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«Non posso», rispose con il timbro di voce nasale e si soffiò il naso, mettendo su un concerto trombale. «Sono troppo malato per mettermi alla guida. Non puoi chiamare il vecchio?»

Guardai il mio riflesso nello specchio, stringendo l'aggeggio telefonico nella mano, desiderosa di romperlo in mille pezzettini e uccidere colui che si trovasse dall'altra parte.

«Sei per caso impazzito?», sbottai a bassa voce. «Gli prenderà un infarto: sono bloccata a Tokyo e non ho soldi con me», ripetetti secca. «Sei il maggiore, dovresti venirmi a prendere...», lagnai a denti stretti. «E tirarmi anche fuori dai casini, magari...» pensai evidentemente ad alta voce, lanciando un'occhiata alla porta chiusa a chiave del bagno, sperando che nessuno dei due mi sentisse al di fuori.

Da quando si era presentato Bokuto, le cose tra me e Akaashi erano diventate bizzarre e imbarazzanti: non aveva fatto altro che scusarsi con gli occhi per tutto il tempo, mentre il gorilla umano ribadì più volte di come aveva potuto dimenticarsi della loro giornata insieme, offendendosi.

Potevo trovarmi in una situazione peggiore di questa? In poche parole, la sfortuna mi perseguitava come una seconda ombra.

D'altronde, dopo le domande curiose di Bokuto del perché stessi a casa di Akaashi, optai per la prima scusa, chiudendomi in bagno.

In tutto questo, Keishin era un altro idiota.

Capivo che non si era ancora preso del tutto, ma non potevo restare a Tokyo ancora per molto. Se mio fratello non avesse fatto qualcosa in merito, sarei tornata a casa persino a piedi, pur di sfuggire dagli occhi indagatori di Bokuto.

Non mi ero mai sentita così sotto pressione da una singola persona. Dopotutto Bokuto, aveva quella strana previsione di conoscermi poco e al contempo così bene che aveva capito perfettamente del mio soggiorno da Akaashi, ma non aveva fatto altre domande in merito se non quelle di curiosità e altezzose com'era il suo solito fare.

Dovevo trovare un'uscita d'emergenza come quelle che si vedevano nei film. Possibile che non ci fossero? Avrei tanto voluto un Tom Cruise sfondare il soffitto del bagno e portarmi via con lui. Sarebbe stato il piano B migliore di sempre.

«Casini?» Sniffò con il naso, segno che il catarro gli aveva sfiorato il cervello e continuò: «Possibile che, dove ci sei tu i guai ti perseguitano?» Sarei scoppiata a ridere se la situazione non fosse stata grave.
Aveva ragione, diamine. «Ti prego, dimmi che non hai rubato, di nuovo, in un negozio dell'usato e stai scappando dalla polizia...», pregò in piagnucolio, immaginandolo massaggiarsi esausto le tempie.

A quelle parole, i miei occhi uscirono fuori dalle orbite e spalancai la bocca incredula, allontanando un secondo il telefono dall'orecchio. Ma che considerazione aveva di me?

Coraggio Kaori, pensa ad un bel prato verde con dolciumi al posto dei fiori.

Presi un grosso respiro ad occhi chiusi. Era deciso: il terzo lavoro di mio fratello era quello di mandare al diavolo la mia pazienza e la poca bontà rimasta.

«È capitato solo una volta e avevi promesso che non ne avresti più fatto parola», sbuffai, gesticolando nervosamente con una mano, nonostante non potesse vedermi, avevo bisogno di sbollire.

Ero arrivata al culmine.

Era capitato solo una volta che, facendomi prendere dall'euforia del pericolo, avevo rubato un bracciale di pochi spiccioli e me ne pentì subito dopo quando la commessa del negozio, accorgendosi dell'oggetto sparito, mi corse dietro con una scopa. Avevo quattordici anni. Stavo vivendo un periodo ribelle.

Keishin sospirò. «Davvero non hai soldi con te? Credevo che stamattina bastassero per arrivare e tornare da Tokyo», in realtà non gliel'avevo detto che i miei ultimi risparmi li avevo donati a un senzatetto.

«Evidentemente non ho portato abbastanza soldi con me», mentì, arrotolando una ciocca corvina attorno all'indice, nervosamente. Lo facevo spesso quando mi trovavo sotto stress.

«Chiamo Takinoue», da lontano sentì gli uccellini cinguettare e le campane suonare. Dovetti trattenermi da non urlare dalla felicità.

«Per Dio! Grazie!» Esclamai al settimo cielo.

«Ma ti avverto...», smorzò il mio entusiasmo in un attimo. «Che non ricapiti più. Odio chiedere favori.»

«Onii-chan è per una buona causa...», ribattei con un broncio da bambina e sbattei il piede sul pavimento come se avesse potuto vedermi.

«Sarà...», sbuffò. «Ti invio un messaggio appena Takinoue mi darà conferma.» E detto ciò, mi staccò il telefono in faccia.

Allontanai il cellulare dall'orecchio e osservai il display divenire nero. Stronzo, pensai e cacciai la lingua di fuori in una linguaccia dispettosa, mettendo il telefono in tasca.

Tirai lo sciacquone e uscì dal bagno, tornando nella stanza dove vi erano Akaashi e Bokuto chiacchierare sul divano. Presi un profondo respiro e misi su il migliore sorriso di scuse che potessi mai fare, materializzando la mia figura davanti a loro.

«Devo andare, si è fatto piuttosto tardi», dissi, evitando lo sguardo di entrambi e afferrare la mia borsa, mettendomela a tracolla.

«Di già?» Corrucciò la fronte, Bokuto. «Sono arrivato solo da mezz'ora», aggiunse, lanciando un'occhiata al suo orologio da polso.

«Mi ha chiamato mio fratello...», sistemai alcune ciocche di capelli dietro all'orecchio. «Ed era preoccupato.»

Akaashi mi guardò comprensivo e annuì con un mezzo sorriso. «Se vuoi, ti accompagno»

«Ti accompagno io», si intromise Bokuto con uno strano sorriso, alzandosi e lisciarsi le pieghe del pantalone. Akaashi lo guardò corrucciato. «Ne approfitto per passare davanti al supermercato per comprare lo zucchero a mia madre.» Spiegò, alzando le spalle.

«Oh... okay.» Annuì titubante il corvino, sorridendo di circostanza.

Inghiottì a vuoto e feci un passo indietro. «Andiamo... allora...», mi morsi il labbro e mi avvicinai alla porta principale, mentre Bokuto si infilò la giacchetta nera e Akaashi mi venne incontro, aprendo la porta al posto mio. «Grazie per il pranzo», ammisi imbarazzata. «Ci vediamo.»

Lo salutai con un cenno di mano, il quale mi guardò profondamente come se avesse voluto approfittare di una minima distrazione di Bokuto per potermi salutare come desiderava.

Ma Akaashi restò a guardarmi speranzoso, chiedendomi con gli occhi di rivederci e continuare quello che avevamo interrotto per via del ragazzo.

Sospirai e percepì un braccio circondarmi le spalle, mentre un ammasso di muscoli propagato sul mio corpo, mi incalzò di andare, prima che si facesse tardi.

Salutammo un'ultima volta Akaashi e ci incamminammo fuori dalla proprietà, mantenendoci sul marciapiede alla nostra destra.

Durante il tragitto, né io né Bokuto mettemmo su parola. Con la coda dell'occhio, potei notare i suoi muscoli facciali tesi e imbronciati, come se stesse pensando a qualcosa di cui non andava fiero.

Era la tipica espressione che faceva durante i tornei quando vedeva di non aver fatto del suo meglio, con l'unica differenza che fosse veramente arrabbiato.

«Come stai?» Ruppi il ghiaccio, non riuscendo più a sopportare quella situazione tesa e silenziosa. Era insostenibile.

Avevo un brutto presentimento.

Bokuto infilò le mani in tasca, continuando a guardare davanti a sé e rispondere con un secco: «Bene, mai stato meglio».

Annuì titubante, storcendo le labbra in una smorfia infastidita. «Non sembra così...», sussurrai pensierosa e abbassai gli occhi sui miei piedi, seguendo il ritmo del loro passo assieme a quello del ragazzo. «Se sei ancora arrabbiato per via di quello che è successo al ritiro»

«Cosa ti fa pensare che sia arrabbiato, Kaori?» Mi interruppe bruscamente, sottolineando il mio nome per intero.

Non mi aveva mai chiamato con il mio nome intero, neanche quella volta che mangiai i suoi mochi e l'avevo fatto infuriare.

«Non volevo dire che fossi arrabbiato veramente, ma», volevo giustificarmi ma Bokuto era così intenzionato da interrompermi ogni volta che si fermò sul cipiglio della strada ed io feci la stessa cosa ad un metro davanti.

«Credi che me ne importi qualcosa?» Sbottò ed io sussultai, presa alla sprovvista. Bokuto rise amaramente, spettinandosi il ciuffo alzato più e più volte.

Restai in silenzio a guardare il suo tic di tirare su le punte grigie dei suoi capelli. «Se ti facessi una domanda, mi risponderesti sinceramente?»

Annuì titubante, nonostante avessi il batticuore.

«Tu ci tieni a me, Kaori?» Che razza di domanda era? Gli occhi gialli del ragazzo avevano perso quella luce spensierata, sostituendola con una soppiatta e delusa. Il sangue mi gelò nelle vene.

«Che domande fai, Kotaro? Certo che ci tengo a te», gesticolai animatamente con le mani sotto ai suoi occhi stanchi. «Cosa ti fa credere che io non ci tenga?» Non l'avessi mai detto.

Il suo pomo d'Adamo si mosse su e giù velocemente, serrando la mascella e stringere gli occhi, trasformandoli in due spilli di fuoco perforabili.

«Allora perché non mi hai detto che te la facevi con Akaashi, ne?» chiese, alzando il tono di voce alla fine della domanda.

Quante volte mi ero fermata davanti ai suoi occhi, accorgendomi solo del loro colore? Quante volte provai a sbirciarci dentro senza trovarvi nulla di incompreso? Per vedere tutto ciò che potrebbe essere, tutto ciò che Kotaro non poteva essere spiegato a parole.

Aveva l'aria di qualcuno che avesse perso qualcosa, e dava l'impressione che quel qualcosa o qualcuno lo cercasse ovunque andasse o si trovasse.

Descrivere le emozioni contrastanti di Bokuto, non sarebbe servito neanche il migliore interprete o scrittore. Lui era pieno di vita, così tanto che nei momenti di confusione, si auto puniva da solo.

Avete presente quando salite su un autobus e guardandovi intorno con disinvoltura vi accorgete che non c'è nessun posto libero? Quindi non vi resta che starvene in piedi, scomodi, pur avendo pagato il biglietto. Beh, se avessi potuto descrivere Bokuto, lo avrei descritto come quella persona che "aveva pagato il biglietto" ed era rimasto in disparte, in silenzio, autocommiserandosi in fondo all'angolo.

Distolsi lo sguardo dal suo, puntandolo a terra, il quale trovai molto interessante guardare la fila indiana di formiche camminare tranquillamente accanto ai miei piedi.

Mi aveva preso in contropiede. Non sapevo più cosa dire o fare. Faceva così male che le parole restarono bloccate in gola per non rischiare di peggiorare -di più- la situazione.

A volte passiamo ad essere così stupidi da preferire il sapore di una delusione al gusto di dare una spiegazione.

«Non mi importa se ti piace Akaashi, Kaori», disse. «Non mi importa neanche di sapere quando e come è successo. Volevo soltanto che me lo dicesti, cazzo.»

«Sono stata io. È colpa mia», alzai gli occhi nei suoi. Bokuto curvò in basso le sopracciglia grigiastre e folte tanto da unirle e formarne tutt'una. «Avevo bisogno di qualcuno e Akaashi c'era perché gli ho chiesto io di esserci, dopo l'incidente in palestra», spiegai brevemente agitata.

«Aspetta...», portò una mano in avanti per bloccare il mio discorso e bagnarsi velocemente le labbra secche. «Stai dicendo che hai preferito chiamare lui anziché me?» Puntò un dito sul suo petto, guardandomi tra l'incredulo e il deluso. «Sono rimasto tutto il giorno fuori dalla tua stanza per scusarmi...»

«Kotaro...», mormorai e feci un passo avanti mentre lui ne fece uno all'indietro. Ci rimasi male e non poco.

«...Credevo che non volessi vedere nessuno perché eri così arrabbiata», continuò, il che mi fece sentire doppiamente in colpa.

Non sembrava che fosse deluso perché non era Akaashi, ma semplicemente perché avevo preferito qualcun altro con cui parlare invece che con lui.

E non gli importava nemmeno se quel "qualcuno" fosse il suo migliore amico; Bokuto voleva per una volta essere quel qualcuno anziché qualcosa.

«E invece, hai preferito parlare con Akaashi, sfogarti con lui...», ripetette incredulo con gli occhi leggermente sbarrati. «Credevo che di me ti fidassi.»

«Io mi fido di te, Kotaro!» sbottai in preda ad una crisi di pianto.

«Sai quanto mi sono sentito in colpa?!», sbottò, superando di gran lunga il volume della mia voce. Non risposi e mi morsi fortemente il labbro per non scoppiare in un mare di lacrime. «Lo sai o no?!» Continuò amareggiato, il che mi fece sussultare e tremare allo stesso tempo.

«Mi... mi dispiace un sacco, Kotaro», balbettai impacciata, sentendo il magone infastidirmi in gola. «Te lo avrei detto, davvero»

«Pensavo fossi tuo amico», sputò veleno e nero in volto. «Il migliore, Kaori!»

«Tu...», la bocca mi tremò. «...lo sei, Kotaro.» strillai senza fiato nei polmoni.

Mi portai le mani alla bocca e singhiozzai all'interno dei miei palmi, il che si propagò in un pianto di colpe e di scuse allo stesso tempo. Strinsi gli occhi e abbassai il capo mortificata, scacciando le lacrime rigate dalle guance.

Bokuto prese un profondo respiro e si guardò attorno, massaggiandosi il ponte del naso con l'indice e il pollice.

«Per questo non hai voluto baciarmi al ritiro?» Chiese con un tono calmo ma al contempo pesante. «Per Akaashi?» Singhiozzai e annuì piano, ripulendo il mascara colato sotto agli occhi, trovandomi alcuni residui sugli indici.

Restammo lì, in mezzo al marciapiede isolato e il sole che tramontava verso l'orizzonte, dando l'occasione alla luna di alzarsi in alto, prendendo il suo posto.

Diceva William Shakespeare che: «È tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti

Una frase che faceva riflettere anche il peggior ignorante che poteva mai esistere. Non c'era nulla di nascosto, ed era tutto sotto i nostri occhi: talvolta le nostre debolezze e le nostre forze si scambiavano delle confidenze come un passero e un leone in una giornata di sole. Nel momento in cui mostri le tue fragilità a qualcuno, gli stai dando in mano una parte di te. Ci voleva un grande coraggio per dimostrarsi deboli.

«Perché piangi?» Sembrò essere passata un'eternità, quando in realtà passarono solo pochi minuti di silenzio e calma. Avevo smesso di incolparmi ma non di piangere: non capì qual era la parte peggiore.

Tirai il naso all'insù e asciugai l'ultima lacrima, cercando di sforzare un sorriso rassicurante, il quale non mi venne e dovetti desistere a farlo. «Non lo so», fu quello che risposi, alzando e abbassando le spalle. Mi sentivo così piccola vicino a lui e non solo fisicamente.

Percepì i suoi occhi di fuoco bruciarmi addosso, il quale se ne uscì all'improvviso: «Mi vuoi bene, Ori
Sembrava tanto quei bambini che, dopo uno dei loro innumerevoli pasticci, ti venivano vicino e ti chiedevano se dopotutto li volevi ancora bene, se erano ancora i tuoi preferiti.

Annuì con il capo energicamente e cercai di non piangere -di nuovo- per una felicità improvvisa a quella domanda. Bokuto allargò le braccia e senza chiedermi nulla e senza che io domandassi, mi slanciai in avanti e attorcigliai le braccia attorno al suo possente busto, affondando il viso nel suo petto.

Lui appoggiò il mento sul mio capo e lo sentì ispirare dal naso, stringendomi nelle spalle e accarezzarmi delicatamente i capelli.

Una volta che conosciamo le nostre debolezze esse cessano di farci del male.

«La prossima volta...», parlò. «...qualunque cosa ti soffoca, parlane prima con me.» Dichiarò schietto, aumentando la stretta nell'abbraccio come se avesse avuto paura che scappassi da un momento all'altro.

«Gli amici fanno così, no?»

Mi scaldò il cuore. «Sì...», annuì con il viso spiaccicato contro il suo petto che potei testare come uno scudo d'acciaio. «Gli amici fanno così.»

Nelle mani giuste, la fragilità smette di fingersi acciaio.

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