Capitolo quindici - Logan
E sono stanco di questo nostro
continuo ignorarci per paura
che qualcosa di molto più profondo
prenda il sopravvento
Tre mesi e mezzo prima
Il cinque luglio è stata la prima volta.
La prima volta che mi sono ritrovato pestato quasi a sangue da almeno quattro coetanei, la prima volta che ho fumato uno spinello e il mio corpo non abituato non ha retto la sensazione di vuoto, la prima volta che sono finito dietro le sbarre dopo che diversi poliziotti furono riusciti a sedare la rissa. Avevano ammanettato tutti e cinque e, dopo una lunga perquisizione e i test antidroga, ci avevano scortato in centrale. Essendo l'unico maggiorenne mi toccava aspettare un genitore o un tutore dietro le sbarre, mentre gli altri erano stati rilasciati con una sola lavata di capo e le raccomandazioni ai genitori. Fottuti bastardi.
Il dieci luglio è stata la seconda volta.
La seconda volta che ho bevuto fino a sentirmi male e mi sono ritrovato a barcollare sul ciglio della strada in piena notte con una bottiglia di vodka tra le mani e il viso stravolto dalla pioggia, la seconda volta che ho fumato due spinelli e sono riuscito a non vomitare dietro al primo cespuglio nel sentire il corpo come se mi fosse estraneo, la seconda volta che una pattuglia mi ha fermato per un controllo e poi ammanettato di nuovo e condotto in centrale, sbattendomi dietro le sbarre come un animale.
Il tredici luglio è stata la terza volta.
Si, avevo aspettato solo tre giorni, il tempo necessario che mi era servito a riprendermi dai giorni precedenti prima di ricadere nuovamente in tentazione. La terza volta era stata più complicata delle altre, perché quando alle quattro del pomeriggio sono uscito di casa mi ero già scolato un'intera bottiglia di vino che mio nonno teneva segretamente in cantina. Il sole di quel pomeriggio era cocente e mi bruciava la testa oltre che arrovellarmi i pensieri. Mi ero reso conto troppo tardi di aver dimenticato il portafoglio a casa per cui, quando il ragazzino un po' sgangherato che spacciava all'angolo non aveva voluto vedermi l'erba, gliel'avevo strappata dalle mani ed ero corso via. La terza volta che venivo picchiato a sangue dagli amici dello spacciatore, la terza volta che mi buttavano letteralmente sul pavimento della cella come carne avariata e poi richiudevano la porta con un tonfo.
Sdraiato sulla panca ad osservare i buchi nel soffitto, riflettevo su quanto avessi iniziato a farmi schifo negli ultimi mesi. Il naso mi doleva così tanto che ero sicuro fosse rotto, lo zigomo destro pulsava al punto da riuscire a riconoscere il dolore di un enorme livido formarsi sulla guancia, il labbro era spaccato e su quello inferiore si stava già formando una crosticina. Ero consapevole dell'occhio sinistro iniettato di sangue, così gonfio da impedirmi di vedere bene. Un paio di costole ammaccate, la schiena a pezzi e dolori a tutti gli arti. Mi sentivo una pezza, eppure dentro al sangue ancora mi circolava un mix letale di adrenalina e marijuana.
Non avevo idea da quante ore fossi rinchiuso in quella cella ripugnante, in cui l'odore era cosi nauseabondo da avermi costretto a vomitare un paio di volte dentro un secchio, ma sapevo che ormai ero riuscito a contare tutte le mattonelle che avvolgevano le pareti: trecentocinquantacinque. L'unica luce penzolante appesa al soffitto mi aiutava ad osservare al di là delle sbarre in acciaio, dove un lungo corridoio portava all'ingresso della centrale di polizia che vedevo aprirsi di tanto in tanto con un tintinnio, nemmeno fossimo al supermercato.
Sentivo la gola secca, segno che avevo un disperato bisogno di bere dell'acqua, ma sapevo anche che chiederla sarebbe stata del tutto inutile visto che me l'avevano già negata almeno tre volte. Odiavo quel posto, odiavo la supremazia con cui si atteggiavano quegli uomini in divisa credendo che solo loro fossero la parte buona della società, odiavo quell'odore sgradevole che era riuscito ad impregnarsi sui miei vestiti fino a penetrare sotto pelle, odiavo me stesso e le decisioni di merda che continuavo a prendere.
A differenza delle altre due volte, mio zio Paul non si era ancora fatto vedere. All'inizio ero convinto che forse non era ancora stato avvertito dalle autorità vista l'ora tarda, poi mi ero preoccupato che la sua fidanzata potesse avere rotto le acque in anticipo e che quindi fossero stati trattenuti in ospedale e che di conseguenza non avesse avuto il tempo di venire a tirarmi fuori, ma dopo ben nove ore con lo sguardo fisso sulla porta ero arrivato alla consapevolezza che mi stava punendo a modo suo. Non sarebbe arrivato a recuperarmi tanto in fretta, e forse per quando l'avrebbe fatto mi avrebbe trovato morto a causa di disidratazione, fame e probabilmente puzza.
Dopo altre tre ore mi sembrava di iniziare ad impazzire. Le testate al muro che stavo tirando sicuramente avrebbero lasciato un altro enorme livido sulla parte ancora sana del mio viso, procurandomi anche una commozione cerebrale. Respirare sembrava essere diventata tutt'a un tratto una cosa difficile da fare, come se le pareti si fossero lentamente strette e provassero a schiacciarmi come un panino. Non avevo mai sofferto di così tanti attacchi di panico come negli ultimi mesi, eppure nell'istante in cui ero crollato a terra avevo rivisto Liv in uno dei suoi momenti più brutti. Ora capivo quando mi ripeteva fino allo sfinimento che non c'era nulla che gli altri potessero fare per aiutarla: c'eri solo tu, i polmoni stretti in una morsa soffocante, il cuore che batteva così forte da schizzarti in gola, la fronte imperlata di sudore freddo, brividi capaci di scuoterti da capo a piede in tutto il corpo, un vorticare così eccessivo da costringerti a reprimere un conato.
E non c'era nessuno, nessuno che fosse lì pronto a salvarti. Dovevo essere la salvezza di me stesso, quel braccio che si immergeva nelle acque profonde e tendeva la mano pronto a tirarti su, quell'àncora buttata in mare che si agganciava agli scogli impedendoti di scivolare via. Dovevo essere tutte quelle cose: la mano destra che afferrava la sinistra e la catena che fissava da un lato la barca e dall'altra quell'attrezzo in ferro riverso sul fondale. Io potevo essere entrambe le parti che servivano a rimanere con i piedi ben piantati sul pavimento. Potevo ancora salvarmi.
E così mi ero messo a contare facendo dei lunghi respiri profondi.
Quand'ero arrivato a mille, un agente tarchiato e con dei baffi così lunghi da essere rivolti verso l'alto, mi aveva passato un vassoio con quella che sembrava essere sbobba da prigione e una bottiglietta di acqua calda come il mio piscio. Non mi ero fermato a pensarci troppo, gli avevo quasi strappato di mano il piatto e avevo mangiato così velocemente da farmi venire il mal di stomaco, poi avevo compiuto lo stesso gesto con l'acqua che mi era scivolata nella gola arida come una benedizione. Mi era uscito un gemito dalle labbra che aveva fatto ridacchiare l'agente. Se ne avessi avuta la forza, gli avrei tirato il vassoio in testa, invece mi ero limitato ad appoggiarmi al muro e a chiudere gli occhi con forza. Ho continuato a contare.
«Quando hai finito di pregare come una femminuccia, qualcuno è venuto a tirarti fuori da qui. Ancora.»
Aveva rimarcato l'ultima parola come se sapesse che tanto ci saremmo rivisti da lì a qualche giorno, forse sarebbero bastate qualche ora per tornare a compiere scelte di merda. Tanto valesse che non uscissi più allora. Mi ero morso il labbro inferiore con forza per evitare di rispondergli a tono, per minacciarlo di cattiva condotta, per ricordargli che la divisa non lo avrebbe salvato da tutto e che nascondersi dietro ad un distintivo non faceva di lui una brava persona. Ero stato trattato come un criminale, mi erano stati negati cibo e acqua per quasi un giorno intero, ero stato costretto a fare i miei bisogni dentro un secchio, e non si erano nemmeno degnati di venire a vedere come stavo dopo avermi sentito vomitare l'anima.
Quella cella non sarebbe stata l'ultimo posto che avrei visto prima di morire.
Mentre avanzavo a fatica nel lungo corridoio, la consapevolezza che lì dentro non ci avrei mai più rimesso piede si era fatta strada dentro di me. Non ero un cattivo ragazzo, compivo solo scelte errate che non facevano altro che portarmi sulla strada sbagliata. Punivo me stesso per cose che sapevo erano accadute non per colpa mia, o meglio non del tutto. Il dolore che provavo in quel momento ero sicuro fosse meglio del ricordo del viso stravolto dalle lacrime di Liv, del suo corpo minuscolo pieno di tagli e lividi, dei suoi slip tirati giù fino alle gambe e della gonna che le risaliva esponendola del tutto. Con una mano tremante appoggiata al muro, avevo ricominciato a contare. Non avrei vomitato ancora, volevo solo uscire da lì.
Ad aspettarmi davanti al bancone, ho trovato Megan invece che mio zio.
I suoi occhi scuri avevano catturato i miei ad una velocità quasi impressionante, e si erano soffermati ad osservare il mio corpo maciullato come se mi vedesse davvero per la prima volta. Si era limitata ad inclinare la testa verso l'uscita, poi senza degnarmi di una sola parola era sparita oltre la soglia. Avevo recuperato i miei effetti personali senza riuscire a guardare in faccia quegli agenti che ora ghignavano nella mia direzione e mi salutavano promettendomi che ci saremmo rivisti a breve.
Non lo avrei permesso.
Una volta fuori, il sole caldo di quel pomeriggio estivo mi aveva colpito così forte da farmi barcollare. Appoggiato contro la macchina, mio zio Paul e Megan mi osservavano avanzare con qualche difficoltà, esaminandomi la maglia sporca di vomito e gli enormi lividi che mi segnavano il viso. Non osavo seguire il loro sguardo, sapevo di fare schifo e non volevo imprimermi nella testa quell'immagine a pezzi e rotta di me. Una versione di me stesso che non mi piaceva, che non potevo accettare. Megan aveva sospirato così forte da farmi sollevare lo sguardo, nel suo ci avevo trovato solo tanta tristezza. Non era arrabbiata, probabilmente si ricordava di tutte le volte in cui si era ritrovata nella mia stessa situazione, con la differenza che io avevo lei e zio Paul, mentre lei era rimasta completamente sola. L'accenno di un sorriso mi aveva dato un minimo di speranza che le cose non fossero poi tanto disastrose, speranza che era morta nel momento in cui mio zio le aveva chiesto gentilmente di salire in macchina.
La sua voce fredda e composta era stata come una secchiata d'acqua gelida. Nella mia testa era scattato un campanello d'allarme, e sapevo che tutto quello che sarebbe accaduto da lì a poco non mi sarebbe piaciuto per niente. Non so com'ero riuscito a trascinare lo sguardo nel suo, così vuoto da farmi rabbrividire, ma quando l'avevo fatto una parte di me si era spezzata completamente. In mio zio Paul vedevo da sempre mia madre: stessi lineamenti in viso, stesso carattere d'acciaio ma con un lato buono che avevo sempre invidiato, stessa fedeltà alla famiglia. Ed io lo ero, ero suo nipote cresciuto un po' troppo velocemente e che ora si faceva del male con le sue stesse mani. Gli vedevo la determinazione stampata nero su bianco in viso, e come mia madre sapevo che non avrebbe lasciato perdere il tutto tanto velocemente.
Aveva mantenuto lo sguardo fisso nel mio mentre diceva: «Come ti stai riducendo, Logan? Quando hai deciso che la tua vita vale davvero così poco?»
Ed era stato proprio quel tono calmo a farmi capire che le cose sarebbero precipitate e che non avrei potuto ribellarmi in nessun modo. Dovevo solo accettare che tutto avrebbe preso una piega che non mi sarebbe piaciuta, e che se volevo riuscire a riprendere in mano la mia vita non avrei potuto oppormi.
Avevo deciso che la mia vita non valesse il gioco nell'esatto momento in cui mia madre era morta e la consapevolezza che non mi avrebbe mai potuto accompagnare all'altare mi aveva colpito come un pugno allo stomaco, lo aveva confermato il fatto che nonostante io ci provassi con tutto me stesso niente cambiava e che per scelte stupide Camilla non sarebbe mai potuta diventare un Medico brillante, né saremmo mai potuti crescere insieme. Il colpo di grazia era arrivato quando Liv si era ritrovata invischiata in cose che non le appartenevano, aveva compiuto gesti per proteggere uno come me, e ci aveva quasi rimesso la vita. In quel momento, stanco e distrutto, mi era balenata l'idea che se io non ci fossi più stato questo avrebbe potuto migliorare la vita di tante persone.
Così avevo alzato di poco le spalle quasi con fare annoiato, confermando a mio zio che non tenevo più alla mia vita e che anche lui non se ne sarebbe dovuto preoccupare.
«Non ti creerò più problemi» gli avevo risposto, e qualcosa sul suo viso era cambiato.
Le sue spalle si erano irrigidite e così la mascella si era indurita. «Di questo puoi starne certo. Sali in macchina» mi aveva ordinato.
Durante il viaggio avevo appoggiato la testa contro il finestrino, allontanandomi da quel silenzio soffocante dentro l'abitacolo. Avevo ignorato l'impulso di accendere lo stereo chiudendo la mano a pugno; volevo che la musica fosse così alta da sovrastare quei pensieri opprimenti. Più difficile era stato fingere di non sentire su di me lo sguardo furioso di mio zio, o come Megan non avesse smesso di far traballare le gambe contro il sedile, colpendomi così sulla schiena. Mi ero limitato ad osservare la città sfrecciarmi accanto, a sonnecchiare di tanto in tanto sopprimendo la nausea che nuovamente minacciava lo stomaco.
Non so quanto tempo era passato prima che Megan parlasse.
«Hai mangiato qualcosa?»
Avevo soffocato un conato al ricordo della sbobba. «Sì.»
«Bevi un po' di acqua, sei pallido.» Mi aveva passato la bottiglietta fresca nell'esatto momento in cui mio zio Paul aveva sospirato pesantemente, costringendomi a guardarlo.
«Quando ho accettato di prendermi cura di te quest'estate, non avevo messo in conto che significasse ricevere chiamate dalla polizia un giorno sì e l'altro no. Ho promesso a tuo padre che non ti saresti cacciato nei guai, Logan, e intendo mantenere la mia promessa.»
«Mi dispiace» avevo mormorato deglutendo. «Come ti ho detto, non sarò più un tuo problema d'ora in poi.»
Aveva sbuffato. «Ah no? Che cosa hai intenzione di fare quindi?»
«Non lo so. Non ho piani a lungo termine, vivrò alla giornata.»
«Non entrerai più in casa mia sbronzo e strafatto! La mia fidanzata è incinta, Logan! Sto per diventare padre! Non ho tempo di stare dietro ad un ragazzino a cui non interessa minimamente della sua vita!» mi aveva urlato contro, facendo sussultare Megan per il tono di voce. Io invece non mi ero scomposto. Ero d'accordo con lui, eppure non avevo un altro posto in cui andare. Prima che Megan potesse offrirsi di darmi vitto e alloggio per un po', mio zio l'aveva interrotta probabilmente leggendole nel pensiero.
«Non starà da te, Megan. Senza offesa, ma se non è riuscito suo padre a rimetterlo in riga non vedo come potresti riuscirci tu.»
Non mi era piaciuto il tono con cui le si era rivolto, e mi si era stretto il cuore nel vedere il sorriso di lei scivolarle via come una maschera eretta per fin troppo tempo.
«Perciò qual è il tuo piano, eh? Rispedirmi a casa?»
«Per quanto per me sarebbe una rottura di coglioni in meno, non cambierebbe nulla. Tornare laggiù adesso sarebbe la tua fine, Logan, e anche se non ci credi io ci tengo a te. Tengo alla tua vita e al tuo futuro.» Si era passato la mano un paio di volte sulla barba folta sospirando. «Tua madre sarebbe capace di ritornare in vita solo per prendermi a calci se ti lasciassi da solo in questo momento, per cui no. Risolveremo questa faccenda, e lo faremo a modo mio.»
Non mi ero accorto che avesse parcheggiato la macchina e che di fronte a noi si ergesse un imponente edificio bianco su diversi piani. Solo quando notai il cartello di fronte all'entrata, mi resi conto di cosa intendesse davvero.
«Sei serio cazzo?» avevo mormorato, così piano che non ero sicuro mi avesse sentito davvero.
La sua mano si era posata sulla mia spalla stringendola, Megan aveva trattenuto il fiato con forza, io non ero più riuscito a distogliere lo sguardo dalla scritta bianca. «Mi dispiace doverlo fare, credimi, ma se non vieni a patti con tutto questo dolore prima o poi farai una brutta fine.»
Non ero riuscito a ribattere. Mi ero ritrovato fuori dalla sua macchina con un borsone nero in spalla ad osservare una signora di mezza età venirmi incontro con un sincero sorriso sulle labbra. «Benvenuto, Logan.»
Non avevo ricambiato, mi ero limitato ad osservare l'immenso giardino verde che ci circondava con il respiro irregolare ed una strana sensazione nel petto.
«Per quanto dovrò restare qui?»
Il sorriso della donna si era affievolito. «Con tuo zio abbiamo concordato che valuteremo il tuo percorso e la tua condizione tra un mese. Se per quell'ora le cose saranno migliorate, allora non avrai più nessun motivo per rimanere qui.» Vedendo il mio sguardo vacuo e perso, si era premurata di aggiungere: «Il nostro non è un centro per salute mentale, Logan. Siamo qui per aiutarti ad affrontare un percorso di riabilitazione, abbiamo dalla nostra parte alcuni dei medici più bravi del paese che affronteranno con te passo dopo passo. Non sei malato e non verrai trattato da tale, hai solo bisogno di qualcuno che ti ascolti davvero.»
L'avevo seguita senza nemmeno voltarmi indietro. La sensazione di oppressione al petto scivolava via man mano che salivo i gradini in pietra verso l'ingresso. Le mie gambe avevano vacillato solo quando la voce tremante di Megan aveva sovrastato tutto quel rumore nella mia testa: «Ti voglio bene, Logan. Fallo per te stesso, ritorna più forte di prima e poi vatti a riprendere tutto quello che hai lasciato indietro.» Il vago riferimento a Liv mi aveva fatto vacillare, costringendomi ad avanzare con le mani che stringevano con forza la ringhiera in ferro.
«Io credo in te, Logan, e sarò qui fuori tra un mese esatto.»
Mio zio Paul mi aveva dato il colpo di grazia, riducendomi in brandelli talmente sottili che non ero sicuro sarei riuscito a ricucire. Eppure, avrei messo tutto me stesso per riuscire finalmente a guarire, avrei lottato con le unghie e con i denti per diventare finalmente l'uomo che Liv si meritava di avere accanto.
All'inizio ero davvero convinto che quel mese mi fosse servito, ma ancora non sapevo quanto in fondo la depressione avesse affondato i suoi artigli.
Ritornare al presente sembra una delle cose più difficili che ho mai fatto.
Eppure, qualcuno mi strappa via da Erik Jones prima che potessi davvero ammazzarlo, trascinandomi all'indietro con una forza tale da bloccarmi contro il tavolo in legno della cucina. Nella mia testa si odono nuovamente le voci chiassose dei presenti, la musica a palla che mi martella nelle orecchie e il respiro troppo accelerato. Ansimo così violentemente da riuscire a sentirmi il cuore martellare nel petto nonostante il trambusto.
Mason mi si para davanti afferrandomi la testa e costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. «Respira, cazzone. Più piano, così, bravo.» Inspira dal naso e poi espira dalla bocca, incitandomi ad imitarlo.
Seguo i suoi gesti nel vano tentativo di riprendere il controllo. Gli afferro entrambe le braccia con mani tremanti e chiudo gli occhi concentrandomi sulla respirazione. Quando però lo faccio, nelle orecchie risento quelle maledette parole che mi hanno fatto perdere la testa, e la voglia di liberarmi da questa stretta e fiondarmi di nuovo su quel coglione ha la meglio. La puttana dei Lions è ancora qui?
Una rabbia accecante mi si riversa nel petto, costringendomi a smettere nuovamente di respirare. Cogliendolo di sorpresa, spingo Mason lontano e torno alla carica proprio nel momento in cui Jones si sta rialzando in piedi con una mano a tamponare il naso sanguinante. Con la testa gli colpisco lo stomaco facendolo tombolare a terra, il pugno destro gli centra lo zigomo sinistro un secondo prima che io venga trascinato ulteriormente lontano. Questa volta tento di liberarmi in tutte le maniere che riesco, al punto che deve intervenire una terza persona per trascinarmi fuori nel giardino sedando così la rissa.
«Cristo lasciami! Lasciatemi!» sbraito a nessuno in particolare.
Chiunque mi stia tenendo, lo fa senza la minima intenzione di lasciarmi andare. Sono furioso, così tanto da essere arrivato al punto di ringhiare verso i volti che continuano a lanciarmi occhiate curiose e divertite. Vi odio tutti! Vorrei urlargli.
«Lo faremmo, se la smettessi di dimenarti come un fottuto toro. Datti una calmata cazzone!»
La voce di Mason riesce da sempre a farmi ritrovare quel briciolo di lucidità che in momenti di rabbia come questi viene a mancarmi, e sentirlo in quella circostanza mi permette di mettere ulteriormente a fuoco e tentare quantomeno di regolarizzare il respiro. Smetto di dimenarmi, e quando uno di loro allenta la presa ne approfitto per staccarmi del tutto e mettere un po' di distanza. Mi piego in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia e combattendo contro la nausea post adrenalina. Una mano calda mi si appoggia sulla schiena infondendomi un po' di calore, facendomi capire che chiunque sia è lì per me. All'inizio penso sia Mason, ma quando il ragazzo in questione parla mi irrigidisco leggermente.
«Per quanto mi riguarda, non hai fatto niente che non avrei fatto io. Un po' rudemente certo, ma capibile.» Reed.
Con ancora il fiatone e la rigidità delle spalle, tento di prendere un respiro profondo. «Sono fuori dalla squadra?»
«Se dovessi punirti per ogni minima stronzata che fai, a quest'ora non faresti più parte della squadra da un pezzo, Miller. Come ti ho detto, avrei reagito nella stessa maniera se avessero dato della puttana alla mia ragazza. Avevo già detto a Jones di smetterla quando è arrivata, ma non mi ha ascoltato. Per cui quello in panchina per almeno un mese è lui, tu non hai nulla di cui preoccuparti.»
Decido di girarmi e affrontarlo a muso duro, ma il suo sguardo compassionevole mi fa capire che sta dicendo sul serio. Se c'è una cosa che non sopporto è l'ipocrisia. «Perché sei così gentile? Ho appena rotto il naso ad un membro della squadra, come minimo dovrei essere messo fuori gioco per un po'.»
Reed alza le spalle accennandomi un sorriso. «So che sei un bravo ragazzo, Logan. A discapito di quello che credono gli altri, ti faresti ammazzare pur di proteggere chi ami. Mi piacciono le persone così.»
Lo squadro dalla testa ai piedi, un sorriso freddo sulle labbra.
«Quindi sono il Principe delle tenebre solo quando fa più comodo?»
«Stasera sei più il Signore degli Inferi, non trovi?» Alza un paio di volte le sopracciglia studiando il mio look che ha scelto lui stesso. «Quasi sono rimasto deluso nel non vedere i tuoi capelli diventare rosso fuoco dalla rabbia, Ade.»
Gli lancio un'occhiataccia facendolo ridere. «Adesso ho voglia di prenderti a calci.»
Sento una porta chiudersi, per cui getto uno sguardo da sopra la sua spalla e boccheggio nel vedere Liv a braccia conserte osservarci con curiosità. Inchiodo gli occhi nei suoi, che per la prima volta da quando ci siamo rivisti sembrano meno freddi e duri. Forse un po' capisce come mi sento, oppure si è arresa al fatto che non cambierò mai. Se potessi ripulirmi dal passato, giuro lo farei. E invece non faccio che deluderla in continuazione, e probabilmente avermi visto in stile bestiaquesta sera non ha giovato al rapporto che sto tentando in tutte le maniere di ricucire. Cristo, la canna che mi sono fumato non deve avermi stordito abbastanza visto che ora mi ritrovo nel pieno controllo dei miei sentimenti e la cosa non mi piace affatto.
Reed segue il mio sguardo, poi mi da una pacca amichevole sulla schiena e si limita ad incamminarsi verso l'ingresso arruffando i capelli a Liv.
«Ci vediamo dopo, West Coast.»
Inarco un sopracciglio nel sentire che le ha già affibbiato un nomignolo. La voglia che ho di strangolare qualcuno torna a farsi strada nel petto aprendo una voragine, ma si affievolisce nel momento in cui la ragazza più bella del mondo mi raggiunge fermandosi solo a pochi passi di distanza. Indossa una giacca più grande di lei, segno che qualcuno deve avergliela prestata, e tenta di infondersi un po' di calore stringendosi le braccia al petto.
«Stai bene?» mi chiede preoccupata.
Mi sudano le mani, e a me non sudano mai le mani. Mi è difficile mantenere un contatto diretto con i suoi occhi ghiaccio e non riesco a capirne il motivo. Svio lo sguardo ovunque nel giardino, soffermandomi sul ramo afflosciato di un albero per poi passare ad un gruppetto di ragazzi intenti a fumare, bere e ridere spensierati. Eppure, nonostante le mille distrazioni che mi si propongono, vengo nuovamente calamitato verso di lei. Sempre verso di lei.
Mi asciugo i palmi bagnati sulla tunica prima di tornare a guardarla.
«Mi darai dell'idiota se ti dico che non mi sono mai sentito meglio?»
Inclina la testa soppesandomi con lo sguardo. «Se non ti conoscessi forse lo penserei, ma so che questo è da sempre il tuo modo di evadere dalle preoccupazioni. Vuoi dirmi che cosa succede?»
La mia mascella ha uno spasmo.
«Oltre al fatto che quel figlio di puttana si è permesso di insultarti?»
Liv fa una smorfia probabilmente al ricordo di quelle parole.
«Sì, oltre a questo. Pensavo avessi imparato a gestirla tutta questa rabbia che ti porti dentro, Logan.»
«Non quando si tratta di te. Non ci riesco, mi si annebbia il cervello e riesco a passare dall'essere il ragazzo più simpatico del mondo al tuo acerrimo nemico in un battito di ciglia. Spiacente averti delusa, Liv.» Sospiro passandomi una mano nei capelli ingellati.
«E chi ha detto che mi hai delusa?» Sospira anche lei quando vede la confusione sul mio viso. «Vorrei solo che evitassi di metterti nei casini, o che ti facessi del male.»
Mentirei se dicessi che quella preoccupazione non mi ha scaldato il cuore. È come se inconsciamente stesse ammettendo ad alta voce che non è vero che non le frega più nulla, che lei mi ama ancora e che l'idea che mi possa succedere qualcosa l'annienta. Accenno un vero sorriso studiandole quel travestimento che mi ha completamente mandato nel pallone. Le lunghe gambe nude sono ricoperte da pelle d'oca e tracce di finto sangue che cola sulle cosce, risalgo con lo sguardo fino ad incontrare la gonnellina azzurra e bianca da cheerleader dei Lions. Il fatto che si sia vestita come tifosa della squadra avversaria mi eccita non poco. Certo, vederla indossare la divisa dei Bulldogs mi avrebbe costretto ad inchinarmi ai suoi piedi senza pensarci due volte, ma così... è quasi una sfida. E io adoro le sfide.
Vederle il seno esposto e la pelle bianca dell'ombelico mi fanno inspirare aria d'un colpo, una fitta mi colpisce l'inguine tendendo il tessuto dei boxer. Cazzo, sembro davvero un ragazzino alle prese con il periodo della pubertà, eppure questo è l'effetto che Liv ha sempre avuto su di me. Venderei l'anima al Diavolo pur di potermi infilare ancora una volta in mezzo alle sue gambe, pur di affondare dentro il suo calore perdendomi in quell'oblio mentre la sento gemere il mio nome e tremare tra le mie braccia. Dopo il nostro allenamento della sera prima mi sono dovuto chiudere nel bagno per una buona ora, e soltanto dopo il terzo orgasmo il mio cervello ha deciso che potevo finalmente smettere di pensare a lei e dormire un pochino.
La vedo rabbrividire per il freddo, e se fossi meno bastardo le chiederei di rientrare al caldo, ma questo significherebbe mescolarsi nuovamente alle altre persone e perdere così questo momento in cui posso averla tutta per me. Per cui sto zitto, come un vero pezzo di merda egoista, e continuo ad osservarla senza pudore facendola arrossire appena. Quegli occhi... quei dannati occhi saranno la mia morte.
«A cosa pensi?» mi chiede strappandomi via dai pensieri.
«A mille miliardi di cose.» Faccio una pausa vedendola dischiudere le labbra. «Più precisamente a te che riesci a distrarmi anche nei momenti più caotici.»
Non sa come rispondermi, eppure non ha nessuna intenzione di distogliere lo sguardo per prima. Mi implora di continuare a darle dimostrazioni, certezze che è lei l'unica donna che voglio davvero, promesse che non me ne andrò più. E vorrei gridarle in faccia tutto il mio amore, tutto il dolore che sento, tutta la rabbia che ho provato negli ultimi mesi, ma so che non basterebbe a farle cambiare idea, non più. Perciò continuo a darle un pezzo alla volta, prendendomi tutto quello che è disposta ad offrirmi.
«Ho una domanda per te» le dico, andando a sedermi su una panchina fatta a tronco d'albero e invitandola a fare lo stesso. Liv segue il mio gesto dubbiosa, poi però mi si siede accanto con grazia lasciando decisamente troppo spazio tra di noi.
«Una domanda per una domanda?»
Sorrido studiandole il viso macchiato di sangue e le labbra rosse sbavate volutamente che vorrei baciare. Annuisco. «Hai sorriso oggi?»
I suoi occhi si sgranano appena. «Come?»
«Voglio sapere se oggi hai trovato un vero motivo per sorridere, perché quando lo fai sei in grado di riflettere luce anche in una notte senza stelle, Liv. Quando sorridi, sei bella come una notte d'estate, magnifica come il sole alle prime luci dell'alba. E quel sorriso... quel dannato sorriso è l'unica cosa che riesce a tenermi ancorato a terra, l'unica cosa per cui so che tutto quel dolore ne è valso la pena.»
Quando alza lo sguardo su di me, lasciandomi intravedere i suoi bellissimi occhi lucidi e più accesi, giuro su Dio che riesce a rubarmi tutta l'aria dai polmoni. Sono costretto a boccheggiare come un idiota mentre lei pensa a quale risposta dare alla mia domanda.
«Ultimamente sorrido spesso» mi risponde studiando le mie espressioni sul viso. «Oggi ho sorriso, in realtà l'ho fatto proprio stasera.»
Mi rabbuio appena all'idea che qualcun altro possa averla fatta gioire. «È stato qualcuno in particolare a strapparti un sorriso?»
Notando la mia espressione, soffoca una risata, e il mio cuore prende a galoppare dalla voglia che ho di sentirla ridere. Ho sempre amato la sua risata genuina, come le usciva spontanea nei momenti meno opportuni, come si nascondeva dietro a quella ogniqualvolta ne combinava una delle sue. Liv ha sempre amato ridere, e l'idea che possa essere stato io ad averle spento il sorriso mi uccide.
«È colpa di Ade, con quella tunica ridicola e i capelli blu elettrico. Non pensavo che il Dio dei morti amasse così tanto Halloween da risalire gli Inferi.»
Una risata mi sgorga dal profondo della gola prima che riesca a fermarla.
«Be', ora sono davvero sollevato di aver perso quella stupida scommessa.» Liv inarca un sopracciglio in una domanda silenziosa ed io sospiro prima di darle una spiegazione. «Non avevo nessuna voglia di venire a questa festa, sia perché tu avevi smesso di rispondermi ai messaggi e sia perché odio questi travestimenti del cazzo.» La guardo passarsi una mano sulle punte dei capelli con aria colpevole.
«Ho smesso di risponderti perché volevo... Be' volevo farti una sorpresa...» Credo di non averla mai vista così nervosa in tutta la sua vita. «Perciò, sorpresa? Continua il racconto» mi incita con la mano pur di dare un taglio a quello che stava dicendo.
Ridacchio sotto l'accenno di un sorriso. «Reed ha voluto fare una gara a chi dei due riusciva ad arrivare a duecento addominali nel minor tempo possibile. Se avessi vinto, non mi avrebbe scassato le palle e potevo rimanere nella mia stanza tutta la sera. Ma se perdevo...» Si indica il travestimento con una punta di disapprovazione. «Sono giorni che Mason va in giro chiamandomi Signore delle Tenebre, per cui Reed ha ben deciso di prendere spunto e vestirmi a suo piacimento.»
Questa volta la vedo davvero faticare nel trattenere una risata.
«A quanto sei arrivato?»
«Centonovantanove, poi i miei polmoni sono collassati.»
«Merda. È dura perdere ad un soffio dalla vincita...»
«Già» borbotto. «Ma sono felice di aver perso.» Le regalo un sorriso.
Forse è solo una mia impressione, ma il suo labbro inferiore trema come se combattesse tra il lasciarsi andare ad un vero sorriso e il rimanere salda con le sue decisioni. Nonostante ciò, si sporge ad afferrarmi la mano per poi voltare il palmo verso l'alto e soffermarsi sul tatuaggio che ho al polso.
«L'ho visto ieri sera, sai? Quando lo hai fatto?»
«Qualche mese fa. All'inizio sono stato tentato di tatuarmi il tuo nome.» Liv fa una smorfia sconvolta facendomi ridere di cuore. «Ma poi ho optato per l'iniziale che rappresentasse entrambi, come se fossimo una cosa unica.»
Annuisce quasi sollevata nel saperlo, ma il suo volto inespressivo non mi fa capire se la cosa le faccia piacere o meno. Poi i suoi occhi si spostano sulle costellazioni disegnate sul braccio, e le sue dita affusolate percorrono le piccole stelle luminose facendomi rabbrividire. «Sono bellissime... Hanno un significato particolare?»
Gliene indico una spostandole il dito. «Questa nello specifico è una semplice costellazione a forma di albero della vita che simboleggia la famiglia, i legami e le amicizie. Mi sembrava doveroso ricordare chi mi è più vicino e ha sempre e solo voluto il meglio per me. Questa qui, invece» le indico un punto più in alto ruotando appena l'avambraccio, «è la costellazione che prende la forma di una fenice, il simbolo per eccellenza di rinascita.»
«Ed è anche il simbolo di questa confraternita» mi fa notare indicandomi l'edificio al nostro fianco. «Buffo, non trovi?»
Annuisco con un sorriso, poi le indico l'ultima che arriva fino alla spalla sinistra. «E questa qui è la costellazione di Lyra, rappresenta gli innamorati o l'amore. Conosci la storia?» le chiedo afferrandole la mano e giocando con gli anelli che porta alle dita.
Liv scuote la testa, ma si siede più comoda in attesa della storia. Faccio mente locale cercando di ricordarne i dettagli. «Prende il nome dallo strumento di Orfeo, il musicista leggendario dell'antica Grecia, la Lyra. Il mito greco racconta che fu Ermes a costruire la Lira. Questi, un giorno, trovò una tartaruga di fronte alla sua grotta, ne prese il guscio, lo ripulì, e vi legò sette corde in senso diagonale fatte dai budelli di una mucca. Poi inventò anche il plettro con cui suonarla e successivamente la regalò ad Apollo che la consegnò a Orfeo.
Addolorato per la morte della sposa Euridice, Orfeo discese negli Inferi per chiedere che la sua amata potesse tornare in vita. Grazie al suono della sua Lira il dio dell'Aldilà gli concesse la possibilità di condurre la sposa verso il mondo dei vivi a condizione che il musicista non si voltasse lungo il tragitto a guardare la sposa. Purtroppo, secondo il mito, pochi metri prima di giungere a destinazione Orfeo si voltò. A causa di ciò la sua sposa venne nuovamente risucchiata, per sempre, nell'ombra. Orfeo vagò per il resto dei suoi giorni suonando musiche malinconiche e solo alla sua morte si ricongiunse con Euridice. Così le Muse posero la Lira tra le stelle.» Le indico il cielo e il suo viso si solleva ad osservarlo.
Rimane con le labbra dischiuse in una smorfia e gli occhi spalancati. «Ma è... triste. Bello ma immensamente triste.»
Mi stringo nelle spalle. «C'è chi farebbe qualunque cosa per la persona che ama. Mi piace pensare che io mi sarei comportato nella stessa maniera.»
«Cosa vuoi dire?»
«Io mi sarei voltato per te, Liv. Avrei avuto il bisogno di sapere che mi stessi seguendo, perché io lo avrei fatto per tutta la vita. Ti avrei seguito anche in capo al mondo.»
Il suo viso si rilassa, e l'ombra di un sorriso le appare sulle labbra. «E poi, è stato Ade ad offrigli quella possibilità» sorrido facendole un inchino da seduto. «Non c'è di che, Orfeo.»
Lasciandomi senza fiato, Liv scoppia a ridere portandosi una mano davanti alla bocca. Ne rimango sconvolto al punto che non riesco più a muovermi, ho paura che se provassi anche solo a respirare tutto questo cesserebbe, ed io non voglio. Dio, ho bisogno di sentirla ridere così fino alla fine dei miei giorni. Vorrei rivivere questo momento in loop, vorrei filmarla per poterla riascoltare ogni notte prima di addormentarmi, vorrei vederle le lacrime agli occhi solo in questa occasione. È così bella che nemmeno se ne accorge. Se ne sta lì, a ridere a crepapelle con una mano sulla pancia e l'altra ancora intrecciata alla mia, le lacrime le sgorgano dagli occhi vividi e felici, mentre quel suono melodioso si propaga per tutto il giardino.
Sorrido come un ebete, e quando finalmente si riprende, sono pronto a condividerla con il resto del mondo. «Ti va di rientrare e ballare? Sta iniziando a fare freddo qui fuori.»
Liv ricambia il sorriso. «Molto volentieri.»
Le faccio strada appoggiandole distrattamente una mano sui reni, be' forse era volutamente, in ogni caso lei non obietta. Questo mi basta per continuare a sorridere come uno stronzo. Le luci stroboscopiche cambiano così velocemente da farmi sbattere un paio di volte le palpebre, mentre la musica è talmente forte da martellarmi nei timpani. La festa è nel vivo, e gli studenti ballano e saltellano in ogni zona della casa. Ognuno di loro ha imbrattato il corpo di disegni fosforescenti fatti con una vernice apposta che solo in determinati momenti, in cui le luci diventano blu, si possono notare. Liv ne rimane affascinata, così premendole delicatamente sulla schiena la invito a raggiungere un tavolo in un angolo della stanza.
Seduto sulla sedia intento a dipingere il collo di una ragazza, Josh Baker si accorge a malapena della mia presenza, ma quando lo fa salta su come una molla. Il pennello gli cade dalle mani e deglutisce sotto il mio sopracciglio inarcato. La ragazza si lamenta del lavoro non finito, ma lui non la degna più di uno sguardo.
«Ciao, Logan... ehi amico... ehm...posso... posso fare qualcosa per te?» balbetta giocherellando con la carta sporca che ha usato per pulire i vari attrezzi da disegno.
Allungo una mano per afferrare uno dei pennelli e lui per poco non capitombola per terra dallo spavento. Rimango con la mano a mezz'aria mentre Liv stringe le labbra per non ridere.
«Sbaglio o ha paura di te?» bisbiglia in modo che solo io possa sentire.
Scuoto la testa divertito prima di rivolgermi direttamente a lui. «Vai a berti una birra, Baker. Ci penso io qui per un po'.»
Lui sgrana gli occhi confuso. «Oh non posso, Reed mi ammazzerebbe. Ha detto che stasera è compito mio occuparmi dei disegni, e che se mi vede in giro a divertirmi prima mi appende a testa in giù senza mutande e poi mi sbatte fuori dalla squadra.» Si schiocca con nervosismo le dita delle mani, poi sorride con gentilezza alla ragazza al mio fianco.
Alzo gli occhi al cielo con uno sbuffo. «Vai a berti questa maledettissima birra, Josh. Ci parlo io con Reed, non ti preoccupare.»
«Ma io... la caviglia...»
«La caviglia è okay dannazione. Perché diavolo non ti ribelli un pochino? Reed sarà pure stronzo, ma se gli avessi risposto di no non ti avrebbe costretto a passare la serata qui. Tira fuori i canini, Bulldogs.»
Josh si passa una mano sulla testa indeciso, fa saettare lo sguardo nella sala e poi guarda con avidità il tavolo pieno di bevande. Chissà da quanto non beve.
«Allora io... io vado. Cinque minuti e... e torno.»
«Fai anche dieci» lo liquido facendo il giro del tavolo e prendendo il suo posto.
Liv ha gli occhi sgranati ma divertiti, lo osserva correre verso il bar prima di scoppiare a ridere. «Tira fuori... i canini? Era pessima, Logan, davvero pessima.»
«Sta zitta e allunga il braccio.» Scelgo il pennello più adatto e faccio la medesima cosa con i colori.
«Per quale motivo non hai lasciato che fosse il tuo amico a disegnarmi qualcosa addosso? Mi sembra molto bravo in quello che fa» indica la pittura sul corpo della ragazza di poco prima, che ora è girata di schiena e sta parlando con...Avery.
Il solito cascamorto. «Non mi pare che tu abbia un particolare talento nel disegno.»
Le lancio un'occhiata torva prima di afferrarle il braccio facendola inchinare in avanti. Mi mordo il labbro inferiore pensando a cosa dipingere. «Se pensi che lascerò che un altro ragazzo ti tocchi, allora non mi conosci abbastanza. Sono piuttosto arrogante da voler essere l'unico a poterti sfiorare la pelle a mio piacimento» le dico prima di infilare il pennello nella vernice blu e poi portarlo sul suo braccio.
«Sei decisamente arrogante e presuntuoso se pensi di poter avere ancora tutto questo potere. Non sono di tua proprietà, Logan, non sono la tua ragazza e posso fare cosa voglio con chi voglio» sbotta, senza però scostarsi dal mio tocco.
Continua a ripetertelo, Liv.
«Puoi fare qualunque cosa tu voglia purché alla fine della giornata torni da me. Sempre da me.»
«E perché mai dovrei passare il tempo in compagnia altrui per poi tornare da te?»
«Perché non esiste persona al mondo che ti ami più di me, Liv.»
Ora la guardo dritto negli occhi, avvicinando piano il suo corpo al mio. Il pennello scorre sul suo braccio e arriva al collo, che lei piega abilmente di lato per darmi libero accesso. Le coloro la porzione di pelle esposta e proseguo con la clavicola fino ad arrivare al braccio opposto. Mantengo il contatto visivo con il suo vedendola deglutire e rabbrividire al mio tocco. La sua mano mi scosta una ciocca blu che fastidiosamente mi ricade sull'occhio, portandomela poi dietro l'orecchio e incastrandola lì.
«Non ti sta affatto male il blu ma...» si mordicchia il labbro inferiore ed io mi incanto proprio in quel punto. «Amavo quando portavi quel taglio quasi rasato.»
Accenno un sorriso provocatorio. «Mi stai dando un suggerimento forse?»
«Forse» sorride di cuore facendomi quasi mugolare. Faccio scorrere il pollice sul suo labbro inferiore, preso dalla voglia di baciarla e di sentire il suo sapore che tanto mi era mancato, accorgendomi troppo tardi di averglielo sporcato di vernice. Lei se ne rende conto nel momento in cui si accendono le luci blu e le sue labbra si illuminano. Mi lancia un'occhiataccia prima di premermi un dito nello stomaco.
Rido al suo gesto scostandomi appena. «Così tutti sapranno che sei mia.»
Assottiglia gli occhi prima di sfilarmi il pennello dalle mani. «Continua a crederci. Ora tocca a me, chiudi gli occhi.»
E così faccio, senza obiettare e con un enorme sorriso stampato in viso. La lascio divertirsi sulla mia pelle, sentendola disegnare diverse cose sulla faccia prima di scendere sul collo e arrivare al petto muscoloso. Rabbrividisco sospirando ogniqualvolta la punta fredda del pennello preme sulla pelle, e tutte le volte in cui il suo respiro caldo mi solletica il collo. Sfiora il corpo con il mio senza accorgersene, risvegliando in me la voglia di averla per tutta la notte. Le porto una mano sul fianco attirandola più vicina, e devo stringere i denti per non gemere quando i nostri bacini entrano in contatto. Il suo cuore prende a battere più velocemente, segno che deve essersi accorta pure a lei del calore nel punto in cui i nostri corpi si frizionano.
Qualcuno deve tenermi buono, perché sono a tanto così da trascinarla in camera segregandola per poi farla mia per sempre. È una bella prospettiva quel "per sempre", mi ricorda che da quando l'ho incontrata ho capito che non avrei mai più voluto una vita senza di lei. Non riesco ad immaginare un futuro in cui lei non ne fa parte, in cui lei non è presente e in cui non posso più sentirla ridere. Ecco, se dovessi descrivere l'Inferno per me sarebbe proprio questo: un'intera esistenza senza di lei.
«Ho fatto» dice con un mormorio appena udibile.
Fa un passio indietro ammirando la sua opera, ed io non mi prendo nemmeno la briga di guardarmi allo specchio perché mi fido ciecamente di lei. Qualsiasi cosa abbia disegnato a me sta bene. E quando pensavo che non potesse stupirmi più di cosi, Liv si imbratta le labbra con la vernice rossa, dopodiché si avvicina alla mia guancia rilasciando un bacio delicato. Chiudo gli occhi a quel tocco, sentendomi così in pace che per un momento nella sala non vedo altro che lei, non sento altro che il suo respiro caldo. Tutto sparisce e, come in passato, quella bolla che condividevamo e che era scoppiata, piano piano ci riavvolge come se fossimo una cosa unica. La nostra bolla personale, ora così grande da riuscire a contenere tutto quell'amore.
Sorride con occhi brillanti. «Ora siamo pari. Andiamo a ballare?»
La trascino in mezzo alla calca nel momento in cui vedo Josh tornare al tavolo, e in cui la musica cambia risuonando a ritmo con il mio cuore scalpitante. Liv solleva le braccia al soffitto iniziando a muoversi, e a me non resta che appoggiarle le mani sui fianchi muovendomi insieme a lei. La tocco ovunque, sfiorandola così delicatamente da farla ridere, così piano che a volte mi sembra di essermelo solo immaginato. La guardo ridere imbambolato mentre butta indietro la testa e i capelli scivolano via dagli elastici, ricadendo in onde morbide dietro la schiena. Afferro alcune di quelle ciocche e me le avvolgo nella mano sentendone la morbidezza, frenandomi dall' annusarle lo shampoo alla vaniglia che ogni volta mi manda in tilt i sensi.
Le accarezzo la schiena costringendola ad avvicinarsi a me, faccio la medesima cosa con la pelle esposta del suo ombelico e, quando sono ad un passo dal suo sedere sodo e perfetto, la sua mano schiaffeggia la mia facendomi ridere.
«Porta le mani dove posso vederle» mi sussurra all'orecchio.
«Ma è stato il tuo culo a chiamarmi a gran voce. Sento che ha un disperato bisogno di essere palpeggiato dal Dio dei morti in persona.»
La sua risata è contagiosa e bellissima. «Effettivamente dovrei chiedere a qualcuno che cosa ne pensa del mio fondoschiena, mi sto impegnando facendo tantissimi squat.»
Scuoto la testa con un ringhio attirandomela più vicina. Il suo corpo sbatte contro il mio e le sue mani mi si appoggiano sul petto. I miei occhi sono fuoco puro.
«Non farlo, non giocare con me, Liv. Non dirmi mai più una cosa del genere, potrei perdere la testa.»
Il suo sorriso si affievolisce e le spalle le si afflosciano. Fa vagare lo sguardo altrove pur di non puntarlo verso di me, così le afferro il mento e la costringo a guardarmi. I suoi occhi lucidi mi procurano un brivido. «Ho una domanda per te» le sussurro sulle labbra, così vicino che mi basterebbe sporgermi appena per baciarla. Intanto, il suo corpo ha rallentato il ritmo e così ha fatto il mio. Balliamo un lento sotto le note veloci della canzone, una stonatura perfetta dal mio punto di vista.
Annuisce appena appoggiando le mani sulle mie spalle, ne approfitto per avvicinarla ancora di più al mio corpo, ormai solo i vestiti separano la nostra pelle.
«Tu mi ancora?»
La prendo alla sprovvista, lo vedo da come i suoi occhi si sgranano e da come prova a liberarsi dalla stretta in cui l'ho bloccata. Non demordo e continuo a fissarla dritto negli occhi. Glielo richiedo, questa volta più deciso e sfiorandole la fronte con il naso.
Liv chiude gli occhi a quel contatto, ricambiando il gesto come se avesse un disperato bisogno di assicurarsi che io sia lì. Mi sembra che passi un eternità prima che risponda, eppure le lascio lo spazio che merita.
«Certo che ti amo ancora» inizia, e a me sembra di percepire le gambe come gelatina. Tuttavia, nonostante la speranza che concludesse così la frase, prende un respiro profondo e continua. «Ti amo davvero ma... ma non posso più stare con te, Logan. L'amore non mi basta più, e so per certo che se ti faccessi tornare nella mia vita tu troveresti un modo per andartene di nuovo un giorno o l'altro. Se dovesse succedere, non sarei in grado di superare quel dolore un'altra volta. Per cui ti amo e ti amerò per sempre, ma noi non...»
Barcollo all'indietro come se mi avesse schiaffeggiato all'improvviso. La lascio andare con veemenza, come se il suo corpo bruciasse, come se le mani si fossero ustionate e avessi bisogno di buttarmi dentro una vasca di acqua gelida. Sento il cuore frantumarsi in mille pezzi e il corpo cedere su gambe che non mi reggono più. Mi appoggio ad una colonna tremante. Liv sta piangendo, la sento singhiozzare nonostante la musica alta, eppure fatico a sentirla. So cosa sta per succedere ancora prima che si verifichi, e questo mi manda ancora di più nel pallone.
Mi si offusca la vista mentre tento di farmi largo tra le persone cercando la via d'uscita più vicina, mi porto una mano sul collo graffiandolo per cercare di riuscire ad incanalare quell'aria che sembra mancarmi. Eppure respiro, il mio petto va su e giù e anche se troppo velocemente so che i polmoni mi funzionano perfettamente. La testa inizia a girarmi costringendomi a colpire diverse persone, il sudore parte dalla nuca e cola fino alla base della schiena. Barcollo quando trovo l'uscita e mi precipito nel giardino, ansimando così tanto da spaventare una coppietta intenta a pomiciare. Quasi inciampo mentre mi costringo a prendere dei respiri profondi.
«Logan» la sua voce chiaramente preoccupata non fa che peggiorare il mio attacco di panico. Non staremo più assieme, non possiamo stare insieme, io ti amo ma...
Un conato di vomito mi risale la gola e minaccia di uscire, così prepotente da costringermi a chinarmi in avanti. Sento una mano appoggiarsi sulla mia schiena, e qualcuno mi gira facendomi sedere per terra. Liv mi afferra la testa con entrambe le mani e incolla i suoi occhi spalancati nei miei.
«Logan shh, respira! Respira cazzo, guarda me!» Gonfia le guance come un palloncino e poi lascia fuoriuscire l'aria accumulata. Se non fosse una brutta situazione, probabilmente scoppierei a ridere per quanto è buffa. Provo ad imitarla ma con scarso successo, il mio cervello non ne vuole sapere di collaborare, e così mi ritrovo un'altra volta ad annaspare in cerca d'aria.
Ho come la sensazione che morirò così.
«Guardami, non azzardarti a chiudere gli occhi! Conta, Logan! Conta insieme a me!»
Riapro gli occhi, che non sapevo di aver chiuso, e provo a contare ad alta voce seguendo il suo ritmo. «U...uno... du...due...» Le gambe mi scivolano ricadendo con un tonfo e chiudo nuovamente gli occhi.
«No no no! Logan aprì gli occhi cazzo!» grida, scuotendomi appena le spalle.
«Non sta funzionando, Liv! Cazzo fai qualcosa!»
«Ci sto provando maledizione!» La sua mano mi schiaffeggia la guancia, abbastanza forte da farmi riaprire gli occhi di scatto. Mi inclina la testa costringendomi a guardarla. «Giuro che se non li tieni aperti ti tiro un pugno sul naso!» È così arrabbiata che mi viene da ridere, eppure non riesco ad emettere alcun suono. «Ascolta la mia voce, solo la mia voce. Ci siamo solo io e te, Logan. Io, te e il silenzio. Tu puoi respirare!» La sua mano calda si appoggia sul mio petto.
Adagio la mia mano tremante sulla sua, il cuore che ancora sembra voglia schizzarmi dal petto e a malapena riesco a riconoscere la figura di Mason che troneggia su Liv con evidente preoccupazione, e un po' più indietro Ellie e Jackson con lo sguardo allarmato. Devo essere proprio messo male se...
«Respira, idiota che non sei altro!» la voce le trema.
Ed io ci provo, giuro che ci provo, eppure mi sembra di venire trascinato nuovamente lontano, così lontano da scivolare via dal suo tocco. Questa volta vedo le lacrime sgorgarle dagli occhi, alcune mi ricadono sulle labbra, ed è solo a quel punto che l'aria torna a colpirmi con così tanta prepotenza da scuotermi il corpo con violenza facendomi sobbalzare.
Liv ha appoggiato le sue labbra sulle mie, dandomi un bacio intenso ed energico capace di scuotermi da capo a piedi, facendomi rabbrividire quando il suo sapore, che tanto ho bramato, scivola nella mia bocca. L'attacco di panico svanisce all'istante, ed il mondo sembra esplodere in mille pezzettini con un suono così assordante da farmi prima ascendere con forza in Paradiso, e poi costringendomi a discendere violentemente tra le sue braccia.
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