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𝖵𝖨𝖨

Camminammo nel lungo corridoio, ai quali i lati erano occupati dalle squadre di altre scuole per accedere al torneo. Mi passai una mano nei capelli, gettandoli all'indietro e stringere il borsone in spalla.

Ero ancora furiosa con quei due sconosciuti davanti al tabellone. Daichi doveva darmi l'occasione di conciarli per le feste. Non era la prima volta che scatenavo il panico per le mie bravate impulsive.

A una delle tante partite della Toda, l'alzatrice avversaria in questione, Kymori Yui, mi prese in giro per i miei centosettanta sei centimetri, dicendo che ero troppo bassa per fare la schiacciatrice tantomeno l'asso, visto che c'erano altre ragazze decisamente più alte.

La cosa non mi toccò parecchio, anche perché ero felice della mia altezza, visto che ero alta poco più di Keishin -cento settantotto centimetri- al che, le sorrisi genuinamente.

Ma poi, continuò a rifilarmi frecciatine, parlando di quanto il mio sedere fosse grosso e grasso, e da lì non ci vidi più dalla rabbia, nonostante le mie compagne di squadra mi suggerivano di calmarmi oppure le avrei dato quello che voleva: soddisfazione.

Niente. Nell'arco di pochi secondi, mi ritrovai ad oltrepassare la rete, gettandomi su di lei, come le ragazze ossessionate dallo shopping ossessivo compulsivo che vedevano il grosso cartellone con su scritto saldi, prendendola a schiaffi e a pugni, mentre lei starnazzava come il brutto anatroccolo chiedendo aiuto.

L'allenatrice Tamiako per punizione dalla mia impulsività mi fece fare cento giri di campo, cinquanta addominali e venti salti con la corda. Alla fine degli esercizi, vidi la mia anima uscirmi dal corpo, -letteralmente- chiedendo pietà.

«Ma quella è... Ukai Kaori?» Udì una voce maschile sconosciuta alle mie spalle, al che attizzai l'orecchio curiosa per essere stata riconosciuta improvvisamente.

«Ukai Kaori? Chi sarebbe?» La seconda voce, più profonda e confusa, mi fece bloccare sul posto.

Nonostante non facessi più parte della Toda, ero curiosa quanto un gatto nel sentire i commenti delle persone.

Ma si sa che la curiosità uccise il gatto.

«Cosa? Non la conosci?» Chiese con un tono stupito. «È il capitano della Toda, la squadra femminile più famosa dell'intero paese nonché la più forte. Ai Giochi Olimpici ebbe un incidente durante la partita e da lì nessuno ha più saputo sue notizie», raccontò e il mio umore cambiò nel sentire parole del genere uscire dalla bocca di uno sconosciuto.

Non credevo che facesse così male venir ricordata per un incidente sul campo. Eppure, avevo battuto il record di schiacciate di Ushijima.

«Si dice che abbia lasciato la Toda perché era caduta in una forte depressione dopo che la sua squadra, senza le sue incredibilità di padronanza sul campo, perse contro la squadra femminile americana.»

«Dev'essere stato difficile per lei», commentò. «Però è davvero bella. Credi che se le parlassi, me lo darebbe il suo numero?»

Strinsi le mani in due pugni, sentendo le unghie conficcarsi all'interno dei palmi. Non ero caduta in una forte depressione, ma ero solamente giù di morale.

Non accettavo che la Toda avesse perso una delle partite più importanti per colpa mia, soprattutto contro quelle maledette della Mad Dogs.

Alle mie spalle, sentì un'aura nera e spietata invadermi, la quale irrigidì il mio corpo. Il tipico tremolio di quando si entrava in una casa a tema mostri e fantasmi, non sapendo però cosa aspettarsi ogni volta che si svoltava l'angolo.

Non c'era bisogno neanche che mi girassi per capire di chi o di chi dei due si trattasse: Nishinoya e Takada mi stavano incollati come piccole e fastidiose cozze al sedere. Sentivo i loro respiri caldi battermi sul collo e gli occhi infuocati bruciarmi dietro alla nuca ogni qualvolta che mi guardavo attorno.

Era diventata la caccia al topo con i gatti egoisti che non condividevano la loro preda.  

E indovinate chi aveva il ruolo di chi.

«Sempre i soliti pettegolezzi...», Sugawara mi affiancò e mi sorrise calorosamente. Non risposi, limitandomi ad abbozzare un sorriso. L'adrenalina che avevo in circolo da quella mattina era sparita. «Non preoccuparti, Kaori-san. Le persone non conoscono realmente le dinamiche delle cose, specialmente di come le persone possano sentirsi dopo una partita importante», lo ascoltai attentamente, anche perché Sugawara sembrava più una mammina che incalzava il proprio figlio a dare il meglio di sé anziché piangerci e rimuginarci sopra.

«Prendi esempio da Azumane: girano pettegolezzi negativi su di lui per via del suo aspetto.» Indicò il ragazzo alla mia sinistra che si guardava attorno nervosamente: ebbi la certezza che sarebbe scoppiato a piangere da un momento all'altro.

«Io... insomma... vorrei smettere di avere questo aspetto sfrontato.» Disse Azumane gesticolando nervosamente con le mani, ricevendo un'occhiata scocciata da parte di Daichi e Sugawara.

«Uno che parla così non è di certo sfrontato.» Rispose Sugawara, abbattendo l'umore del ragazzo. Quasi provai compassione per lui.

All'improvviso, sentì il mio collo cingersi in una presa leggera e venire poi strattonato verso il basso, facendomi emettere un verso sorpreso. Nishinoya ridacchiò nel suo modo cristallino, solare.

«Basta pensare negativamente prima di un partita! Che cosa vi importa di cosa pensano gli altri?»

La tipica frase di chi è sfrontato, pensai.

Ci stavo facendo l'abitudine ai loro modi rozzi ed entrate e uscite teatrali. I ragazzi della Kurasano riuscivano a trovare il buono nel marcio: l'ago nel pagliaio.

Anche se li conoscevo da una settimana, non riuscivano a darsi il tempo di autocommiserarsi perché era più importante la vittoria. E se non si vinceva, ci si rialzava.

Avrei tanto voluto conoscerli prima quando ancora sapevo essere convincente con me stessa prima che con gli altri. Quando ancora inseguivo sempre e solo la magia.

«Ti ho sentito, Kaori-chan!» Mormorò Nishinoya nel mio orecchio, evidentemente il mio pensiero era uscito dalla mia boccaccia senza pensare troppo alle conseguenze.
Ma il ragazzo non sembrò essersi offeso, anzi.

Abbozzai un sorriso di scuse e avvampai per la troppa vicinanza. Il piccoletto ci sapeva fare, anche se avevo una voglia matta di accarezzargli la testa come si farebbe al proprio cane.

Raggiungemmo finalmente la sala d'attesa, dove la metà delle altre squadre restanti, erano accomodate chi a terra e chi sulle sedie disponibili, aspettando che la voce meccanica chiamasse il nome della loro squadra e desse inizio agli interscolastici.

Tolsi il borsone dalla spalla, gettandolo a terra accanto ai miei piedi. Avrei dovuto trovare Oikawa e la squadra per augurare tutti un buona fortuna prima che il loro match iniziasse.

Afferrai il telefono dalla tasca dei miei pantaloncini attilati da pallavolo femminili, sbloccandolo.

Vidi due messaggi del vecchio, scritti grammaticalmente scorretti per quanto ci provasse ad usare le nuove tecnologie, augurandomi con delle emoticon che era fiero di me e anche dello sbruffone di mio fratello che non gli rispondeva mai.

Sorrisi, leggendo più volte quelle parole, anche se avrei preferito cavarmi gli occhi davanti a tutte quelle doppie inutili e senza punteggiature. Sicuramente avrebbe fatto meno male.

Mio nonno, il grande allenatore Ukai che portò la Kurasano ai nazionali, era solito dire: «Prova a fare le cose un po' più piano e io andrò più veloce.»

Me lo ripeteva continuamente da bambina, prima di rimboccarmi le coperte e baciarmi la fronte, cantandomi una di quelle ninna nanne ireniche. A differenza dei miei genitori, credo di avere ricordi vaghi di loro: Keishin ed io avevamo dieci anni di differenza alle spalle, lui aveva vissuto molto più tempo con i nostri genitori, anche se io non conobbi mai mia madre.

Morì di parto, dandomi alla luce, quindi non avevo mai avuto una figura materna e femminile che mi aiutasse a svolgere la quotidianità di ogni ragazza. Al mio primo ciclo, credetti di morire letteralmente, così andai da mio nonno piangendo, dicendogli che mi mancava poco tempo da vivere e se voleva, poteva cantarmi una canzone da post-morte.

Ero sempre stata una bambina tragica, alla vista del sangue, andavo in panico.

Il vecchio però, non capì subito e preoccupato che mi fosse successo qualcosa, lì entrò in scena Keishin più terrorizzato del nonno e della sottoscritta.

Ci trovammo a piangere tutte e tre in contemporanea, fino a quando non ci venne a trovare la vicina, e raccontandole del mio problemino, scoppiò a ridere, offendendo però il nonno e Keishin dandoli degli incapaci.

Risposi al nonno con un cuore, dichiarando sotto all'emoticon che gli volevo bene e che presto lo avrei andato a trovare.

Scorsi con il pollice sul display gli altri messaggi: uno dal gestore telefonico e l'ultimo... da Iwaizumi.

Decisi, anche se tintinnai con il pollice di cancellare il messaggio e mentire a me stessa che non mi fosse mai arrivato, di leggere cosa mi avesse scritto. Non ci eravamo mai scambiati messaggi né tantomeno ci eravamo mai telefonati. Oikawa si incupiva quando davo troppo attenzione ai suoi compagni di squadra, specialmente ad Iwaizumi, anziché a lui.

Non capivo il perché.

Una volta addirittura litigammo così pesantemente per la sua gelosia, che non ci sentimmo per una settimana, ed io mi trovavo in America per degli allenamenti con la Toda.

Tooru sapeva usare i lati del suo carattere in modo giusto e consono nelle situazioni in cui si esigeva un certo tipo di comportamento, ma nei giorni avvenire, qualcosa di quel ragazzo di cui mi innamorai, man mano andò a sbriciolarsi.

Non seppi esattamente cosa gli prese quel giorno, da farlo rabbuiare e urlare come un frastornato al telefono.

Pensai che soffrisse di complesso di inferiorità e di carenze affettive, ma invece sembrava che gli desse fastidio che io avevo abbandonato i miei studi e tutto ciò che apparteneva alla mia quotidianità nella prefettura di Miyagi, per seguire la Toda in America anziché restare barricata con lui.

Sospirai. A volte ricordare certe cose, mi faceva pensare a com'ero riuscita a passare oltre, innanzi alla sua infantilità, e credere che tutto andasse per il meglio.

Con velocità, aprì la chat del contatto di Iwaizumi, leggendo attentamente il messaggio inviato pochi minuti prima.

Iwaizuimi
Devo parlarti. Dove sei?
8:34 A.M.

Kaori
Parlarmi? E di cosa?
8:34 A.M.
Comunque, mi trovo nella saletta d'attesa.
8:35 A.M.

Aspettai un po' confusa prima che Iwaizuimi rispondesse al messaggio. Così approfittai di guardarmi attorno, notando delle occhiate curiose da parte di alcuni ragazzi che chiacchieravano tra di loro.

La vibrazione del cellulare all'arrivo del messaggio, riportò la mia attenzione sull'oggetto elettronico.
I polpastrelli iniziarono a sudarmi.

Iwaizumi
Possiamo incontrarci
fuori alla struttura sul retro tra 5 minuti?
8:36 A.M.

Kaori
Uh... d'accordo.
8:36 A.M.
Sei strano.
8:37 A.M.

Lessi solo il visualizzato come risposta e riposi il telefono nel taschino dei miei pantaloncini, afferrando poi il borsone da terra.

Mi avvicinai a Daichi, picchiettandogli un dito sulla spalla, il quale si voltò con il solito sorriso amichevole.

«Daichi, mi assento un secondo. Non aspettatemi se vi dovessero chiamare.»

«Tranquilla! Noi adesso andremo a riscaldarci, così se dovessero chiamarci saremo già pronti per cominciare.» Rispose quietamente, al che annuì con un sorriso, allontanandomi poi a passi veloci.

Abbandonai il mio gruppo, dirigendomi verso l'altro lato del corridoio. L'edificio era enorme e consisteva in diverse traiettorie che facilmente una persona con scarso orientamento si sarebbe persa.

Tipo la sottoscritta.

Camminai, cercando di leggere le indicazioni pittate sui muri e dai cartelloni a freccia posti ai lati del corridoio, quando all'improvviso intravidi finalmente le indicazioni denotare l'uscita sul retro. Seguì le frecce fino a trovarmi davanti la grossa porta: spinsi il portone e strizzai gli occhi per l'abbiglio dei riflessi solari, guardandomi poi attorno.

Non vidi nessuno. Né la figura di Iwaizumi. Credetti di essermi persa, ma non feci il tempo di tornare indietro che il portone alle mie spalle si chiuse con un tonfo acuto, balzandomi da terra.

«No, no, no, cazzo!» Imprecai a denti stretti, sbattendo le mani sulla porta. «Ehi, qualcuno può aprirmi? Sono rimasta chiusa fuori!» Gridai per farmi sentire dall'altro lato della porta, appoggiando l'orecchio sul blocco di ferro, sperando di udire dei passi o delle voci.

Ma nulla. C'era solo silenzio.

Sbuffai quando mi accorsi che non c'era neanche la maniglia dall'esterno e gettai il borsone a terra bruscamente, rilassando la schiena al muro dietro alle mie spalle fino a scivolare con il sedere sul cemento.

Sfilai il cellulare dalla mia tasca, pronta a chiamare qualcuno per farmi soccorrere, ma poi mi ricordai che non avevo il numero dei ragazzi e anche se l'avessi avuto, erano concentrati sulla partita, quindi i loro cellulari si trovavano nei loro benedettissimi borsoni.

«Che ci fai seduta lì per terra?»

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