𝖷𝖨𝖨𝖨
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«No.» Risposi categorica.
«Ti prego, Kaori-chan!», piagnucolò Hinata.
«Ho detto di no», ripetetti per la quarta volta dopo i vari tentavi disperati di Hinata, infilandomi la stecca di plastica in bocca, godendomi del gusto fragoroso, sfogliando le pagine del libro di Inglese con disinteresse.
Almeno, li avrei ignorati con una banale scusa.
«Siete dei fannulloni buoni a nulla scansafatiche: credete davvero che vi aiuti a studiare?»
Le settimane erano volate, credendo che avessi avuto più tempo di dare gli ultimi esami del trimestre. Stando nella seziona più importante, la quale graduava il tipo di studio e impegno dello studente, ero una delle migliori del mio corso.
Da quando non praticavo più la pallavolo, mi ero concentrata maggiormente nello studio e su alcune lacune che mi portavo dietro. In America, sia io che la mia squadra avevamo un insegnante privato che ci dava ripetizioni su, almeno, concetti base di linguistica Inglese e Giapponese, Matematica e Storia: non avevamo mai avuto il tempo di andare oltre, nello studio generale, perché gli allenamenti erano aumentati il doppio, il triplo, e passavamo molto tempo rinchiuse nelle quattro mura della grande palestra, preparandoci per le Olimpiadi.
Conoscevo l'Inglese come le mie tasche, non mi era mai risultato difficile da quando misi piede alla Karasuno. Le lezioni erano banali, così come i compiti e le verifiche che assegnavano. Ero sempre più convinta che una lingua straniera la si doveva imparare vivendola e comunicando in mezzo alle persone, anziché studiarla e sperare di ricordare i concetti fondamentali come le regole grammaticali.
Quella mattina, i due ragazzi avevano ricevuto il voto finale delle loro verifiche ed erano andati male al test di Inglese e Letteratura Moderna, dovendoli recuperare entro dopodomani assieme agli altri rimandati, oppure avrebbero dovuto seguire i corsi di recupero nel fine settimana. Persino Tanaka e Nishinoya erano riusciti a superarli. Incredibile!
Ma il problema più grave in tutta quella storia, era che nel fine settimana, sarebbero dovuti partire per il ritiro assieme alle altre squadre che avevano invitato la Karasuno a parteciparvi.
Perciò, se Hinata e Kageyama non riuscivano a superare il prossimo test, potevano salutare Tokyo con la manina e l'opportunità di allenarsi con la Nekoma e la Fukurodani.
Hinata abbassò il capo con un'espressione disperata. «Non te lo chiederemo se non fosse così importante», mormorò a voce bassa. «Ma abbiamo davvero bisogno che tu ci aiuti a studiare per passare il test...», alzò gli occhi puntandoli nei miei. «Oppure non riusciremo ad andare a Tokyo per il ritiro e battere Ushijima.»
Smisi di sfogliare le pagine a quel nome, alternando lo sguardo su loro due. «Mhmh», mugugnai riflessiva, sfilandomi il lecca-lecca dalla bocca con un rumoroso risucchio, puntandolo contro ad entrambi.
«Capisco la vostra frustrazione, ma come vi ho già detto, siete dei buoni a nulla scansafatiche», li rimproverai, i quali mi guardarono con occhi da cane bastonato.
Conoscevo bene Ushijima e non perché fossimo intimi o amici: ci odiavamo. Letteralmente. Entrambi puntavamo a diventare il leggendario asso, il miglior giocatore della storia.
Ci incontrammo più volte e più volte facevamo scintille in mezzo al campo. Non si direbbe, ma Ushijima ed io eravamo molto simili.
Una volta, mentre facevamo dei palleggi, mi raccontò che il suo sogno era quello di entrare in una squadra invincibile e andare alle nazionali. Il perché avesse questo desiderio di diventare il migliore di tutti, non me lo disse dettagliatamente, ma lo capì dalle parole che mi riserbò.
«Tuo nonno ti ha passato la passione per la pallavolo, come mio padre lo fece con me, prima di abbandonarmi.»
Da quelle parole, capì perché i suoi atteggiamenti erano così freddi e bruschi; silenziosi e dettagliati; succubi di un padre che non vedeva e di un'infanzia infelice.
Io lo capivo. Avrei voluto rispondergli che capivo cosa significava essere abbandonati dal proprio padre.
Il mio di padre non lo vedevo da ben dieci anni. Lui era un'aspirante cantante rock, desideroso di trasmettere con la sua voce e i testi scritti da lui, a tutto il mondo. Nessuno sapeva chi fosse mio padre, anche perché quest'ultimo non dichiarava di aver figli o moglie nelle sue interviste, commentando le azione con un: «No comment!»
Molte volte mi ritrovavo a guardare i video dei suoi concerti, zeppo di persone in ogni dove che cantavano a squarciagola le sue canzoni. Ma lui... era privato anche nei testi che scriveva. Non aveva mai fatto riferimenti a mia madre, né su Keishin né tantomeno su di me.
Il nonno mi diceva che lui non aveva mai smesso di volere bene a me e a mio fratello, soltanto che il suo sogno era così grande da passare avanti ai suoi figli, dimenticandosi chi era prima.
Non mi importava essenzialmente chi fosse mio padre e a quante persone abbia dato l'opportunità di ricominciare da zero con la sua musica, ma mi importava ciò che mi ricordavo chi fosse: un uomo depresso che si rinchiudeva nella sua stanza, ignorando il mondo che lo circondava.
In cuor mio, sperai che lui credesse in me, in qualunque parte del mondo si trovasse.
Sospirai rassegnata. «Ma è anche vero che devo occuparmi di voi due bestiole come se foste dei cuccioli di cane indifesi».
«Cuccioli di cane?» Borbottò Kageyama, interrogativo.
«Indifesi?» Lo seguì perplesso, Hinata.
Buttai i capelli dietro alla schiena, stendendomi svogliatamente allo schienale della sedia, accavallando le gambe. «E poi, sono anche curiosa di vedere la faccia di Ushijima quando lo batterete alla sua stessa forza: non è una persona loquace», sorrisi furbamente, roteando lentamente la stecca di plastica tra il pollice, l'indice e il medio. «Però, anche uno miracolato come lui ha punti deboli».
«Kaori...-chan!» Piagnucolò Hinata, sorridendo come un bambino. Portai i polpastrelli alle tempie massaggiandomele: me ne sarei pentita di questa scelta. «Ci aiuterai, è un sì?»
Gli puntai la stecca di plastica contro di scatto, «Alt!» esclamai, oscillando con il lecca-lecca verso Kageyama che si drizzò con la schiena di colpo.
Avrei potuto usare la mia mania per i dolci come un'arma.
«Anche lui deve fare la sua parte», enfatizzai, guardando il corvino con un sorriso furbo. «Forza, sto aspettando. Non può fare tutto Hinata.»
«Uhm?» Mi guardò confuso, Kageyama.
Hinata stranamente sembrò capire a volo e in un battibaleno si alzò dalla sedia, afferrando per il colletto della camicia il ragazzo e scuoterlo come un sacchetto di patatine.
«Chiediglielo anche tu Kageyama! Chiediglielo!» Strillò, disperato.
Kageyama afferrò per i polsi di Hinata, cercando di farlo smettere con quella tortura. «Piantala di scuotermi così, Hinata boke!» Strillò, guardandolo male e toglierselo di dosso senza alcun sforzo, spingendolo sulla sedia accanto alla sua.
Si sistemò il colletto della camicia sgualcita, guardandomi come se avesse voluto chiedermi disperatamente di aiutarlo ma al contempo era così orgoglioso che faceva fatica anche a tenere lo sguardo per più di un minuto sul mio. Ne avrei avuto di belle.
«Puoi... puoi aiutarci», balbettò con un leggero rossore alle gote e Hinata affianco che cercava di suggerirgli le parole giuste da usare. «Puoi aiutarci a studiare per passare il test e andare al ritiro di Tokyo»
«Hai dimenticato il per favore», lo corressi puntigliosa.
Kageyama sospirò. «Puoi aiutarci, per favore, a studiare per passare il test», mi alzai di scatto e sbattei le mani sul tavolo, interrompendolo, guardandoli con un sorriso sghembo, i quali sussultarono dallo spavento.
«Ara, ara, ara!» gesticolai la mano come voler scacciare via una mosca, «È il dovere di una -senpai aiutare le proprie bestiole», dichiarai con un sospiro teatrale, facendo saltare sulla sedia il ragazzino aranciato, eccitato.
Il corvino strabuzzò leggermente gli occhi, ribattendo: «Ma non ho neanche finito di chiedertelo, Kaori-san...»
«Tranquillo, Kageyama-kun», inclinai il capo di lato e infilai il lecca-lecca in bocca, chiudendo il libro di Inglese e riporlo nella borsa, mettendomela poi in spalla. «Mata ne!»
Mi avvicinai verso l'uscita della classe, quando sentì i due ragazzi parlare tra di loro: «Wa! Sugoi ne, Kageyama-kun?»
«Urusai!» Ribatté quest'ultimo stizzito, ricevendo delle imprecazioni da parte di Hinata di quanto fosse cavernicolo, dando vita a una delle loro discussioni accese e piene di insulti.
༄
«Una nuova ragazza?» Chiesi curiosa, guardando Kyoka.
Annuì. «Esattamente! Quest'anno sarà il mio ultimo anno da manager della Karasuno, così come Sugawara, Daichi e Asahi, perciò dovevo trovare una ragazza predisposta a prendere il mio posto e insegnarle tutto quello che dovrebbe fare una manager di pallavolo.»
Sbattei le palpebre più volte, guardandola senza dire una parola. «Kaori? Ci sei?» Sventolò una mano davanti ai miei occhi, al che sussultai essendo stata colta in flagrante.
«Uh?» Mugolai, scuotendo il capo. «Scusami, stavo riflettendo...», ammisi.
«Riflettevi sul fatto che questo sarà il mio ultimo anno alla Karasuno?» Sorrise dolcemente, stringendo il quadernone al petto.
«Sì, anche...», mi grattai una tempia, riflessiva. «Ma stavo riflettendo sul fatto che fossi così timida che non ti avevo mai sentito parlare così fluidamente di qualcuno o con qualcuno.»
Alle mie parole, Kyoko arrossì come un pomodoro maturo. «Oh cavolo! No, no, non volevo dire che fossi antipatica o cose del genere!» Agitai le mani in avanti andando in panico, iniziando a parlare a vanvera per rimediare il mio errore innocente: «Solo che è strano sentirti parlare senza i tuoi soliti monosillabi. Cavolo! Nella mia testa funzionava diversamente. Maledetta la mia boccaccia. Perdonami, Kyoko, per essere stata così»
Kyoko rise, interrompendo la mia parlantina senza freni e la ringraziai mentalmente, scansandomi una figuraccia. «Tranquilla Kaori, so perfettamente cosa volevi alludere...», sorrise calorosamente. «Non mi sono offesa.» Puntualizzò sincera, facendomi rilassare nelle spalle.
A casa mi sarei cucita le labbra. Deciso. Sicuramente Keishin sarebbe stato d'accordo, per la prima volta in sedici anni di vita, con una mia decisione.
«Ti va se vi faccio fare amicizia? Le ho parlato di te, magari potresti aiutarla anche tu.» Propose, sistemandosi la montatura degli occhiali sul naso.
«Certo che sì!» Sorrisi di rimando. «Come si chiama la nuova futura manager?»
«Hitoka Yacki: è del primo anno nella sezione 5.»
༄
«Ve-Ventuno?», «Tre-Trentotto?» Strinsi i fogli in ambe le mani con la voglia indistruttibile di stracciarli a morsi, sentendo la mia anima esausta e afflitta volermi uscire dal corpo.
Se non fosse stato per Daichi che mi resse da dietro, ero sicura che sarei svenuta da un momento all'altro.
Hinata e Kageyama erano inginocchiati ai miei piedi con le teste chinate in avanti e un'aura scura ad invaderli.
Quei stupidi avevano conseguito il test di recupero, una seconda chance per rimediare ai loro stupidi errori, anziché coglierla al volo e impegnarsi, avevano avuto i voti più bassi della classe.
«Come è possibile che hai inserito le risposte esatte nelle caselle sbagliate?» Sventolai la verifica in faccia ad Hinata. «E tu...» ringhiai, rivolgendomi a Kageyama. «Come hai fatto a toppare in Letteratura Moderna? Sono domande di comprensioni del testo, anche un bambino di cinque anni sarebbe stato capace di svolgerli!» Strillai, esaurita.
«Calma, calma, Kaori-san...», mormorò Sugawara a disagio, cercando di bloccarmi le braccia per prevenire un possibile attacco da parte mia.
«Come ci andiamo a Tokyo?» Sibilò Kageyama, ignorandomi beatamente. «In bici!» Rispose allo stesso tono Hinata, incoraggiandolo.
«Ah? Tokyo? To-kyo? Ve lo scordate voi due Tokyo, razza di fannulloni che non siete altro.» Strillai indemoniata, enfatizzando la parola sottolineata in grugniti, sovrastando i loro borbottii.
Sugawara mi tenne più stretta a sé, chiedendo aiuto con lo sguardo a Daichi, il quale sforzò un sorriso con la fronte imperlata di sudore. Dovevo far paura persino a lui da non farlo accostare al mio fianco.
Cercai di respirare regolarmente e chiusi gli occhi, focalizzando la mia mente in un prato verde con caramelle e orsetti gommosi, trovandovi pace e tranquillità.
«Sono calma.» Affermai, ricevendo un'occhiata fugace da Sugawara e Daichi per ricevere conferma. «Calmissima.» Ripetetti per essere più convincente, mollando la presa ai fogli e farli cadere sul pavimento.
Sugawara sospirò e allentò la stretta, mollandomi. Afferrai la mia borsa, mettendomela in spalla e uscire dallo spogliatoio maschile con un diavolo per capello e il tic all'occhio destro.
༄
A fine giornata, riposai i miei libri all'interno della borsa, pronta mentalmente a raggiungere la clinica per svolgere la mia quotidiana riabilitazione.
Chiusi la porta scorrevole della classe alla mie spalle, quando ad un tratto mi sentì chiamare a gran voce da una voce maschile che conoscevo fin troppo bene per i miei gusti.
«Kaori-san!» Guardai alla mia sinistra, vedendo Kageyama e Hinata correre come due tori sbizzarriti, al quale non riuscì a scagliargli contro i peggior insulti che nella loro maratona, mi aggiunsi anche io, venendo strattonata da entrambi.
«Che diamine state facendo? Mollatemi! È sequestro di persona questo.» Tentai di divincolarmi dalla loro stretta, ma loro continuarono a trascinarmi per tutto il corridoio.
«Abbiamo trovato una soluzione: parleremo con il vicepreside e cercheremo di convincerlo a rimandare il recupero.» Spiegò Hinata frettolosamente, al che lo guardai scettica.
Ma che razza di soluzione sarebbe? Non acconsentirà mai.
«Così andremo a Tokyo questo fine settimana.» Concluse Kagayema, al quale alternai lo sguardo su di lui con gli occhi spalancati.
«Oh, no, no, no!» Scossi il capo violentemente contrariata dalla loro idea bizzarra. «Lasciatemi fuori da tutto questo casino, maniaci che non siete altro», «Mi avete sequestrato», piagnucolai in un modo infantile.
Salimmo le scale dell'edificio, quando ad un tratto ci si parò davanti il vicepreside che ci chiese cosa stessimo facendo ancora a scuola, ma Hinata e Kageyama lo imprigionarono al muro, pregandolo di spostare il recupero e di parteciparvi al ritiro di Tokyo del fine settimana.
Il vicepreside era impallidito, sicura che gli sarebbe venuto un infarto fulmineo per le urla disperate dei due ragazzi. Io restai in disparte ad alternare lo sguardo su chi parlava chi; persino il vicepreside stava facendo fatica a comprenderli.
Ma all'improvviso, qualcosa di inaspettato successe. Non capì come, visto che la scena era stata così veloce, ma i capelli del vicepreside, i quali credetti fin da subito che usasse il parrucchino per nascondere la calvizie, volò letteralmente.
Strabuzzai gli occhi incredula, seguendo la traiettoria del parrucchino fino a quando non si posò sulla testa di... Daichi.
Sussultai dallo spavento, pronta a subire l'ira indomabile del capitano, il quale restò immobile con il piede su uno scalino più avanti e l'altro dietro.
Inghiottì a vuoto, sentendo le gocce di sudore solcarmi la fronte, girando il capo lentamente in un modo robotico verso i tre. La testa pelata del vicepreside era così liscia, da far invidia al culo di un bambino, che non riuscì a trattenermi dal ridere, dimenticandomi che Daichi fosse a pochi passi da me e mi avrebbe staccato la testa dal collo come una bambola di porcellana.
«Daichi... possiamo parlare un attimo nel mio ufficio?» Chiese il vicepreside con un tono che non emetteva repliche: Daichi annuì disperato. «E voi tre...» Indicò uno per uno, persino me. Aspetta, cosa? «Svolgerete il recupero nel fine settimana», aprì bocca per dirgli che c'era un errore e quell'errore ero proprio io. Che diamine c'entravo con i primini? E poi, ero andata bene a tutti i test finali del semestre. «Senza obiezioni!» Strillò isterico, ammutolendomi di colpo.
Il vicepreside afferrò bruscamente il parrucchino dalle mani di Daichi, sistemandoselo velocemente sul capo, avanzando il passo verso il corridoio vuoto, seguito dal capitano che non aveva espressione, verso il suo ufficio.
Hinata e Kageyama girarono il capo verso di me, impauriti e impalliditi di una mia reazione improvvisata, alla quale non me lo feci ripetere due volte prima di urlare a gran voce i loro nomi, rimbombando con l'eco nella struttura vuota, che erano morti. Letteralmente. Morti.
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