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Capitolo trentaquattro - Logan

Vorrei tornare
indietro nel tempo,
e poi fermarlo.

Il 31 dicembre è sempre lo stesso. Da due anni.
Anche quando il calendario cambia, il dolore rimane immutato.
Ogni anno è uguale. Ogni anno quella data arriva come un colpo al cuore che non passa mai. È come se il tempo si fermasse, come se fossi rimasto a quel giorno e tutto si svolgesse a ripetizone. La realtà diventa una prigione in cui il ricordo di Camilla è la catena che mi tiene incatenato. Ancora non mi sembra vero, non è mai stato vero.
Sciocco da parte mia pensare che forse quest'anno sarebbe stato diverso, che magari sarei riuscito ad affrontare questa giornata in una maniera più positiva, soprattutto visto che negli ultimi giorni sono molto più felice di quanto lo sia mai stato in tutta la mia vita. Un grave errore credere che quel senso di soffocamento non venisse a svegliarmi alla solita ora, puntuale come un fottuto orologio svizzero. Sono stato un ingenuo a suppore che, addormentandomi con addosso il corpo caldo e nudo di Liv, mi sarei svegliato in pace e non in preda ai terrori notturni. Non so come sia riuscito a non svegliarla, a non scaraventarla giù dal letto quando il mio corpo è stato scosso da tremori incontrollabili capaci di fare tremare tutto il materasso.
Forse era davvero esausta, e per una volta sono felice che non fosse consapevole di cosa mi stesse accadendo.

Mi sveglio con il buio che mi schiaccia il petto e il ricordo di Camilla che si insinua con prepotenza tra i pensieri prima ancora che io possa fermarlo.
Non c'è scampo. Non c'è tregua.
Apro di scatto gli occhi e fisso il soffitto. Il petto che sale e scende ad un ritmo irregolare e il respiro corto che non mi permette di respirare come vorrei.
Sono madido di sudore, così tanto che so per certo di aver lasciato una chiazza bagnata sulle lenzuola. Vorrei solo alzarmi e fuggire da questo peso enorme che sento sullo stomaco, eppure una mano invisibile mi arpiona il collo impedendomi di muovermi. Solo in poche occasioni ho sofferto di terrore notturno, e questa è una di quelle. La luce fioca dell'alba filtra dalle tende che ho dimenticato di socchiudere ieri notte, ma non illumina niente dentro di me. È tutto vuoto, come un buco nero che mi risucchia la vita fino a trascinarla in profondità. Non so come ma riesco ad alzarmi, la testa pesante e gli occhi appesantiti da un sonno che è venuto a mancare. È strano come riesca a percepire il peso di un ricordo, come se ogni anno che passa il carico aumentasse il fardello che porto sulle spalle.

Quella notte. Quella maledetta notte.

Il ricordo della chiamata che mi ha cambiato la vita ancora ce l'ho salvata nella segreteria telefonica. La voce di Jackson tirata dal pianto, strana, come se avesse smesso di respirare mentre pronunciava quell'unica frase che era stata in grado di farmi cedere le ginocchia.
«Camilla è morta.»
Ricordo di essermi fermato, il drink ancora stretto tra le mani e la gente tutt'attorno che si affollava per ballare e festeggiare il compleanno di un perfetto sconosciuto.
Non conoscevo più della metà delle persone quella sera, tuttavia erano lì a fare festa insieme a me. Non riuscivo a capire cosa significasse quella frase, eppure era così chiara. Le sue parole mi erano rimbalzate addosso come un eco vuoto, senza senso, senza logica. Stava dicendo il vero? O era uno scherzo di cattivo gusto? Subito dopo ricordo di aver letto l'ultimo messaggio inviatomi da Camilla in cui mi comunicava che stava arrivando. Era di appena venti minuti prima. Com'era possibile che fosse morta? Ero così certo che si trattasse di uno scherzo e che l'avrei vista varcare la soglia da lì a poco...

Ciononostante, le parole di Jackson non smettevano di risuonarmi nella testa nemmeno quando mi ero convinto del contrario. Continuava a buttare fuori parole che non avevano un senso, che faticavo a comprendere ma che una parte di me stava iniziando ad accettare mentre i minuti passavano e di lei non c'era traccia. Si erano schiantati contro un albero a causa delle strade ghiacciate di quella sera. Non andavano veloci, ma la macchina aveva slittato e Jackson aveva perso il controllo. L'auto si era capovolta e Camilla era stata sbalzata fuori, il corpo troppo lacerato perché ci fosse ancora qualcosa da salvare. Ricordo che il mondo mi era crollato addosso in un attimo. Non c'era più niente intorno a me, nessun rumore, nessuna musica. Il niente. Il cuore mi martellava nel petto con una prepotenza inaudita, il sangue mi ronzava nelle orecchie minacciandomi di farmi cadere a terra se non mi fossi seduto all'istante. La paura era stata la mia più grande nemica quella sera, insieme all'impotenza e alla consapevolezza che non l'avrei mai più rivista. Non avrei più parlato con la mia migliore amica, non avrei più potuto abbracciarla e non l'avrei mai più vista sorridermi in quel suo modo buffo.

Non avremmo più riso insieme fino a farci venire le lacrime agli occhi, non mi avrebbe più sfidato ad una partita a carte, non sarebbe più salita sullo skateboard che tanto ero riuscita a farle amare, non l'avrei più potuta affrontare a boxe nel salotto di casa come se fossimo su un vero ring. Non l'avrei più vista arricciare le labbra quando qualcosa la disgustava, non avrei più sentito il suono della sua risata e il calore di un abbraccio confortante che arrivava sempre a fine giornata. Non sarebbe più stata lì durante i miei successi e anche negli insuccessi, le parole incoraggianti che mi riservava sarebbero state per sempre un ricordo doloroso e straziante, e i momenti vissuti insieme già li vedevo sfumare via dalla mia mente come se mi stessero abbandonando.
Non riuscivo a credere a nulla di tutto questo. Volevo dimenticare le parole di Jackson. Volevo scappare.
Ma come si scappa da un dolore così grande?

Mi trascino giù dal letto senza fare rumore, cercando di non disturbare il silenzio ovattato della stanza. Quando i piedi toccano il pavimento freddo, un capogiro mi assale, come un'onda improvvisa che mi costringe a piegarmi leggermente in avanti. Allungo una mano per afferrarmi al bordo del letto, il legno sotto le dita sembra più solido di quanto mi senta io in questo momento. Chiudo gli occhi per un istante, costringendomi a respirare a fondo, lentamente, finché la stanza smette di girare intorno a me.

Mi muovo con cautela, avanzando fino al comodino accanto alla testa di Liv. La luce tenue del mattino filtra appena attraverso le tende, colorando la stanza di sfumature morbide, quasi irreali. Mi fermo per un istante, lo sguardo catturato da lei. Le sue labbra sono appena dischiuse, e il respiro che ne esce è lento, regolare, così lieve che sembra sincronizzarsi perfettamente con il sollevamento ritmico del suo petto. La pelle nuda delle sue spalle ha una leggera sfumatura dorata nella penombra, punteggiata da un accenno di pelle d'oca.

Tiene gli occhi chiusi, le ciglia scure che sfiorano appena le guance. Una mano è piegata sotto il viso, l'altra abbandonata accanto al cuscino, le dita rilassate come se stesse stringendo un sogno. È così bella, così perfetta nella sua quiete che il dolore dentro di me si tende, si spezza per un istante, lasciandomi sospeso tra il tormento e l'amore. Mi ritrovo, nonostante tutto, a sorridere, un sorriso fragile e stanco che si dissolve quasi subito.

Con un movimento lento e calcolato, afferro il lenzuolo ai bordi e lo tiro su delicatamente, coprendola. Voglio proteggerla, anche solo da quel leggero brivido che increspa la sua pelle. Quando il tessuto le sfiora le spalle, si muove appena, un impercettibile cambio di posizione, ma non si sveglia.

E mi sento sollevato. Se lo facesse, se aprisse quegli occhi su di me, se mi guardasse con quello sguardo capace di scavare dentro ogni muro, so che cadrei. Cadrei in mille pezzi, e il fragile equilibrio che sto cercando di mantenere con tutte le mie forze si sgretolerebbe in un attimo. Davanti a lei, a quel miscuglio di amore e preoccupazione che trasmette con un solo sguardo, non potrei nascondermi.

Trattengo un respiro mentre mi allontano, passo dopo passo, come un ladro che si intrufola nell'oscurità. Ho bisogno di questo dolore. Non posso evitarlo, non oggi. È un peso che devo portare da solo, un'ombra che devo affrontare senza di lei.
E, forse, senza nessuno.

Ogni passo che faccio, il ricordo di Camilla mi travolge come un uragano. La vedo in ogni angolo di questa camera, in ogni stanza di questa casa. Anche quando chiudo gli occhi - soprattutto quando li chiudo - la vedo. Mi manca come se un pezzo di me stesso fosse scomparso. Nessun altro lo capisce. Nessun altro sa cosa vuol dire vivere con questa cicatrice invisibile che nessuno può vedere, ma che c'è sempre, in ogni respiro, in ogni momento.
Camilla non c'è più, e la parte di me che le apparteneva è scomparsa con lei.
Capisco in quell'istante che non ho voglia di parlare con nessuno. Nemmeno con Liv. Forse soprattutto con lei. Non potrei sopportare di vederla mentre tenta di consolarmi, o peggio, di farmi ammettere quanto sto male.

Il mio corpo ha deciso dove andare ancora prima di comunicarlo alla testa. Sileniziosamente, indosso i pantaloncini della tuta e una maglietta nera, mentre le scarpe da ginnastica le tiro fuori dalla scarpiera vicino all'armadio. Mi muovo come un automa, passo dopo passo, lungo i corridoi silenziosi della casa.
Non incorcio nessuno, ed è meglio così. Appena entro nella sala pesi mi affretto a fasciarmi entrambe le mani, poi chiudo la porta dietro di me e inspiro profondamente. Il tapis roulant è lì, immobile, come se mi stesse aspettando. Lo accendo, imposto la velocità al massimo, e ci salgo sopra senza pensarci troppo. I primi passi sono lenti, il corpo ancora rigido dal sonno. Ma non mi interessa. Non sono qui per allenarmi. Sono qui per stancarmi. Per sfinirmi. Per dimenticare. Aumento la velocità, il nastro scorre sempre più veloce sotto i miei piedi. Il rumore del motore copre tutto il resto. Non voglio sentire altro. Solo questo.

Quando inizio a correre, non mi fermo. La velocità è alta, troppo alta. Ma non mi importa. Non c'è più spazio per i pensieri. Il rumore del tapis roulant che batte sotto i miei piedi è l'unico suono che riesco a sentire. Il cuore mi martella forte nel petto, la respirazione è affannosa, il sudore mi colma la fronte e scivola giù dalla nuca fino ad arrivarmi alla parte bassa della schiena. Ogni passo mi fa dimenticare un po' di più di Camilla, un po' di più di tutto il resto. Ma è solo per un attimo. Mi sembra di scivolare via, di allontanarmi da me stesso. Un passo dopo l'altro, corro sempre più velocemente. Fisso lo schermo del tapis roulant, ma non vedo niente. Vedo solo il volto di Camilla. Vedo la sua risata, il suo sorriso, i suoi occhi che brillano. Non posso smettere di vederla. Non ci riesco. Le immagini continuano a fluire nella mia mente, come un film che non posso spegnere.

Ogni ricordo è un colpo. Ogni ricordo mi fa più male. Ma non mi fermo. Non posso fermarmi. Il mio corpo è in fiamme, ma il dolore fisico non è niente rispetto a quello che sento dentro. Mi impongo di andare più veloce, corro più forte, finché le gambe non tremano, i polmoni non riescono più a incalanare l'aria che mi serve per respirare. Il dolore diventa insopportabile, ma non mi fermo. Non posso. Ogni volta che sento il suo nome nella mia testa, corro più forte.

«Continua» mi dico tra i denti, stringendo la mascella. Il sudore inizia a colarmi sulla fronte, ma è niente rispetto al fuoco che sento dentro. «Non fermarti. Non pensare.»

Ma i pensieri arrivano comunque. Sempre. Camilla che ride, con i capelli legati in una coda disordinata, mentre mi sfida a boxare meglio di lei. Camilla che mi abbraccia dopo ogni incontro. Camilla che sale su quella macchina quella notte, con Jackson al volante. Sento un groppo in gola, ma lo soffoco aumentando ancora la velocità. Il tapis roulant vibra sotto i passi e sembra sollevarsi in aria. Le gambe mi bruciano, ma non rallento. È quello che voglio. Il dolore fisico è tutto ciò che riesco a controllare.

«Non mollare» mormoro. La voce è roca, quasi irriconoscibile. «Non puoi permetterti di fermarti.»

Il corpo protesta, ma io non gli do ascolto. Ogni passo è una lotta. Ogni respiro è una fiamma che brucia nei polmoni. Ma è meglio così. È meglio di sentire quel vuoto che minaccia di inghiottirmi ogni giorno da ben due anni. Quando il mio corpo non regge più, salto giù dal tapis roulant, le gambe tremano, ma non mi fermo. Mi giro verso il sacco da boxe. Lo guardo fisso, come se fosse lui il responsabile di tutto questo.

«Non potevi salvarla.»

La mia voce è un sussurro mentre sfodero il primo pugno. Un destro potente che fa oscillare il sacco.

«Non era colpa tua» dico, ma non ci credo. Il secondo pugno è ancora più forte, seguito da un calcio che fa sobbalzare il sacco fino quasi a spezzare la catena.

Le immagini continuano a venirmi addosso. Camilla riversa a terra in una posa innaturale. Le luci blu delle sirene. Il telefono che squilla quella notte. Il vuoto che mi ha lasciato. I colpi diventano sempre più rapidi, sempre più violenti. Sento il sudore bagnarmi le mani sotto le fasce. Le nocche pulsano, ma non mi fermo.
Se mi fermo, crollo.
La porta della sala pesi si apre. Non mi volto. So che è Amanda, percepisco il suo inconfondibile profumo e intravedo il pancione con la coda dell'occhio. La sento fermarsi sulla soglia. Probabilmente mi sta fissando, ma non dice niente per un po'. Quando finalmente parla, la sua voce è bassa e cauta.

«Logan... Tesoro, hai bisogno di qualcosa?»

Non rispondo. Continuo a tirare pugni, ignorandola. E così, dopo un lunghissimo minuto, sospira e se ne va. Mi sento una merda all'istante, un parassita che non merita l'amore che quella donna prova a darmi ogni giorno. Ma oggi non posso. Non ci riesco. Poi è il turno di mio padre. Sento i suoi passi pesanti sulla moquette fuori dalla porta. Lo sento inspirare profondamente, come se volesse dirmi qualcosa di importante. Ma io non gliene lascio il tempo. Un altro pugno. Più forte, più secco. È abbastanza per fargli capire che non voglio parlare. Sa che gli voglio bene, e mi conosce abbastanza da rendersi conto che non è il momento. Se ne va anche lui mormorando qualcosa che non riesco a sentire.

L'ultima è Liv. Lo so dal modo in cui cammina, dal profumo di vaniglia e cocco che lascia nell'aria. La riconoscerei ovunque, anche se non possedessi tutti e cinque i sensi. Non entra subito. Rimane lì, dietro di me, in silenzio. Posso sentire il suo sguardo sulla schiena, ma non mi volto. Non posso. Non ora.

«Logan.»

La sua voce mi spezza per un istante, ma non mi giro. Non voglio. Non posso lasciarla entrare nel mio mondo in questo momento. Non ora. Ma lei non se ne va. Rimane lì, silenziosa. Non la sento più camminare, non la sento più respirare. Ma so che c'è, che è rimasta. Ogni tanto, la percepisco, quasi impercettibile, come se stesse cercando di proteggermi da qualcosa che nemmeno io riesco a vedere. Non è l'aria che mi sfiora. Non è la sensazione di aver bisogno di qualcuno. È un calore, un conforto. Liv è lì. Non l'ho vista arrivare, ma so che è lì. Forse mi sta guardando da un angolo della stanza, ma io non la vedo. Continuo a colpire il sacco, il mio corpo è stanco, ma la mia mente è più stanca.

Non voglio che sia qui. Non voglio che mi veda così. Non voglio che nessuno mi veda così. Non voglio che nessuno sappia quanto sto soffrendo, quanto quel buio dentro mi sta divorando. Ma lei è lì, in silenzio, come se fosse parte della stanza stessa. Non mi lascia. Non mi abbandona. Non me ne accorgo all'inizio. Ma quando il mio corpo finalmente cede, quando i colpi al sacco diventano più lenti, più vuoti, più stanchi, mi rendo conto che è lì. Il mondo sembra fermarsi per un attimo. La mia mente è finalmente libera da quel dolore lancinante. Liv è in piedi vicino a me, senza dire una parola. Non mi guarda con occhi tristi, non mi parla. È solo lì. Ed è tutto quello che mi serve. Quando finalmente mi fermo, il respiro affannoso che riempie la stanza e il sudore che cola lungo la schiena sono gli unici segnali che il corpo sta cercando di fermarsi. Le braccia tremano, le gambe non riescono a reggermi più. Mi lascio cadere a terra, le mani appoggiate sul pavimento, come se fosse l'unico posto che può sostenermi. Il cuore batte forte nel petto, ma non più come prima. Ora sembra un battito lento, stanco, quasi solenne.

Mi alzo di poco, il viso scuro di fatica, e guardo verso di lei. Anche con gli occhi segnati dal sonno, la fronte corrugata per la preoccupazione e alcune ciocche che le coprono parizalmente il viso, è bellissima. Diamine se lo è. È la reincarnazione di un angelo, e sta guardando con amore proprio me, non uno qualunque, me. Non so da quanto tempo sia lì, ma c'è qualcosa nei suoi occhi che mi fa sentire meno solo. Non so cosa stia cercando, ma non scosta mai lo sguardo dal mio, e il silenzio tra noi due è tanto pesante quanto il dolore che ho dentro. Non dice niente. Non mi chiede nulla.

«Non dovresti essere qui» mormoro, la voce bassa e rotta dalla fatica.

Non voglio che mi veda così, non voglio che mi guardi mentre sono ridotto in questo modo, mentre il dolore che non riesco a nascondere si riflette in ogni gesto, in ogni movimento.
Lei non risponde subito, ma si avvicina, abbastanza da essere appena dietro di me, come se il suo corpo cercasse di assorbire quello che non riesco a dire con le parole. Non mi tocca, ma la percepisco alle mie spalle. Sento il suo respiro più vicino ora, un respiro calmo, come se sapesse che questa è la solitudine che avevo bisogno di vivere, anche se non volevo. Dopo un lungo momento di silenzio, Liv si inginocchia accanto a me. Non mi guarda negli occhi, così, lentamente, osservo il suo viso che si è fatto serio, come se avesse preso coscienza di tutto ciò che non posso dire.

«Lo so» dice piano, «lo so che non vuoi parlare. Lo so che non vuoi nessuno intorno, Logan. Ma non ti lascio solo, non oggi.»

Mi scosto, come se volessi negare la verità di quello che sta dicendo.

«Non capisci» rispondo, la voce incrinata. «Non capisci che non c'è nessuno che possa aiutarmi. Camilla non tornerà mai indietro. Non tornerà più, Liv. E io sono quello che... sono quello che l'ha lasciata andare.»

La colpa mi schiaccia come una roccia, ma lei non mi lascia. La sua mano si posa sulla mia spalla, un tocco leggero, ma fermo, che fa vacillare la mia resistenza. Non si ritrae, nemmeno quando il mio respiro si fa più pesante. Non si spaventa di me, non si spaventa del mio dolore.

«Logan» mi richiama a sé, la voce calma ma ferma, «non è colpa tua. Non lo è mai stata.» Le parole mi colpiscono come un pugno al petto, ma non sono ferite. Sono verità che non riesco a sentire, verità che non riesco ad accettare, ma che comunque mi fanno male.

Il suo sguardo si fa più morbido. «Voglio solo che tu lo sappia. Voglio che tu lo capisca davvero che non sei solo. Non devi sopportare tutto questo da solo. Non devi... farti del male per sentire che, in qualche modo, puoi scappare dal dolore. Lo sai che non funziona, vero?»

Non rispondo subito. Le parole mi restano in gola, come se un nodo mi bloccasse la voce. La guardo, e la sua presenza mi fa sentire stranamente calmo, come se fosse l'unica cosa che posso controllare in questo mare di confusione. Ma la verità è che non voglio che mi capisca così tanto. Non voglio che entri nei posti più bui della mia mente, nei ricordi in cui continuo a rifugiarmi. Eppure, è qui, con me. Resta. Come se non avesse paura di vedere tutte le parti di me che cerco di nascondere.
Lei prende un respiro profondo e mi guarda con occhi pieni di una dolcezza che mi fa sentire vulnerabile.

«Non ti giudico, Logan. Mai. Ma devi lasciarti andare. Non puoi più correre via da tutto questo. Non puoi più sfuggire da questo dolore.»

Per un momento, mi sento stanco, troppo stanco per rispondere, troppo stanco per continuare a negare la realtà. Ma guardo il suo volto e vedo che ci crede. Lei crede in una parte di me che non voglio vedere. Non so se lo accetterò mai, ma in quel momento capisco che, forse, è quello di cui ho bisogno. Non la fuga, ma qualcuno che stia con me, qualcuno che non vada via, qualcuno che, in qualche modo, riesca a restare mentre tutto il resto crolla.

«Sono così stanco» sussurro, la voce bassa e tremante. «Non so come fare... Non so come evitare di pensare che potrebbe succedere anche a te. Non so come...» Mi fermo, come se ci fosse un muro di frasi che non posso superare. Non voglio farle più male. Non voglio che veda quanto sono rotto. Ma non ci riesco a fermarmi. Non riesco a nascondere più nulla.

Liv non dice niente. Appoggia il mento sopra la mia testa e semplicemente mi stringe a sé, e la sua presenza è tutto quello che riesco a sentire, l'unico suono che non mi fa sentire così vuoto. Non dice parole consolatorie, non cerca di sistemare le cose. È qui, semplicemente qui, accanto a me, e in quel momento capisco che è tutto ciò di cui ho bisogno. Non c'è bisogno di parole. Non c'è bisogno di nulla. È qui e basta.

«Hai bisogno di restare un po' per conto tuo oggi» dice, ed io chiudo gli occhi sentendomi improvvisamente uno schifo di uomo. La sua non era una domanda, bensì una verità a cui anche lei è arrivata. So che non vorrebbe lasciarmi solo, percepisco il dolore dietro i suoi gesti e nelle iridi così profonde, ma sappiamo entrambi che, per quanto io abbia bisogno di averla accanto, non riuscirei ad essere davvero me stesso oggi, non riuscirei ad affrontare la giornata con qualcuno che mi tiene la mano.

Esalo un respiro tremante. «Sì» mormoro.

Il suo silenzio è più forte di qualsiasi cosa potrei dirle. E mentre il dolore finalmente inizia a stancarsi, mentre la stanchezza mi assale in un abbraccio che non posso più respingere, mi accorgo che forse, solo forse, c'è speranza. Non per dimenticare, non per lasciar andare Camilla, ma per imparare a vivere con quello che è successo. E a continuare, passo dopo passo, anche se non so ancora come. E Liv, con la sua presenza, mi fa capire che forse non sono davvero solo come credo.





Non so quanto tempo passo chiuso dentro la doccia. L'acqua calda mi colpisce la schiena, scivola lungo la pelle, ma non basta. Non basta a sciogliere il nodo che mi stringe il petto. Appoggio una mano contro il muro di piastrelle, l'altra la porto tra i capelli bagnati, tirandoli indietro con forza, quasi a voler spazzare via il caos nella mia testa. L'acqua rimbomba attorno a me, coprendo tutto, ma dentro non c'è silenzio. Chiudo gli occhi, e il suo sorriso mi appare come un'ombra. Stringo i denti, il calore dell'acqua non fa che amplificare la tensione nei miei muscoli, quella che ho cercato di sfogare in palestra, colpendo il sacco finché le nocche non hanno iniziato a bruciare. Ma non è servito a nulla. Non ha spento la rabbia. Non ha cancellato il dolore.

Il respiro mi si blocca in gola. Sento il sapore amaro del rimpianto. Qualcosa mi pizzica gli occhi, ma stringo le palpebre con forza. Non sono lacrime. Non posso permettermele. Non adesso. Lascio che l'acqua scorra più a lungo del necessario, il calore mi avvolge, ma non mi consola. Ho passato troppo tempo a credere che bastasse spingere il mio corpo al limite per dimenticare. Ma non posso dimenticare. Non oggi. Forse in futuro.

Alla fine chiudo il soffione della doccia, il rumore dell'acqua si spegne, lasciando un vuoto ancora più assordante. Mi avvolgo un asciugamano attorno ai fianchi e alzo lo sguardo verso lo specchio appannato. Mi avvicino, passando una mano sulla superficie per pulirla, e i miei occhi mi fissano su quello che vedo. Non sono nemmeno sicuro che siano i miei. Sono stanchi, vuoti, pieni di tutto quello che non riesco a dire.

Scuoto la testa e mi passo una mano tra i capelli bagnati. "Basta così", mi dico. Ma so che è una bugia. Non è mai abbastanza e non lo sarà mai. Mi asciugo in fretta e furia, deciso a voler uscire da questa casa il prima possibile. Ho bisogno di aria, e so per certo che se rimanessi e avessi a che fare con la mia famiglia... con Liv, smetterei completamente di respirare. So che lei capisce. Ultimamente mi capisce meglio di quanto mi capirò mai io, tuttavia mi sento comunque uno stronzo a non includerla in questo dolore. Poi mi chiedo: perché dovrei? Ha già sofferto abbastanza in passato, che senso avrebbe caricarla di un altro peso sulle spalle? Quindi mi vesto in fretta, un paio di jeans scuri e scarponcini del medesimo colore, una felpa anch'essa nera con il cappuccio ben tirato sulla testa e scendo al piano di sotto, deciso a trovarmi un passatempo che mi costirnga a pensare di meno.

Afferro la giacca gettata maldestramente su una sedia, il tessuto ancora caldo per il sole tiepido del mattino che ha attraversato la finestra. La stringo tra le dita mentre cammino verso la porta, deciso a uscire, a lasciare tutto alle spalle almeno per un po'. Ma qualcosa mi ferma. Un rumore, lieve ma distinto, mi raggiunge dal salone. Due voci. Mi basta un istante per riconoscerle: Liv e Megan. Parlano piano, come se quel momento appartenesse solo a loro. Le loro voci si intrecciano, una morbida e rassicurante, l'altra fragile ma determinata. Mi blocco a metà strada, stringendo più forte la giacca, l'incertezza che mi avvolge come un'ombra.

Chiudo gli occhi per un istante, il tempo di un respiro profondo, cercando di decidere. Raggiungerle o uscire? Rimanere o lasciare spazio a un momento che non mi appartiene? Quando riapro gli occhi, mi accorgo che sto già camminando nella loro direzione, come se una parte di me avesse preso una decisione prima ancora che potessi rifletterci. Mi fermo appena prima dell'ingresso al salone, nascondendomi dietro il muro. La loro conversazione continua, e realizzo che, se facessi un passo avanti, romperei qualcosa. Questo non è il mio momento. È il loro.

La voce di Megan è più bassa del solito, un filo di suoni che si spezza a tratti, ma c'è una determinazione nascosta nelle sue parole, come se stesse lottando contro ogni fibra del suo essere per tirare fuori qualcosa di importante. Liv risponde con calma, la sua voce è morbida, rassicurante, come un abbraccio fatto di carezze. Le mie dita si rilassano sulla giacca, e lascio che il tessuto scivoli lentamente lungo il mio fianco. Qualcosa dentro di me si allenta, un nodo che nemmeno sapevo di avere. Forse è il momento che aspettavo. Per Megan. Per Liv. Per noi.

Prendo un respiro profondo, riempiendomi i polmoni di un'aria che improvvisamente sembra più leggera. Liv sta facendo ciò che sa fare meglio: ascoltare, senza giudicare, offrendo uno spazio sicuro dove le verità possono emergere senza paura. Non c'è bisogno che io entri. So che questa è la sua battaglia, e so che Liv è lì per lei. Mi appoggio contro il muro, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Per la prima volta, quel peso che mi schiacciava le spalle inizia a scivolare via, lasciando spazio a un senso di sollievo che non riesco ancora a spiegare.

«Non devi dirmelo se non te la senti, Megs. Ti capisco. Voglio solo che tu sappia che potrai farlo quando ti sentirai pronta, e io sarò lì per te.»

Dio... la mia ragazza ha un cuore enorme, e io la amo per questo.

Quando Megan le risponde, ha la voce bassa e quasi rotta dal pianto. Sentirla in questo modo mi fa stringere ancora più il cuore e minaccia di farmi perdere l'ultimo brandello di calma che possiedo.

«Prima o poi avrei comunque dovuto farlo, e non perché io mi senta obbligata, ma perché è giusto che anche tu sappia. Non voglio che Logan sia costretto a mentirti a causa mia. Il vostro rapporto è troppo prezioso perché venga rovinato così.»

Non riesco a vedere Liv, ma so che sta scuotendo la testa. La conferma mi arriva con le parole successive.

«Io e Logan stiamo lavorando sulla fiducia. Mi fido di lui quando dice che ogni cosa che ha fatto per te ha avuto un senso, e che quando te la saresti sentita me ne avresti parlato. Non sono una sciocca che crede di poter conoscere la vita privata degli altri a mio piacimento, ma penso che il tuo passato sia in qualche modo simile al mio presente. Forse posso aiutarti...»

Mi impongo di respirare, di non perdere la calma. Non posso permettermi di perdere il controllo più di quello che ho già perso questa mattina. Non riesco a pensare nuovamente a quello che Gerald ha fatto a Liv, non riesco a tornare a quella notte e affrontarla una seconda volta. Mi viene un conato di vomito e devo appoggiare la fronte contro il muro freddo facendo dei respiri lunghi e controllati per non uscire da questa casa e precipitarmi a casa di quel figlio di puttana. Se lo facessi a pezzi risolveremmo in fretta la questione legata al tribunale. Invece, impongo ai piedi di rimanere saldi dove sono mentre origlio il resto della conversazione.

«Ero solo una bambina quando le cose hanno iniziato a peggiorare» inizia Megan, la voce tremante. «Mia madre... beh, diciamo che aveva i suoi problemi. Beveva sempre, prendeva... qualunque cosa trovasse. E il suo uomo... Frank, il mio patrigno... era... un mostro.» Si ferma, la voce spezzata dall'emozione, mentre cerca di tenere sotto controllo le lacrime.

Resto immobile, ascoltando ogni sua parola. Non posso immaginare il dolore che deve aver provato, l'isolamento e la solitudine di una bambina a cui è stato tolto il diritto di vivere un'infanzia serena. Megan continua, la voce sempre più rotta: «Lui... abusava di me. E lei... lei sapeva. Non ha mai fatto nulla. Magari... non ne era in grado, ma io... io l'ho odiata per questo. L'ho odiata per così tanto tempo che mi sono dimenticata quanto fossero calorosi gli abbracci di una madre finché la tua non lo ha fatto il giorno di Natale.

«Ero intrappolata, sai? Intrappolata in una casa che era un inferno, con una madre che non mi vedeva e un uomo che... che mi distruggeva. Ma poi... poi è successo qualcosa.»

Mi avvicino un po', come se un istinto mi spingesse a proteggerla. Lei inspira profondamente, raccogliendo il coraggio per andare avanti.

«Una mattina mi sono svegliata e ho scoperto di essere incinta. Quello è stato il punto di rottura, l'inizio della mia fuga. Non potevo... non potevo permettere che quella creatura innocente fosse condannata alla mia stessa vita.»

Fa una pausa, come per riprendere fiato.

«Così ho preso un autobus, senza sapere bene dove andare. Mi sono trovata diretta a Santa Rosa. Ed è lì che ho incontrato Logan. Lui era lì, l'ho costretto a farmi spazio e a sedersi accanto a me... come se ci fosse un motivo. Mi ha parlato, mi ha fatto sentire che non ero sola. È stato lui a darmi il coraggio di non voltarmi indietro.» Il mio cuore perde un battito quando aggiunge: «Non penso che lui sappia quanto mi ha salvata in quel momento.»

Quando sento il peso delle parole di Megan, qualcosa dentro di me scatta. Non voglio che resti così. Non voglio che la sua vita sia solo una continua fuga dal passato. Non voglio che si senta invisibile per il resto della sua vita e che quella del suo bambino venga condizionata dal passato schifoso che ha avuto. C'è qualcosa che si agita dentro di me, la necessità di fare qualcosa per lei per aiutarla a ricominciare. Non rimango ad ascoltare la risposta di Liv. Mi giro senza nemmeno pensarci ed esco dalla porta, senza dare un altro sguardo a quel salone. Megan ha bisogno di ricominciare. E io voglio darle quella possibilità. Non posso più aspettare.

Guido per un po' senza una meta precisa, finché non mi fermo davanti a un quartiere che non conosco. Le strade sono tranquille, silenziose, e l'aria è gelida. Scendo dall'auto e cammino fino a trovarmi davanti a un piccolo edificio basso con una facciata bianca che non riesce a nascondere la solitudine che emana. È un condominio modesto, ma abbastanza tranquillo. Sì, questo potrebbe essere il posto giusto. Un posto dove Megan e Chester potrebbero ricominciare, lontano dalla disperazione che li ha perseguitati fino a oggi. Entro senza troppi convenevoli. Dentro l'edificio c'è un corridoio stretto, quasi soffocante. Le pareti sono bianche, spoglie, e l'odore di fresco si mescola con quello del legno dei pavimenti. Una porta si apre e un uomo con una giacca scura e occhiali scuri mi stringe la mano con troppa forza.

«Mr. Miller, piacere di conoscerla.» Mi saluta l'uomo a cui ho telefonato quasi un'ora fa, con un sorriso troppo educato da sembrare sincero. «Ho alcuni appartamenti che potrebbero fare al caso suo.»

Non rispondo subito, ma annuisco, mentre gli occhi si spostano distrattamente sulle pareti vuote. Non sono qui per fare conversazione. Non sono qui per sentire le parole di un agente che cerca di vendermi qualcosa ad un prezzo esorbitante inducendomi a credere che è il meglio che posso trovare al giorno d'oggi come prezzo immobiliare. Sono qui perché voglio fare qualcosa di buono, qualcosa che mi faccia sentire che, nonostante tutto, posso ancora fare qualcosa per Megan. Voglio che lei abbia un posto sicuro. Voglio che lei e Chester siano finalmente al riparo dalla violenza che li ha accompagnati per troppo tempo.

L'agente mi conduce al primo appartamento, e quando entro dentro mi ritrovo di fronte a un soggiorno piccolo ma accogliente. Il pavimento di legno lucido riflette la poca luce che entra dalle finestre, mentre le pareti bianche sono immacolate. C'è un cucinotto a vista e una piccola zona giorno, ma non è quello che vedo a fermarmi. È il pensiero che si affaccia nella mia mente, come un'ombra che non riesco a ignorare.
È per Megan. È per lei che voglio scegliere questo posto. Per darle una chance. Per darle una nuova vita.

«Ha una bella vista» dice l'agente superandomi e indicando una finestra che dà sulla strada. «Un quartiere tranquillo. Sicuro. Perfetto per una piccola famiglia, come da lei richiesto.»

Non lo ascolto. La sua voce è solo un rumore di sottofondo, un dettaglio che non mi interessa. Mi infilo le mani nelle tasche dello spesso giubbotto e inizio a ispezionare l'ambiente. Vago per il soggiorno, poi passo alla cucina, e poi penso a Megan e a come si sentirà quando entrerà qui per la prima volta. Mi immagino il suo volto, quella dolcezza mista a paura che porterà con sé, ma anche la speranza di ricominciare. Quella speranza che, a me, sembra ormai lontana come un sogno che non si realizzerà mai. Faccio un altro passo avanti guardando attentamente ogni dettaglio della stanza, e sento un groppo in gola. La sua vita merita di essere migliore.

«Questo è solo il primo, voglio vedere gli altri» dico, cercando di non dare troppo peso a ciò che sento dentro. Voglio solo scegliere, farlo in fretta, come se così potessi allontanare il dolore che mi punge.

Gli appartamenti successivi sono più o meno simili, ma uno di essi mi colpisce in modo diverso. È più piccolo, ma c'è qualcosa di più familiare in quel posto. Qualcosa che potrebbe dare un senso di casa a Megan e Chester. Non è molto, ma è sufficiente. Non è perfetto, ma è sicuro.

«Mi sembra buono» dico finalmente, guardando l'agente. «Penso che vada bene.»

L'agente mi guarda con una certa sorpresa. «Va bene. Allora, firmiamo?»

Non sento nemmeno le parole che dice. Vado alla scrivania, firmo il contratto senza pensarci troppo, senza nemmeno guardarlo. Pago tutto in contante. È una cifra alta, ma non mi interessa. Non conta. Non sono qui per i soldi. Sono qui per fare qualcosa di giusto, per una volta, per una persona che ha bisogno di aiuto. Quando esco dall'edificio, la luce è già più fioca. Il cielo sopra Los Angeles è grigio, come la sensazione che mi si è appiccicata addosso. Mi sembra che il mondo intero stia cercando di farmi sentire il peso della mia solitudine. Ma non mi fermo. Vado avanti. Non guardo indietro. Non posso.

Rimango fermo sul marciapiede, le mani infilate nelle tasche del giubbotto spesso e il cappuccio tirato su a proteggermi dal vento gelido. Fisso il bar di Rosalinde e Sam, ora completamente ristrutturato. È passato quasi un anno dall'ultima volta che sono stato qui, e non riesco a decidermi a entrare. Le mura di un azzurro vivace catturano la mia attenzione, lo stesso colore che Camilla adorava. Mi sfugge un sorriso triste, un ricordo dolce-amaro che mi colpisce con la stessa intensità di un pugno. Non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe felice di vedere questo posto ora, così luminoso e accogliente, proprio come lei lo immaginava.

Fuori, accanto alla porta e come cornice per le finestre, ci sono margherite fresche disposte in piccoli vasi. Il bianco delicato dei petali si staglia contro l'azzurro delle pareti, un tocco di vita che sembra voler accogliere chiunque passi di lì. Mi fermo a osservare quei dettagli, cercando di immaginare Rosalinde mentre sistema i fiori con cura, magari pensando a sua figlia. Espiro lentamente, e la nuvola di condensa che fuoriesce dalla mia bocca mi ricorda quanto sia freddo questo giorno. Il gelo sembra insinuarsi sotto la pelle, ma so che non è solo il clima. È quel peso invisibile che mi porto dietro da quando ho deciso di venire qui.

Con un gesto meccanico, tiro fuori il telefono dalla tasca. Il freddo mi pizzica le dita, ma ignoro la sensazione. Rileggo per l'ennesima volta i messaggi di Jackson, quelli che mi ha inviato questa mattina.

Jackson l'idiota: So da fonti certe che oggi te ne vai in giro per i fatti tuoi. Non ti chiederò dove, perché tanto lo sappiamo entrambi: non me lo diresti mai. Però, e lo dico con tutta la riluttanza del caso... Se hai bisogno, chiamami. Sì, lo so, me ne pentirò, ma ci sono.

Jackson l'idiota: Ehi, ascolta. Anche io sto male, okay? Non sei l'unico a soffrire. Non ti sto dicendo di smettere di essere una testa di cazzo, ma... potresti almeno evitare di fare cavolate? Se non lo vuoi fare per te – e so che non lo farai – fallo almeno per Liv. Sai che lei non lo reggerebbe.

Jackson l'idiota: Ah, fantastico. Non rispondere è proprio il massimo della maturità. Non provare neanche a tirare fuori la scusa che hai perso il telefono, perché nessuno ti crederà. Voglio solo sapere una cosa, Logan: perché diavolo continuo a sbattermi così tanto per te?

Jackson l'idiota: Okay, ho capito. Silenzio stampa. Perfetto. Ascolta, amico: io vado al cimitero. La sua tomba è lì, e spero di vederti. Ti aspetto. Per favore, vieni.

Rimetto il telefono in tasca con dita tremanti. Non ho risposto a nessuno di quei messaggi, e sinceramente non so nemmeno perché Jackson si ostini a preoccuparsi per me. Sbuffo. Ma certo che lo so. Sono stato uno stupido a credere che Liv mi avrebbe lasciato uscire senza almeno assicurarsi che stessi bene. Solo pensarlo mi fa venire voglia di sorridere e, nonostante il groppo in gola, ripesco il cellulare dalla tasca e le invio un messaggio veloce. Niente di elaborato, solo ciò che so le basta per calmarsi.

Logan: Sto bene. Ti amo.

Appena premo "invia," una coppia esce dal bar ridendo e stringendosi forte, i visi arrossati dal caldo proveniente dall'interno. Il loro sorriso mi colpisce come un pugno allo stomaco, ma paradossalmente mi dà anche il coraggio di fare il passo successivo. Respiro profondamente e mi incammino verso la porta, con le mani ancora affondate nelle tasche. Appena entro, il calore dell'ambiente mi avvolge, quasi soffocandomi. La porta si chiude alle mie spalle con un lieve tintinnio, lo stesso suono familiare che una volta mi faceva sentire a casa, e che ora non riesce a cancellare il freddo che ho dentro.

Le luci sono soffuse, avvolgono tutto in un'aura calda e accogliente, ma ai miei occhi sembrano più opprimenti che invitanti. I rumori del bar si intrecciano in un sottofondo continuo: il tintinnio ritmico delle tazzine, il borbottio costante della macchina per il caffè, il fruscio dei cappotti contro le sedie. C'è anche lo scoppiettio sommesso del vapore, quel suono che Camilla adorava. Mi torna in mente il modo in cui lei sorrideva ogni volta che lo sentiva, dicendo che le ricordava qualcosa di speciale. Qualcosa che non ha mai avuto il tempo di spiegarmi. Mi sembra quasi di sentirla ancora, come se la sua risata si fosse fusa con le pareti, con l'aroma di caffè e le voci di chi riempie i tavolini. Ma è solo un'illusione. Per quanto il bar sia pieno, mi sembra vuoto. Spoglio. Ogni cosa è un'eco di ciò che era. Ogni dettaglio, anche quelli più insignificanti, mi urla che lei non c'è più.

Il mio sguardo vaga per i tavoli, scrutando volti e figure alla ricerca di qualcuno di familiare. Quando intravedo Kate dietro il bancone, il mio respiro si blocca per un istante. Una parte di me vorrebbe girarsi, uscire senza fare rumore e scappare da tutto questo. Sapevo che ci sarebbe stata anche lei — lavora qui, dopotutto — ma avevo sperato, illuso me stesso, che avrei potuto rimandare questo incontro. Non oggi. Non dopo quello che è successo l'ultima volta che ci siamo visti.

Ma non ho il tempo di scivolare via. Rosalinde mi nota immediatamente. È seduta a un tavolo quadrato sulla destra, e quando i nostri occhi si incontrano, il suo volto si illumina per un istante prima che quel sorriso si spezzi sotto il peso del dolore. I suoi capelli, una volta biondi come il grano, ora sono più grigi e spenti, e le linee sul suo viso sembrano aver scavato anni di tristezza nel giro di pochi mesi. Prima che possa fare un passo indietro, lei si alza di scatto, così in fretta che la sedia quasi cade dietro di lei. Mi raggiunge con passo deciso e, prima che io possa dire una parola, mi avvolge in un abbraccio forte, disperato, come se volesse ancorarsi a me per non perdersi.

Sciolgo le mani dalle tasche con riluttanza, il cuore che batte così forte da rimbombarmi nelle orecchie. Le braccia mi si alzano in un gesto lento e incerto, e alla fine ricambio l'abbraccio. Affondo il viso nel suo petto, mordendomi la lingua con forza. Non posso piangere qui. Non posso crollare, non adesso. Dietro di lei, sento dei passi sicuri avvicinarsi. Mi costringo a sollevare lo sguardo quel tanto che basta per incontrare gli occhi di Sam, che la segue con il suo passo lento ma deciso. I suoi imponenti baffi nascondono un sorriso gentile, il sorriso di sempre, quello che Camilla aveva ereditato da lui. Ma i suoi occhi lo tradiscono: sono velati, gonfi, e sembrano trattenere una tempesta di dolore che non riesce a trovare sfogo.

Non dice nulla. Nessuno di noi parla. Rosalinde mi stringe ancora, mentre Sam si ferma accanto a lei, appoggiando una mano sulla sua spalla come per sostenerla. E in quel momento, il peso dell'assenza di Camilla si abbatte su di me con tutta la sua forza, silenziosa ma devastante.

Rosalinde mi stringe ancora le mani tra le sue mentre mi osserva con un'intensità che quasi mi scompone. «Logan, non ci posso credere!» esclama, la sua voce un misto di sollievo e sorpresa. «Non sai quanto sono felice che tu sia qui! Non ci aspettavamo di vederti oggi, è passato tanto tempo... troppo.»

Sento un nodo stringersi in gola, ma riesco a nasconderlo dietro un sorriso incerto. Non voglio che vedano quanto sia difficile per me essere qui. «Non ho più avuto il coraggio di venire» ammetto a bassa voce, senza guardarla negli occhi. Cerco di dare leggerezza alla frase, ma è inutile. Le parole restano sospese tra di noi, pesanti come macigni.

Rosalinde mi fissa, e il suo sorriso si spezza per un attimo, sostituito da un'espressione di profonda comprensione. «Logan...» mormora, ma non conclude la frase. Non serve.

Sam interviene, spezzando il silenzio con la sua voce calda e rassicurante. «Camilla sarebbe felice di vederti qui, ragazzo» dice con un cenno verso il bancone. Il sottofondo del bar sembra attenuarsi, come se anche le macchine del caffè e il chiacchiericcio volessero dare spazio a quel momento. Poi, mi posa un braccio sulle spalle, un gesto solido e confortante, e mi guida verso il tavolo.

Mi siedo, un po' rigido, mentre Rosalinde si sistema accanto a Sam, i suoi occhi che non smettono di scrutarmi. C'è una luce malinconica in loro, qualcosa che mi fa sentire ancora più colpevole per non essere venuto prima. Ma appena aprono bocca, è come se cercassero di dissipare la tensione con la loro consueta gentilezza.

«Allora, come sta andando a Yale?» chiede Sam con entusiasmo forzato, come se stesse cercando di riportarmi indietro al tempo in cui le conversazioni erano più leggere. «E la boxe? Sei ancora imbattibile, vero? O magari ti sei buttato sul football? Sai che Camilla ti prendeva sempre in giro, diceva che un pugile come te avrebbe spezzato in due quei quarterback.»

Rosalinde sorride, annuendo alle parole del marito. «E con le ragazze?» aggiunge lei, con un lampo di curiosità che sembra quasi un tentativo di riportarmi a una normalità che non esiste più. «C'è qualcuna di speciale? Qualcuna che ti ha rubato il cuore?»

Le loro domande mi strappano una risata, piccola e sincera, che mi sorprende. È il primo momento della giornata in cui mi sento davvero presente, come se avessi finalmente trovato una piccola via d'uscita da quel gelo che mi portavo dentro. «Yale va bene» rispondo, lasciandomi andare un po'. «E sì, c'è qualcuno... ma non credo che siate pronti per tutti i dettagli.»

Sam ride forte, dando una pacca rumorosa sul tavolo. «Questo è il nostro Logan!» esclama. Ma anche nel suo sorriso c'è una nota di qualcosa che non riesco a ignorare.

Rosalinde, invece, resta in silenzio per un attimo di troppo, il suo sguardo che mi trapassa, come se cercasse di scavare sotto la superficie. È sempre stata brava a leggermi, forse troppo. «Logan» dice piano, con una dolcezza che mi fa male. «Va tutto bene davvero?»

Inspiro profondamente, ma non rispondo subito. Mi limito a sorridere. Un sorriso che non so quanto riesca a ingannarla. Ma so che ci proverà lo stesso, con quella sua pazienza infinita, perché è quello che faceva anche con Camilla. Perché è quello che fa per chiunque ami.

«Va tutto bene» rispondo, ma la mia voce è bassa e sfuggente.

Non posso raccontare a loro quello che sta davvero succedendo nella mia vita. Non posso vedere i loro visi, già scavati dal dolore, preoccuparsi nuovamente per qualcosa che non possono controllare. Per cui mi limito a sorridere con finzione, a porre loro domande sulla loro vita e sulla loro attività, ascoltando con cura le risposte e godendomi della loro compagnia per quelle che sembrano ore intere. Ridiamo, parliamo e scherziamo tanto come facevamo un tempo, sentendoci nuovamente una grande e unita famiglia. Ma poi la conversazione inevitabilmente torna a Camilla, come una corrente che nessuno di noi può fermare.

Rosalinde si asciuga gli occhi con un gesto discreto e sospira, guardandomi con un'espressione che mescola affetto e tristezza. «Siamo passati al cimitero questa mattina» dice con dolcezza, la voce incrinata ma ferma. «Volevamo portare dei fiori freschi a Camilla. Ci andiamo sempre, ogni settimana. Ma oggi... oggi pensavo di trovarti lì.»

Le sue parole si posano su di me come un peso insostenibile. Evito il suo sguardo, concentrandomi invece sulla tazzina vuota che ho davanti. Mi schiarisco la gola, cercando di allontanare la pressione che sento salire nel petto. «Io... non ci sono ancora andato» ammetto, la voce bassa, quasi un sussurro. È una verità che mi brucia dentro, ma non riesco a mentire a Rosalinde e Sam.

Rosalinde annuisce piano, senza rimproverarmi, ma il suo sguardo mi trafigge comunque. «Va bene, Logan» dice, il tono comprensivo. «Andrai quando ti sentirai pronto. Lei capirebbe.»

Sam non dice nulla, ma il suo sguardo mi parla più di mille parole. La sua mano forte si posa sulla mia spalla in un gesto di solidarietà silenziosa.

Proprio in quel momento, una figura familiare si avvicina al tavolo. Alzo lo sguardo e vedo Kate, i capelli raccolti in una coda disordinata, il grembiule nero che indossa ogni volta che lavora al bar. Si ferma a qualche passo da noi, incerta, come se non sapesse se interrompere o meno. Poi si decide e si avvicina con un sorriso leggero, che però non raggiunge i suoi occhi.

«Ciao, Logan» dice, il suo tono calmo ma un po' distante.

«Kate» rispondo, annuendo leggermente. Non so cos'altro dire. Non ci parliamo dalla sera in cui ho avuto l'incidente, e ora tutto sembra così irreale, così carico di ciò che non viene detto.

«Stai bene?» chiede lei, ma il suo sguardo si sposta rapidamente su Rosalinde e Sam, quasi a cercare rifugio.

«Sto bene» rispondo, con un tono neutro che spero chiuda rapidamente la conversazione.

Kate annuisce, restando in silenzio per qualche istante prima di spostare lo sguardo altrove. «Se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi» dice infine, con un cenno della testa. Poi si allontana, tornando dietro al bancone.

Osservo la sua figura scomparire tra i tavoli, un senso di disagio che mi rimane addosso come una seconda pelle. Trascorro ancora un paio d'ore con Rosalinde e Sam, cercando di aggrapparmi a quella sensazione di famiglia che tanto mi è mancata. Ridiamo, parliamo di cose leggere, come se quei momenti potessero riportarci indietro a un tempo più semplice. Ma c'è sempre un velo di malinconia che non riusciamo a dissipare del tutto.

Quando mi alzo per andarmene, Rosalinde mi stringe di nuovo in un abbraccio. «Promettimi che verrai a trovarci presto, Logan» mi dice, la voce tremante ma carica di speranza.

«Lo prometto» rispondo, anche se non so se riuscirò a mantenere quella promessa.

Sam mi dà una pacca sulla spalla. «Prenditi cura di te, ragazzo» dice con un sorriso.

Esco dal bar sentendomi più leggero e più pesante allo stesso tempo. L'aria fresca mi colpisce il viso, facendomi respirare a fondo. Cammino via senza guardarmi indietro, ma il suono delle loro voci e il calore dei loro abbracci mi seguono, rimanendo con me mentre mi perdo tra le strade familiari. Tiro fuori il telefono dalla tasca e invio un rapido messaggio a Jackson.

Logan: Sto arrivando.

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