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25 ~Bem-vindos no Brasil~ (Benvenuti in Brasile)✔

Dicono che ti rendi conto di essere alle Olimpiadi solo quando atterri nel paese ospitante, ed era esattamente ciò che successe a me. Scesi dall'aereo con la mia borsa in pelle stretta sotto il braccio e con i capelli ondulati che, a causa del prolungato contatto con il sedile, avevano assunto delle pieghe innaturali.

Tutti, intorno a me, erano agitati e ansiosi di entrare all'interno dell'aeroporto io, invece, mi fermai un attimo, braccia distese leggermente larghe e naso all'insù. Il cielo era terso senza ombra di nubi, l'aria pulita fluiva nelle mie narici senza sforzo. Sentii la voce calda e profonda di un uomo, mi girai e, un ragazzo che indossava un giubbetto catarifrangente, mi parlò in una lingua sconosciuta facendomi segno di accodarmi agli altri. Era bellissimo, pelle olivastra, denti esageratamente bianchi e capelli ricci.

Gli sorrisi e raggiunsi il gruppo, mi guardavo intorno come una bambina alla scoperta del mondo.

L'aeroporto di Rio De Janeiro Galeao era immenso e moderno, sul soffitto si ergeva un'elaborata struttura di assi in ferro che, intrecciandosi, creavano una simmetria singolare, il pavimento chiaro era talmente lucido che ci si poteva specchiare.

Dopo aver recuperato le nostre valigie arrivammo al pullman che ci avrebbe scortato all'albergo, ci accolse un signore anziano con un berretto che gli copriva gran parte del viso e, guardandoci sorridente, disse con un entusiasmo unico: «bem-vindo ao Brasil!».

Fu allora che tutto divenne ancora più reale. Non riuscivo ancora a credere che ero arrivata fin lì, che avrei lottato per una medaglia contro atleti provenienti da tutto il mondo ma, soprattutto, che stavo vivendo il mio sogno di bambina. Quello per cui mi alzavo ogni giorno con la voglia di andare in palestra per allenarmi, quello per cui non mi importava se, il sabato, le mie compagne di classe uscivano o andavano al mare, mentre io passavo la giornata a ripetere i miei esercizi.

Ora tutti gli sforzi sembravano soltanto ricordi lontani, la gioia che mi pervase in quel momento fu qualcosa che non avevo mai provato, era eccitazione e paura allo stato puro, era il premio per sedici anni passati a desiderare quello che, in quel preciso momento, stavo vivendo.

Il Brasile era il punto di arrivo dei miei desideri e il punto di partenza del mio sogno.

Quando arrivammo all'Americas Copacabana Hotel rimanemmo tutti folgorati dall'edificio che ci si parò davanti, un grattacielo di trenta piani con finestre panoramiche che riflettevano la luce creando degli effetti ottici molto suggestivi.

Nessuno osava muovere un passo ed entrare all'interno quindi, mia madre, con l'impazienza che la contraddistingueva, sbuffò esasperata e si avvicinò alla porta scorrevole che si aprì automaticamente. Uno dietro l'altro la seguimmo trascinando le nostre valigie, Samuele sembrava essersi dimenticato del diverbio avvenuto durante il volo e si avvicinò sussurrandomi all'orecchio: «ho fatto qualche ricerca in internet, sembra che all'ultimo piano ci sia una piscina e che si possa vedere tutta Rio».

«Dici davvero?».

«Ti va di venirci con me?», chiese speranzoso portandosi una mano alla bocca per evitare che qualcuno ci potesse sentire.

Un brivido mi percorse la schiena, le sue parole allusive mi facevano sempre sentire vulnerabile e inadatta. Stare da sola con lui era una delle cose che più desideravo, anche se ciò che mi spaventava era non sapere mai cosa lui si aspettasse da me.

Annuii arrossendo e lui, per tutta risposta, mi sfiorò la coscia cercando la mia mano.

Mia madre ed Enrico parlavano fluentemente molte lingue, in quel momento discutevano in inglese con una donna alla reception e compilavano dei moduli. Dopo aver finito, Valeria ci radunò al centro della sala d'aspetto con in mano le nostre tessere magnetizzate: «queste sono le chiavi per le vostre stanze, sono tutte camere doppie», esclamò sventolandocele davanti agli occhi.

Lia mi si avvicinò subito mentre, Samuele, cercava con lo sguardo il suo amico Sergio facendogli segno di avvicinarsi.

Dicono che si raccoglie ciò che si semina, per questo, non mi stupii nel vedere Sveva da sola, vicino al suo trolley rosa, intenta a osservarsi lo smalto che si era applicata sulle unghie. Sorrisi compiaciuta sperando che, finalmente, avrebbe capito che doveva cambiare il suo atteggiamento verso gli altri. Alla fine, dopo che Irene, Yasmine e Anna ebbero confabulato per un po', quest'ultima si avvicinò a Sveva per dirle che era disposta a condividere la stanza e lei, invece di ringraziarla, la squadrò come un essere insignificante. Se avesse potuto Sveva si sarebbe presa una camera singola, era una di quelle che voleva sempre essere al centro dell'attenzione e, per questo, si trovava bene solo con i maschi che le ronzavano intorno e che, da lei, volevano tutt'altro che amicizia. Non sapeva proprio cosa volesse dire avere una persona che ti completava in tutto e per tutto, una come Lia, che si sarebbe fatta in due per me e che mi diceva sempre la verità anche quando sapeva di ferirmi.

Quando io e Lia arrivammo nella nostra stanza, ci stupimmo per la sua grandezza, c'erano due letti singoli da una piazza e mezza con dei cuscini rigonfi che davano l'impressione di essere morbidissimi, una vetrata che occupava quasi tutta una parete e che ci permetteva di avere uno scorcio suggestivo sulla spiaggia di Copacabana e un bagno immenso con Jacuzzi e idromassaggio.

«Giusy guarda che mare», disse Lia poggiando un dito sulla finestra e lasciando un piccolo alone, «non vedo l'ora di fare un bel bagno».

«Lo sai che qui è inverno vero?», risposi ripetendo le informazioni che avevo trovato su Google.

«Inverno o no, io domani vado lì a prendere il sole e a chiacchierare con qualche brasiliano!».

«Sei incredibile! E Andrea? Non ci hai pensato per niente?».

«Sì, ma mi sembra tutto così strano! Sono dall'altra parte del mondo, mi sembra come di non essere più io, come se stessi vivendo una favola», esclamò eccitata, «se non posso partecipare alle gare mi voglio almeno divertire. No?».

A quel punto mi prese la mano e mi trascinò sul letto iniziando a saltare come una bambina, io mi unii a lei ridendo sovrastando il rumore delle molle che scricchiolavano. Noi ginnaste passavamo dall'essere bambine all'essere adulte alla velocità della luce, la via di mezzo faticavamo a trovarla, eppure, eravamo felici di essere esattamente così.

«Stasera per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi ti trucco io, non si discute!», esclamò Lia con il fiatone per i numerosi salti.

«L'ultima volta non è stato proprio un successo», specificai con la mente che andò al primo incontro ravvicinato con Giorgio.

«Lo faccio per il bene di Samuele».

«Certo che quando vuoi sei proprio cattiva», replicai facendo finta di offendermi.

«Mi ringrazierai, fidati!».

Alle otto di sera ero pronta, tuta di rappresentanza nera, capelli scuri che mi coprivano le spalle, ombretto argentato che mi illuminava gli occhi e rossetto color prugna. Lia era stata felicissima della sua creazione e mi disse che somigliavo a Vanessa Hudgens il giorno degli Oscar del 2011, io le feci notare che indossavo una semplice tuta sportiva e, lei, mi liquidò con un piccolo gesto. Se non si fosse innamorata della ginnastica avrebbe sicuramente avuto successo nel mondo della moda, si ricordava tutti i vestiti che le star avevano indossato sui red carpet e inoltre era una truccatrice eccezionale.

Tutti erano eccitati per la cerimonia di apertura, avevamo visto in televisione quella di Londra e era stato uno spettacolo irripetibile, inoltre avrei incontrato i miei idoli, non potevo credere che avrei visto da vicino la squadra delle ginnaste americane, loro erano delle macchine da guerra, perfette e potenti.

Lo stadio Maracana di Rio de Janeiro non deluse le nostre aspettative, oltre ad essere immenso, era completamente illuminato, sembrava un cerchio di fuoco. Una volta superati i cancelli due uomini in divisa, che parlavano tramite delle radiotrasmettenti, ci scortarono in una zona riservata agli atleti italiani. Lia mi riempiva di gomitate e non smetteva di dirmi "guarda chi c'è", "hai visto quanto è bello dal vivo?" oppure "pensavo che fosse più alta e muscolosa".

A me girava la testa, non sapevo da che parte guardare, osservavo i miei idoli sportivi senza sapere che, adesso, io ero esattamente come loro e che, forse, qualcuno vedeva me proprio in quel modo.

Mi sentii per qualche istante bella, forte e speciale.

Dovevamo aspettare in quella zona transennata fino a che non fosse arrivato il nostro turno d'ingresso, mia madre era raggiante, mostrava con orgoglio il badge con la sua foto e chiacchierava con tutti.

«Giusy hai visto quante facce nuove?», mi sussurrò Lia scrutando le persone appartenenti al nostro gruppo e che indossavano tutte la tuta scura della nazionale.

«Anche noi lo siamo», le feci notare ridendo.

«Facciamo un gioco, ti sfido ad indovinare che sport fanno».

Acconsentii anche se non era una sfida difficile, il corpo degli atleti è modellato a seconda del tipo di sport, è un marchio distintivo, è il nostro amore che si manifesta in tutta la sua interezza.

È la passione che diventa corpo e il corpo che diventa passione.

«Vedi quel gruppo di ragazze slanciate, eleganti e fiere? Ginnastica ritmica! Ora tocca a te», sussurrò Lia.

«Mmm vediamo, quei ragazzi sulla destra altissimi, dove c'è il biondo con i lineamenti russi. Pallavolo!».

«Troppo facile, Giusy! Li conosci benissimo, sono tra i favoriti per vincere l'oro! Guarda quella ragazza ben piazzata con i capelli castani e gli occhiali, lei farà qualche tipo di lotta sicuramente», disse Lia pensosa.

I miei occhi poi si fermarono su un ragazzo giovane, spalle larghe e capelli rasati, era in disparte che guardava fuori da una finestra, lo indicai a Lia: «e lui?».

Si portò un dito alla bocca e lo osservò intensamente: «interessante, lui non rientra in nessuna delle categorie».

Poco dopo il ragazzo si girò e si accorse che lo stavamo guardando, sorrise e ci fece un piccolo cenno con la mano.

Lia lo salutò e io le diedi una gomitata nelle costole: «ma che fai?».

«Socializzo», esclamò facendo spallucce.

A quel punto una voce che sovrastò tutte le nostre chiacchiere ci disse che era arrivato il momento del nostro ingresso, Lia mi prese la mano, Samuele mi si affiancò e tutto il gruppo mosse i suoi primi passi all'interno dello stadio.

Era una bolgia, persone che urlavano, flash che mi costringevano a chiudere gli occhi e musica ritmata che riempiva l'aria. C'era odore di erba appena tagliata e di fuochi d'artificio esplosi da poco. Non smettevamo di sorridere, guardarci intorno e saltellare come pazzi, le telecamere ci seguivano e, ogni volta che ci inquadravano, tutti noi atleti italiani urlavamo e facevamo boccacce nella sua direzione. Federica Pellegrini portava con orgoglio il nostro tricolore e io, finalmente, mi sentivo parte integrante di qualcosa, mi sentivo che ero stata scelta per assolvere un compito più grande di me.

A papà sarebbe piaciuto tutto questo, me lo immaginavo sugli spalti che si godeva lo spettacolo e che urlava il mio nome, poi alzai la testa e vidi il cielo stellato, punteggiato da tantissime fiaccole splendenti, lui era lì e non se ne sarebbe mai andato, in ogni caso mi avrebbe osservato e guidato in questa avventura.

La cerimonia fu uno spettacolo incredibile, l'allegria dei brasiliani era unica. Dopo che lo stadio si spense, mia madre ed Enrico ci scortarono al punto concordato con l'autista del pullman per tornare in albergo.

Ero stanca ma elettrizzata per tutta la sera appena trascorsa e, una volta arrivati a destinazione, mentre stavo per raggiungere la mia stanza, Samuele mi fermò per una spalla: «ti rendi conto che siamo qui a Rio? Io ancora non riesco a crederci!».

La sua espressione così eccitata e incredula rispecchiava esattamente il mio stato d'animo.

«Ti va di fare un bagno in piscina?», mi chiese facendomi una piccola carezza sulla guancia.

«A quest'ora?», domandai sbalordita sapendo che era da un bel pezzo passata l'una di notte.

«Dicono che Rio illuminata sia uno spettacolo da non perdere».

«Dove l'hai letto?», risposi per sdrammatizzare e aspettare che il mio cuore smettesse di bussare sul mio petto.

«Non è importante... cercavo qualcuno con cui verificare se è vero... sai girano tante bufale su internet».

Risi mentre iniziai a sentire caldo.

Samuele si accorse che non rispondevo e fece un piccolo passo indietro: «tranquilla se hai sonno possiamo fare un'altra volta! Volevo solo stare con te, parlarti di un po' di cose. Sei l'unica con cui vorrei condividere questo momento», mormorò con lo sguardo acceso da un entusiasmo inatteso.

«Anche io. Aspetta un attimo qui».

Entrai rapidamente nella mia stanza e sbattei la porta, rimasi con le spalle poggiate sul legno.

Respirai per calmarmi.

Stava succedendo davvero eppure, tutti i dubbi che mi aveva insinuato Sveva nella testa, continuavano a mettermi in allarme e a convincermi a non andare.

Poi, dopo essermi calmata e aver riflettuto su ciò che dovevo fare, aprii la porta e andai da lui .

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