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48 ~Raccontami di te~


Non appena sentii il rumore della porta chiudersi con un leggero colpo, potei sfogarmi in un pianto disperato. Speravo che questo fosse tutto un brutto sogno, che fossi ancora sotto l'effetto dei medicinali e che di lì a qualche minuto mi sarei svegliata. Il mio cuscino iniziò a inumidirsi sotto la pioggia di lacrime che scivolavano perpetue rigandomi il viso.

Come aveva potuto Lia farmi questo? Aveva covato di nascosto la sua invidia? E come avevo fatto a non accorgermene?

Soprattutto dopo le sue parole dolci e i suoi gesti, mi aveva addirittura prestato il body che le era stato cucito da sua nonna.

Le immagini di quel video mi bruciavano il cuore come un marchio fatto con del metallo incandescente, e pensare che io avevo passato nottate insonni per il senso di colpa di averla eliminata in qualificazione.

Capivo il suo rammarico per non aver potuto partecipare alle Olimpiadi, in fondo era anche il suo sogno e, anche lei, aveva dedicato anni per raggiungere quel traguardo, ma non credevo possibile una cosa del genere, aveva rischiato di ammazzarmi, se avessi battuto la testa nel modo violento in cui avevo battuto il fianco, adesso avrei potuto anche non essere più qui.

E il fatto che la mia migliore amica avesse cercato di togliermi la cosa più importante della mia vita, era una macchia indelebile che non si sarebbe mai cancellata, speravo che con il tempo sarebbe sbiadita ma, adesso, faceva male nel profondo.

Adesso mi sentivo ancora più sola.

Io per Lia avrei camminato sui carboni ardenti, solo ora mi rendevo conto che lei invece non avrebbe sfiorato neanche la fiamma di una candela.

La mia mente vagava cercando una spiegazione plausibile, mi facevo tante domande senza potermi dare delle risposte.

Poi di colpo mi tornarono alla mente i bigliettini con le minacce, quindi era sempre stata lei dall'inizio? Questo significava che ciò che aveva fatto in gara era stato premeditato.

Ripercorsi tutte le occasioni in cui avevo trovato quei foglietti, lei c'era stata in ognuna delle situazioni, sapeva dove abitavo. Ma perché dopo mi aveva prestato il suo body per la gara? Era stato solo un fugace momento di pentimento?

Quando finii le lacrime restò solo l'umidità del cuscino a farmi compagnia, fino a che non sentii il familiare stridio del carrello della cena provenire dal corridoio. Quando si aprì la porta con il solito cigolio non mi voltai, non volevo che l'infermiera mi vedesse piangere, quindi aspettai che, come al solito, posizionasse il vassoio con il cibo sul tavolino di fianco al letto e poi se ne andasse.

Invece successe qualcosa di diverso.

«Dovresti mangiare», disse una voce che non faticai a riconoscere.

«Grazie del consiglio».

«Ti ho portato anche un croccante alle mandorle».

Il mio stomaco brontolò per la fame al suono di quelle parole, mi stava suggerendo di girarmi e prendere ciò che Sveva mi stava per offrire.

«Come mai sei ancora qui? L'orario di visita è finito», mi ritrovai a rispondere.

«Per una campionessa olimpica hanno fatto un'eccezione».

«Si saranno mossi a pietà», replicai con l'amaro in bocca.

«Ora finiscila e girati», dichiarò Sveva infastidita.

Probabilmente stava aprendo i contenitori del cibo perché mi arrivò un vago profumo di curry.

Quando capii che non se ne sarebbe andata tanto facilmente, mi girai e mi misi a sedere, Sveva mi aiutò ad alzare la testiera del letto e mi posizionò il tavolino in modo che potessi mangiare senza piegare troppo il busto.

«Lo chef oggi propone», disse lei con un tono di voce forzatamente squillante, «riso scondito con fagioli neri, pollo all'idea di curry e, il pezzo forte, ananas in una strana salsa appiccicosa».

Mi sorrise cercando di mettere più allegria del dovuto in ciò che stava facendo.

«Ora non dirmi che prenderai il cucchiaio e mi imboccherai facendo l'aeroplanino». Arcuai solamente un sopracciglio.

Lei divenne seria all'improvviso ma poi notai il suo labbro inferiore tremare come se si stesse trattenendo, alla fine scoppiammo tutte e due in una fragorosa risata.

Assurdo. Io e Sveva che ridevamo per lo stesso motivo e in modo così naturale.

Poco dopo mi passò le posate e io le feci dello spazio sul letto in modo che potesse sedersi. Con un piccolo balzo si rannicchiò sul lenzuolo facendo tintinnare tutti i braccialetti di acciaio che aveva al polso, erano di colore rosa, molto semplici e senza nessun ciondolo, erano abbinati alla canottiera fiorata che indossava.

Iniziai a mangiare il riso: «è talmente insipido che non sa di nulla, se mangiassi del polistirolo sarebbe la stessa cosa».

«Ho pensato anche a questo», esclamò Sveva togliendosi lo zainetto dalle spalle e frugando al suo interno: «tieni».

Mi passò due bustine di sale, una di olio e una di pepe, infine poggiò il croccante al bordo del vassoio. I miei occhi si illuminarono, era tantissimo tempo che non mangiavo una merendina di quel tipo, la mia mano andò per afferrarlo ma Sveva fu più veloce: «eh no, prima devi finire la cena».

Io sbuffai divertita: «inizio a pensare che ti preferivo quando facevi finta di essere Crudelia Demon».

Lei sorrise: «sai qual è il mio più grande difetto?».

«Devo proprio sceglierne uno?», sghignazzai nel vedere la sua espressione stupita di fronte a quella domanda retorica.

«Dico sempre quello che penso», ammise in modo pacato, «e non faccio caso se posso risultare inopportuna o antipatica, è più forte di me».

«Io credo che se lo smussassi un po', potrebbe diventare il tuo più grande pregio».

«Forse».

«Si eviterebbero situazioni come quella mia e di Lia».

«Magari è per questo che non ho amiche», rifletté lei abbassando lo sguardo e giocherellando con i suoi braccialetti.

Adesso Sveva sembrava un cucciolo ferito, non mi ero mai chiesta veramente il motivo del suo comportamento ma, in questo momento, la stavo quasi ammirando, era quel tipo di persona che andava dritta per la propria strada, non mitigava i propri atteggiamenti o le proprie parole a seconda della situazione, era semplicemente se stessa in ogni piccolo gesto.

Credo che il suo motto fosse una cosa del tipo: "chi mi ama, mi segua".

«Non sono proprio in vena di discorsi sull'amicizia», le risposi tra un boccone e l'altro.

«Sì, hai ragione. E comunque, se avessi un problema con un'amica, non saresti la prima persona a cui chiederei un consiglio».

«Grazie».

«Ops», mormorò Sveva, «lo vedi? È più forte di me».

«Tranquilla, sto iniziando a farci l'abitudine».

«Tolti gli scherzi, quello che ti ha fatto Lia è orribile, quando mi è arrivato il video non credevo ai miei occhi, soprattutto perché poco prima stavamo scherzando tutte insieme».

«Sono così delusa», sospirai amareggiata prendendo un ultimo boccone di quel pollo al lieve sentore di curry.

«Io comunque mi sono fatta un'idea», disse Sveva riacquistando un tono serio.

«Ovvero?ۚ».

«Prima della gara mentre stavo facendo una passeggiata con Sergio ho intravisto Lia e un ragazzo con i capelli rasati».

«Claudio? Il ragazzo della spiaggia?», le chiesi ricordandomi che forse in quell'occasione Sveva lo aveva visto.

«Non lo so, lui era di spalle», rispose sbrigativa, «però Lia gesticolava e sembrava arrabbiata. Poi sono entrata in un negozio e, quando sono uscita, loro non c'erano già più».

«Ok, grazie della soffiata».

Le parole di Sveva mi stavano suggerendo che Lia prima della gara aveva litigato con Claudio, avevo la sensazione che lui potesse averle detto del giorno in cui mi aveva invitato a pranzo, ma io avevo rifiutato, d'altro canto però conoscevo anche la gelosia di Lia nei confronti dei ragazzi, spesso diventava ossessiva e non la faceva ragionare. Mi tornò alla mente quando era insieme a Andrea, gli aveva fatto una scenata assurda poiché una compagna di classe gli aveva chiesto di prestargli degli appunti della lezione di storia.

Ma lei mi conosceva, sapeva che non avrei mai considerato il ragazzo che le interessava e, per questo, cercai di convincermi che Claudio fosse al di fuori di tutta questa storia.

Finalmente arrivò il momento che stavo attendendo, presi il croccante alle mandorle dal bordo del vassoio sotto lo sguardo divertito di Sveva, probabilmente sembravo una bambina che stava aspettando il suo premio dopo aver ingurgitato a forza un piatto stracolmo di broccoli puzzolenti.

Aprii la carta argentata: «facciamo a metà», esclamai spezzando la barretta.

«No, io non mangio fuori pasto», rispose Sveva con decisione.

«Infatti è ora di cena».

«Tecnicamente sono le sette, penso che mangerò verso le nove. Io e il cibo abbiamo da sempre un rapporto particolare».

Osservai i suoi occhi verdi espressivi annebbiarsi di un'ombra cupa: «ti va di parlarmene?», le chiesi con delicatezza.

Io ero fatta così, cercavo sempre di sdebitarmi con tutti, se ricevevo aiuto cercavo il modo di fare altrettanto.

«Ho avuto un'infanzia difficile», disse lei sospirando e giocherellando in maniera nervosa con i suoi braccialetti rosa, «forse è questo che ha forgiato il mio carattere».

«Cosa ti è successo?», le domandai con tatto.

«Vengo da una famiglia con una lunga discendenza di pasticceri, mio padre e mio zio avevano ereditato da mio nonno una grande pasticceria che si trova vicino la Fontana di Trevi, questo voleva dire che casa mia era invasa da dolci ogni momento della giornata e, io, sono sempre stata una persona estremamente golosa».

«Anche in casa eravate pieni di dolci?».

«Mia madre odiava lo spreco e quindi la sera portava a me e mio fratello gli avanzi della giornata».

Sveva tirò di nuovo fuori dalla tasca il suo cellulare e mi mostrò una foto.

Era una bambina piuttosto grassottella, indossava un body viola che le sottolineava i chili di troppo in maniera vistosa, sorrideva mentre era a cavalcioni di una trave in quella che, a mio parere, doveva essere la palestra di una scuola, se non fosse per quelle inconfondibili lentiggini che le ricoprivano il viso come una spruzzata di caffè e per quegli occhi vivaci, non l'avrei mai riconosciuta.

Subito dopo, senza dire una parola, Sveva cambiò fotografia.

Sgranai gli occhi: non poteva essere lei.

La ragazza della foto indossava una canottiera bianca e una gonnellina a pieghe lilla, era seduta sul bordo di una piscina con i piedi nell'acqua e il sole che la baciava, la testa era coperta da un ampio cappello di paglia. Tutto in quell'immagine trasudava gioia e allegria, tranne il volto di lei, era cupo e smunto, le guance paffute erano state sostituite da un mento affilato e da due occhi scavati, le gambe e le braccia sembravano troppo magre benché muscolose.

Sveva cambiò di nuovo foto.

Mi portai una mano alla bocca prima di esclamare: «non puoi essere tu».

«Pensi che ti mostrerei la foto di qualcun'altra?», rispose lei a disagio, «è qui che Samuele mi ha salvata».

Quando Samuele mi aveva parlato della malattia di Sveva non avevo immaginato che potesse essere arrivata fino a quel punto, dire che fosse magra era un eufemismo, era uno scheletro, i capelli sembravano paglia e privi del colore lucente di adesso, il viso era deformato e cereo e, gli occhi, erano talmente incavati e spenti da sembrare inespressivi. La cosa che mi colpì più di tutto, però, fu la posizione del suo corpo, era sdraiata su un divano di pelle, una gamba distesa e una piegata, tra le mani prive di forze stringeva il cellulare, tutto mi suggeriva un'apatia preoccupante, come se stesse aspettando di appassire definitivamente.

Non sapevo cosa dire, quelle foto mi avevano spiazzata.

Sveva abbassò il cellulare e se lo rimise in tasca: «me la sono vista brutta», disse cercando di far trapelare indifferenza.

«Come hai fatto ad arrivare a quel punto?».

«Quando ci sei dentro non ti accorgi di nulla, l'anoressia è subdola».

«Ma i tuoi genitori? Tuo fratello?», le chiesi sbigottita non potendo credere che la sua famiglia si fosse totalmente disinteressata.

«I miei genitori erano sempre in pasticceria, mio fratello aveva la scuola e la boxe».

«E tu avevi la ginnastica», aggiunsi io sovrappensiero.

«Croce e delizia», sospirò Sveva mordendosi il labbro e alzando gli occhi al cielo.

«È stata la ginnastica a farti questo?».

«Oh no, è stata Lucia», rispose abbozzando un sorriso tirato, «o meglio, sua madre».

«Cosa ti hanno fatto?».

«Lucia era perfetta, o almeno lo era ai miei occhi di bambina di dieci anni che pesava come una di quindici. Aveva una precisione surreale, realizzava esercizi difficili senza mai perdere l'equilibrio o piegare le gambe. Era la piccola ginnasta più promettente della palestra e io la invidiavo da morire».

Sveva raccontava con gli occhi lucidi, sguardo fisso sui suoi numerosi braccialetti stretti al polso.

«Chi non ha mai invidiato qualcuno da piccola», sospirai dando forma ai miei pensieri ma senza aspettarmi una risposta.

«Vero, ma sarebbe finita lì se sua mamma non fosse stata una vipera, mi guardava sempre deridendomi, diceva a Lucia di starmi lontano spiegandole che l'obesità era una malattia e che avrei potuto contagiarla. Ma, il culmine, lo aveva raggiunto un giorno durante le prove per il saggio di fine anno, io ero sulla trave e lei pensava che non la stessi ascoltando, era insieme ad altre mamme e alla mia insegnante e ha avuto il coraggio di dire queste testuali parole: "ma siamo sicure che la trave regga tutto quel peso? Non vorrei dover organizzare una colletta per comprarne una nuova"».

«Ma è orribile!», sbottai esterrefatta tirandomi su con il busto anche se provai una fitta al fianco.

«Sono state peggiori le risate e le occhiate che si sono susseguite da quel giorno in poi».

«Non hai detto nulla a tua madre?».

«Ho provato a raccontarlo ma mi sembrava stupido. Da quel momento ho iniziato a far finta di mangiare i dolci che mia madre mi portava dalla pasticceria per arrivare, qualche anno dopo, a far finta di mangiare qualunque cosa. Se non ci fosse stato Samuele non sarei qui probabilmente».

«Ti va di raccontarmi anche di lui?».

«Certo». Sveva in questo momento stava sfoggiando il sorriso più dolce che le avessi mai visto, «lui c'è stato proprio quando ero a un passo dal punto di non ritorno. I miei genitori mi avevano portato da medici e psicologi ma non era servito a nulla, mio fratello stava per partite per la Germania per lavoro e io mi sentivo ancora più sola così, in un'assolata giornata di giugno, me lo hanno fatto conoscere».

«E che cosa ti ha detto? Intendo, di diverso rispetto alle altre persone».

«Samuele non mi ha detto che dovevo mangiare, come facevano tutti in ogni occasione, mi ha parlato di come è nata la sua passione per la ginnastica» .

Sveva alzò gli occhi al cielo e fece una piccola pausa, come se si fosse emozionata a quel ricordo, ma lei non era il tipo di persona che piangeva per così poco per cui, dopo un lungo respiro, continuò a raccontare: «avresti dovuto vederlo, parlava della ginnastica come se fosse la sua donna, ed è stato proprio questo dettaglio che mi ha fatto capire che, se avessi continuato a non mangiare, non avrei potuto più fare ginnastica. E infine mi promise che, se avessi ricominciato a prendermi cura di me stessa, mi avrebbe fatto sempre compagnia a colazione ogni giorno. È stato davvero un angelo».

«Lui è un'anima buona» confermai poggiando la mia mano su quella di Sveva che aveva smesso di giocherellare nervosamente con i braccialetti, «nonostante non sia qui con me», sospirai con del rammarico.

«Giusy, ogni cosa a suo tempo, capirai tutto».

«Non puoi dirmi nulla? Io devo sapere...».

Sveva mi bloccò senza farmi finire la frase: «mi ha detto che ti spiegherà tutto lui, e io gli ho promesso di non interferire. Non chiedermi di tradirlo».

Annuii con riluttanza, sapevo quanto mi costasse rimanere nel dubbio ma, allo stesso tempo, capivo la posizione di Sveva.

A quel punto l'infermiera fece capolino alla porta annunciandosi con un piccolo verso, come se si stesse schiarendo la voce.

Sveva capì e si alzò dal letto: «ci vediamo presto», mi disse stringendomi appena la mano.



SPAZIO AUTRICE: vi aspettavate questo lato di Sveva? Che ne pensate?
P.S in apertura troverete il video di una canzone intitolata come il capitolo e che mi piace molto nonostante non abbia molta attinenza!

Un abbraccio a tutti voi!
Daphne ❤❤

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