Capitolo quarantuno - Logan
Prima o poi
farò la cazzata giusta
Le orecchie mi fischiano. Una nota costante, stridula, che sembra tagliarmi a metà. Una scossa mi parte dalla schiena e si arrampica fino alla nuca, accendendo ogni nervo come se qualcuno mi stesse infilzando con spine incandescenti. Il dolore mi esplode nel petto, e ringhio come un cane rabbioso, incapace di reprimerlo. Stringo i denti così forte che sento il sapore del metallo sulla lingua. Potrei benissimo essermi spaccato un dente, ma chi cazzo se ne frega. È solo un'altra aggiunta alla lista.
La testa mi martella violentemente, un tamburo che non si ferma mai. Eppure, continuo a ripetermi che non ho nulla di rotto. Lo saprei, lo sentirei. Ho imparato a riconoscerlo, dopo anni di ossa che si spezzano sotto il peso di un colpo sbagliato o di una caduta evitabile. Questo dolore è diverso. I lividi spariranno, le labbra si cicatrizzeranno, il gonfiore agli occhi scemerà.
È la testa, quella è una battaglia che non so più come combattere.
Il mio respiro è irregolare, corto, spezzato, mentre ogni pezzo del mio passato mi si schianta contro come un'onda maledetta. La morte di mia madre, improvvisa, come un pugno nello stomaco. Camilla, che se n'è andata subito dopo, lasciando dietro di sé solo silenzio e un buco nero che non sono mai riuscito a colmare. Mio padre, che ha deciso negli anni a venire che ignorarmi fosse più facile che affrontarmi. L'aggressione a Carol. La polizia, le denunce, la droga, l'alcol, il carcere.
E poi c'è lei. Liv. L'unica che è riuscita a tenermi vivo e, allo stesso tempo, l'unica che ho rischiato di distruggere e di perdere. Ricordo il suo corpo fragile, la sua pelle che sembrava farsi più sottile ogni giorno che passava. Tutto per colpa mia. Le notti in cui mi svegliavo intriso di sudore per gli incubi, o quelle in cui erano i suoi a svegliarci entrambi, e io restavo sveglio, a sorvegliare i suoi respiri, assorbendo il suo dolore come fosse mio, pur di sapere che era ancora lì.
Poi le lettere. Quelle fottute lettere che hanno spazzato via l'unico sogno che mi teneva in piedi. Il pugilato, la mia unica costante, tolta da una diagnosi che non mi dà tregua. Non so nemmeno cosa mi resta.
L'aggressione è solo l'ultimo pezzo del puzzle. Sarei anche riuscito a sopportarla, a rialzarmi, se solo lui non avesse toccato l'unico pilastro che ancora mi tiene in piedi: Liv. Gerald ha minacciato di farle ancora del male, e il solo pensiero mi fa stringere i pugni fino a farmi dolere le nocche. Non sono solo parole. Non con lui. Lui agisce. Colpisce dove fa più male, e ora loro si aspettano che io faccia quello che vuole? Che mi arrenda per due cazzo di lividi?
No.
Liv è più di tutti, più di tutto. Lei, con il suo ultimatum che mi ha lasciato senz'aria. Non capisce. Non capisce che lascerei tutto, persino lei, pur di sapere che è al sicuro. Se necessario, mi farei odiare. Ma lei non vede niente di tutto questo. Mi guarda come se fossi io il problema.
Il mondo si stringe intorno a me, come se qualcuno mi avesse preso per la gola e mi stesse soffocando. Sento il ronzio nelle orecchie, il peso dello sguardo di tutti su di me: mio padre, i miei amici, e soprattutto lei. Liv. La mia Liv.
Non dovrei guardarla. Non dovrei permettere ai suoi occhi di agganciarsi ai miei, perché so che, una volta fatto, non avrò più scampo. Eppure, non riesco a fermarmi. È lì, con il viso rigato di lacrime, i capelli che le cadono a ciocche ribelli ancora umidi sulle spalle, e quegli occhi che mi guardano come se fossi tutto ciò che ha al mondo. Come se fossi ancora degno di essere la sua casa.
Ma non lo sono. Non più.
Inspiro profondamente, ma l'aria non sembra raggiungere i miei polmoni. Tutto dentro di me è troppo stretto, troppo piccolo per contenere il dolore che mi sta divorando vivo. Devo andarmene.
La sua voce si spezza nell'aria, fragile ma così carica di emozione da farmi tremare. «Logan... per favore.»
Chiudo gli occhi per un momento. Una parte di me vuole cedere, vuole correre da lei, stringerla tra le braccia e giurarle che non me ne andrò mai, che farò tutto quello che vuole se mi promette di non lasciarmi. Che resterò sempre. Ma sarebbe una bugia. La più grande. Perché se resto, la metto in pericolo. E l'unica cosa che non posso fare, che non farò mai, è permettere che qualcosa le accada ancora per colpa mia.
Riapro gli occhi e il suo sguardo mi trafigge. Non c'è rabbia lì, solo disperazione. Solo un dolore che rispecchia il mio. «Non posso» dico, la voce un ringhio basso, spezzato.
Liv fa un passo avanti, le mani tremanti che si stringono ai lati del maglioncino. Ma i suoi occhi sono fiamme, bruciano di qualcosa che non è soltanto disperazione. È rabbia. È sfida. E io non so se amarla o temerla per questo.
«Che cosa vuoi dire? Non puoi cosa?»
Le parole mi si bloccano in gola, come spine. Non riesco a dirlo. Non voglio dirlo. Ma devo. Devo spezzarla ora, prima che sia troppo tardi. «Non posso restare.»
Il silenzio che segue è assordante. La vedo vacillare leggermente, come se avessi appena preso a pugni anche lei. E forse è vero. Ma questa è una battaglia che devo combattere da solo.
«Non puoi restare?» ripete, la sua voce che si alza di un'ottava, incrinata dal dolore. Poi scuote la testa, rabbiosa. «Che cazzo stai dicendo? Ti stai arrendendo? Preferisci lasciarmi invece che farti aiutare? Non sei tu a decidere cosa è meglio per me, Logan!»
Stringo i pugni, le unghie che si conficcano nei palmi, sperando che il dolore fisico possa distrarmi da quello dentro di me. «Invece sì» rispondo, il mio tono un sibilo velenoso, ma sotto c'è un tremore che non riesco a nascondere. «Liv, non capisci? Non posso metterti in pericolo. Non posso permettere che Gerald ti tocchi. Non succederà di nuovo, è una promessa che mi sono fatto.»
«E pensi che andartene sia la soluzione?» urla, e la sua voce è così piena di rabbia e disperazione che quasi mi spezzo lì, davanti a tutti.
Faccio un passo verso di lei, abbastanza vicino da sentire il suo respiro spezzato, da vedere le lacrime che le scendono sulle guance come una tempesta. «Sì» sussurro, la voce più bassa, più rauca. «Se significa che sarai al sicuro, sì.»
Liv scuote la testa, i capelli che si agitano intorno al suo viso. «Non puoi voler fare questo un'altra volta...»
La sua voce si spezza sull'ultima parola, e un nodo mi stringe la gola. Le mie mani fremono, vorrei prenderla, toccarla, ma non posso. Non lo farò. «Ti amo, Liv» dico, e la mia voce è un sussurro disperato. «Ti amo più di qualsiasi altra cosa. Ma piuttosto che vederti ferita, piuttosto che rischiare di perderti, preferisco che tu mi odi.»
I suoi occhi si spalancano, e il dolore che vi leggo è un colpo diretto al cuore. Liv fa un passo indietro, come se la mia confessione l'avesse spinta via fisicamente. Poi, inaspettato, arriva.
Lo schiaffo.
Mi brucia sulla pelle, aggiungendosi alle mille ferite che già porto, ai lividi che rendono il mio viso un campo di battaglia. Non so se mi fa più male la forza del colpo o il fatto che sia stata lei a darmelo.
Liv mi guarda con gli occhi gonfi di rabbia e lacrime. «Se te ne vai adesso, Logan, non tornare mai più.»
La sua voce è un pugnale, e sento il sangue colare invisibile dentro di me. Reed borbotta qualcosa che sembra una maledizione, Mason si gira di scatto, ma non lo guardo. Poi sento mio padre sospirare, un suono basso e pesante che si mescola al silenzio nella stanza.
Stringo i denti, chiudo gli occhi per un attimo e mi volto. Ogni passo verso la porta è un peso in più che si aggiunge alle catene che già porto. Quando raggiungo l'uscita, mi fermo. Mi volto un'ultima volta verso di lei, permettendo a me stesso di imprimere il suo viso nella mente, perché potrebbe essere l'ultima volta che la vedo.
«Ti amerò sempre» dico, e le parole mi lacerano. «Ma è meglio che mi odi piuttosto che rischiare di vederti morire.»
«Sei un idiota» dice Jackson, e il suo tono è tagliente, senza pietà.
Poi esco, lasciandola lì, con il cuore spezzato. Come il mio.
La porta si chiude alle mie spalle, e per un istante, il mondo sembra crollare.
Non mi volto. Non posso.
Pochi secondi dopo sento i passi di mio padre alle mie spalle. Mi segue fuori casa, e so che avrà qualcosa da dire. Ma in questo momento, non riesco a sentire niente. Non riesco a pensare a niente.
Solo a lei.
Mi piego in avanti, afferrando un palo della luce per non cadere a terra, mentre il mio stomaco si ribella con una violenza che non riesco a controllare. Vomito tutto: il poco brodo che ero riuscito a mandar giù, la forza che mi restava, persino il fiato. Eppure non basta. Dentro di me c'è un vuoto che divora tutto, come se stessi espellendo anche l'anima.
Le gambe mi tremano, le mani si stringono attorno al metallo gelido, e l'aria fredda mi taglia i polmoni. Le luci dei fari mi accecano mentre le auto mi sfrecciano accanto, e il rumore dei motori si confonde con la voce di mio padre, lontana e ovattata.
«Logan!» Lo sento imprecare alle mie spalle. Un momento dopo mi sento toccare. Una mano sulla schiena, poi un braccio che mi sorregge. «Respira. Respira, figliolo.»
Respirare? Come posso? Ogni singolo respiro brucia, e la verità che mi si schianta contro il petto pesa più di qualsiasi pugno abbia mai preso sul ring. Mi ripeto che non è colpa mia, che è stata lei a lasciarmi. Ma so che è una bugia. Liv mi ha dato una scelta. E io ho scelto male.
Un'altra voce si aggiunge, più vicina. Mason. Mi afferra per la testa e la spinge delicatamente verso il basso. «Logan, fratello, calmati. Stai facendo danni. Fermati, cazzo.»
Vomito ancora, finché non rimane più nulla, neanche la forza di stare in piedi. Mi lascio andare tra le loro braccia, svuotato, con le gambe che tremano. Quando Mason mi porge una bottiglia d'acqua, bevo come se fossi reduce da un mese nel deserto.
Alzo lo sguardo verso di lui. È scosso. I suoi occhi, solitamente pieni di quella spavalderia che ci ha sempre uniti, ora mi guardano con un misto di tristezza e delusione. Non dice niente, ma il suo sguardo parla chiaro: non sa più cosa fare con me.
Mio padre, invece, è la solita figura imponente e severa. Il suo completo scuro è perfetto, impeccabile, ma il suo volto... Sembra improvvisamente più vecchio, segnato da rughe che non avevo mai notato. Si volta verso Mason e gli fa un cenno deciso.
«Rientra. Prenditi cura di Liv. Lei ha bisogno di qualcuno accanto. Vai.»
Il cuore mi si spezza. Solo sentir pronunciare il suo nome mi colpisce come un pugno. Mason mi stringe la spalla, come se non volesse lasciarmi in quello stato, ma poi obbedisce. Prima di andarsene, si china verso di me e mi sussurra all'orecchio: «Non fare cazzate, Logan. Torna da lei. Non essere un codardo.»
Non rispondo. Non so nemmeno se sono capace di farlo.
Mio padre mi fissa per un lungo momento. Poi il suo tono si fa più duro. «In macchina. Ora.»
Non protesto. Le mie gambe si muovono per inerzia, come se non fossero nemmeno mie. Salgo nell'auto nera che ci aspetta sul bordo della strada, senza nemmeno pensare. L'autista mi lancia uno sguardo prima di tirare su la barriera e lasciarmi da solo con mio padre.
Nel silenzio dell'abitacolo, il mio respiro è l'unica cosa che riesco a sentire. È affannato, irregolare, come se il mio corpo stesse cercando di trovare un ritmo che non c'è più. La testa è un groviglio di pensieri, ma non riesco a mettere ordine in nulla. La stanchezza mi ha consumato, è come se avessi corso troppo a lungo senza mai fermarmi, e ora la mia mente è un caos senza fine.
Guardo fuori dal finestrino. Le luci della città scorrono veloci, un fiume di colori che sembra allontanarsi sempre di più. Ogni lampione è come un ricordo che scivola via, ogni angolo un pezzo di me che scompare. Non so che ora sia, non so da quanto tempo non dormo, so solo che sono a pezzi. Non voglio pensarci, non voglio sentirlo, ma il dolore è lì, in fondo alla gola, che mi blocca.
Poi la voce di mio padre interrompe il silenzio, tagliente e precisa, come un bisturi che affonda senza pietà. Mi passa una mano sulla barba, allunga una gamba in avanti e sospira.
«Vuoi davvero continuare così?»
Non rispondo. Che cosa dovrei dire? È come se ogni parola che pronuncio aggiungesse peso a qualcosa che già mi schiaccia. La sua domanda, però, mi rimbomba dentro. E la risposta è più difficile di quanto immagini. Voglio continuare così? Voglio restare come sono? Non lo so. Non so nemmeno chi sono più. Non so nemmeno più cosa ne sarà di me d'ora in poi.
«Logan.» Il tono di mio padre si fa più severo. Non è rabbia, è preoccupazione. Quella preoccupazione che si fa sentire quando vedi qualcuno che ami distruggersi, e non sai come fermarlo. «Stai distruggendo te stesso. E non mi interessa quanto tu voglia soffrire. Non ti permetterò di farlo davanti a me.»
Sono esausto. Mi sento svuotato. Non riesco a guardarlo, non riesco a incontrare il suo sguardo. «Sono stanco, papà» dico, la voce che esce bassa e rauca, quasi un sussurro. Non è rabbia, è solo stanchezza. «In due giorni sento di aver perso tutto. Non puoi capire.»
Lui sospira, un suono che dice tutto senza bisogno di parole. «No, Logan. Sei tu che non capisci. Non hai perso tutto. Hai ancora tante possibilità, e di questo parleremo quando ti sarai ripreso. Ma se continui così, queste opportunità te le porterai via con le tue stesse mani.»
Quella frase mi colpisce più di quanto vorrei ammettere. Le dita si stringono attorno ai pantaloni, cercando qualcosa a cui aggrapparmi. La paura mi stringe il petto, ma non voglio che lui lo veda. Non voglio sembrare debole, non voglio che lui sappia quanto sono spaventato da tutto questo. Quanto io abbia fottutamente paura del futuro.
«Devi farti aiutare, Logan.» La sua voce non è più severa, è implorante. Ma non posso ascoltarlo. Non posso permettere che qualcuno scopra quello che ho fatto, che Gerald abbia la scusa per farmi a pezzi. La vita di tutti noi è nelle mie mani, e io non posso permettermi di fare nessun passo falso.
L'abitacolo si riempie del suono della mia risata, ma è un suono vuoto, amaro, privo di qualunque allegria. «Ancora convinto di riuscire a trascinarmi in ospedale, papà? Te lo ripeto per l'ultima volta: non ci vado.»
Lui non si lascia scalfire. Scuote la testa con una fermezza che non si mescola a rabbia, solo a una determinazione incrollabile. «Non ti ho chiesto di andare in ospedale. Ho un'altra soluzione.»
Le sue parole mi colpiscono, accendendo un sospetto immediato. «Che soluzione?» chiedo, scrutandolo con occhi stretti.
«Un mio vecchio amico vive qui a New York. È un medico. Ha uno studio privato nel suo appartamento. Mi deve un favore, uno enorme. Può fare tutto ciò che serve: radiografie, esami del sangue, qualunque controllo. Nessuna burocrazia, nessun referto. Solo risposte. Stiamo andando da lui adesso.»
Lo fisso, perplesso. «Ma è notte fonda.»
«Come ti ho detto, mi deve un favore. Non mi negherà il suo aiuto, neanche se sono costretto a tirarlo giù dal letto.»
La possibilità mi si piazza davanti come un bivio. La tentazione di accettare pulsa nelle vene, ma è soffocata dal peso delle mie paure. Un medico privato. Nessuna traccia. Nessuna possibilità che Gerald scopra che mi sono fatto controllare. Ma è abbastanza? È sicuro? Posso davvero fidarmi, sapendo che la vita di Liv è appesa a un filo che non posso permettermi di spezzare?
«E se Gerald lo scoprisse? Se ci stesse spiando? È un rischio troppo grande. Ho bisogno di essere sicuro che nessuno sappia di questa visita. Non posso... non posso mettere a rischio la loro vita.» La mia voce si incrina, rivelando più debolezza di quanto avrei voluto.
Mio padre mi guarda dritto negli occhi, il suo sguardo carico di una preoccupazione che non lascia spazio a dubbi. «Nessuno lo scoprirà, Logan. Capisco cosa c'è in gioco. Amo Olivia e Amanda con tutto me stesso. Non rischierei mai di metterle in pericolo, tanto meno Abigail. Tutto quello che stiamo facendo, all'apparenza, è fare visita a un vecchio amico.»
Le sue parole hanno il potere di scalfire la corazza di dubbi che mi tiene ancorato alla paura, ma non completamente. «Non lo so, papà...» Il mio sussurro sembra vacillare come una foglia al vento, incerto e fragile.
«Logan.» La sua voce si addolcisce, ma la fermezza non si attenua. «Lo so che hai paura. Ma pensa a Liv. Lei ti ama. E sta soffrendo tanto quanto te. Sai che è vero. E se non farai nulla per affrontare questa situazione, rischi di perderla per sempre. Rischi di perdere tutto. Non lasciare che succeda.»
Liv. Il solo pensiero di lei è come una scossa elettrica, un promemoria di tutto ciò che ho da perdere. Lei mi ha sempre visto come il suo punto fermo, il suo porto sicuro. Non posso continuare a crollare davanti ai suoi occhi. Non posso diventare l'uomo che teme di non essere abbastanza.
Respiro a fondo, il mio petto si alza e si abbassa come se stessi cercando di tornare a galla dopo essere stato sommerso. «Okay» dico infine, la parola che si spezza come un filo, ma che porta con sé una decisione.
Mio padre annuisce, e nel suo sguardo vedo una tensione che si allenta, un sollievo appena accennato. Ma poi, con una calma che mi mette i brividi, mi guarda e aggiunge: «Prima di arrivare, Logan, ho bisogno di sapere tutto. Voglio che mi racconti cosa ti ha detto Gerald quella notte.»
Quelle parole mi congelano sul posto. Il peso dei ricordi mi schiaccia, riportandomi al momento in cui tutto è precipitato. Le sue parole, la sua rabbia, la sua minaccia... È un vortice da cui non riesco a fuggire. Ma mio padre ha bisogno di sapere. E io non posso più nascondere la verità.
«Mi ha minacciato» ammetto, la mia voce incrinata dal tremito. «Ha detto che se fossi andato in ospedale, o alla polizia, Liv sarebbe morta. E questa volta non si sarebbe fermato.»
La reazione di mio padre è immediata. I suoi lineamenti si induriscono, ma non c'è sorpresa. Solo una furia silenziosa che trasforma il suo volto in una maschera di determinazione. «Quel bastardo.» La sua voce è un sussurro rovente. «Marcirà in prigione, te lo prometto. Me ne occuperò io.»
Le sue parole mi colpiscono come una promessa incisa nella pietra. Annuisco, un nodo in gola che non riesco a sciogliere. «Mi fido di te, papà.»
«E fai bene» risponde, il suo tono ora più morbido, ma altrettanto deciso. «Non permetterò che accada nulla a Olivia, a sua madre, o a te. Non lascerò che distrugga ciò che amo.»
La sua mano si posa sulla mia spalla, un gesto semplice, ma carico di una protezione che mi avvolge come un'armatura. Non sono solo. Non lo sono mai stato. E per la prima volta da molto tempo, inizio a crederci davvero.
È quasi l'alba quando Jackson mi apre la porta. Lo fa con un movimento lento, quasi studiato, lasciandomi il tempo di notare la sua espressione – sufficienza e disapprovazione perfettamente scolpite sul viso. Si appoggia allo stipite con le braccia incrociate, fissandomi come se fossi un problema di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
Non dice nulla, ed è chiaro che sta aspettando che parli per primo. Alzo un sopracciglio, accennando un sorriso stanco, anche se dentro mi sento un disastro.
«Mi lasci entrare, o devo passare il restante della giornata su questo dannato pianerottolo?»
Jackson non si muove, ma i suoi occhi mi scrutano, e per un istante penso che sia sul punto di mandarmi al diavolo. Poi sbuffa, scuotendo la testa.
«Dovrei chiuderti la porta in faccia.»
Mi sposto di mezzo passo, le mani infilate nelle tasche della giacca, il tono stanco.
«Ma non lo farai.»
«E perché no?»
Gli rivolgo uno sguardo lento, carico di una sicurezza che so di non meritare, ma che so anche come usare.
«Perché sapevi che sarei tornato.»
Per un istante, qualcosa lampeggia nei suoi occhi: rabbia, forse, o frustrazione, o entrambe. Ma alla fine si sposta di lato, lasciandomi passare.
L'appartamento è immerso in un silenzio soffocante, il tipo di silenzio che ti fa sentire come se stessi camminando su una mina. La luce del mattino filtra appena dalle tende chiuse, illuminando il soggiorno in una penombra fredda e immobile. È un luogo familiare, ma adesso mi sembra estraneo.
«Ellie dorme» mi informa, rompendo il silenzio mentre chiude la porta dietro di me. Il tono è piatto, quasi annoiato. «Non svegliarla.»
Non mi degna di un altro sguardo mentre si avvicina alla cucina.
«E Liv?»
Jackson si ferma di colpo, le spalle tese. Si volta lentamente verso di me, e quando mi fissa, i suoi occhi sono più freddi di quanto mi aspettassi. «Non è più uscita dalla sua stanza da quando te ne sei andato.»
Le sue parole sono come una lama che si infila sotto la pelle, lenta e letale. Il sorriso ironico che avevo tentato di mantenere svanisce all'istante, lasciando solo il peso di ciò che ho fatto. Mi appoggio al muro, incrociando le braccia con una calma che non provo.
«Non volevo farle del male» dico, il tono più sommesso, quasi come se stessi parlando a me stesso. Ma Jackson non si lascia intenerire.
«Male?» ripete, e la rabbia nella sua voce è una lama affilata. «Quello che hai fatto va ben oltre il 'male', Logan. L'hai distrutta.»
Non rispondo subito. La sua accusa si abbatte su di me come un colpo ben assestato, uno di quelli che ti tolgono il fiato. Lo fisso, cercando di mantenere la calma, ma dentro sento il peso di ogni singola parola. «Non l'ho distrutta» mormoro infine, con una voce bassa ma sincera. «Non l'avrei mai fatto. Non di proposito. Lo sai.»
«No» ribatte Jackson, avanzando di un passo, il suo sguardo più duro di quanto ricordassi. «Sei qui perché senza di lei non sei niente. Non provare nemmeno a giustificarti. Non con me, e di certo non con lei.»
Abbasso lo sguardo per un momento, lasciandogli vedere che non sono qui per discutere. Non sono qui per difendermi o negare il dolore che ho causato. «Non sto cercando di giustificarmi» rispondo, alzando di nuovo gli occhi su di lui. «Sto cercando di rimediare.» Fa per andarsene, ma non posso lasciarlo andare così. «Jackson.»
Si ferma, non perché lo voglia, ma perché lo faccio io. Quando si volta, il suo viso è tirato, la mascella serrata.
«Che c'è ancora?»
«Mi dispiace» dico, e questa volta non c'è traccia di sarcasmo nella mia voce. È cruda, nuda, esposta. «Non sono bravo con... queste cose. Lo sai. Ma mi dispiace per come mi sono comportato. Con Liv. E con tutti voi che non avete fatto altro che aiutarmi. Mi dispiace» ripeto lentamente.
Lui mi fissa, e il silenzio che segue è quasi insopportabile. Per un attimo penso che riderà in faccia alle mie scuse, ma poi fa qualcosa che non mi aspetto. Annuendo appena, abbassa lo sguardo. Non dice nulla, ma nel suo gesto c'è una tregua, fragile ma reale.
Quando si volta e se ne va, rimango lì, immobile, lasciando che l'eco delle sue parole e delle mie scuse si depositi dentro di me. La tensione tra di noi è ancora palpabile, ma c'è anche qualcosa di diverso. Una connessione, forse, mai avuta prima.
Mi muovo lentamente verso la porta di Liv. Il cuore mi martella nel petto, e ogni passo sembra più pesante del precedente. Quando arrivo davanti alla porta chiusa, alzo la mano per bussare, ma non lo faccio. Bussare è per gli estranei, e io non voglio essere uno di quelli.
Appoggio la mano sulla maniglia, il respiro trattenuto. Qualsiasi cosa accadrà adesso, so che non tornerò indietro. Non questa volta.
La porta cigola appena quando la spingo con la mano, lasciandola socchiusa dietro di me. La luce dell'alba, pallida e lattiginosa, filtra attraverso le tende socchiuse, tingendo la stanza di sfumature dorate e rosate. Si riversa su Liv come un velo di seta, avvolgendola in un'aura delicata e irreale, quasi eterea. È seduta sul bordo del letto, di spalle, con le gambe piegate e le braccia che stringono le ginocchia. I suoi capelli scuri le ricadono morbidi sulle spalle, sfiorandole il collo come a volerla proteggere. Non si muove, non parla. Sta fissando la finestra, come se l'alba fosse l'unica cosa al mondo che vale la pena guardare.
Resto immobile per un attimo, le mani infilate nelle tasche, cercando di capire da dove cominciare. Non ho mai avuto paura di salire su un ring, di affrontare qualcosa di più grande di me, ma qui, davanti a lei, con tutto ciò che ho fatto, mi pesa come un macigno sul petto, sento le gambe vacillare.
«Pensavo di trovare la porta chiusa a chiave» dico alla fine, rompendo il silenzio con una voce che suona più leggera di quanto mi senta. «O magari un cartello con scritto: 'Vietato agli idioti.'»
Liv non si gira. Le sue spalle rimangono dritte, rigide, ma le sue mani stringono le ginocchia un po' più forte. È arrabbiata. Ferita. Ed è tutta colpa mia.
«Dovresti essere grato che non mi sono disturbata a metterne uno» risponde, la voce piatta ma tagliente.
Sorrido appena, anche se so che non può vedermi. «Mi stai dicendo che c'è ancora speranza?»
Lei si volta appena, quel tanto che basta perché possa intravedere il suo profilo. Gli occhi sono un lampo d'acciaio nella penombra. «Non montarti la testa, Logan.»
Mi avvicino, un passo dopo l'altro, ma mantengo la distanza. Non voglio forzarla. Non questa volta. «Non ho intenzione di farlo. Sono qui per un motivo.»
Liv non risponde, ma torna a guardare fuori dalla finestra. È sempre stato così con lei: il silenzio è la sua arma, e io non sono mai stato bravo a gestirlo.
«Liv» inizio, ma lei mi interrompe alzando una mano senza nemmeno voltarsi.
«Non provarci nemmeno.» La sua voce è più bassa ora, un filo che mi taglia più di qualsiasi grido. «Non voglio le tue scuse, non voglio sentirti dire qualcosa solo perché pensi di doverlo fare. Ti avevo detto di non tornare, e invece eccoti qua.» Sospira pesantemente.
Faccio un respiro profondo, il peso delle sue parole che mi spinge verso il basso, ma non mi fermo. «Non sono qui per dire qualcosa tanto per dire. Sono qui perché sono stato uno stronzo. Perché dovevo dirtelo. Dovevo dirtelo guardandoti in faccia.»
Finalmente si gira, e il suo sguardo mi colpisce come un diretto al viso. Gli occhi sono blu, profondi come un oceano in tempesta, e io mi sento un naufrago che non merita di essere salvato.
«Sai qual è la cosa che mi ha fatto più male?» continua, la voce calma ma affilata come un coltello.
«Dimmi» rispondo, anche se temo già la risposta.
«Non il fatto che te ne sei andato» prosegue, e ogni parola è un pugno. «Ma che sapevo l'avresti fatto. Ho cercato di darti una scelta, di farti restare, ma dentro di me sapevo già come sarebbe andata. E tu l'hai fatto comunque.»
Abbasso lo sguardo, incapace di sostenere il peso del suo dolore. «Lo so. E hai ragione. Sono stato uno stronzo. Sarei dovuto rimanere e affrontare le conseguenze di quello che è successo... ascoltarvi. Mi dispiace tanto, Liv.»
«E invece sei scappato.» La sua voce è un'accusa, ma non c'è rabbia. Solo una stanchezza che mi colpisce più di qualsiasi urlo avrebbe potuto fare. «Ancora. Non fai che scappare da chiunque, persino da me, che l'unica mia colpa è quella di amarti.» Sbatte le palpebre nel tentativo di fermare le lacrime, ma il tremito della sua voce mi colpisce al petto come una fitta. Io, ancora una volta, non sono altro che uno stronzo che non la merita.
«Sono stanca, Logan. Tanto stanca di tutta questa situazione. Non ti fidi di me.»
Apro la bocca per ribattere, ma lei alza una mano, decisa a fermarmi. «Non ti fidi abbastanza, è inutile che cerchi di dimostrare il contrario. Se lo facessi, saresti rimasto.»
Il nodo in gola diventa insopportabile, ma faccio un passo verso di lei, riducendo la distanza tra noi fino a poterla quasi toccare. Non lo faccio, perché sento che, in questo momento, il minimo movimento sbagliato potrebbe mandare tutto in frantumi.
«Non sono scappato perché non mi importava» dico, cercando di mantenere la voce ferma, anche se dentro mi sento sull'orlo del baratro. «Sono scappato perché mi importava troppo. Avevo paura di restare, Liv. Paura di scoprire se quelle minacce fossero reali. Paura di non essere abbastanza bravo da saper gestire le conseguenze.»
Le parole mi escono come un confessionale, crude, spogliate da ogni pretesa. Non sono abbastanza per lei, non lo sono mai stato, ma devo almeno provarci. È tutto ciò che mi rimane.
Liv ride, un suono freddo che non ha nulla di divertito. «E pensavi che andartene avrebbe risolto tutto? Logan, credi davvero che lasciarmi da sola con i tuoi problemi fosse la soluzione?»
Abbasso la testa, cercando di trovare le parole giuste, ma lei non me ne dà il tempo.
«Sei venuto qui perché? Per dirmi che ti dispiace? Perché hai paura che io non ti voglia più nella mia vita?»
«No» rispondo subito, e la mia voce è più forte, più sincera. «Sono venuto qui perché ho capito che senza di te non sono niente. Sono venuto qui perché voglio aggiustare ciò che ho rotto. Voglio dimostrarti che posso essere migliore. Che voglio essere migliore per te.»
Liv mi guarda, e per un attimo vedo qualcosa nei suoi occhi. Una scintilla, forse. Speranza? Perdono? Non lo so.
«E se ti dicessi che non so se voglio darti un'altra possibilità?» chiede, e la sua voce è così tranquilla che fa più male di qualsiasi urlo.
Faccio un passo avanti, riducendo la distanza tra noi. «Allora ti direi che continuerò a provarci, ogni giorno, finché non cambierai idea.»
Lei mi fissa, le labbra che si contraggono in qualcosa che somiglia a un sorriso, ma è troppo amaro per esserlo davvero. «Sei uno stronzo, Logan.»
«Lo so» rispondo, lasciando che un sorriso mi incurvi le labbra.
Liv sospira e scuote la testa. «E il peggio è che sei anche testardo.»
«Sempre» dico, avvicinandomi ancora di più.
Lei mi guarda per un lungo momento, poi si gira di nuovo verso la finestra, fissando fuori. Il silenzio torna a cadere tra noi, ma questa volta non è vuoto. È pieno di qualcosa che sembra quasi... speranza.
Liv non si gira più verso di me, ma le sue spalle si rilassano appena. Sta di nuovo guardando l'alba, come se cercasse qualcosa che nessuno di noi può vedere. Mi siedo sul bordo del letto alle sue spalle, abbastanza vicino da sentire il calore della sua presenza.
«Allora» dice, la sua voce più morbida ora, quasi esitante. «Se sei tornato significa che sei andato in ospedale alla fine?»
Sapevo che me l'avrebbe chiesto. Me lo aspettavo. Non perché voglia rinfacciarmi qualcosa, ma perché è Liv. È fatta così. Si preoccupa anche quando non dovrebbe. Anche quando non me lo merito.
Mi gratto la nuca, cercando le parole giuste. «Non proprio» ammetto, abbassando lo sguardo verso il pavimento.
La sua testa scatta verso di me, gli occhi che brillano di un misto di incredulità e rimprovero. «Cosa significa 'non proprio'? Logan!»
Alzo una mano per fermarla prima che parta con uno dei suoi discorsi. «Aspetta, lasciami spiegare. Sono stato visitato, okay? Solo... non in ospedale.»
Liv incrocia le braccia al petto e mi guarda, scettica. «Continua.»
«Mio padre ha un amico. Un medico generale. Ha uno studio a casa sua, con tutto il necessario. Si è scomodato a visitarmi... stanotte.» Esito un momento, poi alzo lo sguardo verso di lei. «E prima che tu me lo chieda, sì, ha controllato tutto. Ha detto che ho solo contusioni ed ematomi. Niente di rotto, nessuna emorragia. Sto bene.»
Liv mi osserva in silenzio per un attimo, e posso quasi vedere il peso che si solleva dalle sue spalle. Gli occhi le si addolciscono, e l'ombra di un sorriso le sfiora le labbra.
«Sei sicuro?» chiede, ma la sua voce è più calma, più tenera.
Annuisco. «Sicuro. Sono un po' malconcio, ma niente di grave. Sono più duro di quanto sembri.»
Lei solleva un sopracciglio, piegando la testa di lato. «Questo è discutibile, considerando la tua... situazione.»
Il sorriso che stava nascendo si spegne subito. Le sue parole colpiscono più di quanto mi aspettassi, perché toccano quel punto dolente che non riesco ancora ad ignorare. Lei se ne accorge, perché il suo viso cambia immediatamente, un'espressione di rimorso che mi fa sentire peggio.
«Logan, io... non intendevo...»
«No, va bene» la interrompo, alzando una mano. Mi sforzo di sorridere, ma so che non raggiunge i miei occhi. «Hai ragione. Non sono proprio fatto di acciaio, vero?»
Lei si morde il labbro, e so che vorrebbe dire qualcosa per correggere il tiro, ma si trattiene. Alla fine, si limita a spostarsi un po' sul letto, lasciandomi più spazio. È un invito, uno di quelli silenziosi, e io lo accetto senza pensarci troppo.
Mi avvicino ancora, le spalle che sfiorano le sue, e il calore del suo corpo si mescola al mio. Guardo fuori dalla finestra: il sole è ormai sorto, brillante, ma la sua luce non riesce a dissipare la pesantezza che mi porto dentro. Cerco di ignorare quel peso, almeno per un momento.
Mi sporgo e le sfioro la spalla nuda con un bacio, delicato come una carezza. Poi lascio che le mie labbra seguano un percorso lento, morbido, lungo la curva del suo collo. Ad ogni bacio sussurro un "mi dispiace". Ogni centimetro di pelle mi invita a proseguire, a scendere più in basso, e non mi fermo. La bacio lungo la schiena, tracciando con le labbra ogni linea, ogni contorno, come se il suo corpo fosse un territorio sacro da esplorare con devozione.
Il profumo della sua pelle, caldo e avvolgente, mi stordisce. Mi ritrovo a venerarla, come merita, ogni bacio un atto di pentimento e desiderio. La sento rilassarsi sotto il mio tocco, il respiro che si fa più profondo ogni volta che la sfioro. E Dio, quanto la desidero. Desidero perdermi in lei, farla mia, e in quell'unione disperata cercare una redenzione, un perdono per tutto il dolore che le ho inflitto.
Le mie mani si posano delicatamente sui suoi fianchi, i pollici che tracciano cerchi sulla sua pelle mentre continuo a baciarla, più lento, più profondo. Ogni gesto è una supplica silenziosa. Ogni respiro condiviso è una promessa che non riesco ancora a pronunciare a parole.
Alla fine, la mia fronte si appoggia sulla sua spalla, il respiro che si intreccia con il suo. E, come se leggesse ogni tormento nei miei gesti, Liv rompe il silenzio con una domanda, la sua voce un sussurro che mi penetra fino all'anima: «Logan... come ti senti davvero?»
Chiudo gli occhi per un momento, riflettendoci. «Non so cosa ne sarà di me» dico all'improvviso, spezzando il silenzio. Non so nemmeno perché lo dico. Non sono bravo con le parole, ma qui, con lei, sembra impossibile non lasciarmi andare.
Liv si volta, e sento il suo sguardo su di me come una carezza. «Non puoi arrenderti, questo lo sai vero? Non è la fine.»
Inspiro profondamente, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. «È vero, hai ragione. Ma come faccio a rialzarmi se ogni medico che mi visita mi da sempre la stessa risposta? Dovrò mollare la boxe, il football. Tutto. Con la mia... condizione. Non so nemmeno come chiamare questa stupida malattia.» La parola mi esce come un sussurro, come se pronunciarla la rendesse più reale. «Non so cosa posso fare per rimediare a questo danno. Non so se posso continuare a fare ciò che amo ma in condizioni più... leggere. E se non posso... allora chi sono, Liv? Chi sono senza tutto questo?»
Le sue dita si posano sul mio mento, leggere come una piuma, ma la sua presa è ferma mentre me lo fa alzare nella sua direzione. «Sei Logan. Sei lo stesso ragazzo testardo, arrogante e insopportabile che ho sempre conosciuto. Non sei solo la boxe o il football. Sei molto di più.»
Rido, ma è un suono amaro. «Facile a dirsi. Ma è tutto quello che ho sempre saputo fare. È l'unica cosa in cui sono bravo.»
Liv scuote la testa, e il suo sguardo è così intenso che mi costringe a guardarla. «Sei bravo in molte cose, Logan. Sei bravo a farmi arrabbiare, per esempio. Sei bravo a entrare in una stanza e far credere a tutti che hai tutto sotto controllo, anche quando non è vero. Sei bravo a proteggere le persone che ami, anche quando non sanno di aver bisogno di protezione.»
Il nodo nel petto si stringe, e per un momento non riesco a rispondere. Lei è sempre stata così: capace di vedermi in un modo che io stesso non riesco a fare.
«E se non bastasse?» chiedo, la voce bassa, quasi un sussurro.
Liv sorride, ma c'è qualcosa di triste in quel sorriso. «Logan, tu basti. Non devi dimostrare niente a nessuno. Non a me, non a tuo padre, non al mondo. Non devi essere perfetto o invincibile per meritare di essere amato.»
Le sue parole mi colpiscono più di qualsiasi pugno che abbia mai preso. Mi passo una mano tra i capelli, cercando di trovare un appiglio in tutto questo caos. «Non so se posso crederci.»
Liv si avvicina, le sue mani che trovano le mie. «Allora ci crederò io per entrambi.»
Mi volto a guardarla, e per un attimo tutto sembra fermarsi. Il sole fuori, il freddo nella stanza, tutto scompare. C'è solo lei, e il modo in cui mi guarda, come se fossi più di quanto io stesso riesca a vedere.
E in quel momento, penso che forse, solo forse, potrei imparare a crederci anch'io.
Mi sistemo meglio sul bordo del letto, cercando una posizione che allevi il dolore. Un leggero gemito mi sfugge dalle labbra, e la fitta al fianco mi ricorda brutalmente ogni colpo ricevuto. Nonostante il fastidio, non mi lamento. Non voglio che Liv si preoccupi più del necessario.
Lei si appoggia delicatamente a me, il suo calore che mi avvolge come una coperta. Non dice nulla, ma il gesto trasuda amore e una premura quasi disarmante. Le sue dita sfiorano la mia mano per un istante, come se cercassero di trasmettere una rassicurazione che io stesso non sono sicuro di meritare.
«Mio padre ha accettato di farmi giocare la finale» dico infine, rompendo il silenzio con una voce più sicura di quanto mi senta davvero.
Liv alza la testa di scatto, i suoi occhi azzurri spalancati per l'incredulità. È evidente che cerca di trattenere una reazione impulsiva, ma con lei il silenzio è sempre temporaneo.
«Cosa?» La sua voce è bassa, ma taglia l'aria come una lama. «Logan, dimmi che stai scherzando.»
«Non sto scherzando.» Cerco di mantenere un tono tranquillo, come se fosse una decisione normale, quasi banale. Ma so che non funziona, non con lei. Mi conosce troppo bene per credere a questa facciata.
Si alza dal letto con un movimento fluido, il suo corpo teso come una corda pronta a spezzarsi. Cammina verso la finestra con quel passo sicuro e determinato che usa solo quando sa che deve affrontarmi. Si ferma lì, le braccia incrociate davanti al petto, lo sguardo che mi colpisce come un pugno.
«Logan, hai contusioni ovunque. Lividi sul viso. Le labbra spaccate. E mi stai dicendo che vuoi giocare una finale? Ti rendi conto di quanto è folle?»
Respiro a fondo, contando mentalmente fino a tre per calmarmi. «So che sembra una pazzia, ma sto bene. Davvero.» Mi sforzo di apparire convincente, ma i suoi occhi mi mettono a nudo. Non c'è spazio per scappare. «L'amico di mio padre mi ha visitato.»
Le ripeto quello che già le ho spiegato prima. «Ha uno studio attrezzato a casa e mi ha fatto tutti gli accertamenti, tra cui anche esami del sangue e radiografie varie. Ho solo contusioni ed ematomi, ma niente di grave. Non ho nulla di rotto. Posso giocare senza problemi.»
La guardo attentamente, e per un attimo il suo volto tradisce un'ombra di sollievo. Le sue spalle si abbassano leggermente, il respiro che diventa meno teso. Ma quella calma dura solo un istante.
«Logan...» Si china leggermente verso di me, con gli occhi che scintillano di preoccupazione e una punta di rabbia. «Non capisci? Non è solo il tuo corpo. È la tua testa, il tuo cuore, tutto quello che hai passato. Ti stai mettendo in pericolo per cosa? Per dimostrare cosa?»
Le sue parole mi colpiscono come un pugno allo stomaco. Non rispondo subito. Resto in silenzio, lasciando che il peso di ciò che ha detto si depositi nell'aria tra di noi. Perché, in fondo, so che ha ragione. Ma non posso cedere, non posso permettermi di farlo. Non ora.
«Ho bisogno di farlo.»
«E il fatto che stai rischiando comunque non conta niente?» La sua voce è ferma, ma nel tremore appena percettibile delle parole sento la sua paura.
Mi alzo, ignorando il dolore che mi attraversa il corpo come una scarica elettrica. Voglio che mi guardi negli occhi, che capisca quello che provo. «Conta, Liv. Conta tutto. Ogni tuo timore, ogni tuo pensiero. Ma questa partita... potrebbe essere l'ultima. Non posso tirarmi indietro. Non per me, non per la squadra.»
Lei scuote la testa, mordendosi il labbro inferiore come fa quando sta cercando disperatamente di trattenersi. So che vorrebbe urlarmi contro, lanciarmi contro tutte le sue paure, ma non lo farà. Non ancora.
«E dopo?» La sua voce è un sussurro che si insinua dentro di me. «Cosa succederà se ti farai male? Se peggiori la tua condizione? Logan, non è solo una partita. Ho visto come vi urtate in campo, quante volte ti sei fatto male per un niente. Ogni volta è come se mi togliessero il respiro.»
Abbasso lo sguardo, incapace di sostenere il peso della sua preoccupazione. Le sue parole mi colpiscono più duramente di qualsiasi pugno, perché so che sono vere. «Lo so» ammetto, la voce bassa. «Ma devo farlo. Non si tratta solo della squadra o di quello che loro vogliono. Devo dimostrare a me stesso che posso ancora farcela. Che non sono finito, che ho ancora una speranza.»
Liv si passa una mano tra i capelli, un gesto nervoso che conosco troppo bene. Poi si volta verso la finestra, il suo profilo illuminato dalla luce calda dell'alba. Le sue mani si aggrappano al bordo delle tende, come se cercasse qualcosa a cui ancorarsi.
«Non capisco come tu possa essere così testardo» mormora, ma c'è una dolcezza vulnerabile nelle sue parole, un amore che non riesce a mascherare.
Mi avvicino lentamente, come se ogni passo fosse un tentativo di abbattere la barriera invisibile tra noi. Mi chino e poso un bacio sulla sua testa, le labbra che indugiano sui suoi capelli morbidi. Il silenzio tra noi si fa carico, denso, pieno di tutte le cose che non stiamo dicendo.
«Liv» sussurro, prendendole una mano con la mia. Le sue dita sono piccole e delicate nella mia stretta, eppure è lei che tiene insieme tutto. Lei che mi dà la forza di continuare, anche quando il mondo sembra crollarmi addosso.
«So che ti sto chiedendo troppo. So che ti faccio impazzire. Ma ti prometto che starò attento. Non voglio perderti.»
Lei alza lo sguardo, i suoi occhi pieni di emozioni che sembrano oscillare tra rabbia e amore. La luce li fa brillare come un riflesso d'acqua, intensi e profondi.
«Sono davvero terrorizzata che ciò possa accadere.» La sua voce si incrina appena, ed è come se una lama mi attraversasse il petto.
Le stringo la mano con più forza, cercando di rassicurarla anche se so che le mie parole non basteranno mai. «Non succederà. Ti amo troppo per permetterlo.»
Ma anche mentre lo dico, una parte di me teme che lei abbia ragione.
Liv mi fissa, i suoi occhi blu che si immergono nei miei, cercando risposte che forse nemmeno io riesco a dare. Non c'è bisogno di parole in quel momento, solo il suono del nostro respiro che si intreccia. Mi avvicino di nuovo, stavolta lentamente, come se ogni millimetro fosse un viaggio verso qualcosa di sacro.
Le mie labbra trovano le sue, morbide e accoglienti, e tutto il resto svanisce. Il mondo intero potrebbe crollare intorno a noi, e non m'importerebbe. Questo è tutto ciò di cui ho bisogno: lei, i suoi sospiri contro la mia pelle, le sue dita che si stringono contro il mio petto.
La bacio più a fondo, senza fretta ma con intensità, come se stessi scolpendo quel momento nella mia memoria. Le mie mani scivolano lungo i suoi fianchi, esplorano la curva della sua schiena, e sento il suo corpo rispondere, avvicinandosi di più al mio. Ogni tocco, ogni movimento è un promemoria di quanto la amo, di quanto ho paura di perderla.
Quando finalmente ci stacchiamo, solo per riprendere fiato, resto con la fronte appoggiata alla sua. Le sue mani tremano leggermente contro il mio viso, ma non si allontanano.
«Liv...» la mia voce è un sussurro rauco. «In un mondo imperfetto come questo, non esiste cosa più vera di noi due qua insieme a constatare come non saremo mai perfetti insieme, quanto piuttosto l'incastro più giusto ai nostri occhi.»
Lei sospira, un suono che sembra sciogliere ogni mia difesa.
«Sei un dannato idiota» sussurra, ma il suo tono è morbido, quasi affettuoso.
Sorrido, ignorando il dolore delle labbra spaccate.
«Lo so. Ma sono il tuo idiota.»
Liv ride piano, e quel suono è musica per le mie orecchie. Non so cosa succederà domani, ma so che in questo momento, con lei tra le mie braccia, nulla è più importante.
L'aria del campo è densa di elettricità. Il ruggito della folla riempie lo spazio, vibrando fino al terreno sotto i miei piedi. Cammino verso il centro del campo con i miei compagni, il pallone stretto tra le mani, e cerco di non pensare al dolore che ancora mi pulsa nei punti in cui i lividi non sono del tutto scomparsi. Il viso mi tira appena, segno che le ferite stanno guarendo, ma è impossibile dimenticare i colpi presi. La tensione mi stringe il petto. Questa è una finale, la finale di campionato. Non ci sarà una seconda possibilità, non per me. E mentre il pubblico urla e batte i piedi sugli spalti, mi chiedo per la centesima volta se ce la farò a tenere il ritmo per tutta la partita.
«Logan, andiamo. Riscaldamento.» Connor Wilson mi dà una pacca sulla schiena, facendomi uscire dai miei pensieri. Annuisco e mi unisco ai ragazzi che si stanno già posizionando per i primi esercizi.
Muovo le gambe, sciolgo le spalle e inizio a correre lentamente lungo il perimetro del campo, cercando di sentire il mio corpo, di capire se reagirà come dovrebbe. La tensione nei muscoli si allenta un po' con il movimento, ma so che non posso permettermi errori. Non stasera. Il coach ci osserva da bordo campo, le braccia incrociate e un'espressione che non lascia spazio a fraintendimenti. Vuole il massimo da ognuno di noi, ma con me è ancora più severo. Quando mi avvicino al gruppo per iniziare i passaggi, si fa avanti, il suo sguardo fermo su di me.
«Logan.» La sua voce è bassa, ma riesco a sentirla sopra il rumore assordante della folla. «Ricordati cosa ti ho detto. Se vedo che non stai bene, se noto anche solo uno sprazzo di dolore farsi strada sul tuo viso, sei fuori. Subito. Non m'importa quanto importante pensi che sia questa partita.»
Fisso un punto nel vuoto, il pallone che stringo più forte tra le mani. «Sto bene, coach. Posso farcela.»
Lui non sembra convinto. Fa un passo avanti, puntandomi un dito contro. «Non scherzare con me, ragazzo. Sei qui perché hai promesso di usare la testa, sia a me che a tuo padre. Ma se ti fai male, ti metto in panchina. Punto.»
«Ho capito.» Provo a sembrare calmo, ma dentro sento la pressione crescere. Non è solo la partita. È tutto il resto.
Avery, che ha ascoltato parte della conversazione, ridacchia mentre passa accanto a noi. «Coach, non preoccuparti. Logan ha una testa dura. Se non si è ancora spaccato, non succederà stasera.»
Il coach lo ignora, ma io scuoto la testa con un sorriso forzato. Riprendo a muovermi, scambiando il pallone con Mason e Reed, cercando di concentrarmi. Eppure, non riesco a scrollarmi di dosso quella sensazione di peso sul petto. Gli spalti sembrano un mare in tempesta, un'esplosione di colori e rumori che dovrebbe darmi energia ma che, in questo momento, mi fa solo sentire più piccolo.
Poi la vedo.
All'inizio non mi rendo nemmeno conto che è lei. Mi capita lo sguardo su un punto tra la folla, e i miei occhi si fermano su una ragazza in prima fila. È insieme a Ellie e Jackson, e indossa la mia maglia con il numero stampato sulla schiena, e per un attimo tutto rallenta. È bella da farmi stare male.
Il mondo intorno a me sembra sfumare. È lì, con il suo sorriso che riesce a sovrastare anche il caos dello stadio e i capelli che svolazzano a causa del vento. Non so come faccia, ma mi colpisce come una scarica elettrica. Indossa i miei colori, e il suo sguardo è fisso su di me, pieno di orgoglio e anche di preoccupazione.
Mi fermo a metà passaggio, il pallone scivola dalle mani di Erik. «Logan, concentrati!» mi urla.
Scuoto la testa, cercando di scacciare via il momento, ma il suo viso rimane nella mia mente. Lei batte una mano sul petto, proprio sopra il mio nome stampato sulla maglia, e mi manda un bacio. Un gesto semplice, ma che mi fa sentire come se fossimo solo io e lei in tutto lo stadio.
«Logan!» grida il coach, facendomi sobbalzare. «Muoviti! Riscaldati! Non è il momento di distrarti.»
«Sì, coach!» rispondo, stringendo i denti e tornando a concentrarmi.
Mentre mi muovo, il ronzio della folla torna a riempire le mie orecchie, ma qualcosa è cambiato. Liv è qui. E se è qui, se crede in me, allora forse ce la posso fare. Non posso deluderla. Non stasera. Riprendo a correre, sentendo il sangue pompare più forte. Non importa quanto sia grande la sfida. Ho qualcosa per cui combattere, qualcuno per cui dare tutto.
Il pallone è stretto tra le mie mani mentre mi concentrato sul riscaldamento. I movimenti sono fluidi, ma ogni tanto un piccolo dolore mi ricorda che non sono ancora al cento per cento. I ragazzi intorno a me stanno completando i loro esercizi: sprint, cambi di direzione, tiri a vuoto, passaggi al volo. Ogni tanto, i loro sguardi si incrociano con il mio, ma mi costringo a non cedere alla tentazione di distrarmi.
Il coach, come sempre, è vicino alla linea laterale, osservando ogni nostro movimento con attenzione. Non è un tipo che perdona, e oggi non sarà diverso. La tensione è palpabile, ma lui cerca di mantenere il controllo. Il suono della palla che rimbalza sul campo, i passi pesanti dei compagni, le grida di incoraggiamento. Ogni tanto, una fitta al viso o ai fianchi mi ricorda che sono ancora dolorante, ma resisto. Non voglio mostrare segni di cedimento.
Il pubblico sugli spalti è già in fermento. Il rumore cresce mentre la folla prende vita, ma il mio focus rimane sul campo. Sento il battito del cuore, i piedi che calpestano l'erba sotto di me. Ogni passo, ogni corsa, ogni movimento mi porta più vicino alla partita che mi aspetta.
Improvvisamente, la voce del coach riecheggia attraverso il campo, decisa e ferma. «Bene, tutti in cerchio!»
Ci fermiamo tutti e ci raggruppiamo intorno al coach, la nostra attenzione completamente rivolta a lui. Il respiro è affannoso, ma la tensione sale ad un altro livello. La squadra avversaria sta entrando in campo. Sono i Crimson di Harvard, e si fanno notare con le loro divise rosse e bianche, camminano con un'aria di assoluta determinazione. Li vedo mentre si sistemano, gli occhi fissi su di noi. Un paio di sguardi incrociati tra le due squadre, ma il coach non perde il controllo.
Mi fermo un istante, prendendo un respiro profondo. Non sono solo in questa partita. Mentre il coach parla, gli occhi si posano sui miei compagni, il cuore che batte forte nel petto. Sento un'ondata di orgoglio salire in me.
Mason Williams, il nostro tight end, il mio migliore amico, è una montagna di muscoli. Ogni volta che lo guardo, mi ricorda perché sono così sicuro del nostro gioco in attacco. Si muove con agilità sorprendente per la sua stazza, ed è un talento purissimo quando si tratta di bloccare e fare ricezioni decisive. La sua concentrazione è palpabile, il suo sguardo affilato mentre si prepara per il confronto.
Reed Strattan, il nostro quarterback, è una figura di calma e autorità in campo. È il tipo di giocatore che può rimanere impassibile sotto pressione, anche quando l'intera partita sembra gravare sulle sue spalle. Con il numero 14 sulla schiena, Reed non solo è il nostro leader, ma anche la nostra fonte di ispirazione. So che quando è il momento giusto, farà il passaggio decisivo che ci permetterà di avanzare.
Scorro con lo sguardo anche gli altri compagni, i miei amici, ognuno di loro un pezzo fondamentale di questa macchina perfetta. Connor Wilson, il nostro running back, è veloce come un fulmine. Ogni volta che prende il pallone, si fa strada tra gli avversari con una determinazione feroce. È il tipo che non si ferma mai, che dà tutto fino all'ultimo secondo.
Erik Jones, uno dei nostri linebacker, è una bestia nella difesa. Non solo è un muro che blocca ogni corsa, ma ha una capacità di leggere il gioco che lo rende indispensabile per fermare gli avversari. Ogni volta che scatta, è come se fosse in sintonia con il campo, sempre al posto giusto al momento giusto.
Avery Smith, con il numero 83, è uno dei nostri ricevitori. Ha una velocità incredibile e una capacità di allungarsi per afferrare anche i passaggi più difficili. Le sue mani sono sicure, sempre pronte a fare la ricezione che potrebbe cambiare l'andamento della partita. Sembra quasi che non ci siano limiti a ciò che può fare.
Peter Martin, il nostro tackle, è solido come una roccia. Ogni volta che si prepara a fare un blocco, sa che la sua responsabilità è mantenere la nostra linea protetta, permettendo a Reed di avere il tempo per lanciare e ai nostri running back di correre senza paura. Non lo vedo mai vacillare, sempre sicuro di sé, sempre pronto a difendere la nostra metà campo.
Josh Baker, il nostro defensive end, è un vero cacciatore anche se per la maggior parte del tempo sembra un tontolone. Ogni volta che si lancia verso il quarterback avversario, lo fa con una ferocia che incute rispetto. È il tipo che non smette mai di lottare, che segue il suo obiettivo fino all'ultimo istante. La sua energia è travolgente e contagiosa per tutta la squadra.
Osservo questi ragazzi, tutti parte integrante di una macchina che non può fermarsi. Ogni uno di loro è una forza. Ogni uno di loro è indispensabile. E mentre guardo la squadra avversaria, sento un brivido lungo la schiena. Non sono solo dei giocatori avversari. Sono sfidanti, ma li affronteremo insieme. Con il cuore che batte forte, alzo lo sguardo verso il coach, pronto a seguirlo in questa battaglia.
«Questa è la partita che aspettavamo!» urla lui, la sua voce piena di energia. «Ogni secondo conta. Ogni mossa, ogni placcaggio, ogni yard. Non c'è spazio per l'incertezza. Dobbiamo essere più veloci, più forti, più determinati. Logan!» Il suo sguardo si posa su di me, serio. «Mi raccomando, se vedo anche solo il minimo segno di infortunio, sei fuori. Capito?»
Annuisco, il mio sguardo si indurisce. La partita è troppo importante, e so che non posso permettermi di farmi male.
Il coach riprende, lanciando il suo spirito combattivo in ogni parola. «Siamo i Bulldogs. E oggi mostriamo loro cosa significa affrontarci. Ogni singolo membro della squadra ha una parte in questa vittoria. Oggi non si tratta solo di sport, si tratta di chi siamo!»
Tutti urlano in coro, alzando le mani verso il centro, pronte a lanciarsi nella battaglia. Il ruggito della folla arriva come una scarica elettrica.
Il coach ci guarda per un attimo, i suoi occhi carichi di orgoglio. Poi fa un cenno con la mano. «Forza, ragazzi! È ora di scendere in campo.»
La squadra avversaria si schiera davanti a noi, i Crimson di Harvard pronti a darci del filo da torcere. La tensione è palpabile. Ma in quel momento, guardo gli spalti e la cerco un'altra volta. Liv è lì, ed è bellissima. La sua presenza mi dà forza.
Mi schiero con il resto della squadra, l'adrenalina sale mentre il fischio dell'arbitro annuncia l'inizio della partita. Il campo è tutto nostro.
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