𝖷𝖨
☾ ⚘ ☽
Terzo e ultimo set.
Le squadre erano arrivate al terzo set e nessuna di loro aveva intenzione di abbandonare le redini. I miei occhi erano incollati sulle loro gambe piegate, alle braccia che fluttuavano laddove la palla sarebbe caduta o cambiasse traiettoria, alle gocce di sudore che solcavano le loro fronti imperlate di sudore.
Erano stremati, arrivati al limite delle proprie forze, ma non esitavano neanche per un istante di far cadere la palla. Il mio cuore batteva all'impazzata, erano passate tre ore, tre ore che nessuno aveva preso un attimo di fiato.
I time out erano stati usati tutti, da entrambe le squadre, e mancavano pochi punti alla fine.
«Non voglio guardare, non voglio guardare...», ripetei, scuotendo il capo, con le mani in faccia e l'indice e il medio aperti, guardando ansiosa la palla in aria.
Kageyama si slanciò abbastanza in alto per fare l'alzata, arrivando ad un tocco dalla rete con Oikawa alle costole.
Sembrava che volassero e avevano entrambi una postura così corretta e simile che trattenni il respiro per una manciata di secondi, prima di capire chi dei due avesse preso la palla.
«Un'alzata... ad una mano?» Borbottai incredula con gli occhi spalancati nel vedere le dita esili e lunghe di Kageyama toccare la palla.
Appoggiai bruscamente le mani sulla ringhiera della tribuna, esclamando a gran voce: «Hinata!» il quale, si materializzò alle spalle di quest'ultimo, pronto a fare una delle sue tante schiacciate veloci e sbalorditive.
Le mie gambe tremarono e il cuore dal petto mi arrivò alla gola, bloccandomi la salivazione e il respiro: Hinata schiacciò al centro del campo avversario, segnando un punto.
Esultai come non mai, alzando le braccia in aria e sbilanciarmi verso la ringhiera. Esclamai a gran voce di quanto fossero stati grandi, cercando di sovrapporre lo starnazzo di voci delle oche dell'Aoba Johsai.
Avrei dovuto procurare alla Kurasano una tifoseria.
«Signorina, non si sbilanci in quel modo... cadrà.» Un uomo alla mia destra, mi guardò preoccupato che potessi finire da un momento all'altro al piano di sotto, agitando le mani in avanti come per afferrarmi.
Ma lo ignorai beatamente, saltellando entusiasta come una bambina alla vista del negozio di caramelle.
Ricevetti un'occhiata da Oikawa che non seppi come decifrarla: delusa? triste? colpevole? poteva essere entrambe le opzioni.
Alternai lo sguardo incontrando gli occhi verdi oliva e puri di Iwaizumi, il quale mi sorrise leggermente, ritornando poi a prestare attenzione ai suoi avversari, dopo il fischio dell'arbitro.
La partita proseguì, continuando a tenersi testa e a superare i loro rispettivi limiti di forza fisica e mentale.
Strinsi la ringhiera tra i palmi, facendo diventare le nocche di un colore bianco latte per la pressione esercitata.
Potete farcela, pensai. Ancora un altro, ancora un altro punto.
Ma le cose non andarono come sperai: Oikawa era un gran palleggiatore, le sue alzate assieme alle sue battute erano eccezionali, ma nonostante ciò, batté la palla che andò a toccare la rete, finendo nel campo della squadra avversaria che per fortuna, riuscirono a difenderla e alzarla.
La palla rotolò in aria e Kageyama si posizionò ai fini del campo, piegandosi sulle propria ginocchia e proiettarla ad Hinata.
Quest'ultimo la schiacciò ad occhi chiusi, ma qualcosa che non avevano previsto era il muro dell'Aoba Johsai: riuscirono a pararla e la palla ritornò indietro.
Né Nishinoya, né Asahi, né Daichi riuscirono a toccarla con la mano prima che toccasse terra.
Il fischio dell'arbitro diede conclusiva la partita, nominando vincitrice la squadra di pallavolo maschile dell'Aoba Johsai: la Karasuno aveva perso.
Hinata era in ginocchio con gli occhi spalancati che fissava con uno sguardo indecifrabile il pavimento di legno; Kegayama era nelle sue stesse condizioni, moralmente distrutto, incolpandosi in religioso silenzio.
Si stanno dando la colpa, meditai. La colpa di non aver dato abbastanza fino alla fine.
Io potevo capire la loro frustrazione, le loro grida di dolore silenziose, i loro occhi lucidi e la stramaledetta voglia di spaccarsi i denti in bocca.
Era così difficile subire una batosta del genere.
Si doveva essere forti e al contempo, la propria squadra doveva dare il meglio di sé per non far ricadere la colpa su uno o due giocatori.
La pallavolo è uno sport che ti insegna che tu da solo non puoi fare nulla. Non è che chi gioca a pallavolo sia più buono, sono le regole: se non puoi toccare la palla due volte di fila, pure se sei egoista impari a pensare in una logica di squadra, a vivere tenendo a bada l'individualità che è poi quella follia di pensare che basti a te stesso.
Perché chi perde non è solo uno, ma tutti.
Dal primo all'ultimo.
E faceva un male cane. Un male da morire.
Abbassai il capo e chiusi gli occhi, appoggiando una mano sul mio petto: i battiti del cuore erano diminuiti man mano. Volevano un occasione per far capire a tutti che i corvi avevano ripreso a volare e non erano più la vecchia Karasuno di una volta.
Da bambina, il vecchio mi raccontava spesso che era così felice di allenare la sua squadra e dei suoi ragazzi che davano il massimo in ogni cosa che facevano, specialmente uno: il Piccolo Gigante; chiamato così per la sua bassa statura ma un prodigio eccezionale per avere il titolo di asso. Colui a cui ispira Hinata, un giorno, di diventare.
Andai a vedere molte delle loro partite e una volta ebbi l'occasione di parlargli. Lo stimavo, lo rispettavo, desideravo emettere le sue stesse schiacciate nell'ambito di potenza e velocità.
Ne fu così estasiato delle mie parole che mi disse: «Non vedo l'ora di seguire, un giorno, le tue schiacciate in diretta televisiva, Kaori-chan.»
Chissà mai se lo avrà fatto per davvero, se mi aveva nuovamente riconosciuta, se avrà fatto il tifo per me, se fosse stato realmente fiero della giocatrice che ero diventata, dando il meglio di me e ogni parte di me.
Ma non potevo saperlo. Nessuno poteva realmente saperlo. In cuor mio, potevo solo continuare a sperarci.
༄
Passò una settimana dagli interscolastici. Tutti quanti noi tornammo alle nostre quotidiane vite.
I ragazzi continuarono ad allenarsi duramente nella palestra della scuola, mentre io recuperai i giorni di riabilitazione che avevo saltato.
Il Dottor Yagami quando scoprì che avevo saltato le terapie, mi urlò al telefono di essere un incosciente menefreghista e che ero stata miracolata per la frattura, visto che le condizioni della riabilitazione per la gamba mi sarebbero servite a togliere definitivamente il tutore e camminare normalmente senza zoppicare a fine giornata, dovuto al peso del mio corpo.
Il pomeriggio di fine settimana, lo passai a casa con infinità di barrette al cioccolato tra in ambe le mani e un buon film dell'orrore trasmesso in televisione.
Keishin avrebbe tardato per via degli allenamenti con la Karasuno, così mi sarei goduta le tre ore di totale libertà in santa pace, senza che mio fratello mi ricordasse ogni due minuti che: «Se continui a mangiare i dolci in quel modo, ti usciranno i brufoli, ingrasserai e il tuo sedere verrà usato come un appoggio per gli oggetti.»
Inutile dire che, ogni volta che me lo ricordava come una cantilena, afferravo la prima cosa che avevo davanti e gliela lanciavo contro, fregandomene se fosse appuntita e lo avesse trafitto fino a farlo morire dissanguato.
Ma lo stronzo riusciva a schivarli come Tom Cruise in Mission Impossibile, sotto ai miei tic di nervoso all'occhio e grida isteriche.
Gliel'avrei fatta pagare per i suoi commenti cattivi nei miei confronti.
Ad un tratto, immersa con anima e corpo nella scena in cui il serial killer stava squartando la sua terza vittima, il campanello suonò e mi fece sussultare dallo spavento, deconcentrandomi da quell'azione vomitevole.
Sbuffai, guardando il mezzo muro che divideva il salotto dall'ingresso, sperando che codesto se ne andasse, vedendo che nessuno avrebbe aperto la porta.
Riportai l'attenzione sul film, afferrando un pezzetto di cioccolata bianca e spezzarlo in mezzo ai denti, masticandolo rumorosamente.
Il secondo suono del campanello mi fece sbuffare, così come il terzo e il quarto, accompagnato da bussi insistenti alla porta.
Roteai gli occhi e afferrai il telecomando, spegnendo la televisione e alzarmi svogliatamente. Ormai, avrei potuto dire addio alla mia pace quotidiana.
«Arrivo, arrivo, cavolo!» Gridai, lagnandomi.
Aggiustai la montatura degli occhiali sul naso e avanzai il passo verso la porta principale, pronta a imprecare contro al malcapitato.
Ma dico, le persone non hanno niente di meglio da fare invece di bussare così insistentemente alla porta delle persone di domenica pomeriggio?
Afferrai la maniglia, girandola verso il basso e aprì la porta, trovandomi una figura robusta e vestita con indumenti casual e super comodi.
«Ciao, Kaori!»
«Iwaizumi?» Corrucciai la fronte confusa, sfilandomi velocemente gli occhiali da vista e nasconderli dietro alla schiena. «Che... che ci fai tu, qui?»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro