𝖷𝖷𝖷𝖨𝖨
𓅂
ϟ 𝐊𝐚𝐫𝐚𝐬𝐮𝐧𝐨.
«𝐹𝑖𝑛𝑐𝘩𝑒́ 𝑖𝑜 𝑠𝑎𝑟𝑜̀ 𝑞𝑢𝑖, 𝑡𝑢 𝑠𝑎𝑟𝑎𝑖 𝑖𝑙 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒.»
Quarto set. Entrambe le squadre erano a pareggio. Continuavo a torturarmi le pellicine, le mangiavo per una fame che difficilmente mi avrebbe saziata. Kageyama era stremato. Non era riuscito a difendere e alzare la palla. Non sapevo più dove guardare o cosa fare. Per qualche strana ragione, avevo bisogno di una pausa e meditare su una possibile strategia.
La cosa positiva in tutto ciò, erano riusciti a capire che Ushijima fosse mancino. I mancini nella pallavolo non erano rari, anzi, ma erano incredibilmente molto forti.
Il ruolo del capitano della Shiratorizawa era appunto lo schiacciatore opposto, o semplicemente opposto: era il terminale offensivo principale di una squadra attaccando sia in situazione di prima linea, sia in seconda linea.
Spesso il ruolo di opposto era ricoperto da giocatori mancini che prediligevano l'attacco dalla parte destra del campo. Ciò che esigeva il ruolo era che l'opposto doveva essere dotato fisicamente, possedendo una buona forza nel colpo d'attacco e avere un'elevata resistenza in quanto era chiamato in causa molto più degli altri giocatori. Doveva avere anche una buona elevazione.
Ushijima aveva tutti i requisiti giusti. Le sue schiacciate erano giuste, precise, veloci, coordinate. Insomma, un vero e proprio inferno per chi esercitava assieme a lui sul campo.
I miei allenamenti erano diversi e allo stesso tempo simili ai suoi. Io ero destra, quindi il mio ruolo di schiacciatore laterale o appunto anche detto, schiacciatore ricevitore, era uno dei ruoli più faticosi di tutti gli altri, poiché richiedeva al giocatore sia di ricevere -anche quando era in prima linea- che d'attaccare. Per questo era richiesta una buona dose di potenza e soprattutto resistenza.
Ora, capite il motivo del perché il dottor Yagami era così esigente sulla sua condizione di "dieta-senza-farsi-tentare-dal-cibo-spazzatura."
«Richiama un altro time out», suggerì a mio fratello, sentendo le dita bruciarmi al contatto dell'aria viziata della palestra.
«L'abbiamo già richiesto mezz'ora fa, Kaori», mi avvertì e portai l'attenzione sui cartelloni i quali venivano conteggiati i punti.
«Lo so, ma...», richiedere un altro time out il quale era stato annunciato dopo all'incredibile schiacciata di Ushijima, avrebbe causato problemi, se per puro caso, nell'ultimo set, la situazione avrebbe preso una cattiva piaga. «...ho bisogno di parlare con loro. Sono stremati psicologicamente e fisicamente. Devo... devo fare qualcosa, Shin...», farfugliai. «Lasciami parlare con loro.»
Keishin mi guardò a lungo, indeciso se prendere in considerazione le mie parole affrante oppure no, ma improvvisamente il suo istinto agì di pancia e si alzò, richiamando l'arbitro per chiedergli il penultimo time out della giornata.
Lui fischiò come risposta, accontentandoci. Sospirai sollevata e mi alzai dalla panchina, guardando i ragazzi venire verso di noi e accomodarsi, chi a terra e chi sulla panca, riposandosi e bere dalle borracce riempite e offerte da Kiyoko.
Mi misi di fronte a loro con i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi che oscillavano sulle figure esauste dei giocatori. «La posizione della difesa era ottima. Siete riusciti a dare la giusta copertura. Ma continua a non essere abbastanza...», sospirai e posai lo sguardo sul corvino che tenne lo sguardo abbassato. «Ce la fai, Kageyama?» Chiesi premurosa, portando le braccia conserte sotto al seno.
«Sì», sibilò. «Come sempre.»
«Il tuo ruolo è il fondamentale per la squadra. Perciò se stai per crollare, Sugawara può darti il cambio fin quando non avrai riacquisito le energie necessarie», e indicai con il pollice il ragazzo dai capelli grigi al mio fianco che gli sorrise, saltellando sul posto.
Kageyama alternò lo sguardo da me e Sugawara. «Non crollerò!» Esclamò con una determinazione negli occhi invidiabile.
Sorrisi comprensiva. «Lo immaginavo», poi guardai Tsukishima seduto accanto a Kageyama. «Tsukishima?» L'occhialuto alzò lo sguardo dalla sua borraccia, asciugandosi la fronte imperlata di goccioline di sudore con l'asciugamano avvolto intorno al collo.
Dall'ultima volta che parlammo -anzi discutemmo- durante il ritiro estivo, non avevamo più avuto modo di parlare delle nostre incomprensioni e chiarirci. C'eravamo evitati come la peste, ma non volevo portargli rancore fino alla morte.
Se bastava un qualcosa, qualsiasi cosa pur di far in modo che lui si fidasse di me, dovevo incalzarlo a dare il meglio di sé. Bastava una parola, un gesto e lui mi avrebbe capito con un solo sguardo. Ne ero sicura quanto era vero che mi chiamavo Ukai Kaori.
Alzò un sopracciglio nella sua solita espressione arrogante, aspettando che continuassi. «Muralo», e non c'era bisogno che facessi il nome del diretto interessato, lui strabuzzò gli occhi e capì subito a chi mi stessi riferendo. Mi bastò questo.
L'arbitro fischiò e i ragazzi tornarono in campo.
Dove un attimo prima ero seduta a torturarmi le pellicine delle unghie, in quel momento mi trovavo a dondolarmi sui miei talloni, facendo peso su una gamba e poi sull'altra. Ansiosa. Agitata. Nervosa.
Provavo così tante emozioni mischiate insieme che non potetti trattenermi nell'urlare quando vidi Tsukishima e Kageyama coordinarsi per murare la schiacciata di un altro giocatore.
«Forza ragazzi!» Gridai presa dall'euforia, slanciandomi su Sugawara e gli altri rimasti in panchina, esultando per il punto fatto.
Il vicepreside della Karasuno ci stava mettendo tutto l'impegno possibile nel dirigere la tifoseria del coro. «Forza, forza, Karasuno! Attacca, attacca, Karasuno!» Non potetti far a meno di canticchiare le parole a tempo, sbattendo i piedi ritmicamente sul pavimento di legno.
Ci spettò l'attacco e andò Kageyama dietro alla linea. Quando saltò e toccò la palla per mandarla nel campo avversario, riuscirono a difenderla e Nishinoya urlò un: «Chance ball!», mettendosi in posizione e alzarla con un bagher.
Il muro della Shiratorizawa composto da Tendo e il secondo asso della squadra, Goshiki, erano pronti a murarla. Hinata stridulò il piede contro il lucido del legno e corse, pronto per saltare ed eseguire la sua schiacciata veloce; Kageyama tornò sotto rete e come un fulmine, la alzò... corta.
«Per il Signore!» Strillai con gli occhi che mi uscirono fuori dalle orbite, mentre Hinata saltò e l'alzata corta di Kageyama si rivelò altroché un successore: il corpo del ragazzo stava andando verso destra, ma aveva usato la mano sinistra per fare un pallonetto.
«Hanno trasformato la sfortuna in fortuna, per così dire», commentò mio fratello con un ghigno divertito sulle labbra e sorrisi, scuotendo il capo incredula. Hinata era cresciuto, anche se aveva ancora molto da imparare, tipo: non farmi venire un infarto prima della fine della partita.
Diedi un'occhiata al campo avversario e vidi Ushijima raddrizzarsi con la schiena e imbronciare i lineamenti marcati del suo viso. Non c'era bisogno che qualcuno parlasse. Alzai entrambe le sopracciglia come per dirgli: "che ti aspettavi?" e mi morsi il labbro inferiore per reprimere un sorriso vittorioso. Avevamo vinto il quarto set.
Ma il ragazzo non sembrò della mia stessa idea, anzi. Mi fece il gesto con la mano di avvicinarmi, mentre si portò l'asciugamano attorno al collo e la boccuccia della borraccia alle labbra.
Grugnì mentalmente pensando cosa volesse e avanzai il passo nella sua direzione, passando sotto alla rete e udì Daichi e Tanaka che mi gridarono dove stessi andando. Li ignorai perché non lo sapevo neanche io.
«Sottovalutare i propri avversari prima di una partita è davvero da stronzi, lo sai?» Intonai sarcastica, una volta che mi ritrovai innanzi alla sua altezza. Ushijima si passò la lingua tra le labbra umide e sfilò di malo modo l'asciugamano attorno al collo.
«Pallonetto», esordì, ignorando le mie parole. Intrecciai le braccia al petto e alzai un sopracciglio, aspettando paziente che continuasse. «C'è il tuo zampino», mi accusò.
«Il mio zampino?», marcai il pronome e mi puntai un dito sul petto, additandomi. «Sai che la tecnica del pallonetto viene usata da chiunque?» Chiesi retorica. «Mi hai chiamata qui per questo? Per chiedermi se ci fosse il mio zampino su un pallonetto?» Ridacchiai nervosamente, aggrottando le sopracciglia. Ero allibita.
«Conosco la tecnica Kaori, e so per certo che non è facile come sembra. Specialmente per qualcuno -e indicò con un cenno di mento alle mie spalle, il quale mi fece capire a chi si stesse riferendo- ...che non supera neanche il metro e settanta.»
«Hai qualcosa contro le persone basse, Toshi?»
«Non chiamarmi con questo stupido diminutivo, Kaori», sibilò e mi guardò di traverso. Certe persone odiavano perdere al punto di prendersela con chiunque gli capitasse davanti.
«Non hai risposto alla mia domanda», ribadì allo stesso tono.
«Che succede qui? Soliti litigi d'amore, ragazzi?» Guardai dietro alla figura possente del ragazzo davanti a me e notai che la terza voce appartenesse proprio a Tendo, il migliore amico di Ushijima.
Mi squadrò con i suoi occhi cremisi aguzzi e larghi, dandogli l'aria di uno squilibrato bipolare. Ma ehi, aveva anche i suoi difetti.
«Ma che cavolo? No! Nessun litigo d'amore, Tendo. Non paragonare le nostre discussioni ad un litigio di fidanzati», ribattei esasperata.
Il ragazzo dai capelli rossi e folti mi sorrise maliziosamente. «Perché no? Sembrate una di quelle coppie sposate di cinquant'anni che a malapena si tollerano», punzecchiò divertito e si appoggiò a Ushijima con un braccio sulla sua spalla, intrecciando le caviglie.
«Tendo», lo richiamò, difatti, quest'ultimo.
«Che c'è? Dico solo che dovreste trovare un'alternativa alle vostre litigate. Per esempio, potete scopare –»
«Oh no, ti prego!», esclamai snervata e alzai gli occhi al cielo. Le orecchie stavano per insanguinarmi. «Me ne vado. Ho sentito abbastanza.»
«Okay, se non vuoi che il mio migliore amico sfiori il tuo fiorellino, che ne dici di me? Ti vado più che bene?» Guardai Tendo, poi Ushijima e ritornai nuovamente sul ragazzo dai capelli rossi che alzò e abbassò le sopracciglia ammiccando senza alcun pudore.
L'avevo detto sul serio? Aveva appena ammesso ad alta voce di voler fare sesso? La mia faccia divenne rossa dall'imbarazzo. Bordeaux. Fuoco puro.
Tuttavia, una volta e mai, le botte di culo arrivavano anche alla sottoscritta. L'arbitro fischiò dando inizio all'ultimo set della finale e per farci riprendere le nostre postazioni attuali.
Ringraziai mentalmente un santo qualunque che mi aveva appena salvato da un possibile strozzamento (se non si fosse capito, io ero quella che strozzava) –o si strozzava. Ma tralasciamo i dettagli da parte.
«Kaori!», nel mentre proseguì verso i miei compagni, la voce di Ushijima mi bloccò e voltai metà testa verso di lui. Il pazzo squilibrato del suo migliore amico ammiccò un sorriso, salutandomi con un cenno di mento. «Buona fortuna», mi augurò.
Non seppi se avrei dovuto prenderlo come un avvertimento o un amichevole e innocente augurio.
«Anche a te», risposi restando sulla difensiva e riprendere la mia camminata, senza aggiungere altro.
Quando oltrepassai il campo avversario, puntai gli occhi sugli appalti dove vi erano seduti gli spettatori, e non l'avessi mai fatto: Iwaiuzimi e Oikawa, seduti poco più lontani dalla tifoseria della scuola, seguirono con i loro occhi felini la mia figura che si muoveva piano e concisa verso la propria postazione. Era strano vederli assieme dopo tutto quello che era successo e mi chiesi perché fossero lì.
Trattenni per un secondo il respiro e non volendo che mi vedessero priva di difesa o il fatto di averli visti mi aveva spiazzata, distolsi lo sguardo sui ragazzi della Karasuno i quali mi sorrisero inconsciamente dal fatto che, mi avevano tranquillizzata, e non potetti far a meno che ricambiare la smorfia in una più rilassata, come se avessi voluto ringraziarli. In un certo senso.
Se c'era un'altra cosa che mi calmava più di quanto potesse fare lo zucchero, era la sensazione di poter contare, non una bensì più spalle su cui poter appoggiarsi in caso di mancanza d'equilibrio.
Mi ero ritrovata una nuova famiglia. Una famiglia su cui poter contare. Avrei sentito la loro mancanza quando mi sarei trovata lontani chilometri da loro. Perciò, prima che avvenisse, me li sarei goduti. Mi sarei goduti quei pazzi ragazzi strambi della Karasuno.
Quinto set.
Il vecchio mi aveva sempre detto che la Karasuno del passato, una volta, aveva uno spirito di squadra imbattibile. Non per niente andò alle Nazionali assieme al Piccolo Gigante. Le ultime che avevano visto. Le ultime che avevano combattuto.
Diceva spesso che i ragazzi della Karasuno non erano altro che persone messe alla prova dalla vita e se un giorno mi fosse capitato di vedere oltre alle aspettative, di focalizzarmi sui loro salti, avrei intravisto le ali.
Perché i corvi potevano ricordarsi il volto di qualcuno che si era comportato male con loro e vendicarsi, ma potevano anche ricordarsi di chi li aveva trattati bene non sottovalutandoli.
E il nonno aveva ragione. L'avevo viste.
Mentre i loro piedi stridulavano sulla superficie, coordinandosi in un attacco contemporaneo, vidi l'oltre di cui mi parlava continuamente il vecchio.
I miei occhi si sgranarono e le ali nere sbatterono dietro alle loro schiene, dando l'opportunità di correre, di volare, di giocarsi l'ultima carta. Sempre più in alto. Sempre di più.
I corvi spiccarono le ali in cielo, le piume fluttuavano nell'aria e la mano di Hinata schiacciò al centro del campo. Fluido. Veloce. Un buon mix per un attacco a sorpresa combinato. E sembrò per un solo attimo che il tempo si fosse fermato, andando ad una velocità di 0,1 secondo.
La stessa frequenza dei miei battiti cardiaci.
Segnò.
La palla rimbalzò a tre tocchi sul pavimento avversario e potei sentire chiunque trattenere il respiro. I miei occhi si colmarono di lacrime, portando così le mani alle bocca per reprimere un singhiozzo. Si guardarono in trance e tremai dall'ultimo capello in testa fino alle dita dei piedi.
L'arbitro fischiò e la folla scoppiò in un boato.
Feci un passo in avanti, sentendo la terra sotto ai miei piedi inghiottirmi. Piansi di gioia nel vedere e sentire le urla di Daichi, Sugawara e Asahi abbracciarsi e sfogare la loro gioia in lacrime di pura felicità. Ce l'avevano fatta.
Lacrime calde rigarono le mie guance e feci un altro passo in avanti, scorgendo l'espressioni incredule di Hinata e Kageyama. Senza che ne avessi il controllo, corsi nella loro direzione e mi slanciai sui loro corpi, avvolgendo le braccia attorno ai loro colli e abbracciarli. «Siete matti. Due incredibili e incoscienti matti», piagnucolai.
«Kaori-chan», esordì Hinata e mi allontanai di poco per guardarlo in faccia. «Non riesco a muovere le gambe», sussurrò addolorato e ridacchiai tra le lacrime, asciugandole con la manica della felpa.
«Dobbiamo metterci in riga», ribatté Kageyama riferendosi ad Hinata, il quale esasperato scosse il capo.
«Non riesco a stare in piedi...», e le gambe gli tremarono come due catene che tintinnavano una contro l'altra.
«Avanti, Shoyo!» Si intromise Nishinoya, afferrandogli le mani e incalzarlo a camminare. Ma tutto ciò che fece Hinata fu lamentarsi ad ogni passo che faceva. «Dai che ce la fai!»
Mi morsi il labbro reprimendo una risata e alzai lo sguardo su Kageyama. «Grazie», fece quest'ultimo con le guance lievemente arrossate. Sorrisi dolcemente e il ragazzo colse la palla al volo per svignarsela, seguendo Nishinoya che trascinava Hinata fino alla linea del campo.
Voltai il busto e i miei occhi saettarono in quelli di Ushijima che già erano puntati su di me. Il suo sguardo era sofferente, ma lo nascondeva così bene che non si sarebbe visto nient'altro se non rabbia e durezza. Mi diede le spalle ed io lo raggiunsi, afferrandogli la maglietta bandita di sudore tra le dita, dividendoci solo la rete di mezzo.
Ushijima sussultò e mi guardò con la coda dell'occhio sorpreso. Distolsi lo sguardo e misi su un broncio infantile, sentendo le guance pizzicarmi. «Sei... sei...», mi risultava difficile parlargli, figuriamoci complimentarmi. Presi un gran respiro. «...stato grande», e allentai la pressione delle dita dalla sua maglietta, stringendomi nelle spalle.
Oh, sì! Mi sarei vergognata per il resto della mia vita dopo questo.
Ushijima mi guardò stordito, ma intravidi un leggero e invisibile sorriso sulle sue labbra. «Ti guarderò alle Olimpiadi, Ukai. Dai il meglio di te», disse e restai spiazzata dalla sua confessione.
«Come –»
«...lo so?» Concluse per me. Annuì piano. «Segreti del mestiere», e fece spallucce.
Alzai gli occhi al cielo. «Brutto troglodita stro – idiota!» mi corressi, stringendo le braccia al petto. Ushijima sollevò un angolo della bocca e senza dire nient'altro, raggiunse la sua squadra con la schiena dritta e l'espressione di chi aveva accettato la sconfitta, – diciamo.
Il coach della Shiratorizawa mi guardò duramente e gli sorrisi innocentemente, muovendo lentamente le dita come segno di saluto: si girò e mi diede le spalle, abbandonando il campo con la coda tra le gambe.
Un detto diceva: «Tieni stretto gli amici ma più stretto i nemici», e nella vita una sola cosa era certa: se la Storia ci aveva insegnato qualcosa, era che si poteva uccidere chiunque, troncando ogni sua difesa.
Il punto debole di Ushijima era proprio la superficialità.
«Stasera festeggeremo la nostra vittoria!» Esclamò euforico Tanaka, contagiandomi nei loro festeggiamenti. Nishinoya mi saltò in spalla, facendomi quasi perdere l'equilibrio. Scoppiai a ridere e mi aggregai al loro abbraccio, appiccicoso, sudaticcio, puzzolente, di gruppo.
Ed era come d'autunno che i giovani maschi di corvo imperiale acquistavano l'indipendenza, lasciando il nido e dando il via ai corteggiamenti: potevi vederli saltellare come marionette intorno alle compagne, compiere piccoli voli acrobatici, loro che preferivano il volo veleggiato.
Nel tempo dei corvi si vedevano i partner curarsi reciprocamente il piumaggio, dare vita ai tipici balletti. Poi, a febbraio, cominciavano a costruire il nido; a marzo deponevano le uova festeggiando con capriole e acrobazie aeree.
Dicevano che quando un corvo gridava, un uomo moriva... ma non oggi. I corvi non erano uomini morti. I corvi avevano vinto. I corvi avevano riottenuto il loro posto in classifica sulla vetta più alta.
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