31 ~Io vorrei essere te e tu vorresti essere me~✔
L'espressione dipinta sul volto di mia madre passò dall'essere irritata all'essere sgomenta quando, i suoi occhi scuri e indagatori, si posarono su Samuele in piedi alle mie spalle. Nonostante potessi immaginare i suoi pensieri e, soprattutto, la ramanzina che mi sarei dovuta sorbire di lì a qualche minuto, mi ritrovai a sorridere in modo innocente.
«Cosa c'è?», le chiesi dolcemente sperando che abboccasse alla mia sceneggiata da piccola ragazza ingenua.
«Per prima cosa dove sei stata? È la terza volta che vengo a bussare e non trovo mai nessuno, inoltre non hai mai risposto alle mie chiamate sul cellulare», disse roca appoggiando la sua mano ossuta allo stipite della porta, «e seconda, che diavolo ci fa lui qui?», esclamò con la voce aumentata di un tono.
Io mi aggrappai alla maniglia in ottone della stanza, sentivo la fronte imperlarsi di sudore a mano a mano che i secondi scorrevano, cercavo freneticamente una risposta convincente ma, ahimè, senza successo. Mia madre continuava a guardarmi torvo, di sottecchi, ero sicura che avesse già capito che stavo per raccontargli una bugia, fu Samuele a provare a salvarmi in corner. Lo sentii muoversi dietro di me, mi girai e lo vidi afferrare velocemente una bomboletta spray appoggiata alla scrivania in legno di noce.
«Ero venuto per chiedere in prestito della lacca», esordì in modo squillante.
«A quest'ora?», chiese lei osservandosi con un gesto quasi meccanico l'orologio col cinturino in pelle che aveva stretto al polso.
«Sì», affermò lui con convinzione, «altrimenti domani i ricci non stanno fermi e rischio di complicarmi gli esercizi alla sbarra».
Mia madre aveva disteso la fronte, quindi, potei iniziare a rilassarmi, Samuele era riuscito a trovare una scusa plausibile, sicuramente più valida di quelle a cui avevo iniziato a pensare io. C'era un'aria tesa tra di noi, lui continuava a rigirarsi tra le mani quella bomboletta che, probabilmente, era uno dei tanti prodotti che Lia si era portata dall'Italia e che, come suo solito, lasciava in giro per la stanza in un preciso quanto discutibile ordine che, lei, definiva "creativo".
A quel punto mi feci da parte per permette a Samuele di lasciare la stanza ma, poco prima che attraversasse la porta, mamma spostò un braccio lateralmente appoggiando il palmo sullo stipite opposto, come per bloccarlo, lui si fermò sorpreso: «Moreschini, quello che ha in mano è lo spray per eliminare il cattivo odore dei piedi», sibilò lei gelida.
Sia io che Samuele puntammo lo sguardo sulla bomboletta su cui, effettivamente, era disegnato un piede bianco stilizzato; mi ero completamente dimenticata dell'ossessione di Lia per gli odori, quando mangiava, comprava un vestito o entrava in un negozio, per prima cosa ne annusava l'aroma, per cui considerava, i piedi sudati e le scarpe da ginnastica, come suoi acerrimi nemici.
In un batter d'occhio un'ottima via di fuga si era trasformata in una trappola mortale.
«Sì, infatti è che Giusy non usa la lacca...», iniziò a farfugliare Samuele grattandosi la testa ed evitando il contatto visivo con Valeria, «...allora visto che non riuscivo a dormire per l'odore dei piedi di Sergio...».
«Fuori!», strillò mia madre spostando il braccio e lasciando libero il passaggio.
Lui non se lo fece ripetere due volte, imboccò di fretta il corridoio senza girarsi per salutarmi. Ora sarebbe iniziato un uno contro uno inaspettato, dovevo tenere duro e non farmi schiacciare dalla sua superbia perché, dribblare Valeria, non era mai stata un'impresa semplice considerato che, io, non ero di certo Lionel Messi.
«Vuoi spiegarmi?», sbuffò lei scrutandomi sospettosa.
«Non uso la lacca», balbettai anche se, subito dopo, riuscii a stento a trattenere un risolino, sapendo quanto mia madre odiasse le risposte velate da sarcasmo poiché lei puntualmente non le capiva.
«Lo sai quanto è pericoloso uscire di notte? Soprattutto in un posto che non conosci», disse adirata.
«Lo so».
«E poi fino all'una di notte!».
«Lo so».
Mia madre era arrabbiata ma, questa volta, colsi una sfumatura di tristezza e preoccupazione nei suoi occhi glaciali.
Dicono che c'è un legame viscerale tra genitori e figli, per alcuni è il motore quotidiano delle proprie azioni per altri, invece, è motivo di debolezza e vergogna. Mia madre odiava le donne ansiose ed eccitate la cui esistenza era proiettata nel mestiere di mamma, quelle che non facevano che ripetere quanto fossero bravi ed educati i loro figli, quelle che alle recite scolastiche si mettevano in prima fila. Valeria invece era una di quelle che si piazzava nelle retrovie, che non indicava agli altri genitori chi fosse sua figlia anche se era orgogliosa di lei, era quella che non ti diceva quanto fossi stata brava ma ti dava una pacca sulla spalla, ricordandoti, che si poteva sempre fare di più.
«Lia dov'è?», domandò lei all'improvviso interrompendo i miei pensieri.
«In bagno», risposi senza riflettere. La porta chiusa salvò l'ennesima bugia che le stavo rifilando.
«Lo sai che lei è sotto la mia responsabilità? Non farmi pensare a cosa sarebbe potuto succederle», esclamò portandosi una mano sulla fronte ed emettendo un piccolo gemito preoccupato, «cosa avrei detto ai suoi genitori?».
«Sei preoccupata più per lei che per me», risposi stizzita.
Lei alzò un sopracciglio e mi rivolse un'occhiata alterata: «smettila con questo vittimismo».
«Vittimismo?», strillai strabuzzando gli occhi incredula.
«Sì, perché per te ne rispondo solo io, non devo dare conto a nessun altro».
«Giusto, papà è morto! Quindi che ti importa se tua figlia di sedici anni è scappata al tuo controllo per andare sulla spiaggia a un falò e a bere birra».
Lei sussultò e schioccò la lingua pronta a replicare ma io lei sbattei la porta in faccia.
«E ha rischiato di affogare», mormorai colma di amarezza.
Lei iniziò a bussare senza sosta alla porta, a chiamarmi e a inveire contro quella barriera che ci separava ma, a parer mio, più per non averle lasciato la possibilità di replicare. Per evitare di sentirla presi il mio Ipod dalla borsa e, la voce dolce di Marco Mengoni, mi accompagnò nel sonno.
Quella notte non sentii Lia tornare ma, quando la sveglia suonò, la sentii sbadigliare ed emettere un piccolo gemito tipico di chi si sta stiracchiando, poi si alzò senza esitazione, aprì le tende per far entrare la luce tiepida del mattino e andò subito in bagno. Lei era una di quelle che si svegliava sempre felice, anche se aveva dormito poco era energica e attiva. Io invece odiavo alzarmi dal letto bruscamente, preferivo mettermi seduta, fare mente locale su ciò che avrei dovuto fare nella giornata e poi prendere il cellulare e spulciare i social network e le ultime notizie dai giornali online.
Feci un piccolo balzo quando, sulla prima pagina del "Corriere dello sport", vidi una mia foto, era un'istantanea di ieri, possibile che tra i mille scatti che sicuramente avevano avuto a disposizione, avessero scelto proprio quello? Avevo il viso contratto in una smorfia da sforzo e un occhio leggermente più chiuso dell'altro.
Almeno il titolo dell'articolo mi rincuorò: "Spettacolo Giusy, garanzia Anna e imprevedibile Sveva, così le azzurre volano in finale".
Quello sì che era un buongiorno!
Lessi tutto l'articolo d'un fiato, non potevo credere alle parole d'affetto e di stima che, il giornalista, stava rivolgendo a me e alle altre. Ora però l'ansia da prestazione si stava facendo sempre più impellente, mi sentivo la responsabilità di una nazione intera e, in particolare, di tutti gli appassionati italiani di ginnastica.
Da quell'articolo appresi che Anna, nonostante la gara ricca di imperfezioni, era riuscita a strappare il pass per la finale nell'all around, io mi ero piazzata terza nel corpo libero, dietro Simone Biles e a pari merito con Alexandra Raisman ed ero riuscita a rientrare nella finale al volteggio con l'ultimo posto disponibile, infine Sveva si era piazzata in sesta posizione alla trave.
La mia trave.
Avevo ottenuto due finali, il giornalista mi aveva definito "uno spettacolo" eppure i miei occhi, carichi di frustrazione, continuavano a fissare l'inaspettato punteggio di Sveva.
«Che stai leggendo?», mi chiese Lia uscendo dal bagno e sedendosi ai piedi del mio letto riempiendo l'aria di un dolce profumo al cocco.
«I risultati di ieri».
«Immagino quelli di qualcuno in particolare» .
«Già», sbuffai appoggiando il cellulare sul comodino.
«Ti devo ricordare che hai raggiunto due finali? Che sei l'unica atleta italiana ad esserci riuscita? Che hai solo diciassette anni? Che...».
«Ok fermati», le risposi sorridendo, «tu sei di parte, però».
«No, Giusy, sono solo razionale. Da quando è iniziata la corsa alle Olimpiadi hai perso il contatto con la realtà».
«È che mi sento sempre ad un passo da ciò che voglio e non riesco a godermi nulla».
«Questa è una delle cose che non sopporto di te! Hai tutto e ti lamenti!».
«Che vuol dire...», le dissi leggermente sorpresa dalla sua risposta.
«Sì, lo sai che io sono dalla tua parte ma certe volte vorrei tirarti qualcosa addosso»
rise di gusto, «quindi stai attenta e riflessi pronti!».
D'istinto le diedi un piccolo calcetto, «non sai quante persone vorrebbero essere al tuo posto», continuò Lia.
«Dai non fare la melodrammatica ora!».
«Per niente, hai tutto», ripeté.
«Sicuro! Una strega al posto di una madre, una relazione amorosa che è più un tira e molla infinito e una carriera scolastica disastrosa».
«Adesso sei tu la melodrammatica, Giusyۚ».
«No, invece. Io vorrei essere te, vorrei avere Erica come mamma, con le sue attenzioni affettuose e le sue premure, vorrei riuscire ad avere successo a scuola come te che, francamente, non ho mai capito come sia possibile visto che sei sempre in palestra . Ti basta?».
«Però quella che partecipa alle Olimpiadi sei tu, io non sono così speciale», replicò lei con uno spiazzante senso di rammarico.
In quel momento capii che la mia amica era più simile a me di quanto pensassi, lei non aveva la benché minima idea di quanto fosse unica e di quanto la sua vita fosse speciale così come, io, faticavo a rendermi conto che il mio sogno aveva ben due chance per realizzarsi.
«Tu sei l'amica migliore che potessi mai avere», esclamai togliendomi il lenzuolo di dosso per cingerla in un abbraccio.
«Anche tu. Se vinci tu, vinco anche io».
La piccola chiacchierata con Lia mi aveva rigenerata, adesso non restava che prendere da quest'esperienza tutto ciò che avesse da offrirmi, non sarei tornata a casa con una medaglia al collo nella trave ma, questo, non mi avrebbe impedito di poter vincere comunque l'Olimpiade. Credo che la mia innata insicurezza e perenne scetticismo sulle mie capacità da ginnasta dipendano, in parte, dal rapporto con mia madre. Quand'ero più piccola e ero ancora un'atleta alle prime armi, ogni volta che imparavo un nuovo esercizio correvo da lei entusiasta per mostrarglielo, nel migliori dei casi mi rivolgeva un abbozzo di sorriso condito, sempre, da una correzione su un particolare irrilevante, mentre, la maggior parte delle volte, mi sgridava dicendomi che non era la mia insegnante personale e che dovevo comportarmi ed essere trattata esattamente come tutte le altre sue allieve.
Più lei mi ignorava e più io mi incaponivo.
Più lei non era soddisfatta e più io diventavo schiava dell'ossessione di compiacerla.
Certe volte mi domando se il suo atteggiamento mi abbia reso una ginnasta migliore e se, con un pizzico di gratificazione in più, avrei vissuto in maniera più serena la mia adolescenza. Speravo di vincere anche un po' per lei, per dimostrarle che valevo qualcosa e che avevo talento.
Dopo essermi vestita e aver passato la piastra sui capelli per cercare di domare le mie onde naturali, era arrivata l'ora della colazione. Scesi con Lia nella sala da pranzo dell'hotel, l'odore dei cornetti appena fatti ci avrebbe condotto a destinazione anche se avessimo camminato a occhi chiusi. Oggi era il giorno delle qualificazioni della squadra maschile e non vedevo l'ora di dare il mio incoraggiamento a Samuele, anche per lui, nonostante avesse venticinque anni, era la prima Olimpiade. Quando varcai l'enorme porta a vetri intravidi mia madre attorno al buffet, aveva delle occhiaie marcate e si muoveva con lentezza, come se non avesse chiuso occhio per tutta la notte, nelle mani stringeva il suo solito the verde e lo yogurt greco con lo 0% di grassi che, insieme a tante altre cose, era inserito nella sua lista ossessiva del cibo.
Mia madre ripudiava i grassi così come le dimostrazioni di affetto.
Ci fu un breve istante in cui i nostri sguardi si incrociarono ma, alla velocità della luce, lei si girò di spalle e io la imitai senza troppi fronzoli.
Dopo poco anche Samuele entrò nella sala seguito dal suo compagno di stanza, appena mi vide mi sorrise e si avvicinò.
«Buongiorno», mi sussurrò prima di darmi un piccolo bacio a stampo, «tavolo per due oggi?».
Il suono della sua voce mi travolse come una diga impotente di fronte a un fiume in esondazione. «Assolutamente».
Prima di accomodarci facemmo un giro veloce al buffet, mano nella mano, come se fossimo una coppia consolidata e affiatata. Presi il caffè, un cornetto alla crema di limone e qualche biscotto integrale da sgranocchiare sugli spalti mentre Samuele avrebbe gareggiato lui, invece, prese del latte con un'abbondante razione di muesli e cioccolato fondente.
«A te l'onore di scegliere», esclamò Samuele dopo aver finito il giro del buffet.
Mi guardai intorno, Lia aveva già capito che non avrei passato con lei la colazione e si era seduta vicino a Yasmine e Irene, mia madre era a un tavolo tondo insieme ad Enrico e ai fisioterapisti della nazionale italiana e, in fondo alla sala, spiccava la chioma rossa di Sveva. Era da sola, mento appoggiato sulla mano destra e sguardo perso fuori dalla finestra, davanti una piccola tazzina di caffè e una mela, la indicai a Samuele: «non mangerà?».
«Le ho parlato», rispose dolcemente, «ha capito».
«Era ora», esclamai con una punta di acidità di troppo.
«Gelosa! Che ne dici di quel tavolo lì nell'angolo?», chiese cambiando discorso.
«Ok». Prendemmo posto uno di fronte all'altra. Era la prima volta che condividevo la colazione con un ragazzo ma era anche la prima volta che mi sentivo al settimo cielo di essere lì ma di pensare anche alla persona che odiavo di più, per qualche assurda ragione mi sembrava di aver preso il posto di un'altra.
In questo preciso momento, Sveva, avrebbe voluto essere me, così come io avrei voluto essere lei per gareggiare alla trave.
«Alla nostra prima colazione», esordì Samuele alzando, a mo' di brindisi, la sua tazza di latte.
«Ad un nuovo giorno», risposi io.
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