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29 ~Il codice non scritto della ginnastica~ ✔


È un attimo, prima stai lottando per il tuo sogno e, subito dopo, entri a far parte della cerchia degli illusi.

Quando toccai terra sapevo di aver fallito, i miei piedi, agili quanto esperti, avevano lottato insieme a me, aggrappandosi alla trave come gli artigli di un'aquila. Ma se c'è una cosa che non si può battere, quella è la forza di gravità, ti tira a sé e tu non puoi farci nulla, puoi solo piegarti alla sua attrazione e, mentre a Newton la mela provocò solo un piccolo bernoccolo, a me, la caduta dalla trave, causò l'oblio.

Risalii sull'attrezzo, sguardo fisso perso nel vuoto e un irreale freddo che mi gelò il sangue nelle vene, il mio corpo eseguì gli ultimi salti in una momentanea condizione di incoscienza. Completai l'uscita, salutai i giudici che mi fissavano privi di un'espressione decifrabile e non guardai, neanche per un istante, il pubblico, infine, lasciai la pedana.

Mi diressi verso le mie compagne senza avere intenzione di fermarmi con loro, solo Enrico riuscì a farmi una piccola carezza sulla nuca prima che sprofondassi su una sedia attaccata al muro del palazzetto. Gambe strette al petto, mani sulle ginocchia e la delusione che mi opacizzava la razionalità, non riuscivo a pensare lucidamente, mi chiedevo solo cosa sarebbe successo dopo.

Lia si avvicinò a passo felpato, il badge da accompagnatrice che gli penzolava sul petto e un sorriso tirato di chi vorrebbe correrti ad abbracciarti ma ha paura di una reazione sconsiderata.

Io non le dissi nulla, rimanevo raggomitolata su me stessa, con le unghie conficcate nella carne e il labbro inferiore stretto tra i denti che mi inondò la bocca di un sapore salino.

A quel punto la mia amica mi abbracciò d'impeto provocandomi un lieve irrigidimento: «Giusy non è finita... tecnicamente se tutte cadono dalla trave...».

«Non sei d'aiuto così», sbottai scrollando le spalle e facendo in modo che sciogliesse l'abbraccio.

«Scusa», disse abbassando lo sguardo a terra, «è che non so cosa si provi».

«È come se ti tagliassero un braccio».

Fece una smorfia: «non conosco neanche quella sensazione».

«Lascia perdere non puoi capire», dissi iniziando a rivestirmi per eliminare quel freddo glaciale che mi provocava dei brividi insopportabili e perché, ormai, la mia gara era terminata. Il viso risentito di Lia fu molto eloquente ma, in quel momento, rendermi conto di averla ferita era l'ultimo dei miei problemi.

Quando dalla folla si alzò un brusio impellente, capii che era uscito il mio punteggio e che, comprensibilmente, rispecchiò la realtà dei fatti, un punto in meno.

Non ottenevo un punteggio così basso da almeno un anno e, la vergogna e il risentimento, si fecero spazio dentro di me amplificando la mia frustrazione che raggiunse il picco quando Enrico si avvicinò a Sveva. Lei non avrebbe dovuto gareggiare alla trave ma, la mia defaillance, lo spinse a cautelarsi per il bene della squadra. Anna e Irene eseguirono i loro esercizi senza incappare in nessun errore evidente, Enrico e mia madre si congratularono con entrambe e, la tifoseria azzurra, continuava a suonare la carica per l'ultimo esercizio alla trave.

Prima di iniziare Sveva si avvicinò a me, estrasse velocemente uno specchietto dalla sua borsa e si aggiustò i capelli e poi, poco prima di salire in pedana, mi squadrò compiaciuta: «capita Giusy, ora guarda e impara», esclamò ridendo sommessamente per non farsi sentire.

Io ero sommersa da un'ondata di emozioni contrastanti, tanto da riuscire soltanto a fissarla col desiderio di poterla incenerire con uno sguardo.

La vidi zampettare allegra verso la trave con il body scuro che le fasciava il corpo perfetto e, in quel preciso momento, la stavo odiando più di quanto avessi mai fatto in vita mia.

C'è un codice non scritto nella ginnastica che non tollera il sadismo, non bisogna sperare di vincere in virtù dell'errore altrui. In quegli attimi, però, cercare di non desiderare che Sveva cadesse, fu un'impresa titanica. Mi focalizzai sulla sua esecuzione come se fossi un giudice imparziale, apprezzai il suo Onodi perfetto e il suo salto indietro raccolto ben calibrato poi, quando terminò l'esercizio con solo un impercettibile sbilanciamento nel salto del montone, non potei che alzare bandiera bianca.

Era stata più brava di me e non c'era nulla che potessi fare.

La gara scivolò lentamente, le ragazze terminarono con le parallele mentre io ero incollata a quella sedia con la mente vuota.

L'uomo è un essere insaziabile, si prefigge un obiettivo e dedica tutto se stesso per raggiungerlo poi, una volta esserci riuscito, ha bisogno di trovare qualcosa di più sfidante. Io mi sentivo costantemente insoddisfatta, sebbene avessi partecipato alle Olimpiadi perché, adesso, il mio traguardo si era trasformato nel centrare la finale alla trave. Non mi accontentavo mai, né di me stessa né di quello che raggiungevo, nonostante tutti continuassero a dirmi che, ciò che facevo, era incredibile. Io mi sentivo ogni giorno a un passo dal sogno, in un limbo tra l'essere una vincente e l'essere una perdente. E questa sensazione di inquietudine e disillusione non mi abbandonava mai e, probabilmente, non lo avrebbe mai fatto.

Quando il nostro turno di qualificazione terminò, la squadra si trovava in sesta posizione ma, nella rotazione serale che si sarebbe svolta di lì a qualche ora, c'erano ancora nazioni agguerrite e promettenti come Gran Bretagna, Giappone e Germania. Per poter conoscere il nostro futuro alle Olimpiadi, quindi, dovevamo attendere che tutte le ginnaste gareggiassero.

Dopo aver salutato le altre atlete, uscimmo tutti dal palazzetto. Io e Anna eravamo le uniche deluse, Sveva non riusciva a trattenere risolini isterici in risposta ad ogni cosa che diceva Enrico e, Lia, aveva il viso corrucciato, forse ancora offesa per l'episodio precedente.

Il sole era tramontato e c'era un vento forte che mi sferzava il viso, vicino al pullman, che ci avrebbe dovuto riportare all'albergo, c'erano i genitori di Lia, indossavano entrambi dei jeans chiari a zampa di elefante un po' hippie. Appena la videro, la circondarono in un abbraccio affettuoso, il padre le scompigliò i capelli mentre, la madre, le accarezzò una guancia dolcemente. Erano una famiglia perfetta, due genitori giovani che, più che altro per Lia, erano degli amici, l'accolsero come se avesse partecipato e vinto le Olimpiadi. Accostai Erica a mia madre e, le dissonanze, erano lampanti come un fulmine che squarcia il cielo notturno, mia madre era fredda, distaccata e aveva sempre un tono di voce neutro e senza particolari inflessioni, Erica invece, era spumeggiante e divertente, uno spirito libero nel vero senso della parola.

Mi persi per qualche istante in quel quadretto familiare che mi sarebbe tanto piaciuto avere poi, fortunatamente, Samuele mi riportò alla realtà. Non fece nulla più che abbracciarmi ed era proprio quello di cui avevo bisogno.

Amore puro, senza essere sporcato dalle parole.

Non mi fece i complimenti, non mi consolò e non cercò di fare battute per risollevarmi il morale. Ascoltò le mie emozioni inespresse, ed era l'unico che riusciva sempre a capire ciò di cui avevo bisogno.

Quando tornai in albergo buttai la borsa sul letto e mi chiusi in bagno per farmi una doccia senza essere disturbata, stetti sotto il getto d'acqua bollente quasi un'ora, tolsi la magnesia che si era annidata nei miei capelli e, con lo scrub, mi grattai la pelle quasi a farmi male, come se volessi cancellare qualcosa.

Quando finii entrai nella stanza, turbante in testa e accappatoio in spugna stretto in vita, notai Lia che si stava infilando dei sandali grigi con il tacco che facevano pendant con i suoi pantaloni alla turca.

«Giusy, hai mezz'ora per prepararti», mi disse mentre si allacciava le scarpe.

«Per cosa? Non ho voglia di fare nulla», spiegai ammorbidendo i miei capelli con un po' d'olio di Argan.

«Passeggiata in spiaggia. Non puoi rifiutarti», esclamò facendo spallucce e poi continuando a prepararsi come se io non le avessi appena detto che non mi andava. La mia serata ideale era rimanere incollata al televisore per seguire la gara delle altre atlete e morire dall'ansia per i punteggi finali.

«Non ti lascerò qui davanti al televisore, è già tutto organizzato», disse Lia entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle in modo che non potessi replicare.

Mi ritrovai a indossare, sopra al costume, un vestito lungo a righe bianche e beige abbinato a delle semplici infradito di cuoio.

Le strade di Rio erano illuminate dalla luce dei lampioni, non c'erano tante persone in giro né, tantomeno, molte macchine per strada. Dalla spiaggia sentivo provenire una musica ritmata che mi fece insospettire.

«Stiamo andando in qualche locale?», chiesi a Lia mentre, a stento, riuscivo a starle dietro nonostante lei avesse i tacchi e io no.

«Ho avvertito giusto qualcuno», rispose affannata.

«E quando?».

«Mentre tu ti allenavi e gareggiavi io ho...».

«Socializzato», conclusi la frase al posto suo e lei mi sorrise.

Quando arrivammo sulla spiaggia di Copacabana lo spettacolo fu incredibile, sulla sabbia bianca e granulosa bruciava un fuoco scintillante, intorno erano state disposte delle assi di legno a mo' di panchine e, poco più in là, due enormi fusti di birra troneggiavano imponenti. L'oceano si avvicinava e allontanava con onde incessanti e, il suo rumore che tanto amavo, era soffocato da una forte musica tipicamente brasiliana che proveniva da uno stereo portatile.

«Hai detto qualcuno?», chiesi sbigottita nell'osservare almeno una quarantina di persone che ballavano sulla sabbia come se fossero in discoteca.

«Si deve essere sparsa la voce...», ammise Lia divertita.

La seguii verso i gradini che portavano sulla spiaggia e un ragazzo ci venne incontro, riconobbi subito il tipo che, io e Lia, non eravamo riuscite a collocare in nessuna disciplina sportiva.

«Siete arrivate, finalmente!», disse con un entusiasmo molto naturale.

«Giusy, lui è Claudio», ci presentò Lia, io gli porsi la mano mentre lui si avvicinò e mi baciò la guancia.

Arrossi per il gesto inaspettato.

«Prendete un po' di birra», disse lui indicandoci il fustino e facendoci l'occhiolino per poi tornare dai suoi amici.

«Lia ma quanto hai socializzato?».

«Qualcosa dovevo pur fare...».

«Sei arrabbiata?», le chiesi sovrastando la musica che mi rimbombava nelle orecchie.

«No, tu?».

«Perché dovrei?», le domandai mentre mi accorsi che lei guardava qualcosa al di là delle mie spalle.

«Perché si è imbucato qualcuno che non era desiderato».

Mi girai e vidi Sveva e il suo succinto abito bianco fare un ingresso da vera modella, nonostante fosse alta poco più di un metro e sessanta. Era accompagnata da Sergio, il compagno di stanza di Samuele che, con la sua camicia hawaiana, faceva a pugni con l'eleganza di lei.

Sveva era sempre sopra le righe, faceva di tutto per farsi notare, era una festa in spiaggia e lei indossava un abito corto di pizzo con una scollatura che doveva essere vedo non vedo ma che, in realtà, mostrava tutte le sue curve accennate.

Mi passò accanto alzando la voce palesemente per irritarmi: «Sergio, chiamo Samuele che mi aveva detto di fargli sapere quando arrivavo qui così mi raggiungeva».

Guardai Lia stringendo le mani a pugno con la rabbia che ribolliva nelle vene «stai calma», mi disse, «lo sta facendo apposta».

«Samu, tesoro dove sei?», gridò Sveva facendo finta di allontanarsi dal rumore e mettendo, di proposito, il vivavoce.

Sentii una voce metallica che, ovviamente, non poteva che essere di Samuele: «tesoro arrivo, aspettami».

Tesoro?

Tesoro a chi?

«Giusy, mi dispiace io non l'ho invitata», mi sussurrò Lia imbarazzata.

«Fa niente, tanto non volevo neanche venire», iniziai a camminare verso la riva.

«Dove vai?», mi chiese lei.

«Voglio stare un po' da sola», le risposi addentrandomi verso gli scogli che, come un piccolo sentiero montuoso, si addentravano verso l'infinità degli abissi dell'oceano. Camminai per un po', guardando soltanto avanti a me con la fioca luce del cielo stellato a illuminarmi la strada.

Dopo un po' mi fermai, mi misi seduta su una pietra, i piedi a mollo nell'acqua salata e la mente che vagava, la musica e il falò ormai sembravano un ricordo lontano.

Volevo solo aspettare che la sera passasse, che l'ultima qualificazione finisse così da poter sapere cosa mi aspettava nei giorni futuri. Rimasi lì per un tempo che sembrò interminabile poi, quando il freddo mi iniziò a penetrare nelle ossa, mi alzai per tornare indietro ma, con mio stupore, mi accorsi che la marea si era alzata e che la maggior parte degli scogli erano stati inghiottiti dalle acqua scure.

Mi assalì il panico, c'era il vento che si infrangeva potente su quei pochi scogli rimasti in superficie creando onde d'acqua alte a tal punto da limitare la visibilità, la corrente del mare era forte e, l'incapacità di poter vedere attraverso quel liquido scuro, mi bloccò lasciandomi senza idea su come cavarmela.

Speravo solo che a Lia venisse in mente di venirmi a cercare prima che il freddo e la paura si prendessero gioco di me.


SPAZIO AUTRICE:

Questo capitolo è dedicato a SilviaMontemurro, scrittrice e amica fantastica! passate a leggere le sue storie, non ve ne pentirete! Qui sotto trovate il book trailer del suo romanzo "Cercami nel vento" che ho realizzato per lei

https://youtu.be/acqAJZSSUEA

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