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Capitolo sette- Logan

E in mezzo
al mio caos
c'eri tu

NON ho mai avuto problemi a svegliarmi all'alba.
Sono sempre stato un tipo piuttosto mattiniero anche reduce dalle ore piccole, ma se c'era proprio una cosa che quel giorno non riuscivo a fare era: alzarmi dal letto.
Dopo la brillante idea avuta la sera prima, oggi mi sento come se una mandria di cavalli mi fosse passato più volte sopra tutto il corpo. Mi sento indolenzito, stanco, con sicuramente una bruttissima influenza in arrivo e, più di tutto, so di avere due occhi rosso fuoco.

Mi sono fatto due docce bollenti di seguito; me ne sarebbe bastata una ma non appena ho messo piede sul pavimento freddo il panino al tacchino ha compiuto il percorso al contrario e mi è tornato in bocca, per cui sono corso al water rigettando di tutto, anche l'anima. Una volta tornato nella stanza, ho indossato i primi vestiti puliti trovati nell'armadio, afferrato uno zainetto strapieno di libri e, dopo aver lanciato un'occhiata a Mason, che russava come un treno, indeciso se svegliarlo o meno, sono poi uscito diretto a mensa.

Trovarlo vuoto non mi ha lasciato granché sorpreso, soprattutto perché non erano ancora le sei del mattino e la sera prima c'era stata una qualche festa in uno dei dormitori dell'ala est. Un toast mezzo bruciacchiato con due spalmate di marmellata sopra e un caffè amaro dopo, mi stavo dirigendo negli spogliatoi per affrontare il coach. Speravo di trovarlo lì, e pregavo che non mi avrebbe scuoiato vivo.

Lo trovo stravaccato sulla poltrona girevole con i piedi allungati sulla scrivania piena di fogli e dossier, intento a mangiare una ciambella glassata e a bere un tazzone di caffè bollente. È concentrato nel leggere alcuni fascicoli e a malapena si accorge della mia presenza lì sulla soglia, immobile come uno stoccafisso.

Prendo un respiro profondo, mi schiarisco la gola e do' un leggero colpetto alla porta aperta. «Buongiorno, coach. Posso parlarle?»

I suoi occhi si staccano dal foglio che stava leggendo e s'incollano nei miei. Non mi invita ad entrare, si limita a fissarmi in silenzio continuando a masticare quello che già aveva in bocca. I minuti passano, e il mio battito accelera. Una volta finito, posa il foglio sulla scrivania ed afferra il caffè nero fumante. Tutto in rigoroso silenzio.

Mi passo una mano dietro al collo a disagio, sperando che non faccia domande sul mio aspetto trasandato di questa mattina, poi faccio un passo avanti entrando completamente nel suo campo visivo.
«Senta, per quanto riguarda questi ultimi giorni...»

«Passami la cannella» esordisce, avvicinando poi la testa al computer per leggere da vicino. La sua fronte si corruga appena nel farlo e i suoi occhi si socchiudono per vedere meglio.

«La...cannella, Signore?»

Il sospiro frustrato che gli esce dalla bocca mi fa drizzare le spalle. Mi lancia un'occhiata di sbieco. «Dietro di te sul comodino, mi serve la cannella da spruzzare su questo schifo di caffè che fanno in caffetteria.»

Mi volto subito alla ricerca di quello richiesto e nel farlo non riesco a non pensare al fatto che ho conosciuto solo un'altra persona che beve il caffè in quella maniera...disgustosa.

Trattengo un sorriso quando il bellissimo viso di Liv mi appare mentre sorseggia il suo nettare degli dèi seduta sullo sgabello in cucina. La prima volta che avevo scoperto di questa abitudine avevo fatto una smorfia inorridita, e lei si era lamentata della mia faccia schifata. Il suo buffo broncio e lo sguardo truce mi avevano accompagnato per tutto il resto della giornata finché non l'avevo trascinata a letto di peso e spogliata completamente. Lì ci eravamo divertiti, oh sì.

Cazzo se quella smorfiosa mi manca.

Afferro un piccolo contenitore in vetro su cui è inciso a pennarello 'cannella' e glielo porgo. Attendo, sempre lì in piedi, nel mentre che ne spruzza una generosa quantità sul caffè e, quando poi se lo porta alla bocca gustandolo come se fosse la cosa più buona mai assaggiata al mondo, sospira soddisfatto.

Mi schiarisco nuovamente la gola. «Le stavo dicendo, per quanto riguarda...»

Ma lui mi blocca ancora. «Vuoi sapere perché sei entrato a Yale con una piena borsa di studio per il football?» mi chiede, questa volta ruotando poltrona e busto nella mia direzione, attirando completamente la mia attenzione.

Me l'ero sempre domandato in effetti. Quando ho scoperto che Yale mi aveva accettato senza nessun problema, e per di più con un esonero totale dalla retta universitaria, non mi capacitavo del motivo. Avevo abbandonato il football l'anno prima, non era più quello che desideravo fare, né la carriera dei sogni a cui aspiravo quando ero bambino. Le cose erano iniziate a cambiare quando mia mamma era morta, e avevano chiuso il cerchio quando anche Camilla se n'era andata. Tuttavia, continuavo a chiedermi chi mai avesse fatto il mio nome e perché, ma quando poi ho lasciato Los Angeles rifugiandomi dai miei zii materni, avevo smesso di rimuginarci su e l'avevo accettato senza fare domande.

Annuisco e lui continua.
«Sono stato io. Ho presenziato ad una partita al SMC qualche anno fa e tu giocavi come quarterback.»

Strabuzzo gli occhi. «Lei era lì?»

«Cercavo nuovi giocatori che avrei potuto allenare, e tu ti sei subito dimostrato per quello che credevo fossi: un vincente. Non solo perché la tua squadra ha stracciato quella avversaria con poche difficoltà, ma per la motivazione che ho visto nei tuoi occhi e nei tuoi gesti. Tu, Logan, eri il giocatore migliore del tuo anno e io ti volevo a tutti i costi.»

«Ma poi ho abbandonato il football, questo non le ha fatto cambiare idea?»

La sua testa si inclina di poco mentre, con un sorso, finisce quel caffè disgustoso. «Abbandonare non significa non avere talento. So riconoscere un buon affare, e tu lo eri. Ho smosso molte persone per averti qui, mi sono fatto il culo per far sì che avessi una borsa di studio completa e, fino all'altro, giorno ero convinto di aver preso la decisione più giusta.»

Sospira sconsolato ed io mi ritrovo ad abbassare la testa, buttando gli occhi al pavimento. Quale cazzo di casino sto combinando? In ballo c'è il mio futuro!

«Dimmi, Logan Miller, mi sono sbagliato?»

Chiudo gli occhi per una frazione di secondo. «Non lo so» mi ritrovo a sussurrare.

«Pensi di riuscire a capirlo in fretta? Posso lasciare correre una volta, considerato che il tuo compagno di squadra Mason mi ha detto che eri a letto con l'influenza, ma due...» Si sistema gli occhiali e torna a posare lo sguardo sullo schermo del computer.

«Penso di sì.» Mi ritrovo a rispondere, non sapendo nemmeno io perché. Vorrei dirgli che no, sono sicuro al cento per cento che il football non faccia per me, ma quali altre opzioni ho?

«Bene. In questo caso: quarantacinque minuti di corsa per te, Miller. Non un minuto in meno o ti sbatto fuori dalla squadra e sarai costretto a pagarti la retta di tasca tua.»

Alzo la testa di scatto, ma la poltrona girevole è già rivolta verso la finestra e lui mi da' la schiena.

«Grazie, coach.»

Le mie gambe si muovono nuovamente verso gli spogliatoi, indosso un paio di pantaloncini ed una canotta, poi esco verso il campo da football e inizio a correre senza prima fare un po' di riscaldamento. Gli occhi del coach non lasciano la mia figura nemmeno quando, mezz'ora dopo, i miei compagni attraversano il prato e mi raggiungono al centro campo.

I polmoni mi bruciano ad ogni respiro che emetto, ma so che non cederò.
Non posso permettermelo, non più.

Affronto le due ore di bioingegneria e successivamente quella di economia con le gambe indolenzite e una strana carica di adrenalina che erano mesi che non provavo più. Verso l'ora di pranzo mi dirigo nella mensa del mio dormitorio e, dopo aver posato sul vassoio le prime cose che mi capitano a tiro, raggiungo il tavolo in cui Mason si sta sbellicando dalle risate con alcuni nostri compagni di squadra. Reed alza un po' il mento quando mi vede arrivare e mi fa solo un cenno con la testa che ricambio senza esternare alcuna emozione. Non ho niente contro di lui sia chiaro, mi sembra un tipo a posto ed è anche l'unico in squadra, oltre a Mason, che fa coppia fissa e non si scopa una ragazza ogni fine settimana.

Il mio migliore amico mi guarda dal basso, si scosta i capelli miele dal viso e prende a masticare una gomma in modo fastidioso solo per il giusto di irritarmi. Perché sa quanto cazzo mi irriti quel dannato suono.
Mi trattengo dal tirargli un pugno nello stomaco e gli regalo un sorriso a mezza bocca. «Possiamo parlare?»

«Di cosa?» vuole sapere, aprendo di più la bocca e aumentando il rumore della masticazione. Tra le dita si rigira la sua solita Winston e poggia il gomito sul tavolo con un sorriso strafottente.

Socchiudo appena gli occhi prendendo un respiro profondo. Ricordati che gli vuoi bene, Logan. Non puoi prendere a pugni il tuo fottuto migliore amico.
«Di quello che è successo tra di noi» mormoro appena. Non voglio che i nostri compagni di squadra si impiccino di cose che non li riguardano.

«Ma come? Abbiamo scopato e poi ti ho mandato a quel paese, Logan. Non ti è ancora andata giù? Devi fartene una ragione, amico. Io-non-ti-amo!»

Trattengo il respiro. L'intera squadra scoppia a ridere, Mason compreso. Quando lo guardo, però, un sorriso immenso gli si apre sul viso, arrivando fino agli occhi. Mi sta solo prendendo in giro, questo è il suo modo un po' contorto di dirmi che tra di noi è tutto okay.
Mi ritrovo a ricambiare quel sorriso, ma un pugno nelle costole riesco comunque a tirarglielo sotto le risate dei nostri amici.

Mason mi fa spazio ed io mi siedo accanto a lui. So che non ha raccontato a nessuno quello che è successo, perché è una cosa che riguarda solo noi, perché di lui posso fidarmi, perché è mio fratello e perdonerebbe qualsiasi mia stronzata.
«Sei tornato in te?» mi chiede sottovoce.

«Ufficialmente non ancora, ma posso lavorarci» rispondo con fin troppa enfasi. Infatti, mi lancia un'occhiata perplessa scuotendo la testa.

«Dovrai farlo, cazzone, perché non sprecherò più tempo dietro le tue stronzate.»

«Ho afferrato il concetto. Ah, ehm scusami per...sai per averti preso per il collo. Non volevo.»

Annuisce, sputa nel piatto la gomma da masticare e si infila la sigaretta in bocca ma non l'accende. «Sei perdonato, ma ho davvero mandato a tuo padre un messaggio e non mi scuserò per questo.»

«Non devi farlo. Hai fatto la cosa più giusta.» Penserò ancora la stessa cosa quando prenderà il primo aereo per venire spaccarmi la testa? Il telefono tace da giorni e la cosa mi inquieta molto.

Avery, un nostro compagno di squadra, viene ad accomodarsi accanto a me e si sporge a rubarmi una patatina dal piatto. Lo fulmino con gli occhi sotto la sua risata divertita.
«Stasera Connor ha organizzato una festa nei dormitori della Sheffield Scientific. Ci verrete?»

«Quello in cui le ragazze che ci vivono girano con un completino da infermiera sexy?» chiede Mason con troppo entusiasmo.

Lo guardo scuotendo la testa, lui si limita ad alzare le spalle e ridacchiare come uno stupido. «Oh, che c'è?»

«Proprio loro! Pensa che il Yale Daily News ne ha addirittura riservato un'intera pagina con foto allegate.» Tira fuori il cellulare dalla tasca e mostra l'articolo di giornale a Mason. Poi legge: "Le infermiere sexy della Sheffield Scientific aprono il dormitorio a chiunque sia interessato ad una dose di sano divertimento e iniezione di adrenalina".

«Cazzo amico, e me lo dici così? Fammi leggere bene quell'articolo.» Mason sfila il cellulare dalle mani di Avery, poi entrambi ridacchiano eccitati alla vista di culi all'aria.

Rivolgo un'altra occhiata di fuoco a Mason, questa volta ammonendolo, e lui lascia ricadere le spalle con uno sbuffo eccessivo. «Sei un guastafeste, cazzone. Dico sul serio, non ti riconosco più.»

«Vorrei tanto sapere cosa ne pensa Ellie di tutta questa storia.»

Mason mi regala il dito medio, ed io ne approfitto per finire il pranzo e congedarmi. Poso il vassoio sullo scaffale in acciaio, dove altri sono già stati impilati, e mi dirigo fuori a prendere un po' d'aria prima dell'ultima lezione pomeridiana. So che Mason mi romperà le palle tutto il pomeriggio obbligandomi ad andare a quella dannatissima festa, e so che finirò per accontentarlo perché quando mi ritrovo da solo non faccio mai le scelte più giuste.

Reed mi intercetta prima che riesca a passare il badge sullo scanner per entrare nella Helen Hadley Hall e chiudermi in stanza a riposare un po'.
Si appoggia con la schiena al muro e infila le mani nelle tasche della giacca.
«Va tutto bene Miller?»

Lo guardo in faccia sfoggiando un sorriso falso, non so perché. «Sì. Hai bisogno di qualcosa?»

Il suo sorriso si allarga. «Sei sempre così scontroso con tutti o riservi solo a me questo trattamento speciale?»

«Solitamente lo sono con tutti.»

«Te lo chiedo perché sono riuscito a conoscere l'intera squadra, e devo dire che quei ragazzoni affamati che hai visto in mensa non sono niente male. Ma tu...sei davvero scostante.» Inclina la testa da un lato soppesandomi con lo sguardo.

Mi spazientisco. «Cos'è che vuoi? Sono il tuo Wade Receiver, non il fratellino a cui devi rimboccare le coperte. Possiamo limitarci agli allenamenti?»

«Perché?»

«Perché non ti conosco né mi interessa farlo.»

«Perché?» mi chiede nuovamente, ed io sono a tanto così da tirargli un pugno sul naso facendogli perdere conoscenza.

Passo il badge ignorandolo volontariamente e lui ridacchia. «Dai, sto scherzando. So che hai parlato con mio padre questa mattina. Se ti ha tenuto in squadra nonostante il tuo comportamento significa che sei davvero un bravo giocatore.»

Mi volto verso di lui indurendo la mascella. «Ho preso l'influenza. Non che io ti debba spiegazioni, comunque.»

Le sue mani si alzano in segno di pace. «Ehi, non ti stavo accusando. Volevo conoscerti un po' meglio, tutto qua.»

Apro la porta del dormitorio e lui mi segue lungo il corridoio. «Tu non stai all'Alpha Sigma Phi?» gli chiedo.

«Sì, ma la mia ragazza vive due stanze vicino alla tua, perciò...» Lascia le parole in sospeso mentre io apro la porta della mia stanza e ci entro il più velocemente possibile. Voglio solo liberarmi di lui e della sua bocca larga.

«Perfetto. Ci si vede.» Faccio per richiudere la porta ma Reed la blocca con la mano.

Sospira passandosi una mano sulla fronte. «Non so cosa tu stia combinando, Logan, ma ti dirò quello che so: sogno di entrare nella NFL da quando ne ho memoria, anzi forse la mia prima parola è proprio stata quella: NFL. Ho studiato e lavorato sodo per entrare a Yale, mio padre ha fatto sacrifici enormi per pagarmi la retta nonostante ne sia il coach, ed io voglio solo laurearmi e finire in una delle squadre più forti al mondo. Non lascerò che un ragazzino del primo anno, che per di più si fa le canne tutta la notte, mi rovini il futuro.»

I suoi occhi gelidi, più freddi dell'Antartide, si scontrano con i miei che non sono da meno. Stringo la maniglia con talmente tanta forza da non sentirmi più le nocche. Ora gli spacco il naso, penso, ma poi un flebile sospiro gli esce dalle labbra, ed io mi ricordo che fino a cinque mesi fa anche io avevo un sogno: la Hill University. Che quei sogni sono stati infranti da uno stupido capriccio e che avrei appeso al muro chiunque si fosse messo in mezzo tra me e la boxe.

«Non ce l'ho con te, Logan, vorrei solo che capissi il mio punto di vista.» Stacca la mano dalla porta e si allontana di un passo. «Ci vediamo alla festa questa sera, magari avremo modo di conoscerci meglio.»

Il dolore che sento nel petto quando mi butto sul letto è paragonabile ad un braccio che ti viene spezzato. Chi sono io per distruggere i sogni di qualcuno? Come cazzo fa a sapere che ogni tanto fumo erba? Poi penso al fatto che la sua ragazza vive in questo dannatissimo corridoio, e che quindi può avere sentito la puzza.

«Merda» impreco, sfregandomi forte gli occhi.

Lascio il telefono sul comodino e chiudo le palpebre, portandomi il cuscino sopra la testa. Ho bisogno di dormire e provare quantomeno a riprendermi.
Non so quanto tempo dopo, ma con un ronzio fastidioso il telefono vibra facendomi tirare su con uno scatto. Sullo schermo leggo il nome di mio padre, e per la seconda volta nella stessa giornata mi si blocca il respiro e il battito del cuore accelera.

«Papà?» rispondo con voce tremante.

«Stavi dormendo?» mi chiede, con il suo solito timbro che non fa trasparire emozioni.

Mi passo una mano sul viso cercando di darmi un contegno. «Stavo solo riposando un po'.»

«Sono giù dalla porta del tuo dormitorio, mi raggiungi?»

Scatto in piedi come una molla passandomi a ripetizione la mano libera nei capelli.

È qui? Dio, sono fottuto!

«Sì, dammi... dammi solo il tempo di... di prendere una giacca» balbetto guardandomi attorno nella stanza e accorgendomi di un rotolino spesso che fa capolino dalla scrivania. Mi affretto a nasconderlo e faccio sparire anche il posacenere, per sicurezza. Sistemo meglio che posso il piumino sul mio piccolissimo letto singolo, poi butto sotto il letto di Mason le due bottiglie vuote di birra che giacevano ai piedi del comodino.

«Va bene» mi risponde lui in tutto ciò, ed io credo di avere il fiatone.

Faccio un ultimo giro su me stesso, buttando gli occhi in ogni angolo della stanza e assicurandomi che nessun profilattico vuoto giaccia sul pavimento, poi mi infilo la giacca e il mio solito cappellino da baseball. Faccio un enorme respiro profondo e lo raggiungo.

Vedere mio padre con indosso un paio di jeans chiari e un giubbotto invernale trapuntato mi fa strabuzzare gli occhi. L'uomo che mi sta di fronte sarebbe capace di vestirsi elegante anche per una passeggiata sulle spiagge di Malibù, per cui so che quando abbandona il suo solito completo nero è segno che qualcosa non va.

«Ciao, figliolo» mi saluta, abbozzando un sorriso che però si spegne all'istante.

Mi avvicino per abbracciarlo, lui ricambia dandomi qualche pacca affettuosa sulla schiena, poi fa un passo indietro.

«È successo qualcosa?» chiedo, fingendo di non sapere il motivo della sua visita. Sto solo temporeggiando, magari accadrà un miracolo e deciderà di non diseredarmi dalla famiglia.

«Ti va di prendere un caffè? Ho bisogno di parlarti.»

Guardo l'ora sull'orologio che ho al polso e sto per dirgli che tra meno di quindici minuti avrei l'ultima lezione della giornata, ma mando giù le parole quando i suoi occhi mi implorano di starlo ad ascoltare.

«Certo» rispondo quindi, poi gli faccio strada fino alla caffetteria del campus.

Cerco un tavolo che sia abbastanza appartato e, dopo esserci seduti, entrambi ordiniamo un caffè doppio e grande. Mi passo cento volte la mano nei capelli disordinandoli, e martoriandomi il labbro inferiore con le dita, mentre lui sembra così rilassato e al contempo preoccupato per qualcosa da farmi innervosire.

Si guarda attorno ammirando il posto. «Come ti stai trovando qui? I corsi sono tanto difficili?» mi chiede forzando un sorriso.

«Non mi lamento.»

«E il football? Com'è il coach? Gli allenamenti sono duri?» Le sue dita tamburellano sul tavolo, facendomi salire un'ansia assurda. Mi fanno male i muscoli di tutto il corpo per quanto ho corso, ho sempre mal di testa e ogni incombenza mi pesa.

«Va tutto bene, papà. Vuoi dirmi che succede?» sbotto.

Mio padre fa per aprire bocca, ma si ferma quando la cameriera ci serve i caffè. Le sorride in modo gentile, poi svita il tappo e soffia sul liquido bollente.

Questa attesa è a dir poco snervante. Mi gratto il polso nel punto esatto in cui ho il tatuaggio a forma di cuore con una L stilizzata. L'ho fatto quest'estate a Santa Rosa, sono passato davanti ad uno studio di tatuaggi e ci sono entrato senza pensarci due volte. Solo un'ora dopo, con una benda a coprirmi il polso, mi sono domandato se così facendo non avevo solo peggiorato la situazione.

Finalmente, l'uomo che mi sta di fronte appoggia il caffè da un lato, si sporge ad afferrare la sua ventiquattrore in cuoio e tira fuori una cartellina che, dapprima soppesa in mano, poi posa accuratamente sul tavolo, in mezzo a noi.
Lancia un'occhiata nella mia direzione, ma io sono troppo impegnato a fissare l'etichetta al centro della cartellina su cui è inciso a penna: "Tribunale".

Mando giù un boccone amaro, sbiancando all'improvviso. Sapevo che questo momento, prima o poi, sarebbe arrivato. Mio padre e l'Avvocato mi avevano preparato tutta l'estate a quello che avrei dovuto affrontare, soprattutto ad una possibile condanna al carcere e magari con uno sconto di pena. Per tutti questi mesi avevo cercato di allontanarmi da quella possibilità, ma ora non potevo più scappare.

Sospira e la apre tirando fuori vari fogli che mi sistema sotto il naso. «Ieri mattina mi ha chiamato McCawley, il giudice ha finalmente emesso una data per la prima udienza: il quindici di novembre. Sia te che Olivia dovrete presenziare, lei come vittima e tu come testimone e possibile aggressore. Non so ancora se sarete entrambi presenti in aula ad ascoltare le dichiarazioni dell'altro, ma so per certo che ci sarà il padre di Carol.»

Non riesco a distogliere lo sguardo dai fogli, ad emettere alcun suono. Le parole che ha pronunciato finora le sento distanti, ovattate, come se fossi dentro un sogno e non sapessi come uscirne. Un incubo.

Il volto di Liv mi appare davanti, rigato dalle lacrime, sofferente e carico di dolore.
Chiudo gli occhi e rivedo il suo corpo mezzo nudo su un letto che puzza di muffa, un uomo dai denti gialli e dallo sguardo vitreo è sopra di lei e ride. La sua risata mi fa rizzare i peli e salire un conato di vomito. Olivia urla, grida in cerca di aiuto, prova a spintonare via quel corpo sudicio, ma non accade nulla. Lei è bloccata in quella stanza chiusa a chiave, ed io prendo a calci e pugni la porta ma senza successo. Provo a gridare il suo nome ma non riesco ad emettere alcun suono. Piango disperatamente insieme a lei, fino a quando tutto cessa. Il mio cuore smette di battere insieme al suo.
Non è morta solo lei quella notte.

«Logan ti senti bene?»

Alzo la testa di scatto e un improvviso capogiro mi trafigge, costringendomi ad afferrare il bordo del tavolo con una mano. Mio padre ha appoggiato una mano sulla mia e mi sta osservando con uno sguardo preoccupato.
Faccio un accenno di assenso provando a darmi un contegno, ma la mia mente è altrove e il corpo sembra avermi abbandonato del tutto. Sento le gambe intorpidite, il viso che mi formicola come se piccoli insetti mi stessero correndo dentro la testa, la bocca impastata, per cui afferro il caffè e lo trangugio velocemente.

«Sì» mormoro con voce roca.

«Sei sicuro?» chiede. «Te l'ho già detto, puoi parlare con me se ne senti il bisogno. Sono tuo padre, ti voglio bene e sarò sempre dalla tua parte, Logan.»

Mi costringo a respirare riportando finalmente lo sguardo nel suo. «Lo so.» Mi schiarisco la voce e afferro uno dei fogli in cui è inciso il mio nome e l'ora in cui l'incubo avrà inizio. «Lei lo sa?»

Mio padre sospira appoggiando la schiena alla sedia. «Forse sì, non lo so. Amanda ha detto che l'avrebbe chiamata oggi per dirglielo.»

Mi agito spalancando gli occhi e sporgendomi in avanti. «Per telefono? Ha intenzione di dirglielo al telefono?» grido sconcertato.

Mi fa segno di abbassare la voce. «Passerò a vedere come sta dopo che avrò finito con te, non preoccuparti.»

Non riesco comunque a tranquillizzarmi. Lei è sola, rimarrà distrutta da questa notizia e sarà sola. Cazzo! Chiudo le mani a pugno fino a farmi sbiancare le nocche. Le ho promesso che sarei tornato da lei, che avremmo affrontato tutto questo insieme e invece non l'ho fatto.

«Papà, io ho bisogno di vederla. Io...lascia andare me a vedere come sta. Rimpiango così tante cose...» mormoro con un peso sul cuore che rischia di farmi cadere dalla sedia, ma rimango sbalordito quando il suo sguardo si indurisce alle mie parole.

«No. Hai fatto la tua scelta molti mesi fa, adesso è giusto che entrambi vi prendiate cura di voi stessi.»

Il mio sguardo incrocia i suoi occhi, che non sono più premurosi e dolci ma portano dentro il dolore che ho provocato in tutti loro andandomene via una mattina prima che l'alba sorgesse. Mi si secca la gola e non so come ribattere.

«Qualche volta non ti capita di desiderare di non essertene andato e di avere una vita normale?» mi chiede. Normalità, l'ho sempre desiderata.

Butto fuori un respiro malfermo. «Sì, ogni tanto mi guardo indietro e vorrei non essere scappato via. Probabilmente oggi sarei molto più felice e, soprattutto, avrei potuto stare accanto a lei. Ma...» lascio la frase in sospeso.

«Ma?» mi sprona, ma sa già dove voglio andare a parare.

«Ma non sarei riuscito ad affrontare il dolore e i demoni che mi porto dentro da molti anni. Andarmene è stata la cosa più difficile che potessi fare, ma anche l'unica soluzione per poter dare un po' di pace alla mia testa.» Me la indico con l'indice. «Perché è tanto incasinata, papà. Non sai quanto.»

Mio padre ha gli occhi lucidi con una lacrima incastrata tra le ciglia che però non vuole rischiare di far cadere. Per cui sospira pesantemente e si limita ad allungare una mano verso la mia. Ricambio il gesto stringendogliela forte.

«E come sta andando?» vuole sapere. «Ho letto il messaggio di Mason e non mi sembra che tu te la stia cavando così bene. Sono preoccupato per te, Logan.»

Quando vede che non rispondo, tira fuori dal taschino del giubbotto un biglietto da visita e me lo passa.

«Che cos'è?»

«Hai un appuntamento mercoledì con questa Psicologa. Vorrei che continuassi le sedute insieme a lei, Amanda dice che è molto brava. So che puoi uscire da questo momento buio, Logan. Tua madre vorrebbe questo per te, persino Camilla ti ci porterebbe a calci in culo.» Rido per il linguaggio che ha usato, perché non si scompone mai. Anche lui si lascia andare ad una risata, passandomi in modo dolce una mano tra i capelli. Chiudo gli occhi a quel tocco, e penso che vorrei solo scoppiare a piangere e rifugiarmi tra le sue braccia calde. Riporto lo sguardo nel suo accennando un sorriso.

«Cambia per lei, Logan. Rimettiti in sesto e poi vattela a riprendere.»

La luce del sole che filtra dalle finestre della caffetteria mi trafigge gli occhi, mi scalda la pelle esposta e riporta un po' di buon umore tra di noi.

«Lo farò» rispondo.

Qualche secondo dopo mio padre prende la ventiquattrore, si alza e mi saluta andandosene. Mi abbandono sulla sedia e porto i pugni chiusi sugli occhi. Gli Spill Canvas riempiono la stanza e io rimango a fissare il muro che mi sta di fronte con la testa piena di informazioni e il cuore che scalpita dalla voglia di rivederla.

°°°°

Ho sempre avuto la cattiva abitudine di reagire d'impulso senza prima fermarmi a pensare.
Avrei dovuto affrontare almeno una prima seduta dalla Psicologa, parlare con lei di quello che avrei voluto fare e, solamente poi, dare vita a quello che la mia testa mi consigliava di fare da quel pomeriggio.

Invece non avevo fatto niente di tutto ciò.

Dopo essermi appostato sotto casa di Liv come un pazzo stalker dalle occhiaie violacee, ero rimasto ben quaranta minuti a fissare il citofono con il suo cognome inciso, indeciso e suonare o meno. La mia gamba continuava a muoversi freneticamente, il cuore mi galoppava nel petto alla sola idea di rivederla e non riuscivo a smettere di sorridere. Mi sentivo proprio uno stronzo felice.

Quando poi mi ero deciso a farlo, avevo udito la sua risata propagarsi nella tromba delle scale e i suoi passi che man mano si avvicinavano al portone in legno. Per cui ero scappato a gambe levate e mi ero nascosto in un vicolo dalla parte opposta della strada. Anche quella sera, il buio mi aveva aiutato a evitare che riuscisse a stanarmi e mi permetteva di osservarla da lontano.

Sono rimasto nascosto mentre un ragazzo, lo stesso che ho visto la sera prima, le si avvicinava con un sorriso da coglione stampato sul viso. Il sorriso mi era morto a poco a poco sul viso, ma ero comunque deciso a farmi vedere, ad uscire dal mio nascondiglio e prenderla per mano trascinandola via da capelli ingellati e completo da almeno mille dollari che ora le accarezzava una guancia come se lei fosse sua.
Maledetto stronzo.
Non so come ho resistito all'impulso di avventarmi su di lui e prenderlo a cazzotti, ma l'ho fatto.

È stato quello che è accaduto immediatamente dopo, a buttare giù tutto il mio buon umore e a costringermi a piantare i piedi nel marciapiede per evitare di fare qualcosa di cui poi mi sarei sicuramente pentito.
Il coglione si era sporto verso di lei e l'aveva baciata per dieci fottutissimi secondi.
Liv non lo aveva allontanato, si era limitata a stare ferma con gli occhi chiusi e a ricevere il bacio.

Ho avuto un conato di vomito.
«No» ho sussurrato, stringendo forte i pugni. «Ti prego no, no, no!»
Ho continuato a ripeterlo finché lei non ha fatto un passo indietro mettendo distanza tra i loro corpi. Mi sono sentito sollevato quando sul suo viso si era palesata una piccola smorfia che si presentava solo quando qualcosa non le stava bene, ma non è stato comunque abbastanza.

Ho smesso di ascoltare quello che si dicevano dopo e mi sono portato una mano sul cuore, cercando di impedire al cuore di schizzarmi fuori dal petto.

I pugni che ho tirato al muro in cemento quando se ne sono andati, mi ha sicuramente provocato la frattura di qualche ossa della mano, ma niente a che vedere con il dolore sordo che sentivo dentro.

Mi sono così presentato alla festa nei dormitori della Sheffield Scientific a cui, come previsto, Mason mi aveva obbligato a partecipare, ma non prima di essermi fumato uno spinello di nascosto da tutti in mezzo agli alberi secolari di Yale.

Fanculo mio padre.
Fanculo la mia psicologa.
Fanculo Mason.
Fanculo lei.

Una volta entrato, la musica a tutto volume e le luci stroboscopiche sono state l'aiuto che mi serviva per lasciarmi finalmente andare. Mi sono diretto in mezzo alla sala gremita di gente, evitando le occhiate perplesse del mio migliore amico e quelle curiose del capitano dei Bulldogs, sentendo tutti gli occhi puntati addosso.

Ho iniziato a ballare con il viso rivolto verso il soffitto e il corpo leggero. Ho lasciato che Where are you now di Lost Frequencies mi entrasse sotto pelle e mi desse la carica di cui avevo un gran bisogno in quel momento. Tutto il mio corpo era in preda al dolore. I suoi occhi dolci ardevano di desiderio verso quel ragazzo, i miei bruciavano di rabbia e risentimento.

Due mani si appoggiano sui miei fianchi, un corpo sinuoso mi si struscia addosso, una bocca mi si avvicina all'orecchio mormorando un: «Sei così bello stasera.»
Abbasso gli occhi sulla ragazza in questione, Lea si sta morendo le labbra in modo sexy nel mentre che scuote i suoi capelli afro da una parte e poi dall'altra.

Il suo sorriso innocente mi costringe a fissarle le labbra imbrattate da un rossetto fucsia, porto lo sguardo sul suo corpo fasciato da un top striminzito in cui le sue tette scalpitano dalla voglia di uscire, e da un paio di pantaloni in pelle così stretti da farmi intravedere il suo culo sodo: non porta l'intimo.

Le sue labbra premono sulle mie, soffocandomi per un attimo i pensieri, mentre la sua lingua mi affonda nella bocca.
Mi ritrovo a ricambiare quel bacio senza nemmeno accorgermene, posando le mani sulla sua schiena e facendogli scorrere il pollice sulle costole.
Questo gesto mi fa andare nel panico.
Devo fare qualcosa, qualsiasi cosa ma non questo.

Tuttavia, quando le sue mani esperte si infilano dentro i miei jeans, e la sua bocca torna ad appropriarsi della mia in modo brusco, perdo nuovamente la lucidità che già non avevo più grazie allo spinello.
L'afferro per mano e la trascino via senza rimuginarci troppo su. So che domani me ne pentirò, me ne pento sempre, ma adesso ho solo bisogno di staccare la spina.

Gli occhi di Mason trovano i miei e, per una frazione di secondo, sembra volermi dirmi qualcosa, ma poi ci ripensa e mi fa un semplice cenno d'assenso con gli angoli della bocca rivolti all'ingiù. Lo sto costringendo a dormire dalla sua ragazza, e se è furbo si lascerà anche scappare che mi sono portato una ragazza in stanza.

Vorrei che Liv mi odiasse almeno quanto io odio me stesso, in questo modo non potrò trascinarla giù con me.

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