33 ~Non so se la magia esiste~✔
Dopo aver aggirato tutti gli ostacoli che mi impedivano di raggiungere Samuele, ed essermi fatta spazio tra un groviglio di colori e suoni, affondai nelle sua braccia senza proferire parola.
«Allora, come sono andato?», mi chiese Samuele senza sciogliere l'abbraccio.
«Benissimo! Credo proprio che ti qualificherai!», esclamai convinta, mentre ripensavo ai suoi esercizi senza imprecisioni e alla sua espressività irresistibile.
Subito dopo, il mio sguardo, si spostò inavvertitamente su Sveva che si trovava in piedi poco distante da noi e ci stava fissando con le braccia conserte.
«E io credo proprio che tu sei una gelosona!» sussurrò lui quando capì cosa stavo osservando.
Arrossii al suono delle sue parole, lui in risposta mi spostò la frangetta dalla fronte che, ormai, era talmente lunga che non si limitava più a incorniciarmi il viso ma mi nascondeva gli occhi.
«Ci vediamo dopo l'allenamento del pomeriggio?», mi domandò nell'orecchio per fare in modo che nessuno ascoltasse la nostra conversazione, «i ragazzi hanno deciso di andare a pranzo insieme per festeggiare».
«Va bene, avrò bisogno di te stasera! Non credo che riuscirò a dormire prima della finale».
«Dovresti», disse lui per poi darmi un piccolo bacio a stampo.
Gli sorrisi ma sapevo già che non avrei chiuso occhio, dopotutto domani avrei vissuto l'unico sogno della mia vita; non avevo mai desiderato nient'altro come quello, quando da piccola mi chiedevano che mestiere volessi fare, io rispondevo la ginnasta olimpica, quando mi capitava di guardare una stella cadente esprimevo il desiderio di vincere la medaglia d'oro e, se possibile, alla trave.
Avrei voluto rendere orgogliosi i miei genitori, avrei voluto ripagare mio padre per l'essermi rimasto sempre accanto, per avermi sostenuta in quelle giornate storte in cui, per qualche minuto, mi balenava l'idea di non essere all'altezza e che avrei fatto meglio a mollare tutto e scegliere un'altra strada. Eppure, quando pensavo a cos'altro avrei potuto fare, mi veniva in mente sempre e solo la ginnastica, cambiare direzione avrebbe voluto dire perdere una parte di me, quella più importante, quella vena che pulsa perché dentro vi scorre il sangue, vi scorre vita.
Mi ero privata di tutto per arrivare lì e, adesso che c'ero riuscita, papà non poteva vedere il frutto di tanti sforzi e tante lacrime, speravo che, in qualunque luogo si trovasse, mi sarebbe stato accanto e mi avrebbe guidata.
Quando tornai in albergo trovai sul cellulare un messaggio di Giorgio che diceva: "sono fiero di te, pagina 44".
Rimasi per circa un minuto interdetta di fronte a quelle parole, poi mi tornò alla mente il giorno della partenza e il libro di poesie, sentii una piccola fitta allo stomaco, non avevo neanche trovato il tempo di leggerlo per intero.
Aprii l'armadio e frugai nella borsa in pelle che portavo quel giorno, poi estrassi quel piccolo libricino scuro. La copertina leggermente consumata agli angoli e le pagine con delle piccole orecchie, lo rendevano un dono fatto col cuore e non un semplice regalo asettico comprato in libreria. Alla pagina quarantaquattro, nel capitolo "pensieri dolci", trovai un piccolo passo di Viktor Sklovskij tratto dal libro "Zoo o lettere non d'amore".
Lettera nona
Mi hai assegnato due compiti.
1) Non telefonarti. 2) Non vederti.
Adesso sono un uomo impegnato.
C'è ancora un terzo compito: non pensarti. Ma questo, tu non me l'hai affidato.
Le attenzioni di Giorgio, benché sempre affettuose e morigerate, non riuscivano mai a colpirmi quanto quelle di Samuele. L'amore è un problema senza soluzione: è un assioma matematico, assunto per vero senza necessità di spiegazione.
Mi ritrovai spiazzata dal messaggio di Giorgio e, la mia risposta fredda: "grazie del pensiero", mi fece vergognare di me stessa, non ero abituata a queste attenzioni né tantomeno a scaricare uno spasimante non desiderato senza ferire i suoi sentimenti.
Il fatto che non mi rispose mi fece sentire, ancor di più, una persona orribile.
Dopo pranzo avevo un'ora libera prima di filare dritta in palestra per la sessione di allenamento pre-gara, io e Lia uscimmo per goderci un poco la spiaggia di Copacabana. Avevo indossato il bikini giallo che lei mi aveva regalato per il compleanno e lo avevo abbinato con un copricostume nero semitrasparente. Qui in Brasile, agosto, corrisponde alla stagione invernale ma, il freddo come lo intendiamo noi italiani, non esiste, c'è solo un leggero venticello e un alto rischio di pioggia improvvisa ; oggi per fortuna il sole splendeva e il cielo era limpido e senza nuvole.
Una volta arrivate, io e Lia, ordinammo al barista di un chioschetto spartano che si ergeva al centro della spiaggia, un "cafezinho", ovvero un piccolo caffè nero dall'aroma intenso per le tipiche note di noce, sandalo e rosmarino.
«Ci voleva proprio!», disse Lia dopo aver bevuto tutto d'un sorso la bevanda, «ora sole, relax e divertimento!».
«Peccato che posso restare per così poco!», ammisi dispiaciuta.
«Be' deve avere qualche vantaggio fare la sostituta, no?».
«Giusto», commentai sorridendo per la sua spensieratezza e la sua forza, io non credo che ce l'avrei fatta a vedere le altre che lottavano per il mio sogno, mi sarei chiusa in albergo a mangiare caramelle gommose, cosa che spesso facevo quando qualcosa non andava secondo i miei piani.
Tirammo fuori i nostri asciugamani da mare e li stendemmo sulla sabbia fina, Lia iniziò subito a spalmarsi la crema per evitare che, la sua pelle diafana, diventasse rossa e si ricoprisse di chiazze, mentre io invece avevo il vantaggio di avere una grande quantità di melanina che mi proteggeva dai raggi del sole colorandomi la pelle in poco tempo. Sulla spiaggia quel pomeriggio c'era poca gente ma, vicino la riva con indosso un costume rosso e con i piedi nell'acqua, c'era Claudio.
Diedi un colpetto a Lia che si era sdraiata e si stava addormentando: «è un caso che lui sia lì?», le chiesi indicandogli il punto esatto.
«In realtà no...».
«Cosa mi sono persa l'altra sera?», le domandai guardandola di sottecchi.
«Niente», rispose evasiva.
«Lia!», esclamai curiosa, «ricordati la promessa».
Lei sbuffò e si mise a sedere: «abbiamo solo parlato e, per caso, gli ho accennato che avrei passato il pomeriggio qui».
«E allora vallo a salutare».
«Credo che non servirà», esclamò lei eccitata sfoggiando improvvisamente un sorriso smagliante, poiché si era accorta che Claudio ci aveva viste e si stava avvicinando, «sbrigati! Annusami e dimmi se si sente il profumo al pepe rosa e bambù».
«E che razza di odore dovrei sentire!», esclamai sgranando gli occhi, «comunque sai di buono», le assicurai per tranquillizzarla.
Poco dopo Claudio ci raggiunse: «come va ragazze?», disse mettendosi le mani sui fianchi ed ergendosi in tutta la sua altezza.
«Benissimo», proruppe Lia con enfasi.
Io mi limitai a sorridere leggermente imbarazzata per l'entusiasmo forzato della mia amica.
«Ti sei ripresa Giusy?», mi chiese lui.
«Sì, grazie ancora. Mi hai letteralmente salvato la vita».
Poi ci fu un momento di impasse, tutti e tre ci guardavamo senza sapere cos'altro aggiungere e, così, mi rivolsi a Claudio con la prima cosa che mi venne in mente «assomigli molto a Micheal Phelps, te lo hanno mai detto?».
«No, mai», rispose grattandosi la testa rasata.
Lia si girò di scatto e mi rivolse un'occhiata gelida eppure, a me, le sue orecchie leggermente a sventola e il mento pronunciato mi ricordavano il famoso nuotatore.
«Comunque grazie...», provò a dire lui, «o meglio», si corresse quasi subito, «sportivamente parlando, perché altrimenti non so quanto possa essere un complimento...».
«No, è un complimento», azzardai cercando di rimediare poiché, effettivamente, Phelps non era certo un esempio di spiccata bellezza.
«Sì, Giusy è una che fa molti complimenti», si intromise Lia ammonendomi con uno sguardo bieco.
«Che ne dite, vi va di fare una passeggiata?», ci chiese Claudio cambiando discorso.
«Perché no?», risposi senza pensare.
«Sono le tre e trenta», mi fece notare Lia, mi sembrò di cogliere dal suo tono un messaggio in codice del tipo: "levati dalle scatole tanto ti devi allenare".
«Uhm, sì vero! Fra poco ho gli allenamenti», risposi dandomi un colpetto sulla fronte in modo teatrale.
«Peccato», sospirò lui.
«Peccato», ripeté Lia poco prima di prendere sottobraccio Claudio e farlo girare in direzione dell'oceano.
Quando lui fu di spalle, Lia si voltò verso di me e sillabò un "grazie" muto, io le risposi alzando il pollice. Qualcun'altra al posto mio si sarebbe potuta offendere ma, il legame profondo che ci univa, andava al di là di piccole scaramucce. Io volevo vederla felice e sapevo che, anche se non lo dava a vedere, in questi giorni venire a seguire le nostre gare era un fardello pesante che si stava portando dietro. Dovevo lasciare che si divertisse e non ci pensasse.
L'allenamento pre-gara fu emotivamente distruttivo, avevo ripetuto infinite volte i salti artistici ma, in ogni simulazione, vi era sempre stato un errore: l'arrivo dallo Tsukahara con doppio avvitamento sporcato da un passo indietro, la gamba piegata nell'enjambèe, oppure la rotazione nel giro perno non perfettamente completata.
Ogni volta che non riuscivo a realizzare l'esercizio, come sapevo fare, sentivo una vocina che si insinuava nel mio cervello e mi diceva che avrei fallito.
Ogni volta che cadevo, gli occhi preoccupati e delusi di Enrico, mi colpivano come uno schiaffo in pieno volto.
Ogni volta che sbagliavo, ero un passo più vicina al baratro.
Erano le otto di sera, Samuele non mi aveva ancora chiamata e Lia non era rientrata. Ero demoralizzata per l'allenamento appena trascorso, nella stanza dell'albergo regnava un silenzio assordante e io ero seduta con la guancia schiacciata al vetro della finestra e lo sguardo perso all'orizzonte.
A un certo punto, dall'altra parte del vetro, vidi una farfalla.
Era blu con dei puntini gialli, si avvicinò a me picchiettando delicatamente sulla finestra. Strano, non avevo mai visto una farfalla volare di notte. Presi la maniglia e aprii la finestra per farla entrare ma, lei, con le sue piccole ali, sparì verso il basso.
Richiusi l'anta e tornai a osservare malinconica l'oceano e la luna che lo illuminava pallidamente.
La farfalla tornò di nuovo, picchiettò sul vetro come prima e poi, non appena riaprii la finestra, sparì nuovamente verso terra.
Non so perché ma mi sembrò che mi chiamasse, che mi stesse dicendo di seguirla quindi, mi misi velocemente una felpa leggera, lasciai la stanza e scesi le scale fino a uscire dall'hotel. La cercai con lo sguardo, prima a destra, poi a sinistra e in alto, ma nulla.
Mi sentii una stupida.
Poi però, poco prima di voltarmi e fare dietro-front, vidi un piccolo movimento e una macchia blu sparire dietro l'angolo del palazzo. Quando svoltai anche io, notai la farfalla poggiata su una panchina, era in ferro dipinta di verde, come quelle che c'erano a Roma.
Mi misi vicino a lei, come se fosse un'amica, come se mi volesse parlare.
Era bella e colorata, mi avvicinavo e non sembrava avere paura poi, quando provai a toccarla, spiccò il volo e io la seguii con lo sguardo.
A quel punto mi accorsi che lì, da quella panchina, si potevano vedere benissimo le stelle e, in particolare, scorsi la costellazione dell'Orsa Minore e la Stella Polare.
Non so se la magia esiste, se le persone quando muoiono in realtà non ci lasciano e ci mandano dei segnali, so solo che, in quel momento, fui felice: «lo so che ci sei, papà», sussurrai.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro