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Durante il tragitto verso casa, ragazzi si addormentarono in un batter d'occhio, nemmeno il tempo di mettere piede all'interno dell'autobus che tutti erano già crollati tra le braccia di Morfeo.

Persino Kyoko era così stanca che si era appisolata con la testa al finestrino: possibile che fosse così bella anche in quelle condizioni scomode? Se mi fossi addormentata io, in quella maniera, avrei sbavato sulla spalla del mio compagno di sedile, Sugawara, per tutto il tempo.

Gli unici che avevano gli occhi aperti erano, Takeda-sensei che si trovava alla guida del mezzo e Keishin seduto ai primi posti con l'attenzione rivolta al paesaggio dalle mille sfumature arancioni e rosse, fuori al finestrino.

Il sole stava calando, dando l'occasione alla notte di rinfrescare quell'aria primaverile, dal tempore caldo e secco. Quella sensazione piacevole, al solo pensiero, mi fece stringere nelle spalle.

Mi alzai dal mio posto a sedere silenziosamente, facendo attenzione a non svegliare Sugawara che stava russando rumorosamente, come il restante.

Kageyama e Hinata per esempio, sembravano di star combattendo una guerra con il loro peggior nemico in sogno, borbottando frasi sconnesse fra loro e storcere la bocca in smorfie strane. Erano divertenti per chi li vedeva da fuori, ma qualcosa mi diceva che -per loro due- era una sfida altamente importante che entrava di mezzo la vita e la morte.

Almeno, non battibeccavano tra loro in quelle condizioni.

Raggiunsi il sedile libero accanto a mio fratello, il quale non mi guardò neppure, ma si rese conto dell'aura pesante e dello sguardo fisso insistentemente della sottoscritta.

«Mi guarderai in quel modo inquietante per tutta la durata del viaggio?» Chiese, storcendo il naso, con il mento posato sul pugno della mano.

Alzai le spalle e le riabbassai, coprendomi i polsi dalle maniche della vecchia giacchetta della mia squadra di pallavolo: grigia e giallo ocra. «Ti dispiace?» Risposi retorica, sollevando un sopracciglio, rilassando poi la schiena contro il sedile.

Lo sentì sospirare profondamente, il quale schiuse leggermente le labbra sottili. «È successo qualcosa?»

Strinsi le labbra in una linea sottile e gli lanciai un'occhiata veloce, guardando poi avanti. «È stata una giornata... impegnativa», replicai semplicemente e portai le braccia in alto, sgranchendole, intrecciandole dietro alla nuca per appoggio.

«Impegnativa?» ripetette.

«Sì, esatto», annuì, «impegnativa.»

«Kaori», mi riprese con tono piatto. «Spiegami il contenuto di giornata impegnativa cosa significhi realmente per te», destò l'attenzione al paesaggio, puntando le sue pozze ambra, così simile alle mie, sul profilo del mio viso: le sentì bruciare su ogni linea marcata della mia pelle.

«Non riesco a capire i tuoi giochi di parole», gesticolò le mani sconcertato, tenendo però un tono calmo e comprensivo, «così non mi aiuti a capirti: hai un brutto vizio

«Il mio vizio è quello di buttarmi alla cieca su ogni cosa e persona», ribattei con tono duro, «credevo di avere tutto sotto controllo, ma ancora una volta...», passai la lingua sul labbro inferiore e ricambiai il suo sguardo, rendendo i miei occhi più grandi e voluminosi. «Avevi ragione», schioccai la lingua sotto al palato infastidita e scossi il capo piano, sussurrando flebilmente: «è fastidioso.»

Keishin mi guardò attentamente, analizzando ogni particolarità che poteva scovare nel mio sguardo, rispondendo: «È quello che credo?» Sembrò più una domanda rivolta a se stesso, come se avesse riflettuto ad alta voce e le parole gli fossero uscite involontariamente dalla bocca.

Ci sono casi in cui la ragione o il torto sono quasi inequivocabilmente da una parte, ma sono rari. I motivi si confondono, i torti e le ragioni si incrociano di continuo.

In genere chi sa di avere torto, non ti perdona di avere ragione.

«Vuoi che ti dica: "grazie fratellone, mi avevi avvertito e avevi ragione?"» Canzonai con una finta nota sarcastica, sorridendo amaramente.

«Kaori...», gli occhi di Keishin si addolcirono, ma continuai, ignorando beatamente che Takeda-sensei potesse sentire il nostro discorso.

Ormai, bene o male, sarebbe diventata di dominio pubblico. Non mi dispiaceva sfogarmi con due adulti, anche se Keishin era ancora sulla soglia dell'uomo alias ragazzino alle prime armi; Takeda-sensei sarebbe stato più realista.

«...Quando scopri che la persona di cui ti fidi di più al mondo, dopo averle raccontato ogni tuo segreto, averle dato l'occasione di migliorarsi e avere progetti per un futuro insieme, e lei anziché farti sentire speciale e ricambiare il favore, ti butta giù... tradendoti», sibilai disgustata l'ultima parola, dando voce ai miei lamenti mentali. «Credevo di conoscerlo...», sentì una sensazione fastidiosa rigarmi la guancia, attirando l'attenzione degli occhi di Keishin su quel punto, «credevo di potermi fidare...», sorrisi debolmente, scacciando la lacrima con i polpastrelli e sfregarli uno contro all'altro, arricchendomi della sensazione salata sulle dita. «Ma si vede che... ci ho creduto troppo.»

Mi strinsi nelle spalle, irrigidendomi, come quando aspetti consapevolmente una di quelle strigliate da parte del proprio genitore dopo aver combinato una marachella.

«Aspetto impaziente che tu mi dica: te l'avevo detto...», mi morsi l'interno guancia, abbassando gli occhi sulle mie dita che giocherellavano con un filo sottile della felpa, «Perché nonostante ciò, mi sono resa conto in quell'istante di essere stata ingenua e... superficiale», «Scusami, Shin

Sussidiò un religioso silenzio dopo le mie parole, dal quale sentendomi una formica in mezzo a due giganti, alzai il capo e guardai Takeda-sensei sorridermi calorosamente attraverso lo specchietto centrale, alternando lo sguardo da me a Keishin.

Curiosa di vedere l'espressione di mio fratello, non ebbi neanche il tempo di richiamarlo che, mi sentì stringere in due braccia forti e robuste: posò la mano nei miei capelli, accarezzandoli, e l'altra mi strinse le spalle, per paura che potessi scappare o allontanarmi da un momento all'altro.

Da quant'è che non sentivo il suo odore di bagnoschiuma al miele?

I miei occhi ambrati e limpidi, divennero leggermente più sgranati dallo stupore e la mia bocca si schiuse al contatto del tessuto della sua maglietta sportiva nera.

Non era da copione che io e mio fratello ci abbracciassimo, in realtà non ricordo nemmeno di averlo mai fatto una volta cresciuta: da bambini eravamo spensierati, felici, il vecchio non ci faceva mai mancare nulla ed io trovavo sempre un pretesto per ricevere le attenzioni da mio fratello.

Lui non era un campione nella pallavolo, ma trovava sempre il tempo per fare due palleggi con me che si trasformavano in ore o persino in giornate intere.

Mi diceva: «Sai, Ori? Diventerai il miglior asso femminile della storia ed io sarò in prima fila quando farai le tue miracolose schiacciate.» Lo diceva con così tanta convinzione che, al ricordarlo, faceva venire la pelle d'oca.

In quel momento, mi fece capire quanto fosse importante il suo sostegno: una persona che non mi avrebbe mai tradito, né deluso, né deriso.

Anche se non eravamo gemelli, se stavo male, Keishin si incupiva; se ero felice, il sorriso di Keishin diventava luminoso quanto il sole; se le persone mi deludevano, Keishin era il primo a farsi passare per pazzo pur di sollevarmi su il morale.

A stare tra sorelle e fratelli si poteva continuare a essere bambini in eterno.

«Stupida», bofonchiò. «sei solo una stupida».

Sorrisi a quelle parole, affondando il viso nel suo petto, inebriandomi nell'annusare il suo profumo. Da quant'era che non stavo così bene nelle braccia di qualcuno?

«Non credevo che fossi così affettuoso.»

Vidi di sottecchi Takeda-sensei raccogliere una piccola lacrima all'angolo del suo occhio, continuando a prestare attenzione alla strada.

«Sta' zitta...», brontolò. «A casa ti preparo i mochi», confidò subito dopo, afferrando una ciocca dei miei capelli e girarsela attorno al dito, ritornando il solito e vecchio Keishin del tipo: se cascasse il mondo, resterei a guardarlo fuori dalla mia veranda.

"A casa ti preparo i mochi", fu il più bel "te l'avevo detto" di sempre.

Il giorno dopo, facemmo ritorno al palazzetto Sendai City Gymnasium. Avremmo dovuto scontrarci contro l'Aoba Johsai che aveva vinto contro ad una squadra che gli aveva dato filo da torcere fino all'ultimo. I ragazzi erano agitati e come si poteva dargli torto? Sarebbe stata la partita esecutiva per partecipare al torneo primaverile come prime squadre.

Restai in disparte a braccia conserte e le gambe leggermente divaricate, osservando i ragazzi fare riscaldamento. La tifoseria della squadra avversaria, era così chiassosa, specialmente le ragazze che chiamavano a gran voce il Grande Re.

Dal nervoso, afferrai dal taschino della giacchetta un lecca-lecca al gusto di ciliegia -uno dei miei preferiti- e scartai la carta con pura enfasi, riponendola nuovamente in tasca, mettendo infine la stecca di plastica in bocca e succhiarlo avidamente al mio interno.

C'era chi affogava la propria rabbia in sigarette e alcool, e poi c'ero io che mi affogavo nei dolciumi pieni di zucchero che avrebbero scaturito carie su carie ai miei poveri denti. Ma se bastava per tenermi saldamente buona, come l'anestetico per i cavalli sbizzarriti, allora non potevano causare così tanto male.

Era più salutare, no? Metaforicamente parlando.

Afferrai il bastoncino di plastica con l'indice e il pollice, arrotolandolo all'interno della mia bocca e soddisfarmi di quel sapore dolciastro e appiccicoso. Da bambina, facevo una scorta di lecca-lecca quasi tutti i giorni, dalla fragola a finire all'arancia: la maggior parte delle volte, -anzi sempre- mi appiccicavo le labbra, contornandole come uso lucida labbra, in base al gusto e al colore che sceglievo.

Ancora oggi, usavo quella strana tecnica che per molti poteva sembrare da squilibrati, mentre io la trovavo soddisfacente sia per il palato sia per l'estetica: meno lucida labbra più lecca-lecca; il miglior motto pubblicitario di sempre.

Se non avessi avuto altre ispirazioni nella vita, mi sarei data al commercio di tutto quello che comprendeva il dolce e lo zucchero. Sarei diventata ultra miliardaria.

«Oikawa-kun, sei il migliore! Forza, forza, Seijou!» Lo starnazzo delle oche continuò ad infastidirmi. Urlavano, sbraitavano per farsi notare dal più insignificante ragazzo della terra.

Non ero il tipo di persona che sputava nel piatto dove mangiava, anzi alle volte rimproveravo le persone che lo facevano, lo trovavo disgustoso e mancanza di educazione.

Il vecchio me lo diceva sempre: «Puoi inghiottire la tua saliva, ma cerca di non sputarla. Il nemico può capire quanto sei stanca dalla saliva che hai sputato. Inoltre, può anche capire quanto tempo fa sei stata in una certa zona, guardando la saliva che hai espulso dalla bocca. Quindi, non sputare mai in pubblico. È un'abitudine pericolosa, ed è anche un segno di pessima educazione.»

Ma in quel momento, volevo solo dimenticarmi della buona educazione di anni e anni importate dal vecchio e vomitare fino a quando non mi scoppiavano i bulbi oculari.

D'improvviso, immersa nei miei pensieri di quanto avrei voluto rimettere i mochi di Keishin sul pavimento lucido della palestra, la figura di Oikawa si avvicinò man mano nella mia direzione con un'espressione da cane bastonato e una luce di paura e preoccupazione negli occhi.

Ridussi lo sguardo in due spilli infuocati, girando la stecca di plastica nella mia bocca e inarcare un sopracciglio, quando me lo ritrovai davanti con lo sguardo abbassato sulla minima -ma infinita- distanza che divideva i nostri corpi.

Continuai a guardarlo, senza dire una parola. Anche se era strano da dirlo, dalla sera alla mattina, la presenza in sé per sé di Oikawa non mi faceva più niente. La notte, anziché piangermi addosso, riflettei sul fatto che meritavo di meglio e il meglio non era di certo lui.

Beh, anche i mochi di Keishin mi avevano aiutato a stare meglio.

«Ciao...», iniziò titubante, ma mi limitai a guardarlo senza rispondere al suo saluto e poi a che pro? «Ieri ho provato a chiamarti», era la prima volta che lo vidi così indifeso e intimorito.

«Ho visto», risposi secca, interrompendolo.

Oikawa inghiottì a vuoto, evidenziando il suo pomo d'Adamo. «Sì, ecco Kaori, io volevo...»

«Parlarmi?» Sorrisi amaramente, interrompendolo per una seconda volta. «Parlarmi per giustificare il fatto che tu mi abbia tradita?» Intimai, sfilandomi il lecca-lecca dalla bocca con un risucchio. Un gesto che non passò di certo inosservato.

Il ragazzo si prese il labbro inferiore fra i denti, il quale presentava un leggero spacco per il pugno ricevuto da Iwaizumi. «Io...», «Dannazione, Kaori! Mi deconcentri con la tua mania dei dolci!» sbottò in un sussurro, guardandosi attorno per controllare che nessuno ci stesse ascoltando od osservando.

«Strano, Tooru...», commentai incuriosita, «credevo che ciò ti distrasse era la perfetta bionda che ti stavi per scopare davanti ai miei occhi».

Tooru chiuse gli occhi, sospirando profondamente, «Ori, per favore»

«Non...» ringhiai, puntandogli l'indice ad un palmo dal viso con aria minacciosa, «azzardarti più a chiamarmi con il mio diminutivo, Oikawa, mi sono spiegata? Non ne hai più il diritto.» Replicai disprezzante, sottolineando avidamente il suo cognome.

Mi guardò stranito, colpevole di aver rovinato quello che c'era tra noi e dei progetti futuri che ci eravamo stabiliti. Non poteva più tornare indietro. Non mi rispose, limitandosi a fare peso su una gamba e poi sull'altra, tentennando come un disperato.

Dalle spalle larghe di Tooru, intravidi gli occhi di Iwaizumi fissarci incupito in volto e le mani strette in due pugni all'altezza dei fianchi. Riportai lo sguardo su Oikawa e feci schioccare la lingua sotto al palato, pronta per girare i tacchi e andarmene.

«È successo solo una volta...», disse d'un fiato. «Solo una, Kaori», mimò il numero uno con l'indice, guardandomi speranzoso. «Ho sbagliato, ne sono consapevole, ma non voglio che tu esca dalla mia vita...»

La vecchia Kaori avrebbe abboccato all'amo, cadendo nuovamente nella trappola del proprio carnefice e non dormire più sogni tranquilli. Ma la nuova Kaori, avrebbe alzato il dito medio e mandato al diavolo.

Se qualcuno ti fa male una volta è colpa sua, ma se te ne fa due, la colpa è tua.

«Non è più un problema mio, Oikawa.» Risposi cruda, perdendomi un'ultima volta nel guardarlo.

Forse alla fine, tra i due, quella che ci teneva di più ero solamente io.

Il fischio dell'arbitro mi portò alla realtà, dando così l'inizio del primo match contro l'Aoba Johsai. Mi strinsi nelle spalle e giocherellai con la stecca di plastica tra l'indice, il medio e il pollice.

«Tu, non sei più un problema mio», e me ne andai, chiudendo definitamente quella porta.

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