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Prologo

 QUANDO ami qualcuno, questo qualcuno diventa parte di ciò che sei. È in tutto quello che fai. È nelle canzoni che passano alla radio, nell'aria che respiri, nei sogni che fai quando ti addormenti, nel sangue che ti scorre nelle vene.

Il suo tocco ti resta marchiato sulla pelle, il suo odore rimane mischiato al tuo, il suo sorriso ti resta nel cuore. Conosci a memoria la sua voce, impari a gestire i suoi sbalzi d'umore, apprezzi di più il suo lato spiritoso ed impari ad amare quello più cinico. L'amore ti insegna a destreggiare i suoi demoni, che forse sono più oscuri dei tuoi, e scopri come tenerli a bada, lontani da quel cuore fragile.

I suoi sogni sono anche i tuoi, la sua risata è anche la tua.

Non pensi che sia perfetto, nessuno lo è. Conosci i suoi difetti, la verità che si cela dietro ai suoi occhi, le ombre di quella montagna di segreti che si porta sulle spalle da troppo tempo.

I suoi segreti non ti spaventano, perché tu non vuoi la perfezione. Tu vuoi quella persona.

Si guarisce, si guarisce da tutto.

Dalle assenze, dalle telefonate non fatte o da quelle mancate, dai baci non dati, dagli abbracci non ricevuti, dai ricordi, e perfino dalle dipendenze.

Il dolore, con il tempo, non si elimina, non si attenua, ma si accantona sistemandosi in un angolino del tuo cuore. Troppo fragile per farsi avanti, troppo debole per scomparire del tutto.

Ti accorgi che l'assenza di quella persona è ormai l'ombra che ti segue in strada ogni giorno della tua vita.

La parte più brutta del soffrire è che alla fine ti abitui.

Ti abitui alle continue assenze, e sei costretto ad imparare di nuovo a camminare con le tue gambe.

Ti svegli una mattina, ti guardi allo specchio e ti rendi conto che la vita ti sta passando davanti come un treno in corsa, ma non hai la forza di fermarlo, di rincorrerlo, di gridare che ci sei anche tu. Hai bisogno di salire su quel maledetto treno e riprendere finalmente fiato. Non hai più la forza di combattere, perché il cuore ti è stato strappato dal petto e poi calpestato sull'asfalto come un sacco dell'immondizia.

Poi arriva il punto di rottura. Le lacrime non scivolano più sul tuo viso, i vestiti ti stanno ormai troppo larghi, i film comici che passano il televisione non fanno più ridere, la musica diventa il suono più odioso al mondo.

Vorresti gridare a tutti di fare silenzio, ma ti manca la voce. Non hai più parlato da quel giorno.

Enormi occhiaie solcano quegli occhi che una volta erano belli e brillavano come il mare d'estate.

Hai toccato il fondo.

Realizzi. Ti rendi conto che probabilmente lui non tornerà più. Piangi. Ti disperi. Sprofondi nell'oblio...

«Un altro» biascico al barista di fronte a me.

Poi tutto cambia.

Afferro con mano tremante il bicchierino trasparente e, buttando indietro la testa, ne finisco il contenuto. L'orologio sulla parete, che segna le tre e un quarto del pomeriggio, mi ricorda quanto la mia vita passi ormai troppo lenta. Il ragazzo dall'altra parte del bancone si posa una mano sul fianco e, studiandomi con la testa inclinata, sospira combattuto prima di rispondermi.

«Direi che ne hai già bevuti troppi di quelli.» Con la testa fa un cenno nella direzione di almeno cinque bicchierini vuoti di fronte a me.

Osservo in trance alcune gocce di Tequila che bagnano il bancone in legno, poi alzo verso l'alto un dito laccato di manicure fresca.

Quando finalmente torni a respirare, il passato torna a travolgerti.

«Fammene un altro, Dave. Non ho bisogno di un padre in questo momento. Voglio solo bere.» Lo vedo scuotere la testa, poi si volta dandomi la schiena e afferra una bottiglia di un colore ambrato dal ripiano più in alto.

Un tizio incespica mentre prova a sedersi sullo sgabello di fianco al mio. Puzza terribilmente di Whisky e sudore. Si aggrappa al bancone e, in modo maldestro, si scosta dal viso un ciuffo unto che gli ricade sulla fronte anch'essa sudata.

«Uno anche per me...» sputacchia verso Dave, poi getta lo sguardo nella mia direzione. Quello che vede deve piacergli perché avvicina il naso ai miei capelli. Li annusa, ed io rabbrividisco.

Sento il suo alito caldo vicino al mio orecchio e le sue mani sfiorarmi le braccia. Chiudo gli occhi infastidita, ma senza la forza di scostarmi.

«Lasciala stare. Ehi! Ho detto lasciala stare!» Dave si sporge oltre il bancone e me lo scrolla di dosso, facendogli perdere l'equilibrio. Il tizio cade dalla sedia in modo goffo, poi scoppia a ridere quando tocca terra.

«Ho sbattuto il culo sul pavimento, barista! Se ne avessi la forza ti prenderei a pugni!» Ride divertito.

Nonostante tutto ci speri ancora, non importa quanto ti ha deluso, quanto ti ha distrutto, quanto ti ha fatta piangere.

Dave scuote la testa, poi appoggia gomiti e braccia sul bancone e si sporge nuovamente verso di me. «Va' a casa, Olivia. Fatti una doccia e poi una bella dormita, non hai bisogno di tutto questo.»

Stringo i pugni, conficcandomi le unghie nella carne. Punto gli occhi vuoti direttamente nei suoi. «Un altro» ripeto, questa volta irritata.

«Dico sul serio, ne hai già bevuti abbastanza. Sto rischiando il posto per te» sussurra l'ultima parte prima di guardarsi attorno con circospezione.

«Se non me ne fai un altro, sarò costretta a cambiare bar.»

Dave fa una smorfia. «Credi veramente che bere fino a sentirti male possa servire a qualcosa? L'ultima volta non sei arrivata in tempo al bagno» mi ricorda, con una punta di amarezza nella voce.

Stringo i denti poi, infastidita, con la mano mi scosto da un lato la frangetta a tendina. «Non sono affari tuoi, Dave. Non sono la tua ragazza, né tua figlia e né tantomeno tua sorella.»

La sua mano calda afferra la mia. «Vuoi che chiami Ellie? O se preferisci ti accompagno a casa.»

Mi ritraggo con uno scatto dalla sua presa. «Non mi stai ascoltando! Ti ho detto di farmene un altro!» grido, sbattendo un pugno sul bancone. Poi cambio strategia. «Se preferisci puoi tornare con me...» faccio scorrere un dito sul suo braccio. «Dovrei avere casa libera...»

Lo vedo sussultare e scuotere la testa, così chiudo gli occhi e ritraggo la mano.

La musica del pub m'infastidisce, le risate e le chiacchere ad alta voce non fanno altro che irritarmi ancora di più. Mi passo una mano sulla fronte, mi scosto i capelli da davanti al viso, mi sfrego una mano sugli occhi.

«Olivia?» Dave mi richiama, posandomi una mano sulla spalla.

Mi sottraggo a quel gesto con uno scatto. «Anzi, dammi direttamente la bottiglia.» Gliela strappo di mano, poi sbatto una banconota da cinquanta dollari sul bancone. «Tieni la mancia» dico, quando lo vedo impugnare il telefonino e comporre un numero.

«Olivia aspetta!» grida, ma ormai mi sto lasciando alle spalle la sua voce e quel terribile baccano che per poco non mi ha fatto perdere il controllo.

Stappo la bottiglia, me la porto alla bocca e butto giù un bel sorso di quel liquido ambrato e disgustoso. La tequila mi brucia nella gola come benzina sul fuoco, ma lo ignoro.

Cammino come una vagabonda per le strade di New York, mentre la mente viaggia e gli occhi mi si annebbiano del tutto.

Un giorno, forse, smetterò di controllare le chiamate perse, smetterò di pensarti nel cuore della notte, smetterò di sussultare tutte le volte che qualcuno pronuncia il tuo nome, smetterò di aspettare un tuo messaggio, smetterò di abbracciare forte il cuscino come se al suo posto ci fosse il tuo corpo caldo, smetterò di ricordare i momenti passati assieme.

«Mi scusi» borbotto, dopo aver sbattuto contro un passante. Barcollo sulle gambe, inciampo in continuazione, ma riesco a rimettermi in piedi prima di cadere per terra. Una ragazzina di almeno tredici anni lo nota, tira la manica della giacca di sua mamma e mi indica puntandomi un dito contro. «Mamma, quella signora non sta molto bene» le dice ad alta voce.

Scoppio a ridere, mi porto una mano davanti alla bocca, poi mi scappa un singhiozzo.

Signora? Io sto benissimo, ragazzina.

Bevo un altro sorso. Mi gira la testa, mi sale un conato di vomito. Appoggio la fronte alla vetrina fredda di un negozio e chiudo gli occhi.

Smetterò di scambiare gli sconosciuti per te, smetterò di cercarti tra la folla, smetterò di guardare le nostre foto, smetterò di immaginarmi i lineamenti del tuo viso, o la morbidezza delle tue labbra.

Forse un giorno lo farò, ma non oggi.

Apro gli occhi e mi manca il fiato. Sento lacrime pungenti pizzicarmi gli occhi, lacrime che mi ricordano quanto sono diventata fragile e debole allo stesso tempo.

Riprendo a camminare e, questa volta, non mi scuso con nessuno. Sbatto contro petti, urto spalle, calpesto piedi e inciampo su qualsiasi cosa o persona.

Rido, mentre continuo a buttare giù sorsate di un liquido che a breve rigetterò per strada. Guardo il mio riflesso in una pozzanghera in strada e quasi non mi riconosco. I capelli sono un ammasso aggrovigliato, enormi occhiaie solcano il mio viso e, quegli occhi così puri e limpidi, sono stati sostituiti da due pozze rosse.

Finisco a Central Park e in malo modo mi sdraio sull'erba e sulle foglie autunnali. Ne afferro una rossa e me la rigiro tra le mani.

Guardo quel cielo nuvoloso, privo di raggi e di calore solare che sembra ruotare attorno a me.

Tutto è così confuso, indefinito, sfocato.

Non sento nulla in questo momento, a volte capita. Non provi nulla: né amore, né gioia, né calma, né rabbia. Non senti niente. Come quando dormi. Quasi come fossi uno spettatore della tua vita: la vivi in modo passivo. Vivi, ma senza vivere.

Ti senti come se fossi morto. Morto dentro.

A volte succede.

«Signorina, si sente bene? Ha bisogno che chiami qualcuno?» Una mano mi si posa sulla spalla e, in modo delicato, me la scuote.

Sorrido a chiunque sia, ma non rispondo. Vedo un lampo squarciare il cielo ed illuminare, per una frazione di secondo, le mie iridi ormai spente.

Il boato del tuono mi provoca la pelle d'oca.

Alcune goccioline mi ricadono sulla fronte, poi sugli occhi, ed infine sulle labbra.

A poco a poco la pioggia prende a scendere con insistenza e, chiunque si trovi nel parco, inizia a correre in cerca di un riparo.

Rimango immobile.

Avrai sempre una parte di me, in quei momenti in cui ti sembrerà di non avere niente.

E se non posso tenerti per mano, allora ti tengo nel cuore. Ed è quello il posto più bello che ho.

Ti tengo nella mia vita.

«È qui! Grazie al cielo sta bene!» grida quella testolina bionda della mia migliore amica; la riconoscerei ovunque.

Sorrido, poi prendo a canticchiare una canzone a caso. Due mani calde e bagnate mi sollevano di peso la testa.

«Cazzo, Liv! Mi hai fatto morire di paura!» Una voce più profonda si insinua nelle mie orecchie, provocandomi una fitta lancinante alla testa.

Apro gli occhi e scruto le due persone accanto a me. Sorrido alla mia migliore amica, poi le accarezzo una guancia bagnata. I suoi occhi cupi s'intristiscono all'istante notando la bottiglia ormai mezza vuota che giace ai miei piedi.

«Scricciolo...cos'è successo?» mi chiede, asciugandosi alcune lacrime appoggiate agli angoli degli occhi.

Jackson afferra con forza la bottiglia in vetro, per poi buttarla in malo modo nel bidone dell'immondizia a pochi passi da noi. Si siede al mio fianco, mi scosta una ciocca bagnata che mi ricade sugli occhi e fa un enorme sospiro, buttando la testa all'indietro.

Mi afferra una mano, poi la stringe tra le sue. «Siamo qui» mi sussurra con dolcezza.

Sorrido anche a lui, poi riporto gli occhi al cielo.

Le orecchie mi fischiano, il mio cuore martella all'impazzata nel petto.

Mi sento la bocca intorpidita.

Sono confusa, percepisco solo confusione attorno a me.

Trattenere le lacrime è terribile. Ti brucia la gola, il naso, respiri male e non fai che ripeterti: 'Non è qui. Lui non è qui'.

Il problema è che non era più così.

Chiudo forte gli occhi e, prima di ammetterlo ad alta voce, mi costringo a prendere un respiro profondo.

«Logan è tornato.»

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