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[𝖤𝗑𝗍𝗋𝖺] 𝖠𝗈𝖻𝖺 𝖩𝗈𝗁𝗌𝖺𝗂.


Nutrivo un gran rispetto per l'Aoba Johsai, quanto la persona che ci metteva anima e corpo come allenatore: Nobuteru Irihata.
Poneva estrema fiducia nella sua squadra ed era piuttosto rilassato come cinquantenne, a differenza di Mizoguchi, un giovane trentenne che si lasciava prendere subito dall'adrenalina furiosa durante le partire e gli allenamenti.
Mi rendeva quieta parlare con il coach Nobuteru. Mi trattava come se appartenessi all'Aoba Johsai e mi spronava continuamente a dare il meglio di me e invitarmi agli allenamenti dei ragazzi. Gli piacevo e lui piaceva me. E raramente gli adulti, pieni di regole e lezioni di vita, mi piacevano.

Il portone pesante della palestra si chiuse fortemente alle mie spalle. In quell'enorme spazio si sentivano gli stridono delle scarpe strusciare sul parquet, le grida dei ragazzi che si incitavano ai complimenti e ai passaggi di palla, e infine, l'odore inconfondibile del cuoio dei palloni e quello sgradevole delle magliette sintetiche.

Chiusi gli occhi.

Per molti, l'odore irrespirabile quando si entrava in una palestra diventava schiavo del proprio stomaco, trovandosi ad abbracciare la tazza del water ancor prima di iniziare una vera e propria competizione.
Da quando avevo memoria, non mi era mai importata dell'odore cattivo che inebriava nella palestra o nello spogliatoio.

Per me, tutto questo, era l'odore dello sport.

L'aria negli spogliatoi prima dell'inizio di una gara o di una partita, era irrespirabile; concentrazione, ansia, a volte paura: un mix di odori, emozioni e di sensazioni.

Lo sport odorava di emozioni nuove. Specialmente se il medesimo sport ti dava la forza di dare tutto te stesso. Era l'emozione della finale della Coppa del Mondo, alla finale di Eurolega, o la finale in un'Olimpiade o in un campionato del mondo, oppure alla partitella del sabato pomeriggio tra amici, o anche una gara non competitiva come l'allenamento... Non iniziavano quando l'arbitro fischiava, ma quando ci si trovava nello spogliatoio, da soli o con la squadra, permettendo di trovare la concentrazione prima del famosissimo via.

Sbattei lentamente le palpebre.

Avevo sei anni quando per la prima volta misi piede in palestra. Prima mi accontentavo del campo all'aperto di mio nonno, il quale mi aveva insegnato le basi che c'erano da sapere sulla pallavolo. A lui piaceva che mi allenassi con ragazzi e ragazze più grandi di me, diceva che avrei fatto le ossa e che, essendo uno sport basato sull'altezza, avrei incontrato sul mio cammino molte persone più capaci, determinate e alte della sottoscritta.

A me non aveva mai fatto paura l'altezza dell'avversario. Che era un metro e settanta o due metri, non mi importava. Perché anche se delle braccia lunghe potevano murarti la schiacciata, anche se delle gambe facevano la differenza saltando più in alto, anche se avevano queste determinate cose da definirli veri pallavolisti, a me non mi era mai fregato.

Mi bastava saltare un secondo in anticipo o inverso per toccare la palla. Muravo a condizioni della concentrazione del mio avversario, facendogli un muro a lettura. I miei servizi per battere partivano oltre alla seconda linea del campo, proprio perché a differenza di chi fosse più alto di me, aveva la possibilità di prendere la rincorsa dal punto stabilito.

Avevo il mio modo strano nel giocare a pallavolo. Non avevo mai pensato che quel primo allenamento, avrebbe cambiato tutto.

In poco tempo ero stata completamente risucchiata dal mondo che stavo pian piano scoprendo e la passione per la pallavolo si era fatta più forte anno dopo anno, campionato dopo campionato.

Anche dopo l'infortunio.

Strinsi le mani in due pugni.

Volevo continuare a giocare. Volevo giocare. Buttarmi in campo, toccare la palla, difenderla, murarla, schiacciarla... Io volevo continuare a giocare fino a quando le gambe mi permettevano di correre, fino all'ultima goccia di sudore e sangue, fino a quando il cuore pompava sangue trasformandosi in adrenalina. Io volevo. Volevo, volevo e volevo, soltanto

«Kaori» i miei occhi schizzarono in alto e le mani si allascarono dalla stretta. Lo schiamazzo della palestra divenne di nuovo udibile alle orecchie e le scarpe che battevano sul pavimento più vicine. «È una sorpresa vederti qui... Come stai?» Il coach Nobuteru mi regalò un gran sorriso, mentre il suo sguardo scese sulle mie gambe, soffermandosi sul tutore che avvolgeva la coscia.

«Bene...» La stampella a cui facevo affidamento da diverso tempo mi tenne in sospesa. Mi guardai attorno. «C'è molta gente oggi, forse sarei dovuta passare un altro–»

«Non dirlo neanche per scherzo, Kaori...» sussultai sul posto quando mi interruppe e mi regalò un sorriso di scuse per la pesantezza del suo tono di voce. «...C'è un'amichevole. I ragazzi si stanno riscaldando prima della partita. Vuoi salutarli?»

Abbassai gli occhi sulle punte delle mie scarpe. «No... Cioè, – ridacchiai nervosamente – non mi sembra il caso. Mi siederò da qualche parte sugli appalti, non voglio creare disturbo alla squadra...» il coach mi guardò stranito. «Forse... – mi schiarii la gola – forse lo farò dopo.»

Ad un tratto, l'espressione del coach mi allarmò. «Capisco...» sospirò. «Kaori. So che tu e Oikawa non state più insieme, se è per questo non devi preoccuparti... – scossi il capo – Sei sempre la benvenuta qui. Perciò, non devi–»

«No. No, non è per quello...»

Sapevo che la rottura mia e di Tooru sarebbe arrivata alle orecchie del coach, ma non mi preoccupava di sedermi in prima fila o salutare i ragazzi per questo. Era solo...

«Ti piace quello che vedi?» Mi morsi il labbro provocatoria, inclinando il capo di lato e lasciar che una ciocca corvina dei miei capelli, andasse a finire davanti al mio viso.

Iwaizumi inghiottì a vuoto e annuì ammaliato, «Oh! Non ne hai idea».

Afferrò i due seni nei suoi palmi callosi, palpandoli con foga e strizzarli, facendomi scappare forti e acuti ansimi. Scese con la bocca, fino ad imprigionare un capezzolo turgido e roseo tra le labbra, mordendolo e succhiandolo avidamente. Gemetti a quella sensazione paradisiaca.

«Hajime...» Ansimai il suo nome, inarcando la schiena ed evidenziai di più la rotondità dei seni: Iwaizumi intrecciò un braccio attorno al mio busto sottile per reggermi, pressando i polpastrelli sulle costole, continuando a lavorare con la sua bocca insaziabile.

Il fischio dell'arbitro mi destò dai miei pensieri e guardai intontita il coach che alzò un sopracciglio confuso verso di me e si voltò in direzione dei giocatori, urlando di mettersi in fila per il saluto di iniziazione. Mi portai una ciocca di capelli dietro all'orecchio e spostai lo sguardo sugli appalti che si trovavano al primo piano della palestra, donando agli spettatori una vista di trecentosessanta gradi per seguire la partita.

Sospirai. Sarebbe stato una grande sfida salire e occuparvi almeno un posto.

«Sei infortunata. Sicura che riesci a salire le scale? Puoi sempre tenermi compagnia mentre Mizoguchi tiene d'occhio i ragazzi e il proseguimento della partita...»

«Non è un problema, coach» sorrisi. «Ce la faccio. Sono solo delle scale, che vuole che sia?» Volevo mostrarmi forte e risoluta, ma non avrei mai pensato che proprio la mia risolutezza mi si sarebbe ritorta contro quel giorno.



Al terzo set vinto di fila, l'Aoba Johsai dichiarò conclusa – almeno per quel giorno – la fine dell'amichevole. I ragazzi, visti da quella lontananza, erano entusiasti e felici di essersi portati una vittoria in casa e confidenziale. Un leggero sorriso curvò le mie labbra, ma allentò subito dopo quando un trio di civette in calore si aggrapparono alla ringhiera dell'appalto A in cui mi trovavo e urlarono il nome di Oikawa.

Mi schiarii la gola silenziosamente. Volevo evitare che la saliva mi andasse di traverso. Avevo fatto l'impossibile per non dare nell'occhio, ma le ragazzine al mio fianco non mi permettevano di passare inosservata.

Silenziosa come un ninja, mi alzai dal mio posto e afferrai la stampella, mettendomela sotto braccio. Gli strilli delle ragazze mi ruppero i timpani e la voce di Oikawa che le salutava felice e affamato di nuove prede rimbombò nei miei timpani; per fortuna che ero girata di spalle, sennò gli avrei tirato addosso la stampella per quanto fosse vomitevole.

«Kaori-chan?» Mi freddai sul posto e gli occhi per poco non mi uscirono fuori dalle orbite. «Sì, sei Kaori-chan! Riconoscerei le tue gambe anche al buio, Kaori-chan!» Urlò Watari, il libero della squadra. Guardai con la coda dell'occhio il pelato in questione che mi salutava al centro del campo con un gran sorriso.

Lo schiamazzo delle oche cessò e sentivo solo quelle tipe mormorare qualcosa del tipo: «Chi è quella?», «La conosci?», «No, e tu?», «È di un altro liceo... che ci fa qui?», «Non ho idea. Sarà la sorellina di qualcuno della squadra? Magra com'è...» Alzai gli occhi al cielo.

Per loro ero magra, peccato che per Yagami-san e la coach Tamiako ero una balenottera azzurra che non faceva altro che mangiare, mangiare e mangiare dolciumi fino a svenire. Dovevo seguire una dieta ferrea, visto che non potevo allenarmi per colpa dell'infortunio, ma l'unica cosa che avevo fatto era solo di attaccare il foglio sulla tabella delle cose che farò domani e leggere le raccomandazioni scritte a caratteri cubitali mentre sgranocchiavo una barretta ipercalorica al cioccolato.

Sì, ero magra.

Mi girai lentamente con il busto e incontrai gli occhi di Watari che mi stavano già fissando e poi il restante della squadra che, nonostante fossero impegnati ad asciugarsi il sudore, bere e cambiarsi la maglia, erano concentrati su di me. Alzai una mano timidamente e salutai con un movimento di dita.

Ero pronta a dire: «Gran bella partita, ragazzi. Ci vediamo!» e svignarmela, ma Shigeru gridò: «Scendi giù, Kaori-chan. Vogliamo salutarti!» seguito dai ragazzi che gli fecero il filo, incoraggiandolo.

Ingoiai il groppo in gola e oscillai velocemente lo sguardo verso il basso, giù dalle tribune. Oikawa con mia grande sorpresa, aveva un'espressione indecifrabile sul volto, la stessa di chi provava un grande pentimento. Invece, chi mi interessava maggiormente, si trovava alla destra del capitano che si tamponava la fronte con l'asciugamano. Non era felice, ma neanche arrabbiato né altamente deluso. Era come impenetrabile.

Mi fissava come voler dire: "Abbiamo un conto in sospeso. Io e te."


«Vuoi capirlo che mi piaci? Per Dio! Mi piaci, cazzo. Mi piaci tantissimo...», mi strinsi nelle spalle e distolsi lo sguardo dal suo.

«Come fai a dire una cosa del genere?» borbottai. «Come puoi realmente dirlo?» lo guardai con gli occhi lucidi. «Io... non posso. Non ce la faccio.» Dissi sottovoce.

«Kaori...»

«Ti prego...», cercò di raggiungermi ma feci un passo all'indietro, arrestando i suoi passi con una mano in avanti, mettendo distanza tra noi. «Vattene!»

«Ciao ragazzi...» salutai, una volta arrivata giù con le mie sole forze e venir accerchiata dai ragazzi. Alcuni ricambiarono il mio saluto con un abbraccio, altri con una scompigliata di capelli... Sorrisi, sistemandomi la frangetta che mi solleticò le palpebre.

Parlammo più del meno in quei dieci minuti interminabili. Alle volte arricciavo il naso per l'odore puzzolente che emanavano le loro divise e li sfottevo per alleggerire la tensione che, in cuor mio, sentivo. Iwaizumi si era preoccupato di aiutare alcuni primini del primo anno a raccattare le palle, quindi, una buona scusa per potersi allontanare. Oikawa invece, se n'era rimasto seduto lì, sulla panca, a fissarci senza dire o fare nulla. Non ci provò neanche lontanamente ad immischiarsi nel discorso mio e dei ragazzi neanche quando Matsukawa lo prese in giro per quante ragazze gli si filassero dietro e invece l'unica dote che avesse era la sua bravura nella pallavolo.

Evitai di ridere, portandomi una mano davanti alle labbra. Non ero una stronza, né una che sputava nel piatto dove aveva mangiato. Oikawa era uno stronzo narcisista, ma la pallavolo non era la sua unica dote. Lui era intelligente. Forse uno dei ragazzi più intelligenti che avessi mai incontrato. Sapeva capirmi e ciò mi era sempre bastato. Mi ero innamorata di lui perché era semplice, buono e non superficiale... Eppure guardandolo in quel momento, sentivo la mia vocina interiore che urlava: "Non ci hai visto bene, cara mia. Lui è il Grande Re dei sempliciotti!"

«Ti va di venire a mangiare con noi? Offre Oikawa!» esordii Takahiro posandomi una mano sulla spalla.

Alzai gli occhi su di lui. «Mhm? Oh! No. No, grazie... per l'invito» all'inizio non capii, ma quando mi resi conto che sarei dovuta restare tutto il giorno sotto alla vista di quei due iniziai ad agitarmi. Gesticolai le mani in avanti timidamente. «È gentile da parte vostra , – continuai – ma devo tornare a casa. L'ultimo autobus della mattinata passa tra mezz'ora e non voglio perderlo..»

«Che problema c'è?» si intromise Watari. «Ti accompagniamo noi a casa, Kaori-chan!» proseguii Shigeru, circondandomi il collo con il braccio.

Avvampai per quella stretta vicinanza dei nostri corpi. Non mi ero ancora ripresa della serata con Iwaizumi.

Poi, inaspettatamente, non sentii più la terra sotto ai piedi e il braccio di Shigeru stringermi a sé; spostai lo sguardo e due pagliuzze del color del cioccolato mi fissavano intensamente e aggressivamente. «Avete finito?» rimproverò i ragazzi, i quali si ammutolirono seduta stante. Abbassai gli occhi sul suo braccio che mi stringeva il busto e sentii la sensazione di voler sprofondare nel suo petto ma dovetti trattenere quell'impulso. Oikawa era inquietante quando si arrabbiava. Dopotutto, succedeva raramente, dato che la maggior parte delle volte si preoccupava di indossare la sua maschera da stratega innato a cui piaceva regalare sorrisi falsi e di circostanza. Incuteva terrore.

«...Ti fa male?» Ultimamente mi perdevo spesso nei miei pensieri da non concentrarmi su cosa dicevano gli altri. Alzai di scatto la testa e non l'avessi mai fatto; era così vicino alla mia faccia che vidi una leggera sfumatura rosa colorargli le gote e il broncio sul suo viso dissolversi.

«C-Cosa?» Sbattei ripetutamente le palpebre e mi guardai attorno. Mi indicò la gamba e aggrottai la fronte quando mi resi conto di quanta facilità gli avessi concesso di avvicinarsi. Neanche sentivo più il dolore alla gamba per essere rimasta troppo tempo alzata. «Cazzo Tooru, lasciami!» sbottai e lo spintonai quel poco da allontanarlo. Mi guardò stupito e forse anche imbarazzato per la mia improvvisa reazione.

Mi mordicchiai nervosamente il labbro e scossi il capo. Non riuscivo a stargli lontano, ma neanche vicino. Lo odiavo e lo amavo. Lo disprezzavo e lo stimavo. Il mio antidoto e il mio veleno.

Senza o non.
Tutto o niente.



Che mal di testa, pensai una volta uscita dai cancelli dell'Aoba Johsai e aspettavo accanto alla fermata del bus. Mi massaggiai il collo, punzecchiai le tempie con le dita come se avessi potuto attenuare il dolore che mi provocava l'emicrania. Ma niente. Non c'era verso di fermare quelle spille pungenti.

Controllai l'orologio che avevo sul polso e una volta essermi accettata che mancavano quindici minuti all'arrivo del bus, allentai il nodo della cravatta e sbottonai i primi due bottoni della camicetta. Mi sedetti sulla panchina e appoggiai la stampella che, bene o male, mi serviva per camminare.

Insomma, avrei potuto anche farne a meno dato che ero capace di reggermi in piedi, ma Yagami-san mi aveva consigliato di portarmela dietro come un giocattolo e testarda com'ero, potevo farmi tutta la prefettura di Miyagi a piedi per orgoglio personale, pur di non chiamare mio fratello.

Lui non lo sapeva del perché fossi lì e se lo avesse saputo me lo sarei dovuto subire fino alla fine dei miei giorni con le sue domande asfissianti: Perché? Come? Quando? Dove? Chi? Mi auguravo che prima o poi si sarebbe trovato una donna a cui rompere le palle.

Sfilai dalla tasca della gonna il cellulare e lo sbloccai, controllando le notifiche che avevo lasciato in sospeso, finché non avvertii una presenza sedersi al mio fianco. Non ci feci caso, dato che la panchina era pubblica, così continuai a messaggiare con il mio smartphone.

«Ti sta bene la divisa del tuo liceo...» lo sconosciuto che, tanto sconosciuto non era, parlò e sbarrai gli occhi. Girai la testa e Iwaizumi era proprio lì, di fronte alla sottoscritta.

«Come, prego?» Alzai un sopracciglio. Che ci faceva lì? Guardandolo meglio, aveva ancora le chiazze di sudore sulla maglia e la fronte imperlata. Non aveva fatto la doccia ed era uscito velocemente per raggiungermi? Capii subito del perché stesse aiutando i primini in palestra.

Sorrise impacciato. «Quello che ho detto...» disse e si appoggiò di schiena alla panchina. «Non ti ho notata fino al secondo time out... – mi lanciò un'occhiata veloce – Come mai sei venuta?»

Mi bagnai velocemente le labbra e posai il telefono sulle gambe. «Mi annoiavo...» feci la vaga con una scrollata di spalle.

Iwaizumi però, non credette ad una mia singola parola. «E non ti mancavamo?»

Alzai gli occhi al cielo. «Forse...» sorrisi tra me e me. «Mi mancavano gli altri... Tu no. Neanche un po'» lo guardai accigliata.

«Già, dovevo immaginarlo...» incrociò le braccia al petto. «Ma tu cacci sempre di casa la gente come hai fatto l'ultima volta con me?»

«A volte le prendo anche a calci. O schiaffi. Dipende. Sei stato fortunato» stirai un sorriso.

Impressionante come volesse parlare di quel giorno mentre aspettavamo alla fermata dell'autobus. Sperai che nessuno dei componenti della squadra passasse di lì.

«Fortunato...» masticò nervosamente una risatina, replicando tra sé e sé. «Anche dopo che te l'ho messo dentro e mi hai urlato di conti–» Il sangue mi arrivò di scatto al cervello e lo afferrai per il colletto della maglia, avvicinandolo al mio volto. Iwaizumi non si scompose, come se avesse prevenuto quel tipo di reazione.

Mi guardai attorno sospettosa e poi ritornai su di lui. «Che cazzo urli? Ti è dato di volta il cervello, Iwaizumi?» gli ringhiai contro, un centimetro dal viso.

«Vuoi negare che non è stato bello, Kaori?» il suo tono rauco mi ricordò il calore di quella sera, facendomi rabbrividire. Deglutii e pressai le labbra, conficcando le unghie nel tessuto sgualcito della maglietta termica. «...Te l'avrò detto anche quella sera, ma tu mi piaci. Mi piaci davvero tanto» avvertii una sensazione fredda solleticarmi l'interno coscia, poco sotto la gonna e quando abbassai gli occhi per controllare, vidi le dita del ragazzo accarezzarmi la pelle delicatamente come se mi temesse.  «Lo so, la tua testolina starà pensando che è stato uno sbaglio: la fidanzata del mio migliore amico...» mormorò amaramente, abbassando gli occhi sulla sua mano.

Trattenni il respiro.

«Sai qual è stato lo sbaglio, invece?» disse dopo una breve pausa di riflessione. Ci guardammo nello stesso preciso istante e notai con quanta amarezza me lo stesse dicendo. «È che mi sono innamorato di te nello stesso istante in cui l'ha fatto lui. – le sue dita tremavano contro la mia pelle – E... sono stato uno stupido se pensavo che, per una volta, avrei avuto qualcosa che lui non aveva...»

«Hajime...» sussurrai esasperata. Era inutile dirmelo o ricordarmi che lui sarebbe stato migliore di Oikawa. Non l'avrei mai scoperto perché era il suo migliore amico e il senso di colpa di fargli un torto del genere mi spezzava il cuore.

Essere andata a letto con lui fu soltanto uno sbaglio.

«...Te» proseguii. «Solo ed esclusivamente te.»

Abbassai lo sguardo colpevole per altre miliardi di volte. Il mezzo a cui avevo fatto affidamento fino a poco fa si fermò davanti alla fermata. Sospirai e gli spostai la mano dalla mia gamba, per poi alzarmi. Prima di salire sul bus e andarmene, mi voltai a guardarlo per un'ultima volta.

«Non posso...» scossi il capo debolmente. «Mi dispiace» con le lacrime agli occhi salii e le porte si chiusero nell'esatto momento in cui Iwaizumi si alzò di scatto e il mezzo partii... Verso casa.

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