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Gli eventi passati erano già accaduti — un'era glaciale fa, un secolo fa, o anche un minuto fa, appartenevano al passato. Dicevano che il passato era storia e verità. Semmai qualcuno era stato accusato di "vivere nel passato", significava che vivevi aggrappandoti a ciò che era una determinata situazione, invece di accettare il cambiamento e andare avanti.
Io non volevo cancellare il mio passato, perché nel bene o nel male mi aveva reso quello che ero diventata oggi. Anzi, ringraziavo chi mi aveva fatto scoprire l'amore e il dolore, chi mi aveva amato e usato, chi mi aveva detto ti voglio bene credendoci e chi invece l'aveva fatto solo per i suoi sporchi comodi. Non volevo cancellare niente, tantomeno dimenticare.
Ma quello... era troppo.
«Kaori ti sei sporcata. Fai più attenzione», scossi la testa dai pensieri e abbassai gli occhi sulla macchia rossa della mia maglietta. Sospirai e afferrai un tovagliolo senza incrociare gli occhi dei presenti.
Pulì impetuosamente la macchia nonostante non si decidesse di andare via. Lasciai perdere e cercai di coprirla con i capelli davanti, ritornando a gustarmi – bene o male – la cena.
Il tintinnio delle posate che scontravano fastidiosamente i patti in ceramica mi fece sussultare silenziosamente. Mio padre dopo il tè pomeridiano aveva avuto la bella idea di fermarsi anche per la cena; non mi ero azzardata a dire nulla tantomeno contraddirlo. Avevo scelto di stare in silenzio e ascoltare i suoi racconti per il mondo con la sua troupe, menzionando più volte che l'Italia era un paese molto caloroso e il cibo era squisito; il caffè del Brasile appena raccolto era un qualcosa di spettacolare. Chiunque avrebbe dovuto assaggiare il chicco appena sbocciato; infine, aveva persino detto che presto sarebbe tornato in America per il suo ultimo concerto e poi si sarebbe ritirato dalla sua carriera musicale, trasferendosi di nuovo in Giappone e lavorare come manager in una casa discografica per le idol giapponesi del momento.
«Non mi hai detto che cosa vorresti fare dopo», esordì mio padre dopo aver menzionato le idol. «Ricordo che ti piaceva molto il mondo dello spettacolo. Avevi una bella voce...»
«Pallavolista», risposi guardandomi le dita sul tavolo. «È quello che voglio realmente fare.»
Poi ci fu solo silenzio.
Non capivo perché tutto ad un tratto era ritornato. Lui non c'era mai stato. Lui non c'era quando Keishin si prese un pugno da un suo compagno di classe e non c'era quando caddi, sbucciandomi un ginocchio, piangendo fino al giorno seguente, fin quando il nonno non mi disse che era solo un graffio superfluo... un inutile e insignificante graffio.
«Sbarazzo i piatti», dissi alzandomi dalla sedia e sistemare i piatti uno sopra all'altro, andando poi in cucina. Appoggiai i piatti nel lavello e aprì il rubinetto, sciacquandoli così da poterli mettere nella lavastoviglie.
Inaspettatamente, il cellulare che avevo posato sul bancone affianco al detersivo per i piatti, iniziò a squillare. Lessi attentamente il nome e un sorriso debole comparì sulle mie labbra; mi guardai alle spalle, sporgendomi quel poco per controllare che nessuno mi ascoltasse e afferrai l'aggeggio, pigiando sul tasto verde.
«Non ti chiederò del perché tu ci abbia messo così tanto a rispondermi, ma te la faccio buona solo perché sei la mia migliore amica e domani partirai.»
Sentire la voce di Mitsuki mi allegrò il cuore, alleggerito l'anima e fatto scomparire il magone in gola. Chiusi gli occhi e li riaprì per il sollievo, camminando fuori dalla cucina per raggiungere la seconda d'uscita che indirizzava verso il corridoio e la porta d'ingresso.
«Avrei dovuto avvisarti, lo so. Mi dispiace. È stato difficile dirlo agli altri, e non sapevo-», tentennai e osservai insistentemente le scarpe messe ordinatamente vicino al pianerottolo.
«Lo so, – sospirò dalla cornetta – Daichi me lo ha detto. Non sarà stato facile dirlo apertamente a tutti, specialmente quando domani prenderai il primo volo. – strinsi il cellulare nella mano e annuì, più a me stessa in quel caso dato che Mitsuki non poteva vedermi; mi ero comportata da codarda e avevo preso la situazione fin troppo sulla leggera – ...Però, sono pur sempre la tua migliore amica e quindi, seguendo il codice d'onore di "migliore amica" ti obbligo a coprirti, infilarti le scarpe e uscire di casa.»
Aprì la bocca incredula e mi guardai attorno confusa. «Aspetta, perché dovrei fare una cosa simile?» Sussurrai sbigottita, cercando di non farmi sentire dai presenti in casa.
«Perché non dovresti? Andiamo, fai come ti ho detto senza fare domande.» Ribatté dall'altro capo annoiata; alzai gli occhi al cielo e mi bagnai velocemente le labbra.
«Mi spaventi...», mormorai con uno sciame di divertimento. «Non stai cercando di rapirmi, vero?»
La sentì esitare prima di rispondere: «L'idea era quella, ma conoscendoti, avresti dato di matto prima che potessi portarti via dal vico di casa tua.»
Roteai gli occhi. «Che melodrammatica.»
«Stai parlando di te stessa?»
Risi silenziosamente e scossi il capo. «Può darsi... – mormorai con il labbro stretto tra i denti – Okay, adesso metto le scarpe. Dammi solo un–»
«Kaori?» Mi gelai sul posto quando sentì la mano lievemente calda posarsi sulla mia spalla; girai lentamente la testa, guardando con la coda dell'occhio le dita ben curate e poi gli occhi dell'uomo che mi scrutarono con insistenza.
Dall'altro capo, sentì la voce di Mitsuki chiamarmi ininterrottamente, chiedendomi che fine avessi fatto. «Aspetta... solo un secondo, Mitsuki», sussurrai senza fiato e allontanai il telefono dall'orecchio, riuscendo a sentire soltanto un imprecazione da parte della mia migliore amica prima che staccassi.
«Dove stai andando?» Jim, – il nome di mio padre – allontanò la mano dalla mia spalla capendo il disagio che mi aveva creato; mi bagnai le labbra e presi un grosso respiro.
«Sto uscendo.»
«Adesso? Durante la cena in famiglia?» Famiglia... aveva avuto il coraggio di chiamarci famiglia; la mia famiglia era mio fratello e mio nonno, lui non ne faceva parte da tanto tempo, da quando aveva deciso che il mondo della musica e il talento che coltivava fosse più importante di chiunque altro. D'altronde, non aveva mai avuto il coraggio di menzionare ai suoi seguaci che avesse due figli i quali avevano patito le pene dell'inferno per ricevere attenzioni dal proprio padre.
«Sì. Non ho voglia di stare qui», risposi schietta. «E poi domani prenderò il primo volo del mattino e voglio fare un giro del quartiere. Perciò... – non mi aspettai che facessi la matura della situazione, però successe; allungai la mano verso di lui e mi stampai il miglior sorriso che potessi mai fargli dopo tutti quegli anni a portare rancore e vergogna – è stato carino da parte tua essere passato. Al nonno, ha fatto molto piacere. – proseguì – Ovviamente, anche a me, dopotutto.»
Jim alternò lo sguardo dalla mia mano penzolante ai miei occhi meccanicamente; dopotutto ero stata sincera e non mi dispiaceva, in cuor mio, averlo avuto per quasi tutta la serata davanti agli occhi. Vero, anche, di non essere riuscita a guardarlo negli occhi più del necessario, ma chi figlio ne avrebbe avuto il coraggio?
Avevo sofferto della sindrome dell'abbandono, della mancanza affettiva di una figura paterna, incolpata dalla nascita della morte della propria madre, di essere stata la ribelle della famiglia nonché l'insistente che aspettava fuori alla porta della camera di suo padre per giocare con lui. Di certo, non avevo subito molto a differenza di quei figli che ne venivano abusati, violentati e incatenati chissà in quale porcile, ma avevo sofferto anche io nel mio piccolo e ad oggi, ne soffrivo ancora.
Forse potevo esagerare con le parole usate, ma le persone dovevano capire che esistevano tanti modi nel violentare una persona oppure rendere la sua esistenza un vero e proprio inferno. Ad oggi, avevo capito che mio padre non mi aveva mai amato e il suo unico interesse era quello di costruire il mio futuro soltanto sulle sue necessità, basi e concorrenza; la mia passione per la pallavolo era sempre passata al secondo, terzo o anche ultimo piano ai suoi occhi... per lui era inutile. La mia passione era inutile. Incoronare il mio sogno era inutile. Io... ero inutile ma ugualmente felice. Finalmente l'avevo capito e non avevo bisogno del suo permesso.
In dieci anni, ricevevo le sue chiamate alle quali non rispondevo perché... beh, avrei dovuto? Insomma, perché avrei dovuto rispondere alle chiamate di un fantasma del passato? Mio padre era diventato un fantasma quando, da codardo, fece la prima valigia e andò via, colonizzando il suo sogno. Quando da codardo non si era mai preoccupato, nei giorni di pioggia, che tornando a casa da scuola mi fossi presa un malanno. Oppure, quella volta in cui credetti che le persone potevano volare e mi gettai dalle scale; le uniche persone che vennero in mio soccorso, nonostante lui stesse in casa, furono Keishin e il nonno: andammo in ospedale e per poco i dottori non denunciarono il nonno per i maltrattamenti domestici, quando in realtà, non sapevano che tutti quei lividi me li ero procurati da sola per ricevere attenzioni da mio padre... anche facendomi male o spezzarmi l'osso di qualcosa.
Avevo sofferto, sì, ma non avrei cambiato nulla di tutto quello che avevo fatto in passato. Dopo anni, invece, lui era lì davanti a me, per riprendersi le attenzione che aveva perso, l'affetto, l'abbraccio, un bacio e un "in bocca al lupo"... ma non ne aveva più il diritto.
Perciò Jim, titubante, strinse la mia mano con gli occhi pieni di colpevolezza. Una volta averlo salutato nella maniera più formale che potessi mai recargli, mi allontanai e mi avviai alla porta per indossare le scarpe e gli indumenti pesanti.
«Ka-Kaori!» Esclamò Jim, frenandomi. Mi voltai leggermente e sollevai un sopracciglio; era agitato, potevo notare la gocciolina di sudore scendere sulla guancia. Era così un bell'uomo privo di umanità. «Io... partirò per l'America in questi giorni. Ho un appartamento lì che ho comprato per necessità dei concerti e se tu... – chiuse gli occhi e li riaprì subito dopo – Se tu vorrai venirmi a trovare, anche per scambiarci quattro chiacchiere, dimmelo. Hai il mio numero, o puoi contattarmi attraverso Takahashi... – mi ero quasi dimenticata che Jim aveva avuto la bella idea di farmi pedinare dal suo manager; Takahashi non era altro che il suo manager e soprattutto, non faceva parte di nessuna agenzia investigativa – Mi farebbe davvero piacere parlarti e... stare un po' insieme.»
Abbozzai un sorriso malinconico. Mi faceva tenerezza. «L'America è grande, Jim. Non ti ho detto in quale città andrò.»
Jim ricambiò il sorriso debolmente e annuì comprensivo. «In tal caso, allora... prenderò il primo aereo e verrò a trovarti anche solo per un caffè doppio al caramello in stile americano», lo guardai attentamente. «E... vorrei vederti giocare. Non l'ho mai fatto prima e... – si massaggiò la fronte con fatica – voglio rimediare se tu me lo permetti.»
Esitai un attimo prima di rispondergli e dargli il verdetto, neanche se stessimo competendo in uno di quei giochi televisivi dove si vincevano una montagna di soldi. Sospirai. Un secondo sospiro. Un terzo. Un quarto. E... «Sono brava a giocare e molto veloce. Non saresti capace ad adocchiarmi in campo per quanto corro forte. Saresti capace a seguirmi? Il nonno e Keishin fanno ancora fatica...»
In realtà non c'entrava un bel niente con quello che mi aveva chiesto, ma per la prima volta, mi sentivo così in imbarazzo a parlarne con mio padre. Possibile?
Jim sorrise divertito e scosse il capo. «No, non ne sarei capace. È sempre stato il nonno a spiegarmi tutte le procedure della pallavolo e del tuo modo strambo di giocare...», il nonno raccontava le mie partite? Che notizia. «...Ma puoi scommetterci che ci riuscirò. Davvero. Sarò in prima fila per vederti giocare.»
Deglutì. «...Ci vediamo in America, quindi?»
Sorrise. «Sì, ci vediamo lì, Ori.»
༄
L'aria pungente mi pizzicò le guance e lanciai un'occhiata all'orario sul telefono. Ero convinta che Mitsuki si trovasse fuori alla porta con tanto di striscione, fuochi d'artificio e una bottiglia di champagne, ma invece non c'era nessuno, tranne per la mia ombra che mi teneva compagnia sullo zerbino di casa.
Provai a mandare addirittura un messaggio a Keiji, chiedendogli dove fosse per pura curiosità. Sapevo che tra la mia migliore amica e il mio ragazzo non circolasse buon sangue poiché, entrambi, avevano idee diverse ed esperienze di vita diverse; non andavano d'accordo, nonostante avessi provato a fargli cambiare idea con le buone e dopo con le cattive. Non c'era stato verso.
In effetti, io e Bokuto eravamo allo stremo delle nostre forze. Da quando Mitsuki aveva perso la testa per Kuroo e quest'ultimo anziché cambiare i suoi sentimenti e stare con lei, l'aveva presa in giro risentendosi con una sua vecchia fiamma. Inutile dire che ero furiosa quando lo scoprì: volevo ammazzare prima lui e poi lei, o viceversa. Ma in tal caso, avrei ammazzato entrambi.
Perciò, dopo questa storia – mai iniziata – finita male, provai in tutti i modi di conciliarle Bokuto, perché diciamocelo, lui era davvero un bel ragazzo e soprattutto aveva carattere da vendere anche se si lasciava piuttosto andare con il suo atteggiamento infantile quando non riusciva ad ottenere ciò che voleva. Eravamo in continua competizione, io e lui, ma d'altronde, ci volevamo così bene che la competizione si trasformava in alleanza e rispetto reciproco. Bokuto era il migliore. C'era poco da obiettare.
Improvvisamente, il cellulare che tenevo tra le mani vibrò e spaventata per essermi allontanata con la mente nei miei pensieri, sospirai sollevata e lessi il nome del mio ragazzo con il messaggio accanto, scritto: "Piccola, scusami se non ti ho risposto ma stavo in doccia. Che succede?"
Corrugai la fronte confusa; quindi, neanche Keiji sapeva nulla? E perché diamine Mitsuki mi stava facendo aspettare fuori al freddo?
Con la consapevolezza che nessuno si sarebbe presentato e abbattuta, decisi di ritornare dentro e preparare le ultime cose da mettere nello zaino, ma il suono di un clacson e il boato di voci maschili che gridavano il mio nome mi fece spalancare gli occhi dallo stupore.
Ad un tratto non seppi più come si faceva a contare talmente che erano troppi; striscioni che penzolavano al di fuori dei finestrini delle macchine con il mio nome sopra, augurandomi un in bocca al lupo per la partenza e le Olimpiadi; Mitsuki che sbucò fuori dal finestrino dell'auto con una bottiglia sventolante in mano; i ragazzi della Karasuno che recitavano in coro il nome della mia squadra e persino Bokuto che urlava a gran voce, insieme ad Akaashi che mi sorrise imbarazzato per il baccano che stavano facendo.
Non riuscì a sentire più nulla, nemmeno quando la porta principale di casa si aprì e sbucarono fuori mio fratello, il nonno, mio padre e Takahashi. Le gambe non si muovevano per quanto fossi emozionata. Le lacrime fecero il loro percorso e risi dalla forte felicità.
«Piaciuta la sorpresa?» Mitsuki mi venne incontro con il suo sorrisone e le mani sui fianchi; non riuscì a parlare né a formulare una frase sensata. Mi avvinghiai a lei, in un abbraccio caloroso tanto da farle cacciare un gridolino per la sorpresa. «Kaori!» ridacchiò, stringendomi alla sua stretta.
«Arigato...», sussurrai con la voce spezzata. «Arigato gozaimasu!»
Mi sentì, per la prima volta, sicura di poter contare su di loro per sempre e fiduciosa di vincere, dove un tempo, avevo perso.
Avrei dedicato la mia vittoria a loro.
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