[𝖤𝗑𝗍𝗋𝖺] 𝖯𝗋𝖾𝗌𝖾𝗇𝗍.
Eccoci nel presente con questo capitolo extra.
Nel prossimo capitolo, intitolato "Extra - Present 2" ne troverete di belle.
Ci terrei davvero tanto a un vostro giudizio nei commenti. Vi lascio il libero arbitrio.
Un abbraccio🍭.
𝓐
Tamponai una salvietta sotto l'occhio destro, togliendo la macchia di matita nera che aveva rovinato il mio lavoro. Arricciai il naso e presi il correttore, alzai lo sguardo verso l'orologio a pendolo e mi morsi il labbro. Mancavano solo due ore e Atsumu sarebbe atterrato a Tokyo. Era in anticipo di due giorni per sua scelta personali, poiché aveva intenzione di godersi le mie attenzioni al di fuori delle oppressioni dei coach e dalla squadra.
La maggior parte del nostro tempo era impiegato per gli allenamenti e non avevamo quasi mai tempo per noi stessi; Atsumu aveva accettato che avessi un figlio e non vedeva l'ora di conoscerlo. Sembrava che gli piacessero i bambini dal modo in cui si divertiva a parlare con Yuri in videochiamata.
Gli avevo specificato più volte che non volevo ancora ufficializzare la nostra relazione e, soprattutto, non volevo che Yuri sapesse che la sua mamma passava il resto dei suoi giorni accanto a un altro uomo che non era suo padre.
Forse a Yuri piaceva anche Atsumu. Come amico della mamma. Tuttavia, ero terrorizzata di conoscere la sua opinione su noi due se lo avesse scoperto; desideravo che gli piacesse Atsumu come fidanzato di sua madre.
Guardai la mia immagine allo specchio. Non avevo affatto un bell'aspetto. Avevo dormito poco e le occhiaie erano così evidenti che il quintale di correttore applicato non aveva sortito alcun effetto. Sbuffai e presi il lucidalabbra come ultima applicazione.
Scese con le labbra fino al mio ombelico e vi depositò un bacio umido, continuando la discesa verso il mio basso ventre e scontrandosi con la stoffa dei miei pantaloni. Sollevò gli occhi, puntandoli nei miei, che chiedevano silenziosamente il mio permesso di continuare, e annuì con l'eccitazione stampata sul viso.
Sbattei le palpebre e scostai il pennello dalle labbra, guardandomi intensamente nel riflesso dello specchio. Sciolsi le labbra e abbassai gli occhi sulle mie gambe che tremavano sotto il mio sguardo. Deglutendo, riposi tremante il lucida labbra nell'astuccio dei trucchi, messo sul comodino.
Mi schiarii la gola, accarezzandomi la pancia, all'altezza dell'ombelico. Percepii le labbra turgide e minute di Keiji in quel punto, mentre facevo scorrere le dita verso il centro coperto dai pantaloncini. Il mio respiro era corto e il mio viso caldo per quella sensazione misteriosa.
Come avevo fatto a eccitarmi all'improvviso pensando a quella notte?
Mentre pensavo, le mie dita scesero ad arricciarsi dentro i pantaloncini. Mi morsi la lingua, fissando il mio riflesso nello specchio e immaginando l'immagine di Keiji, dietro di me, che mi ordinava di masturbarmi sotto i suoi occhi velati di lussuria.
Feci per chiudere gli occhi, mandando al diavolo la razionalità, finché non sentii dei passi pesanti e la porta della mia stanza si spalancò come se ci fosse stato un tornado a battere.
«Kaori, tuo figlio...»
«Ma che cazzo!» Sobbalzai all'indietro, sbigottita e colta sul fatto. Scostai la mano dal mio centro e guardai le due sagome davanti alla porta: mio fratello e mio figlio.
«Zio, mamma ha appena detto una parolaccia!» esclamò Yuki, indicandomi, mentre Keishin copriva gli occhi a Yuri. Mi accigliai brutalmente.
«...Vieni, andiamo dal vecchio. Ci ha appena chiamato», mormorò Keishin con il volto rosso.
«Cosa? Non l'ha fatto! E poi non riesco a vedere...»cercò di scacciare la mano di Keishin dagli occhi, ma quest'ultimo fece pressione per non toglierla. «Voglio stare con la mamma!»
«La mamma è... è impegnata... Sai, come sono le donne» e lo prese come un sacco di patate, uscendo velocemente dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle. Nel corridoio sentii le urla di Yuki, che continuava a protestare di voler stare con me anziché con il vecchio Ukai che passava i minuti a pizzacargli le guance, contestando di essere il bambino più bello del mondo.
Nel frattempo, ero rimasta a fissare la porta incredula. Avevo combinato un sacco di cose nella mia vita, ma ero sicura che essere stata colta nella fase più intima di un essere umano – e che per fortuna Yuki era ancora abbastanza innocente da poterlo capire – era in cima alle lista delle cose peggiori.
L'aeroporto di Tokyo pullulava di persone. Molti correvano per fare il check-in in tempo. Altri stavano attraversando la porta d'ingresso, attorniati dai loro familiari più cari che non aspettavano altro che di poterli riabbracciare. Perfino coppie di fidanzati, divisi a lungo, si scaldavano con abbracci e carezze evitando di sembrare impuri agli occhi dei passanti. A Tokyo, in particolare in Giappone, la gente era riservata, schiva, precaria. Non facevano alcunché alla luce del sole senza che mille pensieri attraversassero le loro teste.
Viaggiando per il mondo, compresi che la tradizione della mia etnia non era parte di me. Per quale motivo avrei dovuto trattenere una carezza in pubblico? Perché avrei dovuto astenermi dal baciare chi amavo? Inoltre, per quale ragione avrei dovuto rifletterci così a lungo prima di pronunciarmi? Sfortunatamente, per quanto sia affascinante la concezione che abbiamo delle relazioni sociali, di amicizia o di amore, nei paesi occidentali reputavano sorpassato il modo in cui non ci facevamo avanti.
Ai tempi del liceo ero una persona completamente diversa dai miei coetanei. Loro si imbarazzavano di essere loro stessi. Di diventare amici del loro stesso sesso e di dichiararsi al loro primo amore. Dal canto mio, invece, avevo passato metà della mia adolescenza in America. Lì Il modo di pensare, comportarsi e di comunicare era completamente diverso. C'era libertà.
Se frequentavi molti ragazzi, nessuno riteneva che fossi una persona scorretta. E se un ragazzo ti piaceva, non dovevi attendere un determinato periodo di tempo prima di dichiararti o di provarci.
Il motto era: "Vivi e lascia vivere"; non sapevamo quanto tempo ancora ci restava. Sebbene la giovinezza ci appartenesse. Ma sembrava che non fosse abbastanza. La bellezza non si poteva conservare per sempre, oppure ricordare i vecchi tempi come un rimpianto da portarsi addosso per tutta la vita.
Il rimpianto di non aver passato il tempo con le persone amate. Di non aver avuto cura di chi c'era sempre, solo per il fatto che c'era sempre. Tuttavia, il dolore a volte ci ricordava che nulla permaneva per sempre, ma lo avevamo sottostimato come se fossimo eterni, rinviando all'infinito, privilegiando ciò che era urgente anziché ciò che era importante.
Le persone lo facevano di continuo. Rimpiangevano il passato come se fosse uguale al concetto di bene e odiavano il presente come se fosse equivalente al concetto di male: deliberatamente ignoravano di aver fatto lo stesso in precedenza.
Ed io, che da sempre mi ero prefissata di morire con trecentomila rimorsi e nemmeno un rimpianto... Per quale motivo, allora, mi sentivo di aver convissuto con i rimpianti?
Smarrita nei miei pensieri, guardando una giovane coppia salutarsi tra le lacrime, la mia visuale si scurì, divenendo nera come la pece. Mani calde con dita dilatate da leggeri calli e tagli coprirono gli occhi. Le labbra mi tremarono in preda allo spavento, dischiudendosi involontariamente. Avvertii il tocco di una bocca in prossimità del mio orecchio freddo, poggiando il suo mento sulla mia spalla ed avvertendo la traccia di un sorriso.
Mi liberai da quella morsa, come se il mio corpo rifiutasse di proseguire altrove. Non avevo idea di chi potesse essere, per cui mi preparai a prendere a calci l'idiota che mi aveva agguantato alle spalle. Feci per gridare, ma quando sollevai lo sguardo ebbi un sussulto alle gambe. Atsumu era lì, davanti a me, col borsone in mano e il trolley ai piedi. Nei miei occhi si acquietò il suo sorriso, inducendomi a rilassare i muscoli contratti che avevo volutamente indurito.
«Atsumu...» Mormorai trafelata, realizzando che ci trovassimo all'aeroporto e fossi lì, per lui. Dischiuse le labbra, ampliandole ancora di più, mostrandomi quanto fosse contento nel vedermi e nell'essermi a qualche metro di distanza.
«Vieni qui» mi ordinò, pacato e apprensivo, il che portò le lacrime ai miei occhi. Gli sorrisi, alleggerita e colma di gratitudine, portandomi di fronte a lui e cadere tra le sue braccia ampie, che erano pronte ad accogliermi.
Mi strinse in un forte abbraccio. Uno di quelli in cui si perde la cognizione del mondo, del tempo e delle persone intorno. Mi persi nel profumo della sua fragranza virile, nella brezza della sua pelle che si scontrava col fatto che si fosse rasato. Odorava di pulito ed era buono. Sapeva di libertà, di sicurezza. Ed io mi mischiai con il suo profumo di spessore, che al contrario mio, ero sporca di tutta l'impurezza del mondo.
«Hai affittato una macchina?» Usciti dall'aeroporto, camminammo in direzione del parcheggio. Atsumu mi guardò inarcando le sopracciglia tenendo il borsone con la mano alle spalle. Cercai in fretta le chiavi dell'auto nella borsa.
«Si. La macchina di mio fratello è del tutto carente al momento...» Keishin ci teneva talmente tanto alla sua auto gialla che, sebbene si trattasse di un rottame, non avrebbe rinunciato al desiderio di venderla.
Diverse volte gli proposi di accompagnarlo presso un concessionario, anche per cercarne una simile e dello stesso colore, ma lui non voleva saperne niente. Ribadiva in continuazione la classica frasetta puerile di tutti gli uomini: «Come puoi dire una cosa del genere? Hai idea di quanti viaggi abbia intrapreso insieme alla mia bambina? Non riuscirei a gettarla così per sostituirla con un'altra.»
Atsumu tirò su un angolino della bocca. «Non dico di riuscire a capirlo nei dettagli, ma è davvero difficile per un uomo gettare via la propria bambina» ribatté divertito.
Scossi la testa. «Per favore, se hai intenzione di affrontare questo discorso con Keishin, evita di incoraggiarlo. Ho già una vaga idea di che cosa regalargli per il compleanno, prima che faccia qualche incidente a causa della sua testardaggine.» Risposi distrattamente, verificando nella borsa piccoli oggetti metallici che somigliavano a delle chiavi. Sbuffai. «Accidenti» Mi accovacciai a terra e adagiai la borsa sul selciato. Dove le avevo messe?
«...Tutto bene?» mi chiese il ragazzo dai capelli perfettamente in ordine e colorati, accostandosi a me per posare il borsone sull'asfalto vicino ai propri piedi. Si piegò sulle ginocchia ed io annuii, leggermente turbata.
«Sì, sì, devono essere qui... Devono essere per forza qui» Stavo blaterando, meditando al tempo stesso su dove avrei potuto gettarle. Non ricordavo di avere preso alcunché dalla borsa in aeroporto. Ero lì da dieci minuti e in quel frangente avevo atteso Atsumu al varco senza muovermi dall'ingresso principale, praticamente come una mummia.
«Kaori...» La mano levigata di Atsumu fermò le mie che cercavano selvaggiamente all'interno della borsa. La feci persino cadere, disseminando gli effetti personali sul selciato. Atsumu mi conosceva a sufficienza da capire che non ero una persona particolarmente paziente, figuriamoci se riuscivo a dominare la mia ansia. Per anni mi ero attribuita la colpa di tante cose e, così facendo, avevo accumulato un'ansia capace di divorarmi l'anima.
Alla mia età non avevo ancora imparato a controllare l'ansia. Era un pezzo personale che avrei indossato come un abito che non ti calzava affatto. Per sempre. C'erano molte cose di cui non ero a conoscenza che nessuno mi aveva mai spiegato. Ci avevano insegnato a costruire il nostro futuro, ma non ad affrontarlo, che una buona stabilità economica non era nulla rispetto a una vita felice, per poi mostrarci il contrario; nessuno ci aveva chiarito come gestire le paure, come accettare le delusioni, in che modo cercare di trovare il coraggio per sostenere un dolore. Capitava che nei momenti importanti potessi essere felice solo dopo, percepivo la tensione, quella cosa a cui non sai dare un nome ma che ti sottraeva parte della contentezza.
«Gomen...» Mormorai imbarazzata e colma di vergogna a causa del mio atteggiamento. Il suo pollice accarezzò il dorso della mia mano, sforzandosi di emettere energia positiva o, comunque, di permettermi di cancellare ogni pensiero. Da quando ero tornata a Tokyo erano successe molte cose. Di conseguenza, mi venne spontaneo chiedermi: avevo fatto la scelta giusta?
L'odore di buono invase le mie narici ed io mi ritrovai circondata dalle sue braccia calde e potenti, frutto dei duri allenamenti a cui eravamo sottoposti ogni giorno. Sprofondai il viso nell'incavo del suo collo e mi mordicchiai l'interno della guancia, il tutto mentre lui infilava le dita tra le ciocche dei miei capelli, diventati così lunghi nel corso degli anni, conferendomi la solita aria da ragazzina. Una ragazzina spocchiosa e impertinente, la solita che mi illudevo di essere anche al liceo.
«Respira» mi sussurrò, facendomi perdere il lume della ragione. «Sono qui da venti minuti e non ti ho visto rilassarti per mezzo secondo.» Mi spinse via il viso, affinché mi guardasse. Il mondo tremò, precipitando sulle mie ridotte spalle. Come avevo fatto a meritare una persona come Atsumu? Per quale motivo l'avevo tradito? Perché... «Kaori, piccola...»
Presi un grosso respiro. Gli occhi mi divennero lucidi e... «Ti va di mangiare qualcosa? Io... Io ho davvero voglia di cioccolato.» Mi allontanai dal suo corpo, dal suo sguardo, da lui. Mi alzai in piedi, pulendomi le ginocchia sporche di polvere.
«Come?» mi guardò dal basso, sollevando un angolo della bocca divertito. «Hai voglia di cioccolato?»
Annuii così rapidamente che in pochi istanti sarei riuscita a staccarmi la testa dal collo. «Sì... tanta. Uhm-- conosco un posto davvero carino. Possiamo raggiungerlo anche a piedi...»Stavo di nuovo blaterando, non rendendomi conto se Atsumu desiderasse davvero andarci. Realizzai che mi stavo comportando in modo spudorato. «Oh, se non vuoi...» Agitai le mani nervosamente davanti al suo sguardo, «non d-dobbiamo andarci per forza...»
Perché mi stavo comportando così? Ero in bilico sul baratro, per quanto mi vergognassi del mio comportamento, e l'unica cosa che provavo era il senso di colpa nei confronti di Atsumu. Lui non si meritava assolutamente un atteggiamento del genere, né tanto meno quello che avevo combinato alle sue spalle. Essere andata a letto con Keiji, avere desiderato di stare di nuovo con lui, essere gelosa della sua nuova ragazza.... Perché stavo causando tutto questo? Con lui stavo bene, eppure al mio cuore non bastava.
«No, affatto» rispose, rialzandosi con lentezza e tendendo la mano verso di me. Appoggiò le dita sulla mia guancia, sfiorandomi lo zigomo. «Il cioccolato è l'unica cosa che ti rasserena quando sei in queste condizioni.»
Alcuni aspetti li meritiamo in base alle nostre azioni. Per esempio, molte persone credono che i bambini che si comportano male al parco non meritino le caramelle. Per questo il verbo meritare assumeva molti significati e modi, sebbene portasse sempre con sé un senso di equità e di giustizia.
C'erano persone che erano convinte di non meritare l'amore. Si allontanavano in silenzio, dentro a spazi vuoti, provando a colmare le ferite del passato. Io sentivo di dover lavorare sodo per cercare di dimostrare che meritavo quel posto, nel mondo. E non solo perché si trattava di me. Desideravo qualcosa da me stessa piuttosto che dalle persone.
Tuttavia, rimasi dell'idea che una persona come Atsumu fosse l'unica cosa che non meritavo affatto.
Da adolescente frequentavo spesso il negozio di dolci Mihashi Ueno Honten, in centro a Tokyo. Era a pochi metri dal Museo Nazionale delle città. Avevo mentito sul fatto che fosse vicino all'aeroporto, o perlomeno, era da qualche anno che avevo completamente scordato il quartiere. Atsumu la prese sul ridere, per fortuna. A volte mi chiedevo come facesse a essere così spensierato. Avrei gradito un briciolo della sua spensieratezza per dimenticare per un attimo i pensieri che non smettevano di tormentarmi.
«È davvero bello qui», disse, guardandosi attorno incuriosito e levandosi la giacca beige. Indugiai sui suoi bicipiti che guizzavano al di sotto del dolcevita. Inumidii le labbra e spostai lo sguardo, soffermandomi sul menù.
«Sì, molto...» Strappai un sorriso, scorrendo gli occhi sulla lista dei dolci. Atsumu fece lo stesso, picchiettandosi le dita sulle labbra. Era una cosa che faceva spesso nei momenti di riflessione. Mi schiarii la gola. Lo stavo consumando letteralmente con gli occhi. «Che cosa prendi?»
«Non lo so», replicò aggrottando le sopracciglia. «Il menu è davvero molto ricco e non saprei cosa prendere», scosse la testa e tirò su lo sguardo in direzione della mia immagine. Mi sciolsi. Alcuni ciuffi scompigliati gli ricaddero sulla fronte, sebbene fossero stati trattenuti con della gelatina. «Forse puoi aiutarmi...» Ammiccò, sporgendo il busto in avanti per prendere la mia mano poggiata sul tavolo. Intrecciò le dita alle mie, pur senza perdere quel sorriso impertinente stampato sulle labbra al quale ero abituata.
Alzai gli occhi al cielo divertita. «Vediamo...» mi morsi il labbro e riabbassai gli occhi. «Prova la Crema Anmitsu, con gelato, pasta di fagioli rossi giapponesi, gnocchi di riso e frutta.»
Atsumu sembrò rifletterci su, strofinando l'unghia del pollice sul dorso della mia mano. «Per me va bene... Mi fido di te» ammise con schiettezza e rabbrividii di un gelo invernale. «Tu che cosa prendi?»
Il cattivo umore si impossessò di nuovo della mia anima. Mi rattristò e, per un momento, perdetti anche l'appetito. «Prendo un Strawberry cream anmitsu.» Chiusi il menù e lo misi sul tavolo, in attesa che il cameriere venisse a prendere le nostre ordinazioni.
Il resto proseguì piacevolmente. Parlammo più del meno, in particolare della grande partita che si sarebbe svolta nei prossimi giorni. Non mancava molto alla vittoria del campionato e al superamento della fase finale. Dopo, ci sarebbero state le Olimpiadi, e Atsumu sperava tanto che l'allenatore Martin lo facesse giocare come alzatore titolare per tutta la durata della partita.
Io, al contrario, ero contenta anche se non speravo di essere la pedina principale. Avevo già vissuto quel fremito di sensazioni contrastanti. Per ben due volte. Sebbene la prima esperienza mi sia servita per non ripetere gli stessi errori.
Sarei stata felice se Atsumu si fosse lanciato in quella vetta che, molto tempo prima, considerava irraggiungibile. Sia suo fratello che io saremmo stati fieri di lui.
Una volta finito di mangiare, Atsumu si rivolse al cameriere affinché ci portasse il conto. Costui annuì, domandandoci se avessimo apprezzato i piatti artigianali.
«Era tutto buonissimo» Ammisi con una certa euforia, beccandomi una fila di ringraziamenti da parte del cameriere il quale mi consegnò un foglietto.
«Può lasciare una recensione sulla nostra pagina e seguirci» disse, precisando con l'indice i progressi che avrei dovuto attuare. Risposi che avrei lasciato una serie di commenti e sarei sicuramente tornata per degustare il loro cibo.
Quando il cameriere se ne andò, ma non prima di averci ringraziato di nuovo, Atsumu poggiò il gomito sul tavolo con il mento posato sulle nocche chiuse. Lo guardai incuriosita dal modo in cui mi fissava, e gli sorrisi timidamente.
«Che c'è? Ho sporco in faccia?»Chiesi un po' a disagio, nel tentativo di rimuovere la crema della torta da un punto cieco.
Scosse la testa. «No. Non hai nulla in faccia...» mormorò. «Da quando sono arrivato, non hai fatto altro che mettere il broncio. E ora... stai sorridendo perché non vedi l'ora di commentare i loro piatti.» Non era una ramanzina o una lamentela. Atsumu sembrava come sollevato dal mio cambiamento di umore. «Sei preoccupata per qualcosa? Forse c'entra... tuo figlio? O la partita?»
Apprezzai molto il suo modo gentile di avvicinarsi ai miei pensieri e alla mia anima agitata. Pensare che Atsumu, durante l'adolescenza, e forse anche durante i primi anni in cui siamo entrati a far parte della stessa squadra, era una persona più espansiva e meno mansueta. All'inizio non andavamo nemmeno d'accordo: lui troppo permissivo e io troppo diffidente; lui sempre con la battuta tagliente e io sempre con la risposta pronta da attaccargli come un'etichetta in fronte.
Non so esattamente cosa ci sia successo, ma da un momento all'altro lui si innamorò di me ed io provai dei sentimenti che non potevano essere confusi con l'amore.
Gli volevo bene, ma non ero sicura che fosse abbastanza da amarlo incondizionatamente.
«Sono un po' tesa» anche se non avrei detto la verità fino in fondo, niente mi negava di distoglierla. «La partita è alle porte e Yuki... ecco...» mi presi del tempo per pensare a cosa dire, «il mio ex ha una fidanzata e l'ho conosciuta» e dissi semplicemente la verità. «A Yuri sembra che le piaccia, anche se a dirla tutta è molto... egocentrica.»
Lo sentii ridere e alzai bruscamente lo sguardo. «Scusa...» disse, coprendo la risata ma non il sorriso. «E' solo che... sembra che tu sia gelosa.»
Divenni paonazza. «Cosa? No! Non sono affatto gelosa...»
«...Hai paura che Yuki voglia più bene a lei che a te, dico bene?»
Corrucciai la fronte e strinsi le braccia conserte al petto. «Che stupidate... Sono sua madre. E' normale che voglia più bene a me che a lei. Anche se...» non ho fatto altro che essere assente per lui. Sospirai. «Forse un po' lo sono. Ma soltanto un po'.» Feci in modo di sottolinearlo, sebbene nel mio piccolo morissi dalla voglia di tenere Yuri al mio fianco per il resto della mia vita, impedendo a qualsiasi essere femminile di accostarsi.
Atsumu mi prese la mano. «Diventi ancora più bella quando lo ammetti a te stessa.»
Alzai gli occhi al cielo. «Piantala... baka!» ridacchiai, sentendomi più leggera.
Uscimmo dal negozio. Atsumu tenne la porta da vero gentiluomo per lasciarmi uscire per prima, e lo ringraziai con un sorrisetto sistemandomi i capelli dietro la schiena. Tutto procedeva per il meglio, per cui mi sentivo meno colpevolizzata e più espansiva, finché una voce squittente non interruppe il mio desiderio di proseguire la conversazione con il ragazzo che avevo al mio fianco.
«Guarda chi c'è» Esclamò e mi voltai verso l'interlocutore che si trovava alle mie spalle. Gli occhi di un blu inconfondibile si diressero nei miei d'ambra: Keiji mi fissava dal suo metro e ottanta di altezza, con la fidanzata che gli cingeva il braccio a mo' di coppia fissa. «Kaori, giusto? La mamma di Yuri» Annuì. La donna piegò la testa in avanti un inchino. «L'ultima volta non ci siamo presentante come si deve...» I suoi tratti orientali risaltavano alla luce del sole, rispecchiandosi alla perfezione sulla sua candida e curata pelle.
Atsumu e Keiji si scambiarono un'occhiata che non seppi decifrarla, salutandosi per cognome.
«Akaashi».
«Miya».
Mi ero sentita a disagio. Voglio dire, raramente avevo il tempo di dedicare le mie giornate alla cura della pelle e del mio corpo. Non che non lo facessi, ma non in modo così eccessivo. Sembrava una bambola di porcellana, presa da chissà quale rivista di moda.
Pressai le labbra. «Lydia, giusto?»
La ragazza alzò bruscamente la testa e scorsi un leggero rossore sulle sue guance. «E' Linda...» mi redarguì, ma non sembrava affatto un rimbrotto, al contrario. Pareva che la mettessi in imbarazzo, eppure la prima volta che ci eravamo incontrate non aveva fatto mistero di mostrarsi più spocchiosa.
«Oh, gomen...» Le sorrisi umilmente, benché la mia smorfia fosse più che altro piccata. «Sono stata rispettosa.» Chinai la testa, ma lei mi agitò le mani davanti al viso, come a dire di non farlo perché poteva capitare che avessi dimenticato il nome, dato che "Lydia" somigliava molto al suo.
«No, affatto...» poi Linda alzò gli occhi su Atsumu, il quale ci stava osservando tranquillamente. «Oh, è il tuo fidanzato?» Linda aveva due scintille al posto degli occhi. Sembrava che Atsumu l'avesse incatenata con la sua bellezza. Del resto, aveva questo effetto su tutte loro.
La conversazione stava diventando abbastanza accesa. Potevo notare le occhiate pungenti del mio ex che, in tutta calma e compostezza, ci stava ascoltando con le mani in tasca e la mascella serrata.
«Sì, lui è...»
«Miya Atsumu, molto piacere» si presentò con un grande sorriso, mantenendosi nel raggio d'azione. Lo guardai e sorrisi, poi portai l'attenzione su loro due: il pessimista e la ragazza che sorrideva per mascherare il suo disagio.
«Molto lieta» chinò la testa e si guardò attorno. «Vi abbiamo disturbato al vostro appuntamento?»
«Affatto. Sono appena arrivato a Tokyo e Kaori ha voluto fermarsi qui per mangiare qualcosa» ribatté Atsumu, il quale mi circondò le spalle con il suo braccio. «Se vi fermate a mangiare vi consiglio il Crema Anmitsu: è un gelato con pasta di fagioli rossi giapponesi, gnocchi di riso e frutta. Davvero buono» poi mi guardò, cercandovi la mia soddisfazione che gli diedi.
In realtà, non sapevo se lo facevo più per ripicca nei confronti di Keiji, rimasto in silenzio per tutta la durata della conversazione, oppure perché ci tenevo davvero ad apparire agli occhi degli altri nel ruolo di coppia dell'anno. Come avevo già ribadito, volevo bene ad Atsumu, eppure, trovandomi così vicina e affiatata al suo fianco, mi era impossibile sentire le famose farfalle allo stomaco.
«Non avevo dubbi. Kaori amava questo posto da adolescente» Cominciò Keiji, smorzando l'aria che era diventata tesa come una corda di violino. Il sorriso svanì gradualmente dalle mie labbra e puntai i miei occhi nei suoi, disposta a rubargli l'energia vitale.
Lo odiavo. Odiavo il modo in cui mi conosceva così bene, in quale posto preferivo eccedere con i dolci e quanto odiassi il salato con il dolce. Perché sì, ero dell'idea che il dolce e il salato non dovessero essere mescolati, soprattutto perché mi provocavano effetti collaterali mai visti prima. Keiji lo sapeva. Lo sapeva bene.
Aveva imparato a cucinare per consentirmi di svolgere gli allenamenti preparatori alle gare. Aveva imparato a occuparsi della casa, delle faccende domestiche e a pagare le bollette. Vivevamo insieme, per decisione personale, ma ero consapevole che lui volesse sposarmi. Voleva che, a conti fatti, avessimo per sempre qualcosa in comune: il cognome. All'epoca, ero talmente presa dall'ansia - e per di più con un anno di depressione post-partum - che avevo il terrore di fare il salto mortale. Allora non sarei più stata Ukai Kaori, ma solo... la moglie di Akaashi Keiji.
Mi ero posta tante domande, tra cui principalmente una: Cosa avrebbe detto la gente di me?
L'intervento di Keiji lasciò tutti noi senza fiato. Non riuscivo nemmeno a sentire i rumori del traffico, il fruscio del vento e il pianto di un bambino in una carrozzina dall'altra parte della strada. L'udito era ovattato e mi sembrava di essere appesa a un filo, sprofondando nell'oscurità dell'oblio. Atsumu disse qualcosa, Linda rispose con un risolino e Keiji, lui, aveva gli occhi puntati su di me.
Sembrava capire lo stato di confusione in cui mi aveva colta. Sembrava che sentisse le vibrazioni del mio cuore che pulsavano sangue, un sangue nero che somigliava al bitume. Più di ogni altro notò la mia anima macchiata di impurità e di dolore, di risentimento e di pietà. Mi vedeva. Riusciva a riconoscermi tra tanta gente. Aveva imparato a conoscere le mie reazioni, i miei sorrisi finti e quelli veri, gli occhi che brillavano per l'emozione e il pianto incontrollato.
Perché... perché abbiamo dovuto perderci in questo modo? Di chi era stata la colpa? Chi era il nemico della nostra relazione?
«Perché non venite a cena da noi stasera? Ci conosciamo meglio. In fondo, Atsumu e io siamo dei punti di riferimento per Yuki, no?» Linda guardò me e Keiji, sorridendoci. Atsumu mi teneva tra le braccia e lo sentii mormorare un: «Grandioso. Porteremo il vino. Quale preferite? Bianco o rosso?», mentre il volto di Keiji prese a colorarsi di varie emozioni che le mascherò talmente bene che Linda non notò il suo malumore.
«Sì, gran bella idea...» replicò, riflessivo e rigido quanto un blocco di ghiaccio.
Non replicai. Mi limitai ad un sorriso strappato.
Ma no. Non era assolutamente una buona idea.
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