Piansi.
Piansi con il viso nascosto tra i palmi, permettendogli di sentire i miei gemiti frustati e lamenti. Non riuscivo a guardarlo in faccia. Non riuscivo a parlare. Né a respirare.
La mia linfa vitale si opacizzò, sgretolandosi come terreno essiccato. Io insieme a lei. Keishin insieme a me.
—
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro