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Capitolo ventisei - Logan

L'amore è un'attesa,
e il dolore
la rottura improvvisa e imprevedibile
di questa attesa.

Mi sveglio di soprassalto.
L'odore di disinfettante mi colpisce le narici facendomi aprire gli occhi di scatto.
Mi sento stordito e disgustato. Inspiro di colpo trattenendo un conato di vomito che sento risalirmi l'esofago. Tremo all'idea; sono diventato emetofobico, porca troia. Fisso il soffitto illuminato da luci a led con un'unica certezza: sono morto e non ho avuto il tempo di chiederle scusa, di implorare perdono prostrandomi ai suoi piedi, di dirle che voglio passare tutta la mia vita con lei. Una lacrima mi scivola via dall'occhio prima che riesca a fermarla e cade da qualche parte accanto a me. Sono morto e non sono riuscito a chiederle di sposarmi. Chiudo gli occhi trattenendo un singhiozzo soffocato, e in quel momento... Un battito. Sento il mio cuore battere a un ritmo regolare nella cassa toracica. Mi porto una mano tremante sul petto. Cazzo, batte davvero. Sono vivo. Tremante ed euforico, riapro gli occhi.

Mi tiro su a sedere con non poca difficoltà. Sbatto le palpebre confuso mentre tutt'attorno si fa meno sfocato. Una luce mi colpisce le iridi facendomi richiudere gli occhi per un breve istante. Non posso. Devo stare sveglio. Li riapro con fatica questa volta, sempre più stanco, sempre più disorientato. Abbasso lo sguardo sul petto, smarrito, e vi vedo appoggiati diversi elettrodi appiccicati alla pelle sudata. Scombussolato, con gli occhi appannati seguo la posizione dei fili che scopro si collegano a una piccola macchina che riconosco come un defibrillatore. Un uomo mi si para davanti facendomi alzare la testa di scatto nella sua direzione. Mi parla. Non lo riconosco, non sento niente. Percepisco solo un ronzio fastidioso nelle orecchie che mi costringe a una smorfia sofferente. Mi porto una mano sulla testa che sento pesante e confusa mentre diverse persone si muovono attorno a me e mi toccano, mi tastano, dicono cose confuse che non riesco a capire.

Lei dov'è? Io dove sono?

Apro la bocca per parlare, per dire a chiunque sia quell'uomo che non riesco a capire cosa mi sta dicendo, ma non ne esce alcun suono. Sono diventato sordo e muto?
Qualcuno mi costringe a mettermi giù, mi spinge con delicatezza dalle spalle finché la mia schiena non tocca terra. Vorrei dirgli che la testa mi gira troppo in questa posizione, che se sto seduto mi sento meglio, che mi viene da vomitare, ma non ne ho le forze. Mi limito a voltare di poco la testa e a osservare il caos che regna nel posto in cui mi trovo, arrendendomi. Non riesco a riconoscerlo. Mi chiedo che cosa sia successo, vedo il panico sul volto di sconosciuti, eppure non identifico nessuno. Cosa ci faccio qui? Ci sono persone che piangono, altre che si abbracciano, qualcuno un po' più in là vomita costringendomi a distogliere lo sguardo e a deglutire con forza.

Provo ad alzarmi di nuovo, ma le gambe sono come gelatina. Si riversano a terra come se avessero vita propria. Muovo le dita delle mani sentendole formicolare, e un po' vado nel panico. Il cuore torna a battermi a una velocità impressionante facendo strillare all'impazzata un monitor. Volto la testa di scatto in quella direzione.
Lo sento. Cazzo ci sento!
Un uomo mi sovrasta afferrandomi dal mento e facendomi voltare la testa nella sua direzione. È lo stesso uomo di prima, alto e con una folta barba bianca. Forse lo conosco, ma non ne sono sicuro. So di non avere la mente lucida.

Apre la bocca per parlare, e io mi sento svenire per la troppa gioia che provo in quel momento. «Respira, ragazzo, va tutto bene. Stai bene, non è successo nulla» dice con voce calma e risoluta. Sgrano gli occhi nel constatare che non ho perso l'udito, anche se la testa mi martella come se qualcuno mi avesse preso a mattonate.

«La testa...» riesco a dire con un filo di voce.

«L'hai sbattuta. Farà male per un po', ma poi passerà. Pensa solo a stare tranquillo adesso. D'accordo?»

Non so come ma riesco ad annuire, ancora troppo spaventato. Provo a seguire il suo consiglio, a regolarizzare il respiro facendo dei lunghi respiri profondi. Quando riesco a far cessare quel suono fastidioso, l'uomo mi regala un sorriso gentile. Torno a guardarmi attorno e finalmente stralci di quello che è successo mi scorrono davanti agli occhi come le scene di un film già visto.
Liv.
Le sue urla.
Il suo dolore.
Ho vinto... Ma a che prezzo?

Sento il terrore montarmi dentro. Mi alzo ignorando le inutili proteste di chi mi sta prestando soccorso. Barcollo sentendo mani e braccia che mi aiutano a stare in piedi. La cerco in mezzo a tutto quel caos, sposto gli occhi su ognuno dei presenti in cerca di un paio di iridi celesti e di un profumo ormai fondamentale per la mia vita. Non la vedo da nessuna parte, il cuore che riprende a battermi all'impazzata nella cassa toracica e minaccia di fermarsi ancora se non torno a respirare come dovrei, mi spaventa. Eppure, non ci riesco, lei non c'è e io vado nel panico. E quella paura smisurata cresce ancora di più quando, non appena mi costringono a tornare sulla barella improvvisata, noto riverso a terra quel ciondolo che è stato l'inizio e la fine di tutto. Il cuore d'oro su cui è incisa una frase speciale mi fissa dal basso quasi come a volersi prendere gioco di me, ricordandomi che questa volta non riguarda più me e lei, che non siamo più imbattibili, che forse non esisterà più un noi.

Riguarda me e basta.
Mi ha lasciato e non ho avuto il tempo di ricordarle che la amo.
Non ho fatto in tempo a chiederle di sposarmi.
L'anello che ho in tasca pesa come un macigno sul cuore.
Non c'è l'ho fatta.

Sono il re delle scelte di merda, composto dal 90% di caos e 10% di acqua, credo.
È così sfibrante essere Logan Miller, a volte, che vorrei non esistere.
E se tutto diventasse nero?
Se tutto cessasse di essere?
Se diventassi invisibile all'occhio umano?
Se per una cazzo di volta compiessi una scelta giusta?
Che poi, qual è la scelta giusta? Lasciarla libera? Sparire dall'intero fottuto universo?
Niente ha senso. Nulla di tutto quello che mi passa per la testa ha il benché minimo valore. Non funziona niente nella mia vita di merda. Sono esausto, rotto, fottuto.
Chiudo gli occhi e dormo...

Una settimana dopo

Dicembre è sempre stato uno dei mesi che più odio.
Be', non è sempre stato così, almeno non da bambino. All'epoca non vedevo l'ora che arrivasse il giorno di Natale per poter scartare i regali sotto l'albero, aspettavo le settimane di feste natalizie per non dovermi svegliare ogni mattina all'alba e andare a scuola ma, più di tutto, desideravo che arrivasse il giorno di capodanno per poter festeggiare il mio compleanno. Per cui, l'odore dell'inverno, dei dolci appena sfornati, del caminetto scoppiettante, la vista della neve che cade dal cielo in fiocchi grandi come la mia mano e la molteplicità di cartoni natalizi che guardavo accoccolato con mamma sul divano, erano la cosa che più preferivo in quel periodo. Mentre, adesso, vorrei accelerare il tempo e ritrovarmi a febbraio. Niente festività, niente anniversario della morte di Camilla, niente cattivo umore e scelte sbagliate. È risaputo che, ogni anno in questo periodo, il trauma che ho subito torna a conficcarsi con prepotenza nella mia testa facendomi compiere scelte discutibili.
L'ultima, avvenuta proprio qualche giorno fa.

Il cielo è di un nero intenso questa mattina. Rispecchia il mio stato d'animo, quella coscienza oscura che sento prendere vita dentro di me all'avvicinarsi di ricorrenze come queste.
Quello di oggi dovrebbe essere solo un brutto temporale, eppure non riesco a non pensare a quanto quel colore fuligginoso mi sia così famigliare.
Dentro, provo un gelo che è difficile sciogliere anche vestito con migliaia di indumenti. È dentro le ossa, conficcato così in profondità che non si può raggiungere. Con le mani infilate dentro le tasche dello spesso giubbotto, osservo il mio riflesso sfocato dentro l'acqua di una pozzanghera pressoché fangosa, e il mio viso spento e smorto mi provoca un brivido improvviso.
Le occhiaie violacee sono il segno di notti insonne, precisamente sei.
Sono sei notti che non dormo, che tengo lo sguardo rivolto al cellulare nel caso lei decidesse di telefonarmi, che ripenso a quanto tutto sia andato a puttane per l'ennesima volta a causa mia. Che gran figlio di puttana che sono.

Espiro lentamente una nuvoletta di condensa, dopodiché sfilo svogliatamente le mani dalle tasche e controllo l'ora sull'orologio che ho al polso, quello nuovo che mi sono deciso ad acquistare dopo aver capito che l'altro stava meglio indosso a Liv. Al pensiero di lei sorrido involontariamente, tuttavia la bocca assume una lieve smorfia con gli angoli rivolti all'ingiù quando ricordo che mi ha chiaramente lasciato quasi una settimana fa. Averle promesso che sarei stato abbastanza lucido da capire quando era il momento di dire di no e successivamente aver infranto quel giuramento, era un motivo abbastanza valido per incasinare nuovamente la nostra storia.

E non è solo la nostra storia a essere stata messa a rischio, ma anche il rapporto che avevo da poco ricucito con papà e la fiducia che il coach A. aveva riposto in me. Tutto perché non sono stato in grado di dire basta, tutto perché non sono stato abbastanza forte da capire che stavo superando una linea sottilissima tra realtà e illusorietà.
Sì, sono stato un povero illuso a credere che vincere l'incontro mi avrebbe concesso un po' di giustizia; è stato in grado di darmi solo un sollievo momentaneo mentre attorno tutto crollava come un castello di carte dopo una folata di vento. Papà ha minacciato nuovamente di riportarmi a L.A e di buttarmi in una clinica, il coach mi ha quasi sbattuto fuori dalla squadra e, se non fosse stato per Reed, ora mi ritroverei davvero su un volo di ritorno per la California, mentre Liv... be', lei mi ha ridato quel maledetto ciondolo a forma di cuore ed è sparita. Dall'intero universo, vorrei aggiungere, visto che sembra introvabile, dannazione.

Sospiro pesantemente facendo oscillare la testa che sento opprimermi il cervello; il mal di testa che ho da questa mattina minaccia di farmi esplodere la testa se non riuscirò a risolvere in fretta il casino in cui mi sono cacciato. Non riesco a dimenticare il suono della voce di Liv che si spezza dopo un urlo straziante, non posso scordare i suoi occhi, dapprima luminosi e vivaci, spegnersi quando mi hanno visto cadere e ha capito che il mio cuore si era fermato per una manciata di secondi. È stato talmente breve il mio viaggio verso la luce bianca che mi è sembrato di addormentarmi solo per un istante, eppure per lei è stata un'agonia che non riuscirò più a scordare. So che non vuole parlarmi, e se fossi meno egoista la lascerei libera di rifarsi una vita lontano da uno stronzo come me. Quando però poi mi ricordo che l'ultima volta che ho preso una decisione simile a sua insaputa ho quasi distrutto la vita di entrambi, riesco a rinsavire abbastanza velocemente da non compiere altre simili cazzate. Ecco per cui, nonostante mi abbia completamente tagliato fuori, sono appostato vicino a un albero nel cortile della Columbia in attesa che finisca la lezione di questa mattina.
L'ultima, perché poi me la porterò via.

Trattengo il fiato e muovo distrattamente la gamba destra quando gli studenti iniziano a riversarsi e poi disperdersi nel cortile, chi con un ombrello in mano in attesa della pioggia tanto disdegnata, chi si muove in gruppo portando con sé libri e bricchi di caffè. Mi tiro su il cappuccio della felpa volendo evitare di fare conversazione con chiunque, e abbasso direttamente la testa quando alcuni giocatori della squadra dei Lions mi passano accanto lanciandomi occhiate curiose. Cazzo, spero non mi riconoscano visto che indosso la felpa rossa dei Bulldogs sotto il giubbotto. Mi volto dandogli la schiena e pregando mentalmente che se ne vadano e poi, dopo quelli che sembrano interminabili minuti, riesco a esalare il primo respiro della giornata soltanto quando finalmente la vedo uscire dal portone principale. Quando i miei occhi la trovano incollandosi energicamente alla sua figura... Merda, tremo come un povero idiota.
Non smetterò mai di dirlo: lei è bellissima e io sono un bastardo, un diavolo che dà la caccia al suo angelo preferito.

Il mio cuore salta un battito quando la sento ridere, ed è come se il buon umore tornasse a farsi sentire con prepotenza, rischiando di farmi sorridere esageratamente. Non proprio il modo migliore per iniziare una conversazione, insomma.
Deglutisco nel notare quanto è capace di distinguersi anche in mezzo a migliaia di persone, inconsapevole della sua eterna bellezza e di un sorriso capace di accecarti peggio di come potrebbe fare il sole se osassi guardarlo senza gli appositi occhiali. Sta scendendo i gradini insieme ai suoi migliori amici e a un ragazzo che non ho mai visto, con un'enorme borsa in spalla e un paio di libri in mano da vera studentessa.

Li seguo con gli occhi, e devo serrare con forza la mascella quando noto la mano di lui posarsi sulla sua spalla, stringerla in modo delicato e poi sorriderle con calore mostrandole una dentatura bianca e impeccabile. Stronzo, già mi sta sul cazzo.
Liv butta indietro la testa scoppiando in una fragorosa risata che le scompiglia i capelli quando il ragazzo le dice qualcosa che a quanto pare è davvero esilarante, e quel suo sorriso è così bello che per un momento trattengo il fiato combattuto. Dentro mi si apre una voragine all'idea che a farla ridere così sia stato qualcun altro, una gelosia che mi divora dall'interno facendomi a pezzi e mi appanna la vista, ma dall'altra vorrei poter fermare il tempo e continuare a sentire quel suono a ripetizione, come una radio rotta e inceppata. Non smettere mai di ridere, amore mio, sei così bella che mi tremano il cuore, le vene, i polsi.

Espiro lentamente e compio un passo in avanti vacillando appena, nel farlo, una folata di vento mi colpisce in viso facendomi scivolare via il cappuccio.
Non mi sembra il momento di ruzzolare per terra, Logan: vedi di riprenderti!
Le vado incontro facendomi spazio tra i pochi studenti ancora presenti nel cortile, ignorando le occhiate languide di alcune studentesse, e nel farlo non posso fare a meno di lanciarle uno sguardo così penetrante e profondo che mi stupisco non si sia ancora accorta della mia presenza. Ma non le va a fuoco la testa?

La scannerizzo dalla testa ai piedi come una fottuta macchina a raggi X.
Le sue incantevoli gambe sono avvolte da un paio di jeans neri così stretti da domandarmi se non le si sia fermata la circolazione, ai piedi porta un paio di stivali alti marroni e indossa una camicia grigia scozzese infilata nei pantaloni che viene per metà nascosta dallo spesso cappotto nero. Bellissima. Nervoso all'idea di parlarle, distolgo lo sguardo dal suo corpo per spostarlo più in alto e, scontrandomi con un paio di occhi azzurri come il mare in tempesta, con iridi talmente scure e intense, quel giorno, da ricordarmi gli abissi più profondi dell'oceano, ho un brivido.
Lei è meravigliosa e io non sono alla sua altezza. Non lo sarò mai.
Indegno è la parola corretta.

Sbatto lentamente le palpebre avvicinandomi e raggiungendola prima che si allontani troppo. La prima a notarmi è Ellie, che si ferma a metà del suo racconto coinvolgente e mi rivolge un'occhiata di totale indifferenza capace di mettermi a disagio, dopodiché alza gli occhi azzurri al cielo scuotendo la testa e dando un leggero colpetto alla spalla della sua migliore amica per richiamare la sua attenzione. Di conseguenza ricevo più o meno lo stesso trattamento da Jackson, che però per sicurezza mi guarda anche dall'alto al basso come se fossi un topo di fogna orrendo e fetido che non vede l'ora di uccidere, e poi finalmente vengo notato da Liv. Sposto lo sguardo su di lei, fissandola dritto negli occhi e provando a trasmetterle tutto il mio dispiacere. Liv ricambia l'occhiata, dapprima saltando sul posto per l'intensità della spallata ricevuta da Ellie, poi tramutandola in una domanda silenziosa, probabilmente chiedendosi che diavolo ci faccio lì, infine, prende un respiro profondo e incrocia le braccia al petto socchiudendo gli occhi. Sembra un chihuahua pronta ad abbaiare e ringhiarmi contro. Quando però le sue guance s'imporporano all'improvviso per la troppa intensità del mio sguardo, quasi scoppio a ridere. Dio se la amo.

«Guarda un po' chi c'è: chi non muore si rivede» commenta Ellie velenosa, beccandosi un'occhiata di fuoco sia da Jackson che da Liv.

Sospiro costringendo le labbra a sollevarsi in un finto sorriso. «Ciao anche a te, Ellie. Dimmi un po', che cosa mangi a colazione? Cereali rinsecchiti e latte avariato? O fai una dieta a base di limone e pane raffermo?» le chiedo, aggrottando la fronte.

Il suo sopracciglio biondo schizza in alto, la bocca si arriccia in una smorfia e il corpo le si tende. La mano di Jackson s'intrufola nei suoi indomabili ricci biondi e compie una qualche magia capace di rilassarla all'istante. O forse no.

«E la tua, invece? Hai una scorta di autoiniettori di adrenalina nel caso decidessi di morire ancora? O semplicemente ti svegli con un disperato bisogno di metterti nei guai?»

«Ragazzi» ci ammonisce Jackson, dando una rapida occhiata alla faccia inespressiva di Liv. «Volete smetterla? Tutti e due.»

Mi mordo con forza l'interno della guancia per non ribattere a quella provocazione. «Dalle un biscotto e dille di ritirare gli artigli, Allen, non sono qui per litigare.» Sposto lo sguardo da lei, che ha aperto la bocca per dire qualcosa ma che richiude subito dopo aver visto lo sguardo serio del suo ragazzo, a Liv, che sta osservando la scena con evidente disagio. «Possiamo parlare?» le chiedo abbassando il tono di voce, in modo che solo lei mi senta.

Il ragazzo che non ho mai visto, e che per tutto quel tempo l'è sempre rimasto a fianco, adesso le appoggia distrattamente una mano sulla spalla. Seguo attentamente il suo gesto indurendo appena la mascella fino a quando non mi scontro con un paio di occhi marroni capaci di innervosirmi. Lo guardo male mettendolo a disagio, lui socchiude gli occhi. E se gli mozzassi quella mano? Quanto impiegherebbe a morire dissanguato se nessuno lo aiutasse? Potrei anche solo spezzargli il polso, meno sangue e più dolore. Liv deve rendersi conto della piega che hanno preso i miei pensieri, perché si affretta a fare un passo avanti sfuggendo a quel tocco e mettendo di conseguenza della distanza. Apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude sospirando rumorosamente.

Alza gli occhi nei miei regalandomi uno sguardo severo. «Logan lui è David, un mio compagno di corso» specifica socchiudendo gli occhi. Poi si rivolge al suo amico, compagno di corso, uomo che sarà presto ucciso, quello che è. «David, lui è Logan, il mio...» Si blocca a metà della frase, gesticolando con la mano come a voler minimizzare il tutto.

Le lancio un'occhiataccia anche se non può vedermi. «... Ragazzo» concludo per lei. «Sono il suo ragazzo.»

«Non più» ribatte piccata, tornando a osservarmi con astio.

«Parleremo anche di questo se me ne darai l'occasione.»

Liv sbuffa fuori una risata amara e allarga le braccia esasperata. Indica l'edificio alle sue spalle con l'indice. «Ho da fare. Perdere tempo a parlare con te non è nei miei piani di questa mattina.»

«Da quando in qua parlare con me è diventata una perdita di tempo?»
Alle mie parole, incrocia le braccia al petto e io imito il suo gesto; siamo muro contro muro.

«Da quando mi hai dimostrato che ascoltare me è un'evidente perdita di tempo per te

Jackson emette un basso fischio mentre quel ragazzo, che ancora le sta tra i piedi, fa scorrere lo sguardo tra me e lei. Mi trattengo da lanciargli un'occhiata di evidente ammonimento, costringendomi a non distogliere lo sguardo da quella che è ancora la mia ragazza. Testarda, cocciuta e... Incredibilmente sexy quando si comporta così.

Mi mordo l'interno della guancia per non sorriderle. «Mi dispiace, ma i tuoi piani per la giornata sono cambiati.» Con un cenno le indico la spalla. «Mi passeresti la tua borsa, per favore? Così possiamo andare.»

Liv sbatte le palpebre così velocemente che temo le venga un tic nervoso. Lascia ricadere le braccia lungo i fianchi e, con un tonfo, fa scivolare i libri a terra. Mi sporgo per aiutarla a raccoglierli, ma lei alza una mano fermandomi e fa da sola: si piega, afferra i libri con foga e li passa a Ellie senza nemmeno guardarla in faccia.
No, i suoi occhi lividi di rabbia sono puntati nei miei.

«Cazzo, ma fai sul serio? Sei sordo per caso? Io e te abbiamo chiuso una settimana fa!» mi sbraita contro.

«No, Liv, ti ho sentita forte e chiaro, ma ero troppo... scosso per protestare in quel momento.»

«Vuoi dire quasi morto» commenta acida. «Svenuto, con un defibrillatore sul petto e almeno venti medici attorno! Questo te lo ricordi, non è così?»

«Come se fosse appena successo» le rispondo con un tono calmo. «Vieni via con me» insisto ancora, supplicandola. «Parliamone come persone mature.»

Sbuffa fuori un'altra risata amara. «L'unica persona immatura qua sei tu! E sei un pazzo se pensi di poterti presentare qui e pretendere che io ti segua come una stupida. Perché è esattamente questo che sono: una stupida!»

«No, non lo sei, e hai ragione: vorrei che tu lo facessi di tua spontanea volontà, Liv. Concedimi il lusso di poterne almeno parlare, di provare a risolvere questo casino.»

«A quale scopo?» Sgrana gli occhi. «Per ricominciare a litigare l'attimo dopo? No grazie, Logan.»

Faccio un passo deciso nella sua direzione, le vado così tanto vicino da riuscire a percepire sulle labbra il suo respiro caldo e il suo profumo inconfondibile di cocco e vaniglia. Al mio gesto inaspettato, trattiene il fiato ma rimane sulle sue. Non la tocco e nemmeno la sfioro. Il calore che il suo corpo emana mi rilassa all'istante permettendo al sangue di defluire nelle mani che fino a un attimo prima erano strette a pugno.
La guardo negli occhi, così intensamente da provocarle un brivido.

«Tu sai che non volevo che accadesse niente di quello che è successo. Mi conosci. Mi conosci così bene da sapere che non puoi semplicemente voltarti dall'altra parte quando si tratta di noi e chiudermi fuori. Ci siamo dentro entrambi, Liv. Te lo sei dimenticato?»

Il colore dei suoi occhi cambia, diventa di un'intensità tale da farmi deglutire vistosamente. Le sue labbra carnose si dischiudono. «È questo il punto, Logan: ti conosco così bene da sapere che non cambierai mai» mormora a un soffio dalle mie labbra, facendo in modo che solo io riesca a sentire quelle parole. «Non farai mai nulla per modificare il tuo comportamento, per migliorarti, per non autodistruggerti! E io sono stufa di sentirmi in questa maniera.»

Mi si forma un nodo in gola talmente grande da impedirmi di respirare come vorrei.
«Come se fossi un caso perso?»

Si acciglia per un istante, sorpresa dalla brutalità delle mie parole. «Come se non fossi abbastanza per te.»

Il mio stupido cuore perde un battito, e il mio respiro accelera. Faccio per allungare una mano verso di lei, ma si scansa. «Sai che sei tutto per me, Liv, lo sai. Non azzardarti a pensare il contrario» sussurro con la gola serrata e lacrime silenziose che minacciano di sgorgare a fiumi. Cazzo, no che non piangerò. «Non puoi sostenere il contrario, non puoi credere che tu non sia importante per me, cazzo!»

Vedo il mio riflesso nei suoi occhi anch'essi saturi di lacrime, ma quella sua debolezza dura solo per una manciata di secondi. È solo quando scuote la testa afferrando con più forza la sua borsa dai lembi che mi rendo veramente conto del casino che ho combinato. Sospiro afflosciando le spalle e barcollando all'indietro come se mi avesse spintonato e non avessi le forze per reagire. Con la coda dell'occhio vedo, poco più in là, Ellie e Jackson intenti a lanciarsi occhiate preoccupate, indecisi se intervenire o meno. Li ringrazio mentalmente quando decidono di compiere un passo indietro provando a lasciarci più privacy, cosa che invece il coglioncello, ancora attaccato a Liv come una cozza, ha deciso di non fare.

Si azzarda a fare un passo avanti entrando con forza nel mio campo visivo, quasi imponendomi di indietreggiare di più. Incazzato, mi costringo a distogliere lo sguardo dagli occhi di Liv per posarlo su Davidmistaisullepalle e concedendomi il lusso di guardarlo, osservarlo sfacciatamente, scannerizzarlo dalla testa ai piedi. Porta un paio di occhiali da nerd così malandati che mi ricorda Harry Potter quando ancora dormiva nel sottoscala, e ha una folta chioma di capelli arruffati che gli ricade in onde fino alle spalle. Una camicia abbottonata fino al collo di un colore smorto, dei pantaloni larghi cachi e un paio di sneakers ai piedi completano un look molto sbarazzino. Non ho mai giudicato nessuno per il suo abbigliamento o per i gusti in generale, ma questo tizio mi sta così tanto sui coglioni che vorrei spaccargli i denti solo per gioire quando sarà costretto a infilarsi un apparecchio ferroso in bocca per sistemare i danni. Sogghigno al pensiero, dopodiché i miei occhi s'induriscono. Gli lancio un'occhiata così fulminea che mi aspetto di vederlo rotolare a terra come una palla da bowling. Con mia sfortuna ciò non accade. David ricambia l'occhiata e indurisce la mascella mettendosi di fronte a Liv, credendo di fare la cosa giusta. Eppure, non mi sfugge il terrore nei suoi occhi e il tremore delle sue mani.

«È meglio che tu vada» afferma in un tono così basso e incerto che sembra che stia per farsela sotto. «Non mi sembra che lei ti voglia qui.»

Raddrizzo le spalle, nel farlo quasi lo sovrasto a causa della mia statura. Vedo David abbassare appena gli occhi e deglutire con forza quando mi sporgo verso di lui, nero in volto e con la voglia di ammazzarlo seriamente.

«Che cos'hai detto?»

Le sue pupille si dilatano appena. Apre la bocca per dire qualcosa ma poi la richiude di scatto quando nota i miei pugni allentarsi e poi stringersi. Sto combattendo con forza contro me stesso per non tirargli quel dannato pugno in faccia e sui denti.

David trema appena, poi ci riprova. «H-ho... ho detto...»

«Ti sembra che mi freghi qualcosa di quello che pensi?» sbotto zittendolo. «Ho chiesto la tua opinione, per caso?»

«N-no, m-ma...»

«Sei diventato tutt'a un tratto il suo cane da guardia? Hai un collare borchiato e non me ne sono reso conto?» Gli osservo sfacciatamente il collo, ora rosso come il fuoco, mettendolo ancora più a disagio.

David si rimette più dritto, prende un respiro profondo gonfiando le guance scarlatte e si azzarda a guardarmi con quegli occhi che portano il colore della merda. Lancia una rapida occhiata a Liv e si fa coraggio.

«Ha detto che non vuole venire con te. Non è così difficile da capire, amico

Jackson, a poca distanza da noi, emette un'imprecazione così alta che per poco non scoppio a ridere. «David, forse è meglio se lasci perdere...»

Sogghigno irrigidendo le spalle e inclinando di poco la testa, ancora una volta il coglione trema al punto che mi stupisco nel non vedere una chiazza bagnata a livello del cavallo del pantalone cachi.

«Lascia che ti chiarisca una cosa, idiota del cazzo, io e te non siamo amici, e se ti azzarderai ancora a...»

«Basta!» tuona una voce che conosco fin troppo bene alle sue spalle. «Smettetela!»

Richiudo la bocca di scatto ma rimango ancora per un po' con lo sguardo a un millimetro da quello di David, finché non mi sento tirare per il braccio e allora mi allontano lasciandolo finalmente libero di respirare. Sollevo le labbra in un sorriso sfrontato quando il viso pallido del coglione torna piano piano a un colore normale, lasciandomi intendere che se non mi avessero fermato probabilmente gli sarei saltato al collo facendogli prendere un infarto e lui si sarebbe pisciato sotto dalla paura. Lo saluto con la manina sotto lo sguardo divertito di Jackson e quello accigliato - e anche un po' compiaciuto - di Ellie. Liv mi trascina per il cortile come se pesassi una piuma, e questo perché non sto facendo nulla per impedirglielo. Prima di mettere troppa distanza, però, si rivolge al gruppetto.

«Vi raggiungo tra poco» dice ai suoi migliori amici, poi guarda nella direzione di David, che si sta massaggiando il collo a disagio. «Grazie per l'aiuto, ma non era il caso. Ci sentiamo in settimana per quel progetto, va bene?»

Senza aspettare risposta, riprende la camminata con lunghe falcate, la mano sempre agguantata al mio braccio. Sotto un albero nascosti da occhi indiscreti, mi lascia andare spingendomi contro il tronco duro della pianta spoglia. Sorrido con malizia morendomi il labbro inferiore, colpito da quel gesto. La scannerizzo dalla testa ai piedi, divertito dalla sua posa incazzata e intrigato da quel broncio che pende all'ingiù. Vorrei baciarla a costo di ricevermi un cazzotto sulla faccia. Forse è meglio lasciare perdere, per il momento.

«Sei stato maleducato!» sbraita dandomi uno schiaffo al braccio che fino a un secondo fa teneva stretto tra le grinfie. «Arrogante e sfacciato! Chi diavolo ti credi di essere, Logan? Chi ti dà il diritto di trattare così i miei amici?»

La vena sulla sua fronte prende a pulsare facendomi capire il livello che la sua rabbia ha raggiunto, tuttavia non riesco a fare a meno di guardarla come se volessi saltarle addosso per strapparle i vestiti ed entrarle dentro con una forza disumana da lasciarla senza fiato. Già, quando s'incazza mi eccita da morire. Che razza di problemi ho? Scuoto la testa concentrandomi su qualcosa che non sia lei nuda, sotto di me, intenta a gemere e...

«Cazzo, mi stai almeno ascoltando?» grida, dandomi un altro schiaffo, che questa volta sento tutto.

«Ahi» mi lascio sfuggire, alzando appena gli occhi al cielo. «Te l'ho già detto una volta, Liv: non sono sordo. Non c'è il caso che alzi la voce.»

«No, certo, sei solo stupido!» mi rimbecca incrociando le braccia al petto.

Inclino di poco la testa, la schiena appoggiata al tronco e le braccia che assumono la sua stessa posizione di difesa. «Ora chi è quello maleducato tra i due? Possiamo anche parlarne in modo civile, senza offese e senza grida. Che ne dici di andare da te?» le propongo speranzoso. Sollevo l'angolo destro delle labbra giocandomi la carta della fossetta, e sperando che non decida di colpirmi ancora.

«Che ne dici di andare a farti fottere?» Anche lei solleva le labbra per poi fare la medesima cosa con il medio. «Tornatene a Yale, Logan. Non ho proprio nulla da dirti.»

Si volta e fa per andarsene, ma ho la prontezza di afferrarla per il braccio e fermarla. La spingo con delicatezza contro il tronco, quello dove ero appoggiato io poco prima, e le vado addosso bloccandola per evitare che fugga via. Appoggio le mani ai lati della sua testa sogghignando, e la posizione non deve piacerle perché, dopo aver inspirato un brusco respiro, solleva il ginocchio destro pronta a colpirmi. Paro il colpo infilando il mio ginocchio in mezzo alle sue gambe e costringendola ad allargarle in modo che mi ci possa piazzare nel mezzo. A quel gesto, Liv inspira bruscamente e borbotta una sfilza di imprecazioni che farebbero svenire un prete. Soffoco una risata contro i suoi capelli dal profumo inconfondibile di vaniglia.

«Bastardo» mugugna provando a spingermi lontano, ma inutilmente.

Scuoto la testa sfiorandole la guancia con il naso. «Fai la brava, piccola. Lo sai che a questo gioco sono più bravo io» le sussurro sulla pelle morbida e delicata.

Liv inspira un altro brusco respiro e mi trafigge con lo sguardo prima di socchiudere gli occhi. «Mi fai schifo e ti odio» soffia fuori con voce tremante. «Spostati.»

«Già» concordo. Infilo la mano sotto lo spesso cappotto e gli accarezzo la schiena. «E so che dovrei lasciarti in pace, sarebbe la cosa più giusta. Non lo pensi anche tu?» Le labbra premono sulla sua tempia, scivolano dietro l'orecchio e depositano un bacio rimanendo il quel punto più del dovuto. Sotto le mie mani, Liv trema, eppure non ha nessuna intenzione di cedere. Non questa volta. Inspiro il suo odore socchiudendo gli occhi, dopodiché espiro tirandomi un po' indietro. Sollevo lo sguardo nel suo solo per scoprire che sta guardando un punto alle mie spalle. So che non sta osservando nessuno in particolare, è semplicemente chiusa in se stessa. Quando si è calmata e capisco che non andrà da nessuna parte, mi allontano di un passo facendo scivolare via le mani. Subito il suo corpo mi manca da morire, e devo trattenermi dal sfiorarle il cappotto o qualsiasi cosa le appartenga solo per sentirmi un pochino meglio.
È giusto che io mi senta una merda.

«Che cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace? Mi dispiace, Liv.» Sospiro e incrocio le mani dietro la nuca.

I suoi occhi tornano a fissarmi. «Lo dici sempre, ma le cose non cambiano mai. Come posso continuare una relazione che mi fa più male che bene?»

«Sapevi che ero un casino quando mi hai conosciuto. Sai perfettamente che qualcosa in me non va.» Con l'indice mi indico la tempia, e i suoi occhi si riempiono di lacrime che tenta in tutti i modi di non far scivolare sulle guance. Sento anche i miei inumidirsi, e devo mordermi con forza l'interno della guancia per non cedere a loro. «Sono un fottuto casino e compio scelte sbagliate da una vita intera, ma tu hai detto che non te ne saresti più andata.»

Sbatte le folte ciglia e butta per un secondo la testa all'indietro, dopodiché torna a guardarmi negli occhi. «Forse non avrei dovuto promettertelo» sussurra distogliendo poi lo sguardo per puntarlo a terra.

Rimango in silenzio, così a lungo che per un momento spero di aver capito male e che mi dica che stava scherzando. Quando non lo fa, giuro, sento il corpo cedere. Tremo così forte che non ho idea di come sia ancora in piedi.

«Mi stai prendendo in giro, non è possibile che-»

«Sono seria, Logan» mi interrompe. Alza di nuovo lo sguardo nel mio, le labbra tirate in una linea dura e le guance bagnate da lacrime che non è più riuscita a trattenere. «Adesso basta» mormora, così piano che a stento sento la sua voce.

Se fino a quel momento ero convinto che le cose si potessero aggiustare, ora la realtà mi piomba addosso come una tempesta improvvisa, e io non sono pronto. Mi costringo a sbattere piano le palpebre ricacciando indietro le lacrime. Non distolgo lo sguardo dal suo volto nemmeno per un istante, imprimendomi nella testa ogni perfezione e imperfezione del suo viso, ogni neo e piega sulla pelle, ogni espressione che cambia in base a ciò che prova. Apro e serro le mani che sento formicolare, stessa sensazione che provo sulla faccia e dentro la testa. Una morsa serrante mi si forma alla base dello stomaco, dilaniandomi dall'interno ed espandendosi per tutto il resto del corpo. Il cuore prende a battere più velocemente, e la medesima cosa fa il respiro, che accelera costringendo lo sterno a sollevarsi a scatti. Non ho bisogno di un medico per sapere che sto per avere un attacco di panico, e nemmeno mi preoccupa. La cosa che più mi angoscia è averlo di fronte a Liv, mostrarle tutta la debolezza del momento e forzandola a una scelta che potrebbe non essere ciò che realmente vuole.

Per cui socchiudo per un momento gli occhi concentrandomi sui battiti accelerati del cuore e sul respiro irregolare. Ripenso alla prima volta in cui l'ho vista, bella più che mai e spaesata seduta su una sedia troppo grande per il suo corpo minuscolo nel salone di casa mia. Addentava una fetta di torta al cioccolato come se non mangiasse da una vita intera, le guance e le labbra erano sporche di glassa e gli occhi grandi e vivaci le luccicavano. Ricordo come mi sono dovuto costringere a non ripulirla leccandole via la glassa, come le ho rubato la forchetta da sotto il naso solo per il gusto di vedere come avrebbe reagito e, spoiler: mi avrebbe squarciato la gola se solo i nostri genitori non fossero stati presenti.

Forse è stato in quell'esatto momento che mi sono innamorato di lei.
Mi porto una mano tremante sul petto e provo a prendere un lungo respiro profondo. Lo faccio diverse volte e sembra funzionare. Il battito furioso del mio cuore lascia il posto a una cadenza naturale, e questo mi fa riaprire gli occhi. Liv mi sta guardando con interesse. Se si è accorta dell'attacco di panico non lo dà a vedere, tuttavia sembra curiosa del mio approccio verso questa ventata di novità, soprattutto perché per lei è sempre stato difficile gestirli e capire come uscirne.

Dischiude le labbra carnose lasciandosi sfuggire un sospiro. Si passa entrambe le mani sul viso e poi le fa scivolare nei capelli, tutto senza distogliere lo sguardo dal mio. «Non posso farlo. Non ho più la forza di affrontare le tue bravate, Logan» mormora con un groppo in gola evidente.

«Mi stai lasciando davvero?» Sono senza fiato.

A Liv sfugge una lacrima che le ricade sulla guancia già umida per il pianto, ma anche per la fine pioggerella che scende da un cielo ricoperto da spessi nuvoloni. Tira su con il naso passandosi la manica del cappotto proprio nel punto in cui la lacrima le ha sfiorato la pelle. Annuisce, e il mio cuore va del tutto in pezzi.

Faccio un passo avanti con le gambe che tremano. «Liv...» boccheggio. «Ti prego...»

Ma lei compie un passo indietro mettendo ancora più distanza tra di noi. «Mi dispiace» sussurra, prima di voltarmi le spalle e di scappare via senza nemmeno darmi il tempo di realizzare quello che è successo.

Rimango immobile a fissare il vuoto che il suo corpo ha lasciato, lasciando che la pioggia mi inzuppi dalla testa ai piedi. Le orecchie mi fischiano e gli occhi mi si appannano del tutto, eppure non mi muovo. Liv mi ha lasciato. E mentre continuo a ripetermelo nella testa, l'unica cosa sensata a cui riesco a pensare è che, con ogni probabilità, la sua vita migliorerà nettamente con il tempo. La mia, invece...
Mi sento come se mi avesse strappato via il cuore.
Anche quel giorno, l'anello nella tasca dei jeans pesa come un macigno e mi trascina a terra come se avessi un àncora legata alla caviglia.

Che sia davvero questa la fine?

Did she run away? Did she run away? I don't know
If she ran away, if she ran away, come back home
Just come home
(SYML)

In settimana raccolgo i brandelli del mio cuore sparso a terra e provo ad andare avanti. Non ho idea di come faccio a trascinarmi fuori dal letto ogni mattina senza correre a vomitare nel water, eppure lo faccio. Costringo le gambe a muoversi fin dentro la doccia, obbligo il mio stomaco a ingurgitare quello schifo che chiamano cibo della mensa, ma che assomiglia di più a sbobba da prigione, mi impegno nel non saltare nessun allenamento né tanto meno le lezioni giornaliere che sono diventate tutte uguali e noiose, per quanto mi riguardano. Subisco le sfuriate del coach che mi rimprovera di non essere abbastanza lucido, abbastanza pronto, abbastanza in me. Lascio che minacci almeno cinque volte al giorno di sbattermi fuori dalla squadra se non mi decido a rimettermi in sesto. La verità è che ha bisogno di me; sono uno dei giocatori più bravi della stagione dopo suo figlio. È obbligato a rifilarmi tutte quelle stronzate sull'essere uno studente modello con voti impeccabili, ma sappiamo bene entrambi che l'unica cosa che più gli preme è che io arrivi sano e in grado di giocare per bene alla finale di campionato.

In quei giorni mi alleno, provo a studiare rintanandomi in biblioteca e poi, la sera, mi chiudo in palestra a tirare pugni su un sacco da boxe finché non sento il corpo cedere e la mente finalmente liberarsi da tutto il dolore. A quel punto mi trascino in doccia e poi nel letto, svenendo per la troppa stanchezza. Guardo a malapena i messaggi o le chiamate sul cellulare. Un pomeriggio sono così concentrato a fissare una foglia, ormai secca di un albero spoglio, intenta a staccarsi dal ramoscello per riversarsi al suolo che a malapena mi rendo conto della vibrazione ininterrotta del telefono sul comodino. Dall'altra parte della linea, papà vuole sapere come sto. Mento, ovviamente. Gli racconto delle mie giornate mettendoci entusiasmo, tralascio la nota dolente su me e Liv distraendolo sugli allenamenti di football e sugli esami che sono riuscito a passare. Quando mi riferisce che a Natale scopriremo il sesso del bambino, mi lascio sfuggire il primo vero sorriso dopo giornate nere. Nonostante il cattivo umore, sono felice per loro e l'idea che tra qualche mese ci sarà un nuovo arrivo in famiglia mi riempie il cuore di gioia.

È strano pensare a me come un fratello. Sono sempre stato figlio unico anche quando l'arrivo di Liv mi ha stravolto la vita; per quanto mio padre tentasse di rifilarmi la stronzata che saremmo diventati fratellastri, non ci ho mai creduto. Il giorno in cui l'ho vista per la prima volta, in cui i nostri occhi sono entrati in contatto emettendo scintille invisibili a occhi altrui, ho capito che saremmo stati qualcosa di più. Solo non avevo messo in conto tutto quello che è avvenuto dopo. A volte mi chiedo se fosse semplicemente destino, se le cose fossero già destinate a chiudersi ancora prima che fossimo riusciti a viverci appieno, o se sono state le scelte sbagliate che ho compiuto nei mesi precedenti a dividerci. Sicuramente ho giocato un ruolo fondamentale in questa rottura, eppure non posso non pensare che l'universo non ci voglia insieme.
Siamo così sbagliati?

Mi pizzico il ponte del naso ed emetto un lentissimo sospiro all'ennesima domanda da parte del coach. Sono nel suo studio da più di un'ora, appoggiato al muro di fianco alla porta con le gambe accavallate all'altezza delle caviglie e un mal di testa assurdo. Mi massaggio la spalla indolenzita senza rendermene conto, invocando così l'ennesima discussione.

«Vedi, papà? È di questo che sto parlando!» Reed mi punta il dito contro guardando però il coach che sembra volersi piantare un coltello in fronte. «Dimmi che l'hai notato anche tu! Negli ultimi giorni sembra spaccato a metà!»

«Sei un bastardo traditore» ribadisco per la centesima volta, troppo calmo. «E questo non ti fa onore, capitano

Reed socchiude gli occhi fulminandomi. «Se solo ti facessi controllare per una dannata volta, sicuramente ti romperei un po' meno il cazzo. Sono il tuo quarterback e lo vedo come ti fai male a ogni allenamento! Che sia una caduta accidentale, uno spintone involontario o una pallonata lanciata troppo forte, esci ammaccato e sempre in procinto di svenire. Non - è - normale!» sbraita.

Mason, stravaccato sulla sedia di fronte alla scrivania, la testa appoggiata sulla mano e un'espressione annoiata in viso, sospira attirando su di sé l'attenzione. «Cazzone, sai che sono sempre stato dalla tua parte, questa volta però ha ragione lui. C'è qualcosa che non va, e non dirmi che non te ne sei accorto. Sei completamente a pezzi.»

'Ti stacco la testa se non stai zitto, amico' penso digrignando i denti.

«Sto bene, porca troia. In che lingua devo dirvelo?» inveisco contro entrambi.

«Miller!» mi ammonisce il coach A. «Attento alle parole, non voglio che i miei giocatori usino questo tipo di linguaggio.»

«E allora dica a suo figlio di smetterla di starmi con il fiato sul collo. Ne ho le...» Mi blocco quando socchiude gli occhi, mordendomi con forza la lingua. «... scatole piene di questa storia. Il fatto che io sia sempre un po' malridotto non significa che ci sia qualcosa che non va. Mi alleno ogni mattina su un campo da football e la sera faccio la medesima cosa contro un sacco da boxe, perciò mi sembra più che normale riportare lividi.» Faccio notare a tutti i presenti.

Reed allarga le braccia annuendo con foga. «Certo, amico, lo sarebbe se si limitassero a essere dei minuscoli lividi sparsi qua e là, ma non lo sono! Le tue ossa si spezzano solo a guardarle, dannazione, e hai ecchimosi grandi come le mie palle! L'altra mattina Avery ti ha dato una manata sulla schiena e mezz'ora dopo Mason ti stava spalmando una pomata contro gli ematomi!»

Alzo gli occhi al cielo, lanciando una breve occhiata al coach che ora sta sorseggiando il suo schifosissimo caffè nero alla cannella assistendo alla conversazione con attenzione. «È solo un periodo un po' di merda. Passerà, e starò meglio.»

Questa volta Reed scuote la testa sospirando. «Il fatto che tu e West Coast non stiate più insieme non migliorerà la situazione, Logan.»

Alzo di scatto lo sguardo nel suo e socchiudo gli occhi guardandolo di traverso.
«E tu che cazzo ne sai? Hai parlato con lei?»

«Chi?» domanda il coach accigliato, intromettendosi.

Mason si alza in piedi con l'aria di chi vorrebbe trovarsi ovunque tranne che lì, mi si para di fronte posandomi una mano sul petto quando vede che mi stacco dal muro nervoso, compiendo un passo nella direzione di Reed. «Cazzone, sta calmo. Quello che succede tra te e Liv non è affar nostro. Reed è solo preoccupato.» Si rivolge poi a lui, guardandolo di traverso. «Non è così?»

«Liv sarebbe la tua ragazza, Miller?» domanda nuovamente il coach, per niente felice di essere stato ignorato.

«Lo era» gli rispondo tra i denti, guardando ancora Reed in cagnesco che, dal canto suo, ha pure il coraggio di dimostrarsi dispiaciuto.

«Senti, Logan, non ti sto parlando da quarterback o come tuo capitano, ma da amico. Quello che ti succede preoccupa l'intera squadra, i tuoi compagni si sono fatti qualche domanda e temono che le cose possano peggiorare. So che non te la passi bene, ma...»

Gli vado più vicino, teso come la corda di un violino e con un Mason che ancora prova a tenermi a distanza di sicurezza, come se fossi un pazzo squilibrato che mette le mani al collo di chiunque. Sbuffo per l'assurdità della situazione. «Tu non sai un bel niente, perciò fatti gli affari tuoi, capitano

Il coach A. si alza dalla sedia girevole, posa il caffè sulla scrivania e ci viene incontro. Guarda Reed, poi con un cenno gli chiede di farsi da parte per potersi piazzare di fronte a me. Mi posa una mano sulla spalla obbligandomi così ad alzare lo sguardo nel suo, e quando lo faccio... I suoi occhi sono così famigliari che sento una leggera scossa percorrermi la colonna vertebrale. L'azzurro inteso mi mozza il respiro per un istante facendomi rabbrividire e tremare le gambe. Ma che diavolo...

«Mio figlio ha ragione, perfino io ho notato che qualcosa non va, figliolo.» Le sue parole mi fanno sbattere per palpebre e tornare alla realtà.

Sto per aprire la bocca e dirgli che va tutto bene, ma mi interrompe prima che riesca a farlo. «Se dirai un'altra volta che ti senti bene ti caccio dalla squadra» mi minaccia, e così richiudo la bocca di scatto.

Sospiro pesantemente. «Cosa vuole che faccia?»

La sua risposta arriva immediatamente. «Analisi, radiografie, TAC. Tutto quello che serve per capire se è solo una grave mancanza di vitamina D e calcio o se è qualcosa di più importante. Le voglio sulla mia scrivania prima della finale di campionato, Miller, o giuro che non ti permetterò di giocare e tuo padre verrà informato del tutto.»

Mi costringo a non alzare gli occhi al soffitto, mantenendo il contatto visivo con lui e irrigidendo di conseguenza la mascella. «Pensavo che telefonargli sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto non appena me ne fossi andato.»

Il coach A. si allontana da me andando a sedersi sulla scrivania di fianco a Reed. Incrociano entrambi le braccia al petto prima di guardarmi con la testa leggermente inclinata di lato. Ricambio l'occhiata torva verso il mio capitano; che gran figlio di papà.

Il coach sospira. «Mio figlio può sembrare spocchioso e invadente se vuole, ma non è una spia. Farebbe qualsiasi cosa per la sua squadra, anche correre rischi che possono compromettere la sua carriera.» Gli lancia un'occhiata, dopodiché torna a guardarmi con severità. «E io non sono da meno. Se ti atterrai a quello che abbiamo deciso, non ho motivo di contattare tuo padre. Sei sveglio e furbo, Logan. Non compromettere ancora il tuo futuro solo perché sei testardo come un mulo. Se c'è qualcosa che si può fare per risolvere la situazione, facciamolo.»

Mi sorride con fare paterno, e io deglutisco di rimando ammorbidendo le spalle.
«È tutto?»

Lui annuisce prima di tornare a sedersi sulla sedia e riprendendo in mano il caffè.
«È tutto» mi congeda.

Mi volto uscendo dalla stanza, pronto ad andarmene, ma è Mason che mi ferma quando ci ritroviamo soli dentro lo spogliatoio.
«Ti senti bene?» mi chiede con apprensione.

Muovo appena la testa con un cenno d'assenso, senza però voltarmi verso di lui.
«Ho un appuntamento e sono in ritardo. Ci vediamo più tardi» lo liquido. Mi infilo la felpa dei Bulldogs e lo spesso giubbotto, dopodiché quasi corro verso lo studio della Dottoressa Gibson, l'unica che in questo periodo conosce i miei demoni meglio di me.

Quando rientro nel dormitorio, più tardi quella sera, fuori è buio e le strade sono lastre di ghiaccio. Fa così freddo che mi si sono congelate le dita delle mani e quelle dei piedi, e sento le palle così indurite da farmi male. Sospiro di sollievo quando il caldo della mia stanza mi invade non appena passo la tessera magnetica per entrare. Mason è seduto sul suo letto, stravaccato, e sta mangiucchiando quella che immagino sia pizza al salame da dentro un enorme cartone rotondo. Solleva un sopracciglio quando mi fiondo ad accarezzare il calorifico in mezzo ai nostri letti. Deve notare il rossore sulle mie guance e sul naso, perché si trattiene a stento dal ridermi in faccia.

«Freddo, eh?» mi chiede a bocca piena. I suoi occhi sono meno vispi del solito, e il leggero gonfiore delle palpebre mi fa capire che deve essersi svegliato da poco.

«Odio l'inverno» borbotto, con la voce che leggermente trema. «I miei testicoli sono diventati palline da ping pong.»

Mason butta indietro la testa e scoppia in una fragorosa risata. «Te l'ho detto che faresti meglio a girare con una borsa dell'acqua calda in mezzo alle mutande. Sei troppo freddoloso.»

«Può darsi» sostengo con un sospiro, poi allungo una mano facendogli segno di passarmi una fetta di pizza. Do un generoso morso sentendomi subito meglio, dopodiché mi costringo a spogliarmi e a lasciare le scarpe bagnate nell'armadietto apposito. Mi butto sul letto chiudendo gli occhi per un secondo. Quando sento il materasso sprofondare e un corpo sistemarsi accanto al mio, ne riapro solo uno per poi ritrovarmi a fissare gli occhi castani del mio migliore amico.

Mi sorride. «Hai voglia di parlarne?»

Mi sposto di lato per fargli più spazio, e il suo braccio che sfiora il mio mi infonde una calma e una sicurezza di cui avevo bisogno. Riapro anche l'altro occhio e, con un braccio a sostenermi la testa, fisso il soffitto.

«Credo di essermi già sfogato abbastanza con la psicologa.»

«Sì, ma lei non ti conosce come ti conosco io. Il dolore nei tuoi occhi è evidente, e voglio che tu sappia che sono qui per te, Logan.»

Volto piano la testa nella sua direzione, deglutisco sotto l'intensità del suo sguardo. «Mi ha lasciato» sussurro sentendo il respiro venire meno.

«Lo so.»

«E stavo... Quella sera volevo chiederle di sposarmi.»

Mason sgrana gli occhi, sorpreso. «Cazzo. Questo si che è un problema.»

«E non mi perdonerà mai, quindi tanto vale smettere di parlarne.» Distolgo lo sguardo dal suo riportandolo sul soffitto. «Forse è meglio così. La Dottoressa Gibson pensa che le nostre vite dovessero davvero dividersi a un certo punto, per permettere a entrambi di affrontare un percorso di crescita. Magari ha ragione...» sospiro pesantemente. «Magari Liv ha davvero bisogno di vivere appieno senza stare dietro alle mie stronzate.»

«Ehi.» Mason mi afferra con forza il mento facendomi voltare la testa nella sua direzione. La durezza e la tensione che gli vedo sul volto mi fa mancare un battito. «Fanculo a quella psicologa e fanculo alle sue frasi sconclusionate! Vuoi sapere cosa penso io?»

Deglutisco, poi annuisco.

«Penso che tu e Liv abbiate molto su cui dovete lavorare, siete così incasinati che a volte è difficile starvi dietro, ma l'amore che ce tra voi è raro e puro. Non ho mai visto qualcuno amarsi come voi due, difendervi come voi due, sostenervi come voi due. Avete entrambi un passato difficile, ma questo non vi ha mai impedito di donarvi a vicenda un cuore che, seppur malridotto e pieno di cerotti, ha ancora tanto da offrire.» Mason posa la testa contro la mia, lasciandomi poi andare.

Chiudo gli occhi, che ora sento saturi di lacrime, e inspiro piano. «Forse però non basta più quell'amore. Credo di averla distrutta completamente, Mase.»

Il mio migliore amico allarga un braccio che fa poi passare sotto la mia testa, e mi avvicina a sé senza pensarci due volte. «Io penso che Liv sia più forte di quello che immagini. È arrabbiata e vorrebbe staccarti la testa a morsi, certo, ma quello che prova per te non conosce una fine.»

«Mi stai suggerendo di lasciarle spazio?»

Scuote la testa. «Ti sto suggerendo di toglierle anche l'aria che respira, Logan. Vuoi davvero sposarla? Allora butta giù i muri che ha eretto e vai a riprendertela ma, questa volta, rifletti davvero prima di agire. Io so chi sei, e quel ragazzo sul ring che ha tirato pugni fino a svenire non eri tu.»

Mi da un buffetto sulla guancia prima di rialzarsi con uno scatto e di scendere dal letto. Le sue parole richiudono una crepa enorme che si era formata nel mio stomaco, e mi fanno riflettere per quelle che sembrano intere settimane, ma che non sono più di una manciata di minuti. Che cosa starà facendo in questo preciso momento? Gli manco come lei manca a lei? Sarebbe disposta a riprendermi se tornassi?
Sollevo la testa quando lo sento frugare nel mobile all'ingresso, osservandolo poi intento a vestirsi e a spruzzarsi su collo e polsi una quantità spropositata di profumo.

«Stai uscendo?»

Annuisce con un enorme sorriso sulle labbra. «Con una ragazza del mio stesso corso di biologia. Bella da mozzare il fiato, fisico statuario, intelligenza fuori dal comune.»

«Se poi è anche bionda, suppongo sia la donna perfetta.»

«Supponi bene.» Indossa giacca e sciarpa, dopodiché apre l'armadio e ne tira fuori un berretto di lana rosso che, dopo essersi legato i lunghi capelli biondi in una mezza coda, infila in testa per coprirsi dal freddo. «Forse torno tardi, o magari non rientro proprio. Ti faccio sapere con un messaggio.» Mi fa l'occhiolino facendomi ridere.

«Divertiti, amico» gli dico, quando apre la porta.

«Stanne certo, e tu cerca di non passare tutta la serata a deprimerti.» Si richiude la porta alle spalle e io lascio ricadere la testa sul cuscino mugugnando un imprecazione.

I dieci minuti successivi li passo a osservare il soffitto, riflettendo sulle sue parole che, per quanto mi hanno fatto sentire decisamente meglio, forse non sono pronto ad affrontare. Per quale motivo dovrei continuare a stalkerare Liv pur sapendo che tutto quello che vuole adesso è che io le stia alla larga? Finisco la pizza di Mason mangiucchiandola sovrappensiero, dopodiché mi siedo alla scrivania accendendo il PC e sparpagliando sul ripiano diversi libri su cui devo studiare. Non che ne abbia chissà quanta voglia, ma non arrivare a fine anno sarebbe l'ennesima mossa azzardata della mia vita. Per cui, mi rimbocco le maniche e, con una penna tra i denti, mi concentro sul futuro.

Forse un'ora dopo, è la chiamata di Megan a distrarmi dallo studio. Accetto la videochiamata senza pensarci troppo, ritrovandomi di fronte a un fantastico sorriso smagliante. La mia amica, tra le braccia, tiene un fagotto ciccione dalle guance paffute che mi procura un tuffo al cuore.

«È cresciuto» asserisco, sentendo dentro un istinto paterno che non credevo di possedere quando emette qualche vagito in risposta alle mie parole.

«Il pediatra dice che sta benissimo. È ormai più di quattro chili.»

Sorrido. «E tu invece come stai?»

Megan sposta lo sguardo da suo figlio allo schermo, mi sorride di rimando. «Un po' stanca, ma tutti dicono che i primi mesi sono i più difficili.»

Le occhiaie e gli occhi stanchi me lo confermano. «Prega che in futuro non diventi un adolescente scalmanato, altrimenti puoi dire addio alle tue meravigliose dieci ore di sonno filate.»

Megan ride, cullando tra le braccia il piccolo. «Prego che non prenda esempio da te, allora.»

«Ehi! Come suo zio preferito, sarà mio dovere insegnargli a mandarti fuori di testa.»

«La tua influenza negativa sarà la mia rovina.» Butta gli occhi al cielo facendomi ridere, poi torna a guardarmi con serietà. «Come stai?»

«Come due giorni fa, Megs. Non puoi continuare a chiedermelo in continuazione, mi stai assillando con tutti quei messaggi» la sgrido, regalandole poi un mezzo sorriso per farle capire che sto scherzando.

Megan sospira. «Mi dirai prima o poi che cosa è successo?»

Mi appoggio allo schienale della sedia emettendo un sospiro che non è in grado di sentire attraverso lo schermo. «Forse. Senti, alla fine hai deciso che cosa fare a Natale?»

Si stringe nelle spalle. «Taylor torna nel Maine dalla sua famiglia materna per tutte le vacanze invernali, per cui penso che resterò qui e partirò solo quando tornerà a casa.»

«Non vai insieme a lei?»

Abbassa lo sguardo e giocherella con il bracciale che ha al polso, a disagio. «Non me lo ha chiesto...»

Impreco sottovoce e mi mordo con forza l'interno della guancia per non dare vita a pensieri che potrebbero ferirla di più. Provando a calmarmi, esalo un respiro profondo.«Ti va di venire da me? So che per il piccolo è un viaggio non indifferente, ma sono disposto a venire a prenderti e poi riportarti se mi dirai di sì.»

Alza di scatto la testa alle mie parole. I suoi occhioni prima si sgranano, poi si illuminano di gioia facendomi sorridere di cuore. «Sei... sei sicuro che non sarà un problema per voi? Insomma, la tua famiglia non mi conosce e...»

«Saranno felicissimi di incontrare la palla al piede che mi porto dietro da mesi ormai.»

Megan si morde il labbro inferiore trattenendo a stento un sorriso. «Sei sicuro sicuro?» mi chiede ancora.

Alzo gli occhi al cielo, esasperato. «Sì, Megs, smettila di chiedermelo. Ti faccio sapere quando verrò a prenderti.» La informo. «Ora fammi studiare, sono davvero nella merda.» Le faccio segno con la mano di lasciarmi in pace. Il suo enorme sorriso non scema nemmeno quando le chiudo letteralmente in faccia la telefonata, ma solo dopo averle ricordato che voglio un mondo di bene sia a lei che al bimbo. Qualche istante dopo, un suo messaggio illumina lo schermo. Quando lo leggo, non posso fare altro che scoppiare a ridere.

Megs: Irritante, scorbutico e narcisista. Ti vogliamo tanto bene anche noi e... Grazie.

Logan: Voglio un enorme regalo di Natale.

Megs: Sarà così grande da fare concorrenza al tuo ego.

Scoppio a ridere un'altra volta.

Logan: Buonanotte, Megs.

Megs: Buonanotte, lumaca.

La porta che viene letteralmente assalita da pugni e calci mi fa alzare di scatto lo sguardo dallo schermo del cellulare per posarlo in quel punto. Lo riposo sulla scrivania e, confuso, apro la porta senza pensarci due volte, ma non prima di aver afferrato l'abat-jour sul comodino di Mason e di stringerla tra le mani come se fosse un'arma letale. Sì, per sicurezza, nel caso dovessi difendermi da qualcuno. Una Liv dagli occhi sgranati, lo sguardo allarmato e i capelli fradici mi appare davanti in tutta la sua minuscola corporatura. Sta tremando e ha la pelle d'oca, e immagino sia per il freddo e la pioggia che deve averla investita visto il niente che indossa. Ma non è tanto l'abitino nero glitterato che porta, con spalline così sottili da riuscire a intravederle anche sotto quello che lei definisce "copri spalle" ma che a me sembra di più un pezzo di stoffa scartato e inutile a lasciarmi senza fiato, bensì un enorme livido violaceo che le si sta formando su una guancia gonfia e tumefatta.

Tremante e spaventato all'idea che qualcuno possa averla ridotta in questo stato, compio un passo avanti nella sua direzione. Attento a non farle male, chiudo a coppa le mani sulle sue guance bagnate e la costringo a guardarmi dritta negli occhi.

«Chi cazzo è stato?»

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