𝖷𝖫𝖨𝖨
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«Aiutami a chiuderla, maledizione!» gridai, gettandomi a capofitto sulla valigia nel tentativo di schiacciarla e chiuderla. Eppure credevo di aver portato poche cose.
«Se continui così finirai per romperla. – mi rimproverò mio fratello, guardandomi dalla soglia della porta; gli lanciai un'occhiataccia – Dico sul serio», replicò serio, intrecciando le braccia al petto.
Sbuffai per la millesima volta in quella giornata, sollevandomi. Odiavo fare la valigia e odiavo disfarla. Avrei dovuto pagare qualcuno per farlo al posto mio. «Perché non vuoi aiutarmi?» mi lagnai come una bambina, sbattendo il piede a terra.
Gli scappò un sorriso divertito davanti al mio atteggiamento e scosse il capo. «Perché invece di aiutarti, finirò per disfarla e sistemare la tua roba nell'armadio.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non volevi disfarti di me, invece?» replicai sarcastica, fissando la valigia metà chiusa con le mani sui fianchi.
«Kaori...», sospirò. «Senti, riguardo alla discussione...»
«Keishin», lo interruppi. L'ultima cosa che volevo era parlare di quanto entrambi esagerassimo con le parole. «Domani parto e non voglio parlare di quello che è successo, okay? È... passato. Davvero.»
Keishine esitò per un secondo, ma alzò poi le mani e annuì poco convinto. «Okay...Vuoi ancora una mano per quella?» indicò la valigia. Sorrisi.
«Mi stavo giusto domandando quando me l'avresti chiesto di tua spontanea volontà», ridacchiai e lui roteò gli occhi.
«Incompetente.»
«Idiota.»
«Dai, spostati e lasciami fare», gesticolò con una mano invitandomi a spostarmi così che potesse chiudere la valigia; ubbidì e mi sedetti sul letto, osservandolo fare. «Ma che cazzo hai messo qui dentro?»
Sbattei innocentemente le ciglia. «È poca roba! Mi toccherà comprarmi qualcosa lì una volta che sarò atterrata.»
«Oh Dio, sei inconcepibile...», affermò in un sospiro esasperato. Risi e alzai le spalle.
«Grazie, lo prendo come un complimento», risposi mandandogli un bacio all'aria. Keishin alzò un angolo della bocca.
Per qualche strano motivo, mi sentivo più triste del solito quel giorno, anche se cercavo in tutti i modi di non darlo a vedere. Osservai attentamente i capelli ribelli di mio fratello, le labbra a cuoricino e taglio d'occhi grandi e tirati; volevo fotografarlo mentalmente anche se mi sarei assentata per poco tempo, avevo paura di dimenticarmi ogni particolarità del suo viso.
«Okay, ho fatto! – affermò con le mani al cielo; scossi il capo scacciando via ogni pensiero e gli sorrisi – Hai bisogno che faccia qualcos'altro?»
«Uhm... – mi grattai una tempia guardandomi attorno – No. Credo di no. È tutto pronto per la partenza.»
Keishin mi osservò a lungo e si accomodò tranquillamente al mio fianco, spostando di poco la valigia. «Va tutto bene?» mi domandò, appoggiando una mano sulla mia.
Annuì. «Sì, credo...», sorrisi a labbra strette. «Tu, invece, te la caverai con il nonno?»
«Non preoccuparti. Staremo bene... – appoggiò una mano sulla mia testa, accarezzandola – starai via pochi mesi, non per molto. Passeranno velocemente.»
«Già...», mi morsi il labbro pensierosa e mi sollevai su, mettendomi alzata. Non voglio deprimermi. «Mi sono ricordata che devo sistemare altra roba nell'altra valigia, mi aiuti?»
Keishin mi guardò stranito. «Ma con quante valigie vuoi partire?! Starai lì per pochi mesi e hai detto che avresti comprato altro lì una volta atterrata.»
Ma quanto potevano essere stupidi i maschi?
«Si l'ho detto, ma devo portare la maggior parte delle mie cose per sentirmi a mio agio, Keishin», sbuffai. «Sei un maschio, non puoi capire cosa ha bisogno veramente una donna. Non mi stupisce che tu sia ancora single alla tua età...»
«Bada a come parli... – mi puntò un dito contro – Sono single per scelta.»
Alzai gli occhi al cielo. «Certo, certo...», ridacchiai. «Dai, alzati! Prima iniziamo, prima finiamo.»
Sbuffò. «Agli ordini, capo!»
Sorrisi, ma nonostante ciò, sentivo la mancanza di mio fratello ancor prima di partire.
༄
Controllai nuovamente l'orario sul telefono. Sospirai. Era pomeriggio inoltrato e stavo aspettando l'arrivo del treno alla stazione per andare a Tokyo. Avevo deciso di passare per Keiji, trascorrere un pomeriggio normale, da soli, prima dell'arrivo di domani. Suo padre non era in casa per via che fosse in viaggio d'affari, così mi aveva promesso che una volta ritornata, mi avrebbe presentato definitivamente come la sua ragazza.
Ne ero felice ma allo stesso tempo avevo il timore di non piacergli. Dopotutto, conoscendo il carattere del figlio, non era mai stato così sociale il quale amava stare sulle sue ogni volta che poteva. E poi, anche perché, non ero mai piaciuta ai genitori di Tooru e questo mi aveva sempre fatto sentire a disagio.
Strinsi la tracolla della borsa e ascoltai attentamente l'altoparlante che annunciava l'arrivo del treno. Mi sporsi di poco in avanti per controllare se stesse arrivando come confermato e notai la luce dei fari proseguire verso la mia direzione. Raddrizzai la schiena e posai il cellulare in borsa, prima che il treno si fermasse e salissi al suo interno.
Una volta uscita dal vagone del treno e atterrata a Tokyo, afferrai il cellulare dalla borsa e azionai il navigatore con l'indirizzo di casa di Keiji. Era assurdo che non conoscessi l'indirizzo di casa del mio ragazzo o quantomeno dove si situasse l'appartamento, ma Tokyo era grande, fin troppo grande, e gli appartamenti così come gli edifici si assomigliavano parecchio.
Durante il tragitto a piedi, litigando più volte con il navigatore perché l'app si impappinava, pensai che nonostante la scelta improvvisa di partire per le Olimpiadi, rimpiangevo di non essere riuscita a parlare con Hinata. Da quando avevo annunciato ai ragazzi del mio trasferimento provvisorio, lui fu l'unico a non prenderla bene e non potevo biasimarlo; avevo legato con tutti, dal primo all'ultimo, persino con Tsukishima – che era stata una gran bella gatta da pelare – ma Hinata aveva qualcosa di diverso rispetto agli altri. Qualcosa che mi assomigliasse al punto di volerlo spronare a dare sempre il meglio di sé. Ci somigliavamo. Avevamo istaurato una forte amicizia, anche se all'inizio non volevo che mi dasse così fastidio, e forse era stato questo il motivo per cui lui, come me, non si era mai arreso.
Ma in fin dei conti, non stavo andando oltre oceano e l'America non era così lontana dal Giappone. Un paio d'ore, massimo. I mesi sarebbero passati velocemente, ne ero sicura.
La freccia blu si fermò nell'esatto momento in cui la voce robotica annunciò che fossi arrivata a destinazione. Sollevai la testa guardando il grande e alto edificio. Mi bagnai le labbra e posai il telefono nuovamente in borsa, avvicinandomi al citofono. Lessi attentamente la fila di cognomi che si presentarono sotto ai miei occhi e una volta aver trovato "Akaashi" premetti il pulsante.
Le mani iniziarono a sudarmi. Ero sempre agitata quando ero io quella che faceva il primo passo nei suoi confronti, nonostante avessimo legato in una maniera alquanto bizzarra. Sorrisi al pensiero di aver trovato una persona che mi capiva anche nelle mie innumerevoli perplessità e complessità. Ero felice. Davvero felice.
«Sì, chi è?»
«K-Kaori!» chiusi gli occhi per l'imbarazzo sentendo le mie guance andare lievemente a fuoco. Ci passai le mani sopra cercando di scacciare via quel colorito e voltarmi verso il cancello del palazzo una volta aperto.
Salì le scale con la testa che mi pesava dai troppi pensieri. Sarebbe funzionato tra me e Keiji una volta che sarei stata via per pochi mesi? Un'altra delusione amorosa non sarei riuscita a reggerla tantomeno sopportarla.
Mi avvicinai alla porta principale socchiusa e la aprì piano, sbucando con la testa all'interno dell'appartamento. Sperai di vedere Keiji sul pianerottolo, invece non c'era nessuno. Sospirai e chiusi la porta alle mie spalle, sfilandomi le scarpe e posarle con la punta verso la porta.
«Ehi!» sussultai dallo spavento quando, improvvisamente, concentrata a togliermi il cappotto di dosso, comparì alle mie spalle Keiji con un... grembiule da cucina.
«Mi hai spaventato...», dissi con la mano sul cuore. «...Che–Perché indossi un grembiule?» ridacchiai divertita vedendolo conciato in una quella maniera; Keiji corrugò le sopracciglia e si sistemò gli occhiali sul ponte del naso. «Aspetta! Quelli sono veri?» indicai le lenti curiosa. Non l'avevo ancora visto in quella veste di casalingo/nerd sexy.
«Certo che sono veri, Kaori...», alzò gli occhi al cielo con un pizzico di divertimento. Sorrisi e appesi il cappotto all'appendiabiti. «Comunque sto preparando dei biscotti per questo indosso il grembiule. Non vorrei sporcarmi.»
«Credevo che non sapessi cucinare», lo punzecchiai afferrando l'elastico dal polso e raccogliermi i capelli in una coda.
«Vero, ma... – si avvicinò prendendomi il viso nei suoi palmi caldi – ho provato a seguire alla lettera la ricetta di mia madre, sai... a lei piaceva cucinare.»
Sentir menzionare sua madre mi scaldò il cuore. Si vedeva dalla luce malinconica che aveva negli occhi che gli mancava esageratamente. «Oh, interessante...», sorrisi circondandogli le braccia attorno al collo. «Li hai infornati?» chiesi, annusando l'aria per sentire l'odore inconfondibile di biscotti fatti in casa.
Keiji alzò una angolo della bocca e posò le mani sui miei fianchi per attirarmi di più a lui. «S...–Oh merda!» confusa e perplessa, mi mollò lì su due piedi e scattò ansante verso la cucina. Mi precipitai anche io, cercando di capire cosa fosse successo e del perché avesse avuto quel tipo di reazione improvvisa. «Cazzo, cazzo, cazzo!»
Strabuzzai gli occhi e posai una mano sulle labbra per reprimere una risata quando vidi Keiji tirare fuori la teglia di biscotti dal forno, soltanto che, non erano più biscotti ma delle palline nere carbonizzate. Aveva bruciato persino la carta da forno.
«Non azzardarti a ridere», mi avvisò senza troppe cerimonie alternando lo sguardo dalla teglia a me. Non riuscì a farne a meno. Sembrava che un coniglio con il cagotto fosse passato da quelle parti. Keiji mi guardò male ma scoppiò poi a ridere non potendo farne a meno. Era comunque da apprezzare per quanto si fosse impegnato data la situazione catastrofica in cucina.
Mi avvicinai a lui con lo stomaco che mi faceva male per quanto stessi ridendo e asciugai una lacrima sotto all'occhio, mentre Keiji si sfilò il grembiule di dosso. «Qual era la temperatura del forno?»
«...Duecento! Quindi?» il fatto che fosse così affascinante e serio anche in quelle condizioni, mi lasciava con la bava alla bocca.
«Dev'essere di centottanta, è normale che abbiano fatto questa fine», le risate di entrambi cessarono lasciandoci con dei sorrisi infantili sulle labbra. «Ti aiuto a pulire», aggiunsi, afferrando una ciotola sporca di farina. «Grazie comunque.»
Keiji annuì, più silenzioso che mai. Sembrava assorto da qualche pensiero o anche più di uno. Non capivo. Ma durante la pulizia e mettere in ordine il disastro creato, pensai che gliel'avrei chiesto in un'atmosfera più tranquilla e delicata.
«Questo era l'ultimo...», sospirai sollevata gettando lo strofinaccio sul bancone della cucina. Controllai l'orologio appeso alla parete notando che fosse passata un'ora da quando avevamo iniziato a pulire e togliere il casino in cucina. «Smetterai di armeggiare vicino ai fornelli?» sorrisi in sua direzione, avvicinandomi a piccoli passi, intrappolandolo tra il bancone e il mio corpo.
Keiji incurvò le labbra in un sorriso invisibile. «Volevo provarci, ma ho capito che non è cosa per me...», ridacchiai e annuì piano facendogli capire che, purtroppo, era così. «Scusami.»
Piegai il capo di lato e appoggiai le mani sul suo petto fasciato da una semplice t-shirt a mezze maniche. «Non mi è dispiaciuto vederti con quel grembiule, però...», disegnai dei cerchi immaginari sul suo petto, scendendo lentamente fino all'orlo della maglietta. «E poi, gli occhiali, ti danno un'aria da intellettuale sexy...», mi morsi il labbro sensualmente.
«Ci stai provando?» fece scorrere le dita esili sul mio polso, accarezzandomi.
«Può darsi. Non mi va di mangiarti solo con gli occhi, sai? Specialmente dopo aver carbonizzato i biscotti.» Keiji mi faceva sentire prima debole poi forte; prima determinata poi suscettibile; prima mi permetteva di toccare il cielo con un dito e dopo bastava un soffio di vento per mandarmi nuovamente giù. Mi faceva lo strano effetto degli innamorati, solo che io non ero innamorata di lui come le persone normali, ma il doppio, poiché non avevamo legato nella maniera "tradizionale" come facevano le coppie della nostra età. Lui era così... così... maestoso.
«Kaori», alzai gli occhi nei suoi e il suo pollice passò ad accarezzarmi sensualmente le labbra. Chiusi gli occhi d'istinto. «Io... – il cuore continuava a tamburellarmi nel petto fortemente. Dovetti conficcarmi le unghie nei palmi per evitare che mi scoppiasse da un momento all'altro – Io ti amo, Kaori.»
L'aveva detto. Aveva appena ammesso di amarmi. Inconsciamente le mie labbra si curvarono in un sorriso smielato e i miei occhi potei sentirli inumidirsi a quella sensazione. La gola era diventata secca e le mani iniziarono a tremarmi, così intrappolai il tessuto della sua maglietta tra le dita. Volevo... volevo sentirlo dentro di me fino a quando non ne avevo più abbastanza.
Una lacrime mi tradì e solcò la mia guancia. Potei sentire le sue mani calde rincorrerla per acciuffarla e asciugarmela. Sorrisi anche in quel momento così bizzarro per la sottoscritta. Lui aveva fatto il primo passo. Lui aveva appena ammesso di... amarmi.
Ero al settimo cielo. Sollevata. Desiderata.
Yokatta.
༄
Camminando per le strade di Miyugi, non riuscì a pensare al momento in cui Keiji aveva ammesso di amarmi. Al solo pensarlo, le guance si colarono di rosso e le temperatura corporea salì come fuoco. Mi morsi il labbro inferiore, riscaldando le mani all'interno del cappotto.
Avrei voluto passare altro tempo con lui, anche tutta la notte, ma purtroppo dovevo tornare a casa quanto prima per cenare con il vecchio e Keishin. Sarebbe stata la mia ultima – momentanea – cena con loro e sapevo quanto ci tenessero, perciò, diedi un secondo appuntamento a Keiji l'indomani prima che andassi all'aeroporto. Volevo restare sola con lui. Solo un po'.
«Tadaima!» annunciai canzona una volta aperto la porta di casa ed essermi sfilata il cappotto insieme alle scarpe. Posai tutto accuratamente negli appositi mobili e posizionai le mie ciabatte sul pianerottolo per poi infilarmele.
Sussidiò una forte silenzio il quale non riuscì a capirne il motivo. Aggrottai la fronte e proseguì la mia camminata verso il salotto, sicura che avrei trovato mio fratello o il nonno seduti lì ad aspettarmi.
Afferrai la maniglia della porta e la lasciai scorrere fino alla fine. Aprì bocca per chiedere il motivo di tale silenzio, – dato che erano entrambi due terremoti quando restavano da soli nella stessa stanza – ma ciò che riuscì a fare fu... niente.
«Kaori...», la voce di mio fratello mi arrivò ovattata alle orecchie. Era seduto al tavolino con il nonno di fronte e la terza figura posta a capotavola. Le gambe iniziarono a tremarmi.
«Stai piangendo...»
Improvvisamente, testai nervosamente le mie guance zuppe di lacrime amare e le scacciai via con aggressività. Gli occhi dell'uomo mi scrutarono con attenzione e dalla porta della cucina sbucò fuori Takahashi-san con un vassoio di tè e lo sguardo smarrito.
Che ci faceva lì? Che stava succedendo?
«Tesoro, siediti», mi confortò il nonno con il suo viso stanco e le labbra storte in un sorriso triste.
Strinsi le mani in due pugni e respirai profondamente dal naso. Non dovevo farmi venire nessun attacco di panico. Né un pianto incontrollato. Non potevo rendermi ancora più ridicola.
Mio padre era ritornato a casa ed io volevo solo rimettere dal nervoso la cena della scorsa sera.
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